14.5.10

Non è vero ma ci credo

Christie Aschwanden, Miller-McCune, Stati Uniti

Di fronte a una novità che non ci piace, cerchiamo delle giustificazioni
Accettiamo con facilità i risultati che ci piacciono e facciamo le pulci agli altri
Un intervento aggressivo dà sicurezza sia al medico sia al paziente


Prendere un antinfiammatorio prima di una gara non serve ma molti atleti non ci rinunciano. Far cambiare idea alle persone è difficile, soprattutto in medicina. L’importante è come si danno le informazioni

La chiamano “vitamina I”. È l’ibuprofene, un principio attivo molto diffuso tra i maratoneti. Lo scienziato David Nieman ne ha studiato l’utilizzo durante la Western states endurance run, una maratona di 160 chilometri sui monti della Sierra Nevada. E ha scoperto che quasi tutti gli atleti prendevano farmaci a base di ibuprofene. Dopo aver individuato i volontari per il suo studio, Nieman, direttore dello Human performance lab alla Appalachian state university, ha confrontato i livelli di dolore e infiammazione tra i corridori che avevano assunto ibuprofene e gli altri. I risultati erano inequivocabili: l’ibuprofene non riduceva né il dolore né l’infiammazione muscolare. Anzi, le analisi del sangue evidenziavano un livello infiammatorio più alto tra gli atleti che avevano assunto farmaci a base di ibuprofene. L’anno dopo Nieman è tornato alla Western states endurance run e ha mostrato i risultati del suo studio ai maratoneti. Era sicuro che avrebbero cambiato le loro abitudini, ma si sbagliava. “Sono convinti che l’ibuprofene faccia bene”, spiega. “Continuano a usarlo anche se i dati dimostrano che non serve”. La storia di Nieman non è un’eccezione. Molte abitudini in medicina non sono state messe alla prova per dimostrare se funzionano davvero. Anche quando uno studio scientifico indica la cura migliore per una determinata patologia, non sempre l’informazione viene messa in pratica. Secondo il First national report card on quality health care in America, pubblicato nel 2006 dalla Rand corporation, gli statunitensi ricevono solo la metà delle cure indicate dalle linee guida nazionali.
Realismo ingenuo
Un finanziamento di 1,1 miliardi di dollari, che fa parte delle misure del governo per stimolare l’economia, affida alla ricerca sull’efficacia comparata il compito di trovare le cure migliori per le malattie comuni. Ma spesso gli sforzi sono inutili. Quando le nuove indicazioni raccomandano cure che si allontanano dalle abitudini popolari o screditano convinzioni molto diffuse, sono accolte con diffidenza o addirittura con indignazione. Se vogliamo che la medicina basata sull’evidenza funzioni, bisogna presentare i dati in modo comprensibile. Secondo Nieman, i maratoneti avrebbero smesso di prendere l’ibuprofene dopo aver letto i risultati della sua ricerca. Ma è caduto vittima di quello che lo psicologo sociale Robert J. MacCoun, dell’università di Berkeley, deinisce l’assunto della “verità che vince”, cioè l’idea che, se qualcuno espone i fatti in modo corretto, la verità viene riconosciuta da tutti. Assumere l’ibuprofene durante una gara di resistenza è molto rischioso: può causare un’emorragia gastrointestinale e la rabdomiolisi, una patologia che a sua volta può provocare un’insufficienza renale acuta. Nieman credeva che gli atleti avrebbero voluto conoscere i rischi a cui si stavano esponendo. Ma si è scontrato contro un fenomeno che in filosofia viene definito “realismo ingenuo”. “Se crediamo a qualcosa, di qualsiasi cosa si tratti, vuol dire che è vero”, spiega MacCoun. I fondisti credono in buona fede che l’ibuprofene riduca le infiammazioni alle articolazioni e ai muscoli. Questa spiegazione è un “modello mentale”, una struttura concettuale del funzionamento di qualcosa che aiuta le persone a interpretare il mondo. Una volta che il modello è all’opera, la mente adatta a forza le nuove informazioni raccolte. “Tutti pensano che basta informare le persone sui fatti”, osserva Brendan Nyhan, ricercatore sulle politiche sanitarie e studioso di scienze politiche all’Università del Michigan. “Ma le persone elaborano le informazioni alla luce delle loro convinzioni”. Qualche anno fa ho intervistato una maratoneta ricoverata per un caso grave di rabdomiolisi. Anche se stava male, in parte per colpa delle dodici pillole di ibuprofene ingerite nelle 24 ore di gara, continua a prendere farmaci a base di ibuprofene nelle competizioni, ma in dosi più basse. “L’ibuprofene funziona benissimo sia come antidolorifico sia come antinfiammatorio per le articolazioni”, ha affermato. Vari studi dimostrano che l’assunzione di ibuprofene e di altri farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) prima dell’allenamento ostacola la ricostituzione dei tessuti e rallenta il recupero dagli infortuni alle ossa, ai legamenti, ai muscoli e ai tendini. Ma l’idea che i Fans aiutino le prestazioni riducendo il dolore è così radicata che un quarto degli atleti alle Olimpiadi del 2000 a Sydney ha dichiarato di averli usati. Per molti maratoneti è impossibile che un medicinale, appartenente alla classe di farmaci “antinfiammatori”, faccia aumentare le infiammazioni. Grazie a una serie di marker nel sangue, lo studio di Nieman dimostra proprio questo. Quando i fatti contraddicono una convinzione radicata, non vengono quasi mai accettati senza resistenze. “Se un ricercatore fa una scoperta che conferma le nostre idee, pensiamo che è giusta”, spiega Mac- Coun. “Se ci troviamo di fronte a una novità che non ci piace, cerchiamo delle giustificazioni”. MacCoun ha mostrato a un gruppo di volontari alcuni studi fittizi sul controllo delle armi da fuoco, la pena di morte e l’uso della marijuana a scopi terapeutici. Quando i risultati dello studio confermavano il loro punto di vista di partenza, i volontari li consideravano imparziali. Invece, quando andavano contro le loro convinzioni, li liquidavano come inaffidabili. “Se a una persona favorevole al controllo delle armi da fuoco mostriamo uno studio in cui si afferma che, limitando le armi, gli omicidi non diminuiscono, accuserà il ricercatore di lavorare per un think tank di destra”, spiega Mac- Coun. In un esperimento classico del 1977, i ricercatori chiesero ad alcuni esperti di dare un giudizio su un documento tecnico. A parte il capitolo sui risultati, tutte le versioni erano identiche. Gli esperti assegnarono al manoscritto un punteggio più alto quando il contenuto confermava il loro punto di vista su un argomento di loro competenza, mentre scovarono degli errori di battitura quando i risultati erano in contrasto con le loro idee. Gli studi lo confermano: accettiamo con facilità i risultati che ci piacciono e facciamo le pulci a quelli che non ci piacciono.
Orsi e tartarughe
La Us preventive services task force è un consiglio indipendente di esperti che studia le linee guida basate sull’evidenza per la pratica medica, senza considerare i costi. Dopo anni di studi, nell’autunno del 2009 la task force ha pubblicato le nuove raccomandazioni sulla mammografia. Prima si consigliava alle donne con più di 40 anni di fare una mammografia all’anno. Le nuove linee guida invitano le donne tra i 40 e i 49 anni a discutere con i loro medici i rischi e i vantaggi dell’esame. Per molti osservatori questa raccomandazione, insieme all’indicazione alle donne con più di 50 anni di fare la mammografia ogni due anni invece che ogni anno, è una svolta radicale. L’oncologa Marisa C. Weiss, fondatrice di breastcancer.org, ha definito le linee guida un “enorme passo indietro”. Se venissero adottate, ha aggiunto l’American college of radiology, “moltissime donne americane potrebbero morire di tumore al seno”. “Riceviamo delle lettere che ci accusano di avere le mani sporche di sangue”, racconta Barbara Brenner, sopravvissuta a un tumore al seno e direttrice generale dell’associazione Breast cancer action di San Francisco. Secondo Brenner, le nuove linee guida stabiliscono un equilibrio ragionevole tra rischi e vantaggi della mammografia. Per anni i medici hanno sottolineato l’importanza di una diagnosi precoce del cancro al seno, in base al principio che la malattia – se non viene individuata in tempo – ha un decorso inesorabile che porta alla morte. Questa spiegazione (chiamiamola modello mentale della “progressione inesorabile”) è intuitiva e in parte consolatoria: qualsiasi cancro è curabile se viene preso in tempo. La scienza ha dimostrato che il tumore al seno è una malattia molto meno uniforme di quanto suggerisca il modello della progressione inesorabile, sostiene H. Gilbert Welch, del Dartmouth institute for hea lth policy and clinical practice di Lebanon e autore di Should I be tested for cancer? (dovrei fare il test per il cancro?). Una definizione più accurata potrebbe essere quella di modello del “futuro incerto”: i tumori possono avere una varietà di decorsi imprevedibile. La maggior parte dei tumori corrisponde a uno dei tre modelli generali. Secondo l’esperto di oncologia Barry Kramer, direttore dei National institutes of health oice of disease prevention, i modelli sono quello delle “tartarughe”, degli “orsi” e degli “uccelli”. Le tartarughe sono troppo lente per rappresentare un pericolo e non hanno bisogno di interventi. Gli orsi sono più veloci ma, se presi in tempo, possono essere fermati. Gli uccelli sono così rapidi e imprevedibili che, appena si vedono, sono già volati dalla finestra. Gli esami come la mammografia possono fare la differenza solo nel caso degli orsi. Lisa Schwartz, docente di medicina alla Dartmouth, ha intervistato alcune donne per capire il loro punto di vista sul tumore al seno e sulla mammografia. Le donne intervistate seguono quasi tutte il modello della progressione inesorabile: l’unico rischio legato alle mammografie e ad altri esami diagnostici per il tumore al seno è l’eventualità di fare una serie di test a vuoto. Non ci sono controindicazioni in un esame, perché tutti i tumori prima o poi uccidono e non è mai troppo presto per individuarli. L’idea è rafforzata dalle campagne pubblicitarie del servizio sanitario pubblico, dove si promette che “una diagnosi precoce salva la vita”. Ma se affrontiamo il dibattito sulla visita oncologica attraverso la lente del “futuro incerto”, il quadro cambia completamente. I medici non sono ancora in grado di stabilire quale sarà il modello di sviluppo di un tumore, quindi trattano ogni tumore come se fosse un “orso” per non perdere l’opportunità di salvare una vita. Ma gli orsi, sostiene Welch, rappresentano solo una minima parte dei tumori. E con le mammografie si individuano soprattutto le tartarughe. Se una donna ha un tumore-tartaruga, la mammografia e gli altri test non servono a niente, perché portano alla diagnosi e alla cura di un malattia non mortale. Uno studio norvegese pubblicato nel 2009 mostra che alcuni tumori al seno (fino al 22 per cento di quelli asintomatici scoperti attraverso la mammografia) possono regredire da soli senza nessuna cura. Secondo una ricerca del British Medical Journal pubblicata a luglio, per ogni vita salvata da una mammografia, a dieci donne viene diagnosticato e curato un tumore non mortale. Tra l’altro, le ricerche dimostrano che i tumori al seno più aggressivi possono diffondersi prima di essere abbastanza grandi da poter essere individuati dalle tecnologie oggi a disposizione. Quindi per molte donne malate di un tumore mortale, la mammografia è inutile. L’evidenza a favore della mammografia è più convincente per le donne tra i 50 e i 74 anni e le indicazioni della task force si rivolgono proprio a questo segmento della popolazione. Il dibattito sulle linee guida per la mammografia non riguarda l’evidenza, ma le convinzioni delle persone. Lo scopo delle visite oncologiche è scoprire più tumori o salvare più vite possibile? Quante persone si possono danneggiare per salvare una vita? Quale tipo di danno va considerato accettabile? Non sono domande facili, e la risposta cambia a seconda del sistema di valori di riferimento. In alcuni casi raggiungere un accordo è impossibile. Ormai il dibattito sulla mammografia è diventato quasi una questione di fede, e più le convinzioni sono radicate, meno sono sensibili alle nuove prove scientifiche. In uno studio che sarà pubblicato su Political Behavior, Nyhan e il collega Jason Reiler, dell’università della Georgia, hanno sottoposto a un gruppo di volontari delle inte notizie, comprese alcune dichiarazioni false di politici e delle rettifiche. Quando le rettifiche andavano contro le loro opinioni, i volontari non hanno cambiato idea. Anzi, in alcuni casi le rettifiche hanno rafforzato le convinzioni sbagliate. L’estate scorsa, all’Aspen health forum, ho chiesto qualche informazione su un documento pubblicato dal British Medical Journal ai rappresentanti dell’associazione per la prevenzione del tumore al seno Susan G. Komen for the cure. Nel documento si calcolava che su tre casi di tumori al seno diagnosticati attraverso la mammografia, almeno uno era una sovradiagnosi. Molte donne sane, quindi, venivano curate inutilmente come se fossero malate di cancro. L’organizzazione è preoccupata? “Non credo che ci siano le prove di una sovradiagnosi”, ha detto l’allora direttrice generale Hala Moddelmog. È intervenuta anche la vicepresidente per le scienze sanitarie Elizabeth Thompson: “Se questi studi diventeranno di dominio pubblico, le compagnie assicurative potrebbero smettere di finanziare le mammografie”. Quando le ho chiesto se l’associazione stava informando le donne sui rischi legati a questo tipo di esame, ha aggiunto: “Crediamo che una diagnosi tempestiva possa salvare la vita e cerchiamo di diffondere il messaggio”.
Illudersi di stare meglio
“I don’t want knowledge, I want certainty” (non voglio conoscenza, voglio certezza). L’inizio di Law di David Bowie descrive bene come funziona la psiche umana, almeno quando si parla di medicina. Prendiamo il caso del mal di schiena. Prima o poi circa il 90 per cento degli americani soffre di dolori nella zona lombare. “Quando un paziente ha un forte mal di schiena vuole sapere la causa del dolore”, spiega Michael Von Korff, esperto del Group health research institute di Seattle. Ma quasi sempre i tentativi di individuare l’origine del mal di schiena sono inutili. Solo il 15 per cento dei casi di mal di schiena è riconducibile a una causa specifica. Molti sistemi tecnologici di rilevamento sono in grado di visualizzare apparenti anomalie, come l’ernia del disco, ma queste scoperte servono più a instillare un falso senso di certezza che a individuare la vera causa del dolore, sostiene Richard A. Deyo, professore di medicina familiare basata sull’evidenza all’Oregon health and science university. Molte patologie apparentemente allarmanti che emergono dagli esami radiografici non hanno nessun legame con il dolore, spiega Deyo. Uno studio del 2005 ha riscontrato un problema al disco nel 73 per cento dei volontari che hanno fatto una risonanza magnetica senza avvertire dolori alla schiena. Le prove visive sono molto convincenti, ma secondo le ricerche raramente questo tipo di test aumenta le probabilità per il paziente di eliminare il dolore. I risultati di un test clinico, pubblicati nel 2003 sul Journal of the American Medical Association, ha dimostrato che i soggetti affetti da mal di schiena che si sottopongono alla risonanza magnetica vengono operati più spesso, ma non con esiti migliori rispetto agli altri pazienti. Tra il 1990 e il 2001 il numero di interventi di fusione spinale è aumentato del 220 per cento, senza tuttavia ridurre il tasso di disabilità. La maggior parte dei casi di mal di schiena si risolve senza bisogno di ricorrere a cure aggressive. Il 90 per cento delle persone che soffre di mal di schiena guarisce nel giro di due mesi, e il 70 per cento recupera in tre settimane o meno. Perfino l’ernia del disco spesso scompare da sola senza un intervento chirurgico. I trattamenti per il dolore, il ghiaccio o il calore, e l’esercizio isico rimangono il rimedio standard per la maggior parte dei casi di mal di schiena. Ma questo messaggio basato sull’evidenza non è facile da trasmettere. “A volte è meglio non intervenire, ma è una risposta che non piace agli americani. Sembra quasi una mancanza di risolutezza o un modo di capitolare davanti al nemico”, spiega Mac- Coun. Le persone vanno dal medico perché cercano una cura rapida. D’altronde molti medici sono favorevoli a un intervento aggressivo. Secondo uno studio compiuto su più di 3.500 visite mediche (pubblicato nel numero dell’8 febbraio di Archives of Internal Medicine), un paziente su quattro richiede degli esami radiografici per il mal di schiena nonostante le linee guida lo sconsiglino. Di solito i medici offrono ai loro pazienti soluzioni concrete, e molti sono davvero convinti dell’utilità delle cure indicate. Poco tempo fa la moglie di Deyo ha avuto un problema a una spalla che le provocava dolori fortissimi. Dopo aver preso in considerazione le varie possibilità, ha deciso di provare l’agopuntura. Poi, improvvisamente, il dolore si è attenuato. “Mia moglie ci scherza su e dice sempre che, se avesse cominciato la terapia due settimane prima, avrebbe dato il merito della guarigione all’agopuntura”, racconta Deyo.
A prescindere dalla sua efficacia, un intervento aggressivo dà sicurezza sia al medico sia al paziente. I pazienti che si sottopongono all’esame della colonna vertebrale sono più soddisfatti delle cure ricevute rispetto agli altri, anche se i risultati non sono migliori (anzi, in alcuni casi sono perfino peggiori). “I pazienti che fanno questi esami stanno peggio, ma pensano di aver ricevuto le cure migliori”, spiega Deyo. Come si fa a convincere i medici e i pazienti ad abbandonare le abitudini confortanti e consolidate quando i fatti dimostrano che non migliorano la salute? Secondo Nyhan, bisogna prendere atto che difficilmente i fatti da soli riescono a far cambiare idea alle persone. “La gente si mette sulla difensiva se qualcuno le fa notare che sbaglia”, osserva. Nyhan ha mostrato a un gruppo di volontari, convinti che Saddam Hussein nascondesse armi di distruzione di massa, le prove che si sbagliavano. Spesso, invece di spronarli a cambiare idea, queste informazioni rafforzavano le loro posizioni.
Riuscire a far cambiare idea è molto difficile, soprattutto quando le persone hanno interesse a conservare le loro convinzioni. A volte l’interesse è di tipo economico (i medici che curano il mal di schiena guadagnano di più con le operazioni che con le cure conservative), ma può anche essere altruistico: le associazioni per la prevenzione del tumore al seno, per esempio, vogliono aiutare le donne a difendersi dalla malattia. Quando i fatti compongono un quadro confuso e insoddisfacente, le persone tendono a rifugiarsi in una ricostruzione più confortante, anche se sbagliata. In un episodio del programma The Colbert report, andato in onda nel 2005, l’umorista Stephen Colbert ha definito il fenomeno “veritezza”. “La veritezza è ciò che vorremmo che fosse. È la verità che sentiamo nel profondo di noi stessi”. La reazione contro le nuove linee guida sulla mammografia nasce in parte dalla “veritezza” del messaggio che la mammografia è in grado di prevenire il tumore al seno. Non importa se non è vero: è quello che la gente vuole credere. Per avere la meglio sulla veritezza, i fatti devono essere inseriti in una narrazione convincente, che confermi il punto di vista dominante. Per i sostenitori delle nuove linee guida sulla mammografia, per esempio, vuol dire affrontare di petto l’idea diffusa che il cancro al seno sia una malattia progressiva e inesorabile. Secondo Schwartz, la task force doveva sottolineare che le nuove linee guida hanno lo stesso obiettivo delle vecchie: salvare vite.
Per far prevalere la verità tutti i soggetti coinvolti devono avere una visione condivisa del problema, in modo da riconoscere quando una soluzione è corretta, sottolinea MacCoun. Per chi invece cerca di individuare quali sono gli interventi medici più efficaci, bisogna stabilire cosa s’intende per “efficace”. L’efficacia delle cure per il mal di schiena va misurata in base al livello di dolore sei mesi dopo l’intervento, al costo, ai profitti del medico o alla soddisfazione del paziente? Non è una domanda scientifica ma un giudizio di valore, e la risposta varia a seconda dei criteri adottati. Poi c’è la questione di cosa rappresenta l’evidenza. I sostenitori della ricerca sull’efficacia comparata cercano le risposte nei test su larga scala, ma questi studi si basano su statistiche di gruppi molto vasti di persone. “Le ricerche dimostrano che gli aneddoti hanno la meglio sui dati”, sostiene Nyhan. I maratoneti che hanno assistito alla relazione di Nieman non si sono fatti influenzare dai risultati del suo studio, perché i dati erano in contrasto con le loro esperienze personali, che sembravano più autentiche. Secondo Brenner, le donne a cui è stato diagnosticato un tumore al seno grazie alla mammografia non si lasceranno mai convincere dalle nuove linee guida: “Tutte pensano che se non fosse stato per la mammografia, sarebbero morte. Ma sappiamo che nella maggioranza dei casi non è così”. La scienza lavora su dati e statistiche, mentre la medicina è fatta di storie, osserva Elizabeth Rider, assistente al reparto pediatrico della Harvard business school. Gli aneddoti sono la spina dorsale della medicina, sono il modo in cui le persone elaborano e giustificano i fatti. “Le vittime della sovradiagnosi non dicono mai: ‘Guarda cosa mi ha fatto il sistema’. Ma dicono: ‘Grazie a Dio il medico mi ha salvato’”, spiega Thomas B. Newman, medico ed esperto di medicina narrativa all’Università della California di San Francisco. “Nessuno dice mai di aver subìto una mastectomia ingiustificata, e nessuno lo farebbe, perché non è una bella storia”.
Howard F. Stein, terapeuta e antropologo medico al centro di scienza della salute dell’Università di Oklahoma, ha raccontato la vicenda di un contadino che si presentò per un’appendicectomia e si vide rinviare l’intervento a causa di una tachicardia. “Il cardiologo provò a spiegare la tachicardia sopraventricolare alla famiglia, ma era come parlare a un muro”, dice Stein. La famiglia non capiva perché rimandassero l’operazione. Alla fine un altro dottore cercò di spiegare la situazione: “Il cuore gli balla come il motore di un camion scassato, e finché balla non possiamo operarlo”. La tecnica funzionò. “Il medico ha tradotto i dati biomedici in un linguaggio adatto al mondo del paziente. Il dottore sapeva benissimo che il cuore del paziente non era il motore di un camion”, osserva Stein. “Ma quest’espediente ha permesso al medico e alla famiglia di arrivare a un punto d’incontro senza ricorrere a un manuale di cardiologia”.
Costruire una storia non basta. Per diffondersi, un messaggio basato sull’evidenza deve confrontarsi con il bisogno del genere umano di conforto e sicurezza. “L’incertezza in campo medico è difficile da accettare. Per questo bisogna ricontestualizzarla per poter dire: ‘La buona notizia è questa’”, osserva Rider. Il modello della progressione inesorabile del tumore al seno è così radicato anche perché offre conforto e certezze. In base a quel modello, ogni cancro può essere curato se una donna interviene in tempo. È un messaggio che dà forza e sicurezza. Le donne accetteranno le nuove linee guida solo se saranno presentate in modo da rispondere ai loro bisogni. Le spiegazioni che danno speranza e forza avranno sempre più presa di quelle che comunicano incertezza o brutte notizie. Quando una nuova prova scientifica presenta una verità confusa, per diffondersi dev’essere messa sotto una luce positiva. Si può chiedere a un medico di sospendere una cura inefficace, ma non si può mai chiedere ai pazienti di abbandonare la speranza.
Di Christie Aschwanden (è una giornalista freelance. Ha collaborato con Science, New Scientist e The New York Times)
Da Internazionale 846 | 14 / 20 maggio 2010