24.11.14

Stranieri in provincia di Pavia (e Le 9 balle sull'immigrazione smentite dai numeri)

da La Provincia Pavese

Lui ha 34 anni e lavora prevalentemente come esercente o muratore; lei ne ha 32 ed è casalinga; altrimenti fa la domestica o si occupa di assistenza domiciliare agli anziani. E’ questo il primo identikit che si ricava dal rapporto sull’immigrazione in provincia di Pavia con dati riferibili al luglio 2013 e curato dall’amministrazione provinciale. Si tratta di 64mila persone – circa il 12% della popolazione tra Pavese, Oltrepo e Lomellina – che in maggioranza provengono dall’Est d’Europa, l’84% delle quali è residente. A queste bisogna aggiungere un 12,9% di regolari non residenti. Mentre si va verso la parità di genere (51% uomini e 49% donne), la metà di chi sta qui vive con il coniuge e sono numerosi quelli con figli nati in Italia: un quarto di loro ne ha due e in generale è del 60% la quota di popolazione straniera a Pavia e provincia con un numero di figli variabile tra 1 e 4. Sono i cittadini provenienti dalla Romania la colonia più numerosa con 17mila presenze, davanti ai 9mila albanesi e poi a marocchini (6mila), egiziani (5mila), ucraini (4mila), ecuadoriani (3mila) e cinesi (2mila). Bulgari, brasiliani e dominicani si attestano nell’ordine oltre quota 900. Otto su dieci di queste persone vivono in Italia da più di 5 anni mentre sono il 20% quelle che risiedono in provincia di Pavia da oltre 10 anni. E il 21% vive in una casa di proprietà. Interessante notare che in provincia di Pavia il numero di stranieri è calato di mille unità all’anno a partire dal 2011 (allora erano 66mila), un dato che evidenzia la tendenza alla stabilizzazione di chi si integra con un lavoro a tempo indeterminato (il 27% cui vanno aggiunti un 9% di part-time, il 12,3 dei lavoratori autonomi regolari e un 1% tra imprenditori e soci di cooperativa) dove i salari compresi tra 750 e 1500 euro costituiscono il 67% delle situazioni. Sono invece il 19% quelli che vivono con meno di 750 euro. Sempre la metà di loro dichiarano di guardare la tv, leggere i giornali italiani e di frequentare italiani e stranieri in egual misura. E nel 44,6% dei casi sono interessati a quello che succede qui da noi. Quanto al livello di studio a fronte di un 5.8% che non possiede alcun titolo, il 13,2% ha un titolo universitario o post laurea, l’8.7% la licenza elementare, il 34,2% un titolo secondario di primo grado e il 38.2% ha raggiunto quello di secondo grado. Nella nostra provincia, più lenta delle altre in Lombardia a cambiare volto, sono interessanti le risposte degli immigrati ai quesiti utili a delinerarne un profilo di aspirazioni e interessi. Sei su dieci vogliono fermarsi qui definitivamente o per un lungo periodo, mentre circa il 90% aspira alla cittadinanza italiana almeno per i figli. (su Twitter @stepallaroni)

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Le 9 balle sull'immigrazione smentite dai numeri
 Odysseo

Negli ultimi tempi fra le provocazioni di Salvini, i blitz di Borghezio e Casapound, le aggressioni in autobus o per strada ai danni di africani accusati di portare l’Ebola, gli scontri di Tor Sapienza, le esternazioni di Grillo circa il trattamento da riservare a chi arriva dal mare, il clima attorno agli stranieri si è di nuovo fatto abbietto e a tratti pericoloso. Ho voluto allora confutare punto per punto le argomentazioni più usate dai razzisti a vario titolo, tanto per fare chiarezza e dimostrare che il razzismo rimane un basso istinto che va semplicemente educato e soppresso e non ha alcuna ragione razionale per essere professato.
1) “Vengono tutti in Italia”
Gli stranieri in Italia sono poco più di 5 milioni e mezzo, ossia l’8% della popolazione. Solo 300 mila sono gli irregolari. Il Regno Unito è il paese europeo al primo posto per numero di nuovi immigrati con circa 560.000 arrivi ogni anno. Seguono la Germania, la Spagna e poi l’Italia. La Germania è invece il Paese Ue con il maggior numero di stranieri residenti con 7,4 milioni di persone. Seguono la Spagna e poi l’Italia. Siamo sesti inoltre per numero di richieste d’asilo (27.800). Da notare che il Paese col più alto numero di immigrati è anche l’unico che in questo momento sta crescendo economicamente.
2) “Li manteniamo con i nostri soldi”
Gli stranieri con il loro lavoro contribuiscono al Pil italiano per l’11% , mentre per loro lo Stato stanzia meno del 3% dell’intera spesa sociale. Inoltre gli immigrati ci pagano letteralmente le pensioni. L’età media dei lavoratori non italiani è 31 anni, mentre quella degli italiani 44 anni. Bisognerà aspettare il 2025 perché gli stranieri pensionati siano uno ogni 25, mentre gli italiani pensionati sono oggi 1 su 3. Ecco che i contributi versati dagli stranieri (circa 9 miliardi) oggi servono a pagare le pensioni degli italiani.
3) “Ci rubano il lavoro”
“La crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”, è la Banca d’Italia a parlare. Il lavoro straniero in Italia ha colmato un vuoto provocato da fattori demografici. Prendiamo il Veneto. Fra il 2004 e il 2008 ci sono stati 65.000 nuovi assunti all’anno, 43.000 giovani italiani e 22.000 giovani stranieri. Nel periodo in cui i nuovi assunti sono presumibilmente nati, negli anni dal 1979 al 1983, la natalità è stata di 43.000 unità all’anno. È facile vedere allora che se non ci fossero stati gli immigrati, 22.000 posti di lavoro sarebbero rimasti vacanti. Questo al Centro-Nord. La situazione è un po’ più problematica al Sud, perché in un’economia fragile e meno strutturata spesso gli stranieri accettano paghe più basse e condizioni lavorative massacranti, rubando qualche posto agli italiani. A livello nazionale, ad ogni modo, il fenomeno non è apprezzabile.
4) “Non rispettano le leggi”
Negli ultimi 20 anni la presenza di stranieri in Italia è aumentata vertiginosamente, fra il 1998 e 2008 del 246% dice l’Istat. Eppure la delinquenza non è aumentata, ha avuto solo trascurabili variazioni: nel 2007 il numero dei reati è stato simile al 1991. Di solito si ha una percezione distorta del fenomeno perché si considerano fra i reati degli stranieri quelli degli irregolari che all’87% sono accusati di reato di clandestinità il quale consiste semplicemente nell’aver messo piede su territorio italiano.
5) “Portano l’Ebola”
L’Africa è un continente enorme, non una nazione. Le zone in cui l’Ebola ha maggiormente colpito sono Liberia e Sierra Leone. Da queste zone non giungono immigrati in Italia dove invece arrivano da Libia, Eritrea, Egitto e Somalia. I sintomi dell’Ebola poi si manifestano in 3 o 4 giorni e un migrante contagiato non potrebbe mai viaggiare per settimane giungendo fino a noi. Infine il caso Ebola è scoppiato ad aprile 2014, nei primi 8 mesi del 2014 in Italia sono arrivati circa 100 mila immigrati e neanche uno che ci abbia trasmesso l’Ebola.
6) “Aiutiamoli a casa loro”
È la frase con cui i razzisti di solito si autoassolvono, come se aiutarli a casa loro non abbia dei costi e dei rischi, e come se i nostri Governi non avessero già lavorato per affossare questa possibilità. Nel 2011, il Governo Italiano ha operato un taglio del 45% ai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, stanziando effettivamente 179 milioni di euro, la cifra più bassa degli ultimi 20 anni. Destiniamo a questo ambito lo 0,2 del Pil collocandoci agli ultimi posti per stanziamenti fra i Paesi occidentali. Nel 2013 il Servizio Civile ha messo a disposizione 16.373 posti di cui solo 502 all’estero, in sostanza il 19% di posti finanziati in meno rispetto al bando del 2011.
7) “Sono avvantaggiati nelle graduatorie per la casa”
Ovviamente fra i criteri per l’assegnazione delle case popolari non compare la nazionalità. I parametri di cui si tiene conto sono il reddito, numero di componenti della famiglia se superiore a 5 unità, l’età, eventuali disabilità. Gli immigrati di solito sono svantaggiati perché giovani, in buona salute e con piccoli gruppi famigliari (poiché non ricongiunti). Nel bando del 2009 indetto dal comune di Torino, il 45% dei richiedenti era straniero, solo il 10% di essi si è visto assegnare una casa. Nel comune di Genova, su 185 abitazioni messe a disposizione, solo 9 sono andate ad immigrati. A Monza su 100 assegnazioni solo 22 agli stranieri. A Bologna su 12.458 alloggi popolari assegnati, 1.122 agli stranieri.
8) “Prova a costruire una chiesa in un paese islamico”
È l’argomento che molti usano perché non si costruiscano moschee in Occidente o perché si lasci il crocifisso nei luoghi pubblici. È un argomento davvero bislacco: per quale motivo se gli altri sono incivili dovremmo esserlo anche noi? E comunque gli altri non sono incivili. In Marocco i cattolici sono meno dello 0,1% della popolazione eppure ci sono 3 cattedrali e 78 chiese. Si contano 32 cattedrali in Indonesia, 1 cattedrale in Tunisia, 7 cattedrali in Senegal, 5 cattedrali in Egitto, 4 cattedrali e 2 basiliche in Turchia, 4 cattedrali in Bosnia, 1 cattedrale negli Emirati Arabi Uniti, 3 monasteri in Siria, 7 cattedrali in Pakistan e così via.
9) “I musulmani ci stanno invadendo”
Al primo posto fra gli stranieri presenti in Italia ci sono i rumeni che sono oltre un milione. I rumeni per la maggior parte sono ortodossi. In seconda posizione ci sono gli albanesi, quasi 600 mila, per il 70% non praticanti (lascito della dominazione sovietica) e, fra i rimanenti, al 60% musulmani e al 20% ortodossi. Seguono i marocchini, quasi 500 mila, quasi totalmente musulmani, e ancora i cinesi, circa 200 mila, quasi tutti atei. Dunque in larga parte gli stranieri in Italia sono cristiani, oppure atei, solo in piccola parte professanti l’Islam.
“Un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione”: A. Bloch.
Andrea Colasuonno

13.11.14

I frutti velenosi di Salvini

Alessandro Dal Lago

Da quando Mas­simo D’Alema se ne uscì con la famosa tro­vata della «costola della classe ope­raia», il feno­meno Lega è stato per lo più sot­to­va­lu­tato. Blan­dito e vez­zeg­giato a destra e sini­stra, e anche temuto quando era al governo e sem­brava sul punto di pren­dere il potere, il par­tito di Bossi non è stato com­preso dai più nella sua natura pro­fon­da­mente fasci­sta. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xeno­fobe, seces­sio­ni­ste e anti-europee, ma anche pro­fon­da­mente oppor­tu­ni­sta, capace di mutare obiet­tivi e alleanze, pur man­te­nendo la sua natura rea­zio­na­ria.
Pren­diamo il gio­vane Sal­vini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rive­lata come un par­tito arraf­fone, cor­rotto come qual­siasi altro, Sal­vini ha dato una ster­zata pro­po­nen­dosi come alter­na­tiva «gio­va­nile», radi­cale e sca­pe­strata. Quindi, niente più elmi con le corna, fre­scacce cel­ti­che e tutto il fol­clore che copriva gli inciuci con For­mi­goni e Ber­lu­sconi, ma una poli­tica di movi­mento e, soprat­tutto, una dimen­sione nazio­nale in cui far con­fluire la destra estrema e iper-nazionale che non può iden­ti­fi­carsi con il seces­sio­ni­smo. Ecco, allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound, imbar­cata in un pro­getto che vede la Lega come par­tito lea­der della destra ita­liana post-berlusconiana. Altro che Alfano, bor­ghese demo­cri­stiano e doro­teo fino al midollo.
Ma per rea­liz­zare que­sto pro­getto, che sem­bra finora coro­nato da un certo suc­cesso, anche se limi­tato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il popu­li­smo, un ter­reno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piaz­zato la sua ipo­teca. Il lea­der della Lega ha biso­gno di far cre­scere la ten­sione, di scal­dare gli animi, di mobi­li­tare, se non altro nell’opinione pub­blica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «mag­gio­ranza silen­ziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immi­grati, anche se magari non si dichiara ideo­lo­gi­ca­mente fasci­sta o leghi­sta. E niente di meglio, in que­sto senso, che andare a pro­vo­care nomadi e stra­nieri, che da quasi trent’anni fanno da para­ful­mine per tutti i mal di pan­cia nazionali.

Ed ecco allora la pro­vo­ca­zione di Bolo­gna con­tro i Sinti, cit­ta­dini ita­liani in tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghi­sti del vare­sotto e della ber­ga­ma­sca. Ecco gli stri­scioni «No all’invasione» davanti ai rico­veri di rifu­giati e richie­denti asilo, gente che non è venuta lì in mac­china o in Suv, come i corag­giosi leghi­sti, ma ha attra­ver­sato mezzo mondo a piedi ed è scam­pata ai nau­fragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a Roma, a get­tare ben­zina sul fuoco acceso da estre­mi­sti di destra e, sem­bra, dai pusher che non vogliono cen­tri per stra­nieri. Pro­vo­ca­zioni fredde, cal­co­late e mirate, appunto, al ven­tre di quella società che mai andrebbe a tirare pie­tre con­tro gli stra­nieri, ma si ral­le­gra pro­fon­da­mente quando qual­cuno lo fa al posto suo.

Ver­rebbe voglia di archi­viare tutto que­sto come il solito fasci­smo della solita Ita­lia, ma sarebbe un errore. Per­ché oggi gli anti­corpi sono deboli e fram­men­tari. Né l’attuale mag­gio­ranza, che ha imbar­cato un bel pezzo del vec­chio centro-destra, sem­bra mini­ma­mente pre­oc­cu­pata da que­sta destra spre­giu­di­cata e movi­men­ti­sta. E basta dare un’occhiata ai com­menti e ai blog dei quo­ti­diani nazio­nali per capire quanto sia ampio il soste­gno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sem­pre la vec­chia sto­ria. Quanto più le pro­spet­tive sono incerte, il futuro opaco, il lavoro man­cante, il degrado della vita pub­blica in aumento, tanto più è facile sca­ri­care la fru­stra­zione sugli alieni a por­tata di mano. E anche que­sto è un frutto avve­le­nato di qual that­che­ri­smo appena imbel­let­tato che passa sotto il nome di renzismo.

8.11.14

Catastrofe vicina, Europa al bivio

Roberto Romano, Paolo Pini (il manifesto)

Eurocrack. Ultimi dati Ocse: l’austerity ha tragicamente fallito. Bce e Commissione lo ammettono. Ma ora la crisi rischia di essere irreversibile e allo stato non esiste leadership europea che sia capace di invertire la rotta

L’Europa attra­versa una crisi di iden­tità senza pre­ce­denti. La Bce è pronta ad adot­tare misure non con­ven­zio­nali, dando man­dato allo staff della stessa di pre­pa­rare ulte­riori misure se neces­sa­rie. La novità è l’unanimità della deci­sione. Deci­sione improvvisa?

Al netto delle discus­sioni mezzo stampa sul con­flitto tra Ger­ma­nia e Mario Dra­ghi, la situa­zione eco­no­mica è peg­gio­rata a tal punto che serve qual­cosa di più dei bassi tassi e delle age­vo­la­zioni per il cre­dito alle imprese. Se non cre­sce la domanda è dif­fi­cile imma­gi­nare una inver­sione di ten­denza degli inve­sti­menti privati.

Nel frat­tempo sono arri­vate anche le pre­vi­sioni eco­no­mi­che della Com­mis­sione Euro­pea. Sono lo spec­chio fedele del fal­li­mento delle poli­ti­che fino a oggi rea­liz­zate, e mani­fe­stano la dif­fi­coltà di intra­pren­dere scelte capaci di por­tare fuori dalla crisi l’Europa. Se anche Jyrki Katai­nen sostiene che «la situa­zione eco­no­mica e dell’occupazione non sta miglio­rando con suf­fi­ciente rapi­dità. La Com­mis­sione euro­pea si impe­gna ad avva­lersi di tutti gli stru­menti e le risorse dispo­ni­bili per aumen­tare la cre­scita e l’occupazione in Europa. Pro­por­remo un piano di inve­sti­menti di 300miliardi di euro per rilan­ciare e soste­nere la ripresa eco­no­mica», qual­cosa nella Com­mis­sione comin­cia a muoversi.

Lo shock ciclico del Pil inter­ve­nuto dal 2008 per quasi tutti i paesi euro ha pro­dotto danni per­si­stenti nel sistema eco­no­mico. Non solo le imprese ten­dono a con­trarre gli inve­sti­menti men­tre l’occupazione perde com­pe­tenze con effetti cumu­la­tivi, ma la per­si­stenza del pro­cesso «ciclico» nega­tivo intacca le capa­cità pro­dut­tive del sistema eco­no­mico nel suo insieme.

In altri ter­mini la crisi ha eroso la cre­scita futura dell’Europa, men­tre il modello di equi­li­brio uti­liz­zato dalla Com­mis­sione Euro­pea avvi­cina sem­pre di più la cre­scita poten­ziale e quella reale. Nei fatti cre­sce la disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, cioè quella sulla soglia della cre­scita dell’inflazione, men­tre la cre­scita del Pil poten­ziale, cioè soste­ni­bile senza spinte inflat­tive, restando al solo caso dell’Italia, diventa addi­rit­tura negativa.

Que­sto è anche l’esito dell’errato modello uti­liz­zato da Bru­xel­les e appli­cato testar­da­mente per dise­gnare poli­ti­che eco­no­mi­che pro-cicliche: reces­sive quando il Pil cala, espan­sive quando il Pil cresce.

Esat­ta­mente il con­tra­rio di quello che servirebbe.

L’Europa si trova così davanti a un bivio. Un bivio che può essere rap­pre­sen­tato da un prima della crisi (2001–2007) e un dopo la crisi (2008–2014). Nei 7 anni pre-crisi la cre­scita del Pil ha regi­strato un valore cumu­lato pros­simo al 14% per i paesi di area euro, che diventa nega­tivo (-0,4%) nei 7 anni successivi.

Sono in par­ti­co­lare i paesi che hanno adot­tato pedis­se­qua­mente le poli­ti­che euro­pee a mani­fe­stare la mag­giore dif­fe­renza e sofferenza.

L’Italia passa da una cre­scita cumu­lata del 9% tra il 2001 e il 2007, ad una cre­scita nega­tiva del 9% tra il 2008 e il 2014.

Pro­prio ieri l’Ocse ha pre­vi­sto una cre­scita dello 0,2% per il 2015, penul­tima tra i Paesi G20. Valori migliori regi­stra la Fran­cia: rispet­ti­va­mente +12,7% e +1%, ma la cre­scita del Pil poten­ziale si riduce a deci­mali. Per­sino la Ger­ma­nia passa da una cre­scita del 10% a un «mode­sto» +5,7%.

Ine­vi­ta­bil­mente gli inve­sti­menti fissi seguono il ciclo eco­no­mico, anzi con­tri­bui­scono a peg­gio­rarlo. Se nel periodo tra il 2001 e il 2007 gli inve­sti­menti cre­scono del 17% per l’area euro, a par­tire dal 2008 regi­strano una con­tra­zione del 20,6%. L’Italia è il paese che ha la mag­giore diva­ri­ca­zione. Tra il 2001 e il 2007 que­sti cre­scono del 15%, ma durante la crisi crol­lano del 35%. La Fran­cia fa solo un po’ meglio: dal +20% al –15.

La caduta del Pil poten­ziale e di quello effet­tivo, soprat­tutto per respon­sa­bi­lità delle poli­ti­che di auste­rità adot­tate come con­se­guenza del modello eco­no­mico di rife­ri­mento dell’Ue, ha fatto cre­scere il rap­porto debito/Pil nono­stante la con­tra­zione della spesa pubblica,la dere­go­la­men­ta­zione del lavoro e la libe­ra­liz­za­zione di beni e ser­vizi. Anzi, meglio sarebbe dire, a causa dell’ottusità di que­ste politiche.

Se nel periodo pre-crisi la cre­scita del Pil ha per­messo di ridurre il rap­porto debito/Pil, con il 2008 que­sto è cre­sciuto ine­so­ra­bil­mente e inevitabilmente.

Anche in Ger­ma­nia, ben­ché abbia bene­fi­ciato di fat­tori ecce­zio­nali: il valore impli­cito più basso dell’euro-marco (40%) e poli­ti­che coe­renti con il raf­for­za­mento dell’export. Potremmo anche con­si­de­rare la quota di debito pub­blico «gri­gio» presso le loro casse depo­sito e pre­siti, ma il senso non cambia.

Quindi oggi le poli­ti­che eco­no­mi­che euro­pee attra­ver­sano una fase per­sino molto più grave per cre­di­bi­lità di quella che sino a ieri le carat­te­riz­za­vano. Le pre­vi­sioni autun­nali della Com­mis­sione sono, in qual­che misura, lo spec­chio fedele della «incre­du­lità» di quello che accade. Incre­du­lità che diventa pate­tica se pren­diamo le pro­ie­zioni di cre­scita per il 2015. Se doves­simo uti­liz­zare la distanza tra le pre­vi­sioni ini­ziali e il con­sun­tivo degli anni pas­sati, per l’Europa pos­siamo atten­derci una cre­scita nega­tiva tra il –1 ed il –1,5% per il 2015, men­tre per l’Italia pos­siamo sti­mare una con­tra­zione non infe­riore al 2%.

È una ipo­tesi inac­cet­ta­bile anche per i custodi dell’ortodossia. Le poli­ti­che mone­ta­rie non fun­zio­nano per­ché non arri­vano là dove sareb­bero più utili, nel men­tre si riduce la domanda di cre­dito in ragione delle pro­spet­tive per il futuro.

Qual­cosa acca­drà per­ché l’Europa non può con­su­mare un enne­simo anno come o peg­gio di quello appena trascorso.

Pec­cato che abbiamo una dire­zione poli­tica inca­pace di ripro­get­tare una Europa che esca dalla depres­sione e all’altezza della sfida che l’attende.

4.11.14

Come cambia il debito pubblico #fuoridalleuro (Signori "venghino! venghino!" ad ammirare la strabiliante esibizione del mago Grillo per far sparire lo spread)

(dal Blog di Beppe Grillo)

Come cambia il debito pubblico #fuoridalleuro 




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"Il debito pubblico è una sorta di mito, su di esso girano voci, falsità, mezze verità. Questa percezione sfumata, inafferrabile, fa del debito pubblico uno strumento molto utile nelle mani di chi governa. Non appena un'opposizione in parlamento o nella società alza la testa contro la deriva neoliberista dell'Europa e dell'Italia viene sventolato ad arte il ricatto del debito pubblico. Si invoca una situazione di emergenza, lo spread che potrebbe tornare ad alzarsi, la mancanza di soldi, la sfiducia del Dio Mercato sui titoli di Stato...
Sul debito pubblico, quindi, va fatta chiarezza. Prima di poter deliberare bisogna conoscere, e l'obiettivo del M5S è che non vi siano più miti e superstizioni di fronte alle quali il cittadino si sente troppo debole per poter decidere.
A chi e a cosa serve il debito pubblico?
Allo Stato per finanziare la spesa pubblica non coperta dalle tasse dei suoi cittadini. In altre parole, quando lo Stato spende a deficit (spesa > tasse) chiede in prestito i soldi che le tasse non forniscono.
Cos'è e come funziona il debito pubblico?
Lo Stato si finanzia emettendo dei titoli di debito a diversa scadenza (BotCctBtpnel caso italiano). I risparmiatori che vogliano farlo, siano essi nazionali o esteri, comprano questi titoli di debito, finanziando lo Stato che li ha emessi. Alla scadenza dei titoli, lo Stato ha l'obbligo di restituire al creditore la somma presa in prestito, mentre durante il periodo di prestito lo Stato eroga al creditore gli interessi. Alla fine dei giochi il creditore che ha prestato 100 si vedrà restituito 100 più il tasso di interesse del titolo di debito che ha acquistato.
Il vero problema, quindi, sono gli interessi. Se questi aumentano troppo, una quota sempre maggiore di spesa pubblica dovrà essere dedicata ogni anno al loro pagamento.
I tassi di interesse aumentano quando lo Stato non riesce a vendere tutti i titoli che mette all'asta e quindi deve aumentare il loro rendimento per attrarre investitori, oppure quando i titoli di Stato vengono venduti in massa da chi li ha comprati, di solito per mancanza di fiducia circa la loro restituzione. Il costo del debito dipende quindi dalla fiducia che hanno i risparmiatori nei confronti dello Stato debitore.
Sarà ovvio, a questo punto, che possedere o meno la propria moneta fa per lo Stato, e per i suoi cittadini, tutta la differenza del mondo. L'Italia non può creare l'euro, ma poteva creare la lira.
Se lo Stato può creare la moneta con la quale deve ripagare il suo debito, può SEMPRE garantire il pagamento dei titoli di Stato che ha venduto. Se invece non può emettere la moneta deve procurarsela centesimo per centesimo per ripagare i titoli e gli interessi. Per farlo dovrà tassare ancor più i cittadini, tagliare la spesa produttiva e indebitarsi ancora. È il paradosso del debito che ripaga altro debito e si moltiplica su se stesso. Un circolo vizioso che parte dalla mancata sovranità monetaria.
I creditori avranno più fiducia in uno Stato sovrano della sua moneta, o in uno Stato che deve procurarsela tartassando i suoi cittadini? Per rispondere, basta vedere la dinamica del rapporto debito/Pil dal 1981, quando alla nostra Banca d'Italia è stato impedito di creare la lira per comprare i titoli di Stato invenduti sul mercato. Da quel momento i tassi di interesse sono esplosi e il debito è raddoppiato nel giro di 10 anni. L'euro è solo l'ultimo atto della spoliazione di sovranità monetaria dell'Italia iniziata con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981.
Dobbiamo uscire da questa gabbia al più presto, riprenderci il controllo della nostra Banca d'Italia, permettendo ad essa se necessario di emettere moneta, abbattere gli interessi e aumentare la liquidità nell'economia reale. Liberarsi dal ricatto dei mercati è più semplice di quello che sembra.
Il debito pubblico denominato nella moneta di Stato può essere gestito virtuosamente e diventare la ricchezza dei cittadini, finanziando opere strategiche, settori ad alta occupazione, Stato sociale, istruzione, ricerca e scuola. È un debito che si ripaga da sé con la crescita del Pil, dell'occupazione e del gettito fiscale.
Se l'Italia uscisse dall'euro, moneta di fatto straniera, circa il 94% del suo debito pubblico sarebbe ridenominato in lire e lo spread tornerebbe nel dimenticatoio.
Fuori dall'euro per realizzare insieme l'Italia a 5 stelle!" M5S Senato

3.11.14

Italia prima nell'indice di ignoranza Ipsos-Mori: la maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, ma sono il 7%

Italiani e immigrazione, un connubio potenzialmente esplosivo, praticamente da record. Siamo il paese col più alto tasso di ignoranza per quanto riguarda i flussi migratori. Infatti un sondaggio Ipsos sottolinea come la maggioranza degli abitanti del Belpaese pensino che gli immigrati residenti sul suolo italiano siano il 30% della popolazione, quando sono appena il 7%. Nessuno al mondo ha una visione distorta della realtà come la nostra.
Nei dati di Ipsos-Mori si legge che molti italiani sono convinti che il paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che nel paese ci sia il 30% della popolazione composta da immigrati (sono invece il 7%) e che il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%.
The Ignorance Index si intitola studio condotto in 14 Paesi. Questo "indice dell’ignoranza" vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata). Qualche esempio delle risposte in Italia? "Quanti sono i musulmani residenti?". Risposta: il 20% della popolazione! (in verità sono il 4%). "Quanti sono gli immigrati?" Risposta: 30% (in realtà 7%). "Quanti i disoccupati?" Risposta: 49% (in effetti 12%). "Quanti i cittadini con più di 65 anni?". Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).
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