29.1.10

iPad, rivoluzione a metà

di Luca Annunziata

Il nuovo device conferma solo in parte le attese. Sono prove generali per la trasformazione di Apple. Steve Jobs lancia da San Francisco la sfida ai netbook: ma è presto anche solo per fare pronostici

iPad, rivoluzione a metàUpdate: L'articolo pubblicato inizialmente riportava dei dubbi sul formato scelto per la pubblicazione di libri nel nuovo iBook Store. In effetti Apple ha chiarito che il formato adottato sarà ePub: l'articolo è stato modificato di conseguenza. Grazie a tutti per le segnalazioni.

Roma - Bello è anche bello, tecnicamente è senz'altro dotato. Ma è abbastanza per scardinare un mercato da milioni di pezzi come quello dei netbook? Il nuovo iPad, mostrato da un Steve Jobs in forma (ma sempre magro) al pubblico di giornalisti dello Yerba Buena Center a San Francisco, nelle intenzioni di Apple dovrebbe fare tutto quello che fanno oggi i piccoli laptop da 10 pollici, ma meglio: se sarà davvero in grado di fare la differenza è ancora presto per dirlo, di certo a Cupertino hanno deciso di affrontare una scommessa rischiosa.

iPad di AppleA cosa serve un tablet secondo Apple: serve a navigare, a controllare la posta, a guardare le foto, ad ascoltare musica e leggere libri o riviste. Anche a giocare. Lo schermo da 9,7 pollici (1024x768, 132 ppi), multitouch, sembra luminoso ed efficace per questi scopi: certo, la scelta di utilizzare un LCD offre vantaggi e svantaggi, ovvero la tecnologia IPS per migliorare contrasto e angolo di lettura contro una durata delle batterie di appena 10 ore. Autonomia bastante a competere con la maggior parte dei netbook in circolazione, ma che impallidisce davanti a quella di giorni e giorni garantita dagli schermi e-ink dei vari e-reader in circolazione: ed è bene ricordare che il principale vantaggio degli LCD, ovvero i colori, è destinato ad assottigliarsi entro la fine del 2010 con l'uscita dei primi e-reader a colori.

Tutto questo viene tenuto in piedi da un system-on-a-chip (SoC) ARM da 1GHz (denominato A4) disegnato da Apple e realizzato grazie alle competenze di quella PA Semi acquisita tempo addietro. Il sistema operativo del device è lo stesso iPhone OS, aggiornato alla release 3.2, che gira su iPhone: una mossa per garantire anche la compatibilità delle oltre 140mila applicazioni già presenti nell'App Store, ma che taglia le gambe a ogni aspirazione per il Flash sulla piattaforma. Durante la demo di Jobs sul palco, l'ormai familiare icona del plugin mancante ha fatto capolino dallo schermo di iPad: e non sembra questa una limitazione destinata a sparire a breve, almeno a quanto è stato possibile capire fino a questo punto.

Sul piano optional, per usare le parole di Jobs, ci sono i soliti sospetti: WiFi, Blutooth, 3G opzionale (che si porta dietro eventualmente l'A-GPS), speaker, microfono, connettore 30 pin come quello degli iPod, entrata 3,5mm standard per le cuffie, accelerometro e bussola. Assenti (ingiustificati?): fotocamera, USB. Nota a margine, Apple ci tiene a precisare che iPad rispetta tutti i suoi impegni ecologisti in fatto di ritardanti di fiamma, vetro privo di arsenico, niente mercurio e alta riciclabilità. Prezzi (questi sì una sorpresa) a partire da 499 dollari per la versione da 16GB, si sale a 599 per quello da 32 e 699 per quello da 64GB; se si vuole il 3G si dovranno sborsare, a partire da aprile, rispettivamente 629, 729 e 829 dollari.

Quello che manca davvero a iPad, tuttavia, è uno scopo preciso. Non fa il telefono, la connessione 3G è presente (ci sono offerte interessanti per gli USA, per l'Europa occorrerà attendere la primavera) ma non serve a quello scopo. Non è un computer, sebbene Apple abbia presentato una nuova release di iWork fatta apposta per il suo tablet e un dock completo di tastiera (alternativa a quella touch sullo schermo): montando lo stesso OS di iPhone rimane "relegato" nella categoria degli smartphone, con tutti i pregi e le limitazioni che questo impone. Ci si può scordare il multitasking, ci si può dimenticare il Finder di Mac OSX: niente cartelle dentro cui archiviare documenti, iPad è una specie di via di mezzo tra iPhone e iPod Touch e dunque un device fondamentalmente "chiuso".

Altro mistero è il formato scelto per la vendita dei libri: Apple, come di consueto, decide di fare da sé e crea una nuova app per lo scopo, chiamata iBook Store. Ci si collega, in stile iTunes Store, si sceglie cosa leggere, si acquista e ce lo si ritrova sul proprio scaffale virtuale. Mistero su cosa capiterà nel caso si voglia prestare un libro a un amico, o se questi titoli siano interoperabili con altre piattaforme: mettiamo l'utente sia in possesso di una biblioteca in formato epub, regolarmente acquisita o proveniente dal pubblico dominio, che fine farà se decide di saltare a bordo di iPad? Mistero anche su quali e quanti libri saranno disponibili per iPad, e quali saranno i costi: mancano indicazioni precise sulle possibili fasce di prezzo per paperback e hardcover, e ovviamente ci sarà da attendere il lancio localizzato nazione per nazione per conoscere quali editori avranno scelto di entrare nella scuderia Apple.

Discorso a parte è necessario farlo per le applicazioni: Scott Forstall, salito sul palco, dimostra che tutto quello che c'è in circolazione su App Store al momento funziona benone su iPad. Ma, e qui nascono i problemi, chi volesse può aggiornare il suo SDK e iniziare a sviluppare (o adattare) per il nuovo device: dunque, dopo aver iniziato a fare distinzione tra iPhone originale, iPhone 3G e iPod Touch originale, e infine i nuovi 3GS e Touch di seconda generazione, chi acquista un'applicazione dovrà iniziare a fare anche attenzione alla compatibilità del suo device con il software che intende acquistare.

altra vista iPad di Apple


È la questione che fino a oggi Apple ha tentato (con un buon successo) di evitare, e che invece affrontano quotidianamente gli utenti del mondo PC: al crescere e al complicarsi dell'ecosistema, crescono le variabili in gioco e dunque nascono dubbi sulla compatibilità e l'efficienza di una soluzione nel proprio caso particolare. La svolta più probabile, se a Cupertino decideranno di perseguire la consueta strada della semplificazione, sarà la riunificazione delle caratteristiche hardware e software dei vari dispositivi: ed è proprio qui che la faccenda iPad si fa interessante.

iPad, infatti, va probabilmente visto e decodificato alla stregua di quello che è stato il primo iPhone, il primo iPod, o persino il primo PowerBook: una piattaforma di sviluppo, un esempio di quello che verrà in futuro. Apple ha deciso (praticamente per la prima volta) di avvalersi delle competenze di PA Semi in un suo prodotto, e nulla vieta di pensare che molto presto chip progettati a Cupertino facciano capolino su un gran numero di altri prodotti con impresso il marchio della Mela. Non è rischioso ipotizzare che presto debutterà un nuovo iPhone con nuovo hardware e probabilmente un form factor leggermente rivisto per adeguarsi allo stile Unibody. Così come è possibile tenere in considerazione l'idea che, presto o tardi, Apple TV potrebbe migrare dal suo surrogato di OSX a una sua versione di iPhone OS.

La conclusione della storia, la "morale", l'ha offerta lo stesso Jobs alla fine del keynote: "C'è spazio per un dispositivo come iPad?". Bella domanda. Di certo Apple sta lavorando per trovare un suo spazio più ampio sul mercato: puntando forse, come ha specificato lo stesso Jobs nel keynote, a trasformarsi sempre di più in una "mobile company", con tre o quattro schermi su cui concentrare i propri sforzi mediante due diverse categorie di prodotti - una equipaggiata con Mac OSX (essenzialmente MacBook), l'altra con iPhone OS (iPod Touch, iPhone, iPad e quello che verrà).

iPad è un gadget elettronico che consente di giocare o di lavorare, nelle intenzioni di Apple seduti in poltrona: se questa sarà davvero la prossima rivoluzione dell'elettronica di consumo, se davvero vedremo nascere l'era dell'elettronica da divano, è una questione che neppure Steve Jobs ha il potere di decidere. Il prezzo di iPad sarà invitante per molti, ma subirà una concorrenza all'ultimo sangue da parte di tutti i produttori di netbook: sarà "divertente", per gli addetti ai lavori, osservare a quale prodotto i consumatori garantiranno la propria preferenza. La sfida è tra interfaccia semplificata e flessibilità.

25.1.10

La memoria inutile

BARBARA SPINELLI

La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della politica come nelle nazioni che con tenacia hanno lavorato sul proprio passato (parliamo in modo speciale della Germania, ma l’esame di coscienza fu approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di verità al bisogno di riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente, come qualcosa che aiuta a capire perché un male è nato, perché si perpetua mutando le forme, perché i rimedi non l’hanno curato ma anzi aggravato. La memoria in Italia rischiara poco il passato e per nulla il presente: è una memoria ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a questa o quella forza politica oltre che a effimere contingenze.
Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i frammenti di passato che gli permettono di evitare, e tradire, l’esame di coscienza.

Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in un sonno scuro che consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce il giudizio storico. Verso la storia, parecchi politici e giornalisti hanno uno strano atteggiamento: da una parte ammettono che non possono scriverla loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di dirla in prima persona, fingendo olimpiche distanze che non possiedono. Il direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte di Craxi, accampa precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento ­ dice ­ di guardare alle vicende di Craxi con gli occhi della storia».

Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria tradita. Anche il terrorismo italiano è ricordato con metodi poco corretti, anche la storia del fascismo o di Salò. A partire dal momento in cui la memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che finisce col prevalere è una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che la coscienza impone di esaminare non fu un male in sé: in fondo, lo divenne perché vinto dalla Storia. In molti casi fu perfino nobile, non meno del suo avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra giustizia e crimine, ma fra chi ha vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e anche sul terrorismo. Prima di rientrare da Parigi a Roma per presentarsi alla giustizia, Toni Negri sostenne che il terrorismo era «superato perché vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per sé non era condannabile.

Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia politica è considerata grande e bella, se non fosse per Mani Pulite che gli strappò la vittoria e macchiò questa compatta bellezza. Ovvio, in queste condizioni, che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno, sono gli altri», dice Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano dentro di sé, perché inebriati dall’esperienza della vittima. La memoria selettiva e ancillare ci restituisce in tal modo un Craxi grande statista, soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a causa, essenzialmente, dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di separare la politica dai fatti di corruzione, ma di estromettere i fatti di corruzione lasciando che resti, del leader, solo la luce. Le inchieste giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche parlava di memoria antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia collezionista» un nido familiare chiuso, impenetrabile dall’esterno, conservatore del passato.

Altra cosa la memoria critica, che guarisce trasformandoci: memoria faticosa, perché gli uomini tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva».

Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti iniziali: unificare le sinistre, rafforzando la componente socialista dell’unione e banalizzando, alla maniera di Mitterrand, l’ingresso dei comunisti nel governo; liberare sinistre e sindacati da formule errate come la scala mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di modernizzatore fu, secondo molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione che tuttavia riuscì solo in parte. Che fu a un certo punto abbandonata, autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente avversata dai comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.

L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni giuste e coraggiose, di spregio profondo della politica, di intreccio tra politica e mondo degli affari, di uso spregiudicato di mezzi finanziari illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di tale azione ma un suo torbido elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea spazi di potere con l’aiuto di potentati economici, e in cuor suo ritiene inefficace la via virtuosa. Il motto degli esordi craxiani fu: primum vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere. In un’intervista a Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su Repubblica, Craxi non nasconde la crisi abissale della democrazia e dei partiti: la società italiana si era irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una chiusa corporazione, incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede perché, Craxi replica: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi».

In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera durante Mani Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9 aprile ’93. Due discorsi che descrivono la corruzione di un intero sistema politico. Questo dice la chiamata di correo del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...) che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la vergogna dei politici e di una classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è estesa. A Scalfari, Craxi aveva detto: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi». Oggi, gli interessi particolari sono diventati ideali e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.

La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani Pulite, a causa del malaffare in cui i partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il Pci si oppose per anni all’alternanza, preferendo compromessi con la Dc che preservavano lo status quo. Fallì per l’immobilità in cui Craxi stesso sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di arraffare frammenti del presente e del potere, di non progettare più nulla.

Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei magistrati: e naufragò perché più di altri aveva suscitato sì vaste attese.

Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera meno edulcorata, censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America, ma la misera messa in libertà d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu Abbas) che aveva ucciso proditoriamente, sull’Achille Lauro, un anziano americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché ebreo. Anche in economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini, sul Corriere del 14 gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro debito pubblico è volato dal 60% al 120% del Pil; (...). Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».

Oggi, censurare tanta parte del passato è utile soprattutto a Berlusconi e alla sua offensiva contro la giustizia. Se il duello è tra vincitori e vinti, e non tra buongoverno e governo corruttibile, si tratta di contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai processi, ma restando al potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania Craxi lo ha detto chiaramente, il 3 gennaio alla televisione: «La storia di Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in Italia: a perpetuare la melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame di coscienza che da essa ci libererebbe.

23.1.10

La cura del bullo

Massimo Gramellini

Sul Lago di Garda abita una ragazza dello Sri Lanka, venuta in Italia per guadagnare i seimila euro che servono a pagare le cure del fratellino malato di tumore. Lavando i pavimenti di giorno, facendo la badante di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte, in un anno la ragazza riesce a mettere da parte la cifra agognata. Si accinge a mandare il vaglia a casa, ma non resiste alla tentazione di telefonare alla mamma per anticiparle la grande notizia. Entra in una cabina (la ragazza non ha il telefonino), tenendo a tracolla la borsa con i seimila euro. Quando quattro ragazzetti gliela strappano, lei lancia un urlo nella cornetta e la madre, dall’altra parte del mondo, vive il suo dramma in diretta.

I carabinieri identificano subito i rapinatori: li conoscono già. Sono adolescenti della zona, molto ricchi e molto annoiati, che cercano di scuotere l’abulia delle proprie esistenze con gesti che procurino scariche violente di adrenalina: per esempio rubare soldi a chi ne ha bisogno per andarli a spendere in cose di cui loro non hanno alcun bisogno. Vengono acciuffati mentre stanno finendo di dilapidare il bottino in un negozio di oggetti griffati. Lo scontro fra bene e male è così lampante che per mettere tutto a tacere, anche la coscienza, i genitori dei bulletti rifondono i seimila euro. «Sono i nostri figli, cosa possiamo fare?», si giustificano. Un’idea l’avrei. Vivere come la ragazza per un anno: lavando i pavimenti di giorno, facendo i badanti di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte. Magari funziona.

18.1.10

Catastrofe non solo naturale

Barbara Spinelli

Le immagini di Haiti devastata non dicono per intero il disastro, come quasi sempre accade nelle grandi calamità naturali. Dicono il punto terminale di una storia lunga, accorciandola e sforbiciandola d’imperio.

Ritraggono la tragedia ignorando le tragedie già avvenute: tremando, la terra le inuma ancor più profondamente. Raffigurano in modi sconnessi lo sguardo di un bambino salvato, struggente di bellezza, e il fulgore ­ tremendo ­ dei machete impugnati da superstiti a caccia di cibi, acqua, medicine. Orrore, bellezza, empatia, discordia: sono frammenti caotici di un tutto inafferrabile. Sono istantanee, e ogni istantanea è la punta di iceberg che restano inesplorati. Vediamo solo questa punta, commossi da eventi estremi. Facendo uno sforzo sentiamo l’odore di morte, descritto dai reporter. La base dell’iceberg, quel che viene prima del sisma, s’inabissa sotto le macerie con i morti. È il terribile destino di parole come umanità, soccorsi umanitari, guerre umanitarie: parole cui si ricorre in simili emergenze e che cancellano la storia, eclissano le responsabilità dei grandi e dei piccoli, dei singoli e delle autorità pubbliche. Parole che narrano una catastrofe solo naturale, non anche umana e politica. Per questo è così prezioso il giornalismo scritto. La televisione mostra solo un pezzetto di realtà, più o meno bene (i telegiornali italiani meno bene della Bbc).

Twitter cattura l’urlo di Munch. Solo lo scritto ha la respirazione lenta della storia. Solo lui può dire quel che era prima del punto terminale, e come possa succedere che l’acme sia questo e non un altro, se possibile meno esiziale.

Le fotografie delle catastrofi sono sempre in qualche modo taroccate. Ci viene «rifilata» una realtà, contorta magari inconsciamente. Privilegiando un riquadro e trascurandone altri falsifichiamo l’immagine, come ben spiegato in un blog attento alle manipolazioni visive (G.O.D., Ghostwritersondemand): ci lamentiamo dei trucchi, «ma siamo noi i grandi rifilatori». Noi che aggiustiamo le foto dei cataclismi, i reportage, trasformando individui e popoli in nuda umanità indistinta alle prese con la natura e sconnessa dalla pòlis. Foto e telecamere mostrano la mano che soccorre, non quella che ha distrutto e aumentato la vulnerabilità d’un Paese. Denunciano la natura matrigna della natura, non della politica; l’eclisse di Dio, non dell’uomo imputabile. Basta leggere su La Stampa i due articoli scritti da Lucia Annunziata, il 14 e 16 gennaio, per scoprire dietro l’Ultimo istante e l’Ultimo uomo una miserabile storia fabbricata dai politici.

Qualcosa in realtà l’intuiamo, osservando i filmati trasmessi dai Caraibi. Sembra di vedere il bastimento di schiavi neri in fuga dall’Africa, che dopo essersi ammutinati sequestrano ­ nel racconto di Melville ­ il comandante Benito Cereno e si autogovernano con crudeli leggi del taglione: la nave si chiama San Dominick, ai nostri tempi Haiti. E proprio a Haiti Melville pensava: il primo luogo dove gli schiavi neri si liberarono negli Anni 90 del Settecento, inneggiando sotto la guida del leggendario Toussaint L’Ouverture alla rivoluzione francese. Pensava alla grandezza delle rivoluzioni e alle rovine che provocano quando perpetuano il tumulto e non si danno leggi stabili. Haiti somiglia a quella nave, divenuta isola.

Anche a Port-au-Prince, come nel naviglio San Dominick, regna l’anomia che secerne despoti. Chi guarda il dramma nei Caraibi non vede autorità locali, che tengano ordine. Non vede poliziotti né ministri haitiani, ma solo potentati e organizzazioni esterni. L’assenza di immagini parla più di quelle esibite, anche qui.

La storia occultata sotto la punta dell’iceberg eccola: è un inarrestabile sanguinario regolamento di conti fra cleptocrazie e fra mafie che oggi usano l’isola per i traffici di droga. È fatta di un’emancipazione gloriosamente iniziata e mai finita, perché sempre ha preferito le dittature generate dall’anarchia rivoluzionaria alle istituzioni che durano. I geologi dicono che identici terremoti, in Paesi ben amministrati, non seminano morte sì vasta. Lo sostiene la sismologa Kate Hutton: vent’anni fa, un terremoto di eguale forza colpì il Sud di San Francisco. Fece 63 morti, non 100-200.000 come a Haiti.

La mano dello Stato non si vede a Port-au-Prince perché non c’era neanche prima, se mai c’è stata. È il motivo per cui sono nate baraccopoli così cadenti e indifese a Port-au-Prince, scrive la scrittrice Amy Wilentz: se i morti son tanti è perché l’agricoltura, degradata, ha spinto migliaia di contadini a inurbarsi negli slum di quella che veniva chiamata Perla delle Antille. I terremotati abruzzesi lo sanno, pur non avendo subito un sisma analogo. Se le case non fossero state costruite con la sabbia, se lo Stato avesse contrastato le speculazioni mafiose, il sisma sarebbe stato diverso: cataclismi dello stesso tipo in Giappone non fanno morti.

Anche dietro la mano internazionale che corre in aiuto, anche dietro quella di Obama, c’è una lunga storia di peccati di omissione e di inani interventismi. Scrive il quotidiano Independent che occorre una «politica globale delle catastrofi». Ma anche questi appelli sono foto che ci rifiliamo a vicenda. Il disfarsi di Haiti rivela ed esige di più: rivela che aiuti umanitari e allo sviluppo vanno ripensati, perché fallimentari, e organizzati prima dei cataclismi. Fallimentari furono in primis gli interventi stabilizzatori americani, specialmente di Clinton. Washington tutto ha fatto, impossessandosi nella sostanza dell’isola, tranne rafforzare il suo Stato, le sue infrastrutture: ha installato dittatori, poi li ha cacciati, poi re-insediati (è il caso del sacerdote-presidente Aristide, negli Anni 90) senza mai scommettere sulle capacità locali di rendere l’isola meno vulnerabile ai ricorrenti sismi e uragani (con case meno cadenti, quartieri meno malavitosi, politiche del territorio più affidabili). Da un secolo, Washington «manda alternativamente nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla. (....) Haiti è un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana» (Lucia Annunziata, La Stampa 14-1-10).

Lo strazio umanitario ha questo di peculiare: cancella ogni errore, di governi locali o di potenze esterne o di mafie. Mette in scena un male interamente naturale, che fa tabula rasa della storia. Non a caso lo chiamano Apocalisse: parola da evitare, perché nell’Apocalisse non c’è più modo di correggersi. O gli danno il nome di male assoluto, estirpandolo dalla catena storica delle causalità e fantasticando globali empatie umane che oltrepassano la politica. Il racconto di Kleist sul terremoto del Cile racconta il naufragare di leggi e responsabilità. Quando l’uomo è solo di fronte alla natura non resta che il fato, e «tremendo appare l’Essere che regna sopra le nubi»: «Pareva che tutti gli animi fossero riconciliati, dopo che v’era rintronato il colpo spaventoso. Nella memoria non sapevano risalire più in là di esso».

Impietoso, Kleist racconta come la memoria si vendichi, nel mondo non immaginario ma reale. Basta un attimo e la riconciliazione si spezza, proprio come a Haiti: nel mondo reale ci sono i tumulti, i machete, le guerre per il cibo, l’assenza di polizia locale e di Stato.

L’umanitario fa parte della modernità rivoluzionaria come la fotografia e la Tv. Il suo sguardo si fissa sull’ultimo attimo: «Nella memoria non risale più in là». Urge invece risalire, far politica ricordando: anche su scala mondiale. Dice Kafka che bisogna «inoltrarsi nel buio con la scrittura, come se il buio fosse un tunnel». L’immagine fotografica livella ogni cosa, del tutto ignara che ogni buio è un tunnel, anche quando a prima vista pare piatto.

14.1.10

Haiti’s Angry God

FOR most of the past 20 hours I’ve been hiking the earthquake-rubbled streets of Port-au-Prince. Tuesday night, when we had less idea of the scope of the devastation, there was singing all over town: songs with lyrics like “O Lord, keep me close to you” and “Forgive me, Jesus.” Preachers stood atop boxes and gave impromptu sermons, reassuring their listeners in the dark: “It seems like the Good Lord is hiding, but he’s here. He’s always here.”

The day after, as the sun exposed bodies strewn everywhere, and every fourth building seemed to have fallen, Haitians were still praying in the streets. But mostly they were weeping, trying to find friends and family, searching in vain for relief and walking around in shock.

If God exists, he’s really got it in for Haiti. Haitians think so, too. Zed, a housekeeper in my apartment complex, said God was angry at sinners around the world, but especially in Haiti. Zed said the quake had fortified her faith, and that she understood it as divine retribution.

This earthquake will make the devastating storms of 2008 look like child’s play. Entire neighborhoods have vanished. The night of the earthquake, my boyfriend, who works for the American Red Cross, and I tended to hundreds of Haitians who lived in shoddily built hillside slums. The injuries we saw were too grave for the few bottles of antiseptic, gauze and waterproof tape we had: skulls shattered, bones and tendons protruding from skin, chunks of bodies missing. Some will die in the coming days, but for the most part they are the lucky ones.

No one knows where to go with their injured and dead, or where to find food and water. Relief is nowhere in sight. The hospitals that are still standing are turning away the injured. The headquarters of the United Nations peacekeeping force, which has provided the entirety of the country’s logistical support, has collapsed. Cell and satellite phones don’t work. Cars can’t get through many streets, which are blocked by fallen houses. Policemen seem to have made themselves scarce.

“If this were a serious country, there would be relief workers here, finding the children buried underneath that house,” my friend Florence told me. Florence is a paraplegic who often sits outside her house in the Bois Verna neighborhood. The house next to hers had collapsed, and Florence said that for a time she heard the children inside crying.

Why, then, turn to a God who seems to be absent at best and vindictive at worst? Haitians don’t have other options. The country has a long legacy of repression and exploitation; international peacekeepers come and go; the earth no longer provides food; jobs almost don’t exist. Perhaps a God who hides is better than nothing.

Pooja Bhatia is a fellow at the Institute of Current World Affairs.

13.1.10

C'era una volta il libro

di Daniel Lyons
Sì, i volumi di carta spariranno. Ma quelli digitali regaleranno una nuova primavera alla letteratura. Parola dell'inventore di Kindle. Colloquio con Jeff Bezos

Nel 1994 Jeffrey Preston Bezos, aveva appena 30 anni. Nato ad Albuquerque, nel New Mexico, dopo essersi laureato a Princeton, in quell'anno Bezos aveva fondato Amazon. La libreria on line ha rivoluzionato l'idea stessa di vendita al dettaglio. Ma a Bezos (il cui patrimonio è valutato in 10 miliardi di dollari), quel successo non è bastato. Tanto che ora, dopo aver lanciato Kindle, il lettore digitale dei libri, sta cercando di sovvertire anche il modo in cui leggiamo. Come spiega in questa intervista.

Jeff Bezos, Amazon ha avuto un anno eccezionale, nonostante la crisi economica. Come ci siete riusciti?

"Grazie a principi basilari: ci siamo concentrati su una selezione accurata di prodotti, su prezzi bassi e spedizioni affidabili, convenienti e veloci. Abbiamo un approccio simile da 14 anni, in pratica da quando esistiamo. Il nostro successo è, per così dire, frutto di un'accumulazione. Per esempio, se ci capita di aver avuto un buon trimestre, sappiamo che ciò era dovuto al lavoro che abbiamo svolto tre, quattro, cinque anni prima, e non per il buon lavoro immediatamente precedente".

Amazon è nato come un sito di vendita al dettaglio. Ora sono disponibili prodotti informatici e siete nel business dell'elettronica di consumo con Kindle. Come potrebbe definire Amazon, oggi?
"Prendiamo le mosse dal consumatore, e lavoriamo 'con lo sguardo all'indietro'. Acquisiamo tutte le capacità utili a soddisfare il cliente, costruendo ogni genere di tecnologia per soddisfarlo. Inoltre inventiamo prodotti nuovi, non calchiamo strade già percorse da altri: ci piace invece camminare per strade inesplorate per vedere cosa c'è alla fine. Alcune volte sono vicoli ciechi, ma altre si trasformano in ampi viali, pieni di eccitanti opportunità. Desideriamo proiettarci nel futuro e muoverci in una prospettiva a lungo termine, una caratteristica rara di questi tempi. Il senso di prospettiva non è virtù comune nel mondo delle aziende. Tuttavia la maggior parte delle cose che abbiamo fatto ci ha richiesto tantissimo tempo".

Lei ha parlato di Kindle come un esempio del concetto di guardare all'indietro, rispetto al cliente. Può spiegarci in che senso?
"Esistono due modi possibili, per le compagnie, di ampliare il proprio operato. Primo: possono creare un inventario delle loro capacità e competenze e dirsi: ok, con questo tipo di capacità e competenze, cos'altro possiamo fare? Una tecnica estremamente utile, che ogni azienda dovrebbe mettere in atto. Ma esiste un secondo metodo, che richiede un orientamento a lungo termine: invece di chiedersi in cosa si è bravi, e cos'altro fare con le proprie abilità, ci si interroga sull'identità e i bisogni dei potenziali clienti. E poi si dà loro ciò che desiderano, anche se non se ne possiedono ancora le capacità. Tutto si può imparare, non importa quanto ci vorrà. Kindle ne è un esempio vincente: è sul mercato da due anni, ma abbiamo lavorato tre anni prima di lanciarlo. E ne abbiamo parlato, ancora prima, per un anno. Abbiamo assunto un team di ingegneri elettronici per costruire il dispositivo e acquisire nuove conoscenze. In genere, nelle aziende, i dirigenti seguono pedissequamente una tendenza: pensano che il modo giusto di procedere sia continuare a fare ciò che si sa fare al meglio. Può essere, forse, una buona regola. Ma il problema è che il mondo cambia continuamente sotto i nostri occhi, e non ci si può adattare a questo cambiamento senza acquisire nuovi strumenti e capacità".

Il successo di Kindle l'ha sorpresa?
"Francamente, sono rimasto di stucco. Due anni fa nessuno si sarebbe aspettato tutto questo. È il prodotto più venduto, desiderato e regalato su Amazon. E non sto parlando solo dell'informatica, ma di tutte le categorie disponibili. Abbiamo trascorso anni a lavorare al business dei libri, e ora, per i titoli esistenti in edizioni Kindle, le vendite sono cresciute del 48 per cento. Ma per noi non è soltanto un business. È quasi uno zelo missionario, perché riguarda la cultura. Pensiamo che Kindle sia più grande di noi".

Steve Jobs, il padre di Apple, ha detto che Kindle fallirà poiché "la gente non legge più".
"Io penso invece che la lettura resisterà e che si meriti un dispositivo dedicato. Per chi è un lettore, l'atto del leggere è qualcosa di davvero importante. Non è possibile leggere per tre ore su uno schermo Lcd retroilluminato: questo va bene per le forme brevi. Un punto molto importante, che mi preme sottolineare: noi umani ci evolviamo assieme ai nostri strumenti. Cambiamo gli strumenti e gli strumenti cambiano noi: è un ciclo che si ripete. Durante gli ultimi vent'anni strumenti network-connected come gli smart phones, i Blackberry e i personal computer connessi alla Rete hanno mosso la nostra civiltà verso forme brevi di lettura. Amo il mio Blackberry: è fantastico per leggere e-mail. Stessa cosa per il mio computer. Sono felice di leggere articoli brevi e post nei blog, ma non voglio leggere un romanzo di 300 pagine sul mio pc. Kindle aggiunge la convenienza di una connessione wireless alla forma letteraria lunga. Penso che si imparino cose diverse da un romanzo rispetto a una forma breve di letteratura, pur essendo entrambi importanti. Se si legge 'Ciò che resta del giorno' di Kazuo Ishiguro - uno dei miei romanzi preferiti - non si può non pensare di aver speso dieci ore in una vita alternativa, imparando qualcosa riguardo la natura dell'esistenza e del rimorso. E questo non è possibile in un blog".

Esisterà, secondo lei, un momento in cui il romanzo verrà reinventato e il nuovo medium digitale darà avvio a nuove forme artistiche?
"Sono scettico riguardo la possibilità di reinventare il romanzo. Forse inventare sarà possibile per i testi scientifici: la letteratura medica è abbastanza matura da scegliere per sé nuove forme. Penso ad animazioni di un cuore pulsante, ad esempio. Ma credo che il romanzo continuerà a crescere e fiorire nella sua forma attuale. Ciò non significa che non assisteremo anche a nuove invenzioni narrative - potrebbero nascere e, di fatto, ce ne saranno. Ma sono sicuro che non sostituiranno il romanzo".

Si parla molto di un possibile tablet della Apple. Sarebbe un concorrente di Kindle o no?
"Per noi più lettori ci sono meglio è, visto che vendiamo libri in formato elettronico. E vogliamo far sì che ognuno sia libero di leggere i nostri libri elettronici comunque e ovunque lo desideri".

Ma vi interessa più vendere il dispositivo in sé, l'hardware che producete, o i libri?
"Sono obiettivi diversi e noi lavoriamo su entrambi. Per ciò che riguarda i titoli disponibili, vogliamo che tutti siano in grado di leggere ciò che vogliono, dove vogliono. Riguardo a Kindle, desideriamo che diventi il migliore supporto di lettura del mondo. Non è, ovviamente, un coltellino svizzero: non è in grado di compiere una quantità infinita di cose. Pensiamo che l'atto della lettura si meriti uno strumento specializzato e vogliamo che Kindle sia quello strumento. È come per la fotografia: mi piace scattare immagini con il mio telefonino, ma quando voglio fare una foto vera preferisco farlo con la mia macchina fotografica. Kindle è quella macchina fotografica".

Pensa che il libro di carta, come viene comunemente inteso, è destinato a scomparire?
"Penso di sì. Non so quanto ci vorrà. Amiamo le storie e la narrativa; amiamo perderci nel mondo di un autore. Questo non scomparirà mai, e continuerà a crescere. Ma il libro fisico ha 500 anni di vita. È probabilmente la tecnologia che ha avuto più successo nella storia. È difficile pensare a un prodotto con vita più lunga. Se Gutenberg fosse vivo, oggi, saprebbe riconoscere esattamente un libro e saprebbe come utilizzarlo, immediatamente. Soggetto anch'esso, come naturale, ai cambiamenti del tempo, il libro ha mantenuto una forma stabile per moltissimi anni. Ma nessuna tecnologia, nemmeno quella così elegante di un libro, dura per sempre".

Legge ancora romanzi su carta?
"No, se posso farne a meno".

traduzione di Valeria Dani. L'espresso-Newsweek

11.1.10

In viaggio con Ahamadu

Pierangelo Sapegno (inviato de La Stampa a Crotone)

Tu hai occhi buoni», dice. Ma lo dice come se volesse capire, non perché ci crede. Ore 13, stazione di Crotone. Ci sono un po’ di neri che bivaccano.
Qualcuno rovista nei cassonetti dei rifiuti, altri aiutano delle macchine a parcheggiare per chiedere pochi euro. Abbiamo appena offerto a Ahamadu Ndiaye un passaggio. Lui vuole andare a Brescia, dove ci sono dei senegalesi come lui, di Dakar, di Touba. Gli abbiamo proposto metà viaggio: «Ti lascio a Roma Termini. Vai su da lì». Ma lui non si fida. «No, resto qui», dice. Gli facciamo vedere il tesserino: «Sono un giornalista». Attorno, sono venuti altri ragazzi di colore. Guardano e non dicono niente. Non c’è un sorriso, occhi stanchi, facce tristi. Ahmadu mi porge una statuetta in legno, un piccolo elefante: «Questo porta fortuna. Devi metterlo rivolto verso la finestra. Porta via tutto il male dalla tua casa». Lo prendo e gli do 5 euro, prima di insistere: «Ti pago il viaggio, se vuoi. A me serve per lavoro». Strano. Non c’è nessuno che si offre al posto suo. Ascoltano come rassegnati, come se questa che scivola sotto i loro occhi non fosse altro che l’ennesima puntata del loro calvario.
Ahmadu fa spallucce, appoggiandosi al paraurti posteriore della Mito, e si passa pollice e indice sulla radice del naso. Un tipo ossuto dal viso magro e butterato sotto una capigliatura nera tagliata a spazzola. Un giovanotto di campagna, con la maglietta dell’estate color senape e una giaccavento sopra che gli deve aver regalato qualcuno assieme al sacco a pelo che tiene in mano. «Io sono un regolare», sussurra. Fa vedere anche lui un tesserino. Dice che viene solo se può portare un amico. Deve aver paura, pensa che in due potrà difendersi. Gli dico va bene. Yousuf Bamba, 27 anni, si siede dietro, dopo le presentazioni, con la valigia sulle gambe. Stanno tutt’e due zitti, come se andassero al patibolo, mentre un briciolo di sole spunta galleggiando fra le nuvole, sopra i vigneti, dopo Torretta e verso Marina di Strongoli, nella luce che viene dal mare, oltre gli uliveti. Gli chiedo di Rosarno, e loro dicono solo che «è stato terribile». Poi, una volta passata Rossano, quando si cominciano a vedere gli agrumeti, Ahmadu si mette a raccontare la sua vita da disperato, dentro a baracche di cartone e bambù, in un ex deposito diroccato, senza nemmeno un tetto, in mezzo al fango e ai topi. Dice: «A Natale c’era la carcassa di un montone, sgozzato da un macellaio maghrebino. Per quello c’era tanta puzza». Ricorda che di notte strisciava in un pertugio per andare a dormire e che al mattino venivano a sceglierli per portarli al lavoro. «Arrivavano e ci dicevano chi doveva andare. Ci davano 20 euro al giorno. Ma si lavorava 12 ore, perché si tornava dopo le 8 di sera. E poi dovevamo pagare il trasporto: due euro e mezzo all’andata e due euro e mezzo al ritorno. I viaggi erano organizzati dai padroni». Qualcuno, per risparmiare quei soldi, si faceva tutto il tragitto a piedi. Ma era una tortura, «perché arrivavano dei ragazzi con il motorino e cominciavano a zigzagare intorno, a darti dei calci, a sputarti addosso e a insultarti. Ci dicevano sporco negro, ci gridavano di far vedere l’uccello, di tirarlo fuori. Se qualcuno reagiva, dopo un po’ arrivavano in gruppo con dei bastoni. C’erano dei buoni e dei cattivi a Rosarno, come dappertutto. A Natale sono venuti in cento a portarci dei regali, a farci da mangiare. C’era chi aveva chiesto una bici per andare al lavoro. Ma anche in bici era la stessa tortura: ti si avvicinavano con una macchina, aprivano lo sportello di scatto e ti buttavano a terra. Poi restavano lì a ridere e insultarti».
Quello che è successo in questi giorni è stato solo il culmine, aggiunge Yousuf. «E’ da sempre che ci sparavano dietro». Adesso siamo sulla Salerno-Reggio, l’autostrada del nulla: anche questa è l’Italia. Fa freddo, e fra un po’ comincerà a piovere. Quando ci fermiamo per mangiare, anch’io mi sento un po’ negro. Ci guardano come dei nemici. Loro due siedono attorno al tavolino in silenzio, sgranocchiando l’ultimo cornetto come se fosse un pezzo di cartone ricoperto di zucchero. Ascoltano le mie domande, ma rispondono con dei monosillabi. Però, quando risaliamo in macchina hanno ripreso coraggio. Alla radio c’è Jovanotti e Ahmadu canta anche lui. Mi parla di Dio che è uguale per tutti, e poi della democrazia, come se fosse la stessa cosa, una religione. «State perdendo la democrazia», mi dice. Già. Devo far benzina. Da dietro una Ford che si allontana da una pompa, spunta un tappo con le gambe storte, una camicia caki ben stirata e dei jeans dalla piega a lama di coltello. Sulla sessantina scarsa, tarchiato, faccia smunta e spalle esili. Si muove in diagonale con aria curiosa. Salve. Poi guarda dentro, i volti neri, e non parla più. Il pieno, dico io. Lui fa una smorfia. Chiedo ad Ahamadu: vorresti tornare a casa? «Sì», risponde lui. «Perché ho voglia di piangere». Lo guardo, prima di riaccendere il motore. «Vorrei stringere mia madre, i miei fratelli, il mio vecchio. Vorrei solo piangere».

10.1.10

Se questi sono uomini

BARBARA SPINELLI

Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.

A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).

Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.

Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.

Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».

Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.

Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.

Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.

L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».