19.2.19

Movimento 5Stalle

martedì 19/02/2019
di Marco Travaglio (ilfattoquotidiano)

Siccome qualcuno aveva evocato il primo referendum processuale della storia, quello indetto da Ponzio Pilato fra Gesù e Barabba, possiamo tranquillamente dire che qui mancava Gesù. Ma ha rivinto Barabba. E non perché Matteo Salvini sia un bandito, anche se è (anzi ormai era) indagato per sequestro di persona aggravato di 177 migranti appena salvati dal naufragio. Ma perché, quando si chiede al “popolo” di pronunciarsi non su questioni di principio, ma su casi penali dei quali non sa nulla, la risposta che arriva di solito è sbagliata. E quella data ieri dalla maggioranza degli iscritti 5Stelle non è solo sbagliatissima: è suicida. La stessa, peraltro, che auspicavano i vertici, terrorizzati dalla reazione di Salvini, cioè dalle ripercussioni sul governo e dunque sulle proprie poltrone. Chi aveva sperato che gli iscritti dessero una lezione agli eletti, anzi ai “dipendenti” come li chiamava un tempo Grillo, facendoli rinsavire e rammentando loro i valori fondativi della legalità, dell’uguaglianza, della lotta ai privilegi di Casta, è rimasto deluso. Per salvare Salvini, i 5Stelle dannano se stessi. Nemmeno le parole sagge e oneste dei tre sindaci di punta – Appendino, Nogarin e Raggi – raccolte ieri dal Fatto sono servite a restituire la memoria alla maggioranza della “base”.

È bastato meno di un anno di governo perché il virus del berlusconismo infettasse un po’ tutto il mondo 5Stelle. E l’impietoso referto del contagio è facilmente rintracciabile nelle dichiarazioni dei senatori che già da giorni volevano a tutti i costi salvare Salvini e nei commenti sul Blog delle Stelle dei loro degni iscritti che li hanno seguiti anziché fermarli sulla strada dell’impunità. Dicono più o meno tutti la stessa cosa: siccome ora governiamo noi e la Lega, decidiamo noi chi va processato e chi no, alla faccia dei giudici politicizzati che vorrebbero giudicare le nostre scelte unanimi per rovesciare il governo. Questo, in fondo, era il messaggio in bottiglia mal nascosto nella decisione di affidare agli iscritti una scelta che avrebbero dovuto assumere, senza esitazione alcuna, il capo politico Di Maio e il suo staff. Una scelta naturale, quasi scontata, quella dell’autorizzazione a procedere, che era stata annunciata fin da subito, quando arrivò in Parlamento la richiesta del Tribunale dei ministri su Salvini: “Vuole il processo? Lo avrà”. Ma poi era stata prontamente ribaltata, peraltro senza mai essere ufficializzata, quando Salvini aveva cambiato idea intimando con un fischio ai partner di salvarlo dal processo. Riuscendo nell’impresa di spaccarli a metà.

Ergo, a decidere la linea del primo partito d’Italia, sono i capricci dell’alleato-rivale. Che ha imposto ai 5Stelle un voltafaccia pronunciato a mezza bocca, senza nessuno che se ne assumesse la paternità e la responsabilità. Un atto non dovuto, gratuito (il governo non sarebbe certo caduto sulla Diciotti) di sottomissione a Salvini: lo stesso che prende i 5Stelle a pesci in faccia sul Tav, le trivelle e prossimamente sull’acqua pubblica, straccia spudoratamente il Contratto di governo e poi pretende l’asservimento totale degli alleati senza restituire nemmeno un pizzico di lealtà. Così le storiche parole d’ordine di Beppe Grillo e la lezione di Gianroberto Casaleggio – “Ogni volta che deroghi a una regola, praticamente la cancelli” – sono finite nel dimenticatoio, con la scusa che “questa volta è diversa”, “non è come con gli altri governi”, “non ci sono di mezzo le tangenti”. Ma “solo” un sequestro di persona, che sarà mai. E tanti saluti a quei fresconi dei sindaci Raggi, Appendino e Nogarin, più volte indagati o imputati non certo per storie di vil denaro, ma per atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di governo, che mai hanno detto una parola contro i magistrati e si sono sempre difesi nei, non dai processi.

Certo, qualcuno avrebbe votato diversamente se il caso Diciotti fosse stato presentato sul blog in maniera corretta e veritiera, e non nel modo menzognero e truffaldino studiato apposta per subornare gli iscritti (il No per il Sì al processo, e viceversa; il quesito cambiato in corsa ieri mattina per blindare ancora meglio il Sì all’impunità; il sequestro di persona spacciato per un banale “ritardo nello sbarco”; l’invocazione del salvacondotto per “l’interesse dello Stato”, del tutto sconosciuto alla norma costituzionale, che consente il no al processo solo in caso di “interesse pubblico preminente” o “costituzionalmente rilevante”). Ma la perfetta identità di vedute fra la maggioranza degli eletti e il quasi 60% degli iscritti votanti è un dato di fatto da prendere in considerazione per quello che è: i vertici hanno ormai la base che si meritano, e viceversa.

Però, da ieri, il M5S non è più il movimento fondato dieci anni fa da Grillo, Casaleggio e decine di migliaia di militanti. È qualcosa di radicalmente diverso, che ancora non conosciamo appieno e di cui dunque non possiamo immaginare il destino. Ma che non promette nulla di buono, se la maggioranza emersa ieri dal blog resterà tale, scoraggiando e allontanando la pur cospicua minoranza di pentastellati rimasti coerenti e fedeli ai valori originari. Qui non è questione di presunte svolte a destra o a sinistra. E non è in ballo l’eterno giochino tra ortodossi e dissidenti, o fra dimaiani, fichiani e dibattistiani. Ma qualcosa di ben più profondo. Se il M5S perde la stella polare della legge uguale per tutti, gratta gratta gli resta ben poco, perché quello era il fondamento di tutte le altre battaglie, l’ubi consistam della sua diversità, anzi della sua alterità rispetto ai vecchi partiti. I quali non mancheranno di rinfacciarglielo a ogni occasione: “Visto? Ora siete come noi. Benvenuti nel club”. Dalle stelle alle stalle.

8.2.19

Libia, la Srebrenica del Mediterraneo E l’Occidente lo capirà troppo tardi

Un rapporto Onu documenta torture, stupri, schiavi. Come in Bosnia, preferiamo non vedere

Goffredo Buccini (Corriere)

Un ragazzo, scappato dal mattatoio somalo e passato per un lager di Kufra, l’ha spiegata con quella sintesi che si raggiunge solo attraverso il dolore : «Che tu sia un rifugiato o un migrante, in Libia sei sempre spaventato. Devi dormire con un occhio aperto. Vieni venduto da un trafficante all’altro». Poche parole da merce umana, così efficaci da finire in cima a un capitolo del dossier, il quinto, «Viaggio dall’inferno». Quel dossier tutt’altro che inedito, 61 terribili pagine redatte lo scorso dicembre, grava da un mese e mezzo sulle coscienze dell’Occidente. E, come tutte le colpe che appaiono senza redenzione, tende a essere rimosso.

Si chiama Desperate and dangerous: report on the human situation of migrants and refugees in Lybia, ed è firmato da due organismi dell’Onu: l’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) e la Missione di supporto in Libia (Unsmil). Consta di 1.300 interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018 nelle visite di 11 centri di detenzione: non tutti e certo nemmeno i peggiori. Cade due anni dopo un analogo rapporto (dicembre 2016) in cui l’Onu dava l’allarme su una situazione umanitaria totalmente fuori controllo. Ora scopriamo che in questo periodo le «autorità libiche si sono dimostrate incapaci o del tutto refrattarie a mettere fine alle violenze e agli abusi contro migranti e rifugiati».

Quelle 61 pagine contengono in sé un paradosso: perché l’Onu, svelando gli orrori libici, confessa una inanità nel contrastarli che potrebbe infine diventare vergogna, in una sorta di Srebrenica mediterranea dove massacrata non è una singola nazionalità per la sua appartenenza religiosa (allora, i bosniaci musulmani) ma un’intera categoria umana: i fuggiaschi dell’Africa.

Omicidi, fosse comuni nel deserto, stupri seriali e di gruppo su donne anche incinte o su mamme che allattano, bambini massacrati davanti ai genitori, ragazzi seviziati a morte in collegamento video coi parenti che devono pagarne la liberazione, schiavismo, lavori forzati, celle da centinaia di posti senza una latrina, denutrizione, bruciature con ferri roventi, cavi elettrici ai genitali, unghie strappate. Il paragone con Srebrenica non appare poi forzato. Si muore di fame e di setticemia. Si resta in detenzione senza motivo e all’infinito: una legge coniata da Gheddafi fa considerare schiavi i migranti illegali, i governanti fantoccio di adesso non l’hanno mai cambiata.

Cosa più importante, l’Onu ha «credibili informazioni» sulla complicità di «ufficiali dello Stato… gruppi formalmente integrati nelle istituzioni, rappresentanti del ministero degli Interni e della Difesa, nel traffico di migranti e rifugiati. Questi personaggi dello Stato si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e le estorsioni a danno di rifugiati e migranti».

Cade il velo sulla menzogna della Libia come «porto sicuro» dove plausibilmente ricondurre i migranti respinti in mare. Unhcr e Unsmil hanno registrato 53.285 richiedenti asilo fermi in Libia quattro mesi fa, ma sostengono che il numero sia enormemente più alto data l’estrema difficoltà per le Nazioni Unite ad assolvere sul posto al proprio mandato. A gennaio il segretario generale Antonio Guterres ha inviato al Consiglio di sicurezza una relazione di 15 pagine (acquisita dalla Corte penale internazionale dell’Aja) in cui spiega che lì i migranti sono quasi 700 mila (10% donne, 9% bambini) ma in mano alle «autorità» è solo una minoranza, di tutti gli altri non si sa quasi nulla, sono in centri di detenzione inaccessibili, gestiti da gruppi armati.

Nel rapporto Unhcr-Unsmil si sostiene anche che «nonostante la diminuzione degli arrivi in Italia nel 2018, il viaggio è diventato più pericoloso, con oltre 1.200 migranti morti nei primi otto mesi dell’anno scorso durante la traversata». La guardia costiera libica (che ha preso il controllo di 94 miglia nautiche di Sars) è descritta come una compagnia di pirati in base a decine di testimonianze che parlano di uso delle armi, collisioni in mare coi boat people, vere aggressioni.

Sulla terraferma, Bani Whalid, Sabha, Kufra, Buraq al Shati, Shwerif, Sabratah non sono, secondo l’Onu, centri di raccolta ma sostanzialmente campi di sterminio gestiti da kapò di cui si conoscono persino i nomi e i nomignoli, famigerati tra le loro vittime: Moussa e Mahmoud Diab, Mohamed Karongo, Gateau, Mohamed Whiskey, Rambu… Le aste degli schiavi furono documentate dalla Cnn in uno sconvolgente servizio nel novembre 2017. Le prigioni «alternative» sono hangar o cantine da 700 o 800 anime stese le une sulle altre, donne e uomini in totale promiscuità: niente acqua né luce. «A Shwerif ti sparano in una gamba e ti lasciano dissanguare se non paghi… Per spingerci a pagare hanno picchiato mio figlio di 5 anni con una spranga sulla testa», narra un profugo del Darfur. I miliziani camminano sul ventre di donne incinte. Una tra mille racconta: «Vengo dall’Eritrea, sono entrata il Libia a gennaio 2017, sono stata rapita tre volte e portata ad Al Shatti, Bani Walid e al-Khoms. Lì eravamo 200 in una stanza. Non potevamo respirare né allungare le gambe. Ogni notte sono stata violentata da almeno sei uomini, alcuni libici, altri africani, per cinque mesi. Mia madre ha dovuto vendere la casa e impegnare tutto per pagare i 5.000 dollari che questi volevano. Ora sono incinta di uno degli stupratori».

Nulla di tutto ciò è, in assoluto, una rivelazione. Anche se il catalogo degli orrori è così vasto da stordirci. A questi orrori dobbiamo l’enorme (per quanto provvisorio) beneficio di non avere sulle nostre coste, in qualche settimana, fiumi di disperati detenuti lì senza ragione e senza scadenza. Ma certi benefici possono dannare. Se l’Onu non è una di fabbrica di fake news (e ci sarà chi lo afferma, ne siamo sicuri) la Libia è uno stato canaglia o, meglio, una federazione di bande criminali. Certo, la realpolitik ci consiglia di voltarci altrove o, addirittura, di spalleggiare una delle bande in lotta. Ma i fantasmi di Bosnia hanno accompagnato la mala coscienza dell’Occidente per due decenni. Davvero dobbiamo considerare la Libia come un buco nero, come suggeriscono pragmatici strateghi? E quanto a lungo ci potrà proteggere la realpolitik? Al posto di guardia Onu di Srebrenica, un graffitaro cambiò la scritta «United Nations» in «United Nothing». Se la storia insegna qualcosa, è che chi non combatte gli assassini, alla fine, ne è complice.