28.11.12

La scuola è giusta? Paese al top

Cristina Taglietti (Corriere)

In Finlandia e Corea sistemi d'insegnamento opposti ma vincenti

I modelli sono Finlandia e Corea del Sud: sono queste le superpotenze dell'istruzione, come emerge da una corposa ricerca sui sistemi educativi di 50 Paesi, realizzata dall'Economist Intelligence Unit per la multinazionale dell'educazione Pearson. Lo studio viene presentato oggi a Londra e ha come obiettivo principale supportare politici, dirigenti scolastici e ricercatori universitari nell'individuare i fattori chiave di miglioramento della scuola.
L'idea è che, per quanto sia difficile da quantificare, c'è un collegamento evidente tra le conoscenze e le competenze con cui i giovani entrano nel modo del lavoro e la competitività economica di un Paese a lungo termine. Lo studio ha prodotto un database pubblico e open-source (da oggi consultabile al link http://thelearningcurve.pearson.com) che raccoglie oltre 60 indici comparativi da 50 Paesi: dati come spesa pubblica nell'istruzione, salari dei docenti, tasso di alfabetizzazione, raggiungimento del diploma e della laurea, tasso di disoccupazione, Pil e via dicendo.

La classifica, che vede l'Italia al ventiquattresimo posto, propone un nuovo parametro di valutazione, l'«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello di istruzione», basato su test internazionali (quello dell'Ocs-Pisa, le valutazioni Timms e Pirls), ma anche dati nazionali sulla media di conseguimento di diploma e laurea. Hong Kong, Giappone e Singapore sono nelle posizioni più alte, mentre negli ultimi posti si trovano Messico, Brasile e Indonesia, pur essendo, queste ultime, economie in veloce via di sviluppo. I due Paesi al vertice della classifica, Finlandia e Corea del Sud, propongono due sistemi educativi completamente diversi: mentre quello coreano è rigido, basato su verifiche, test, apprendimento mnemonico e obbliga gli studenti a investire molto tempo nella loro istruzione (oltre il 60 per cento dopo la scuola segue lezioni private), quello finlandese è molto più duttile e soft: le ore di scuola sono inferiori rispetto a molti altri Paesi (in Italia il tempo passato sui banchi è superiore di tre anni), non vengono assegnati compiti a casa, viene privilegiata la creatività sull'apprendimento mnemonico.
Ciò che accomuna i due Paesi è l'importanza attribuita all'insegnamento. La ricerca evidenzia che entrambi danno grande importanza all'arruolamento e all'aggiornamento della classe docente (Finlandia e Corea del Sud scelgono gli insegnanti tra i migliori laureati). Entrambi fanno leva sul senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e sono caratterizzati da un'idea morale diffusa nella società che motiva docenti e studenti (in entrambe le società il rispetto per l'insegnante è considerato fondamentale).
D'altro canto l'importanza dell'insegnamento è l'indicazione principale che emerge dalla ricerca e si basa soprattutto sul riconoscimento del ruolo sociale, mentre il salario degli insegnanti sembra avere scarsa rilevanza sui successi scolastici e pochi collegamenti con lo sviluppo della capacità cognitive misurate secondo i test internazionali. Uno studio su due milioni e mezzo di americani ha stabilito che gli studenti che hanno avuto insegnanti migliori hanno più probabilità di frequentare college prestigiosi, guadagnano di più, vivono in quartieri di migliore status economico-sociale, risparmiano di più per la pensione e, addirittura, hanno meno probabilità di avere gravidanze adolescenziali.
Da un punto di vista generale, dice la ricerca, l'investimento economico sull'istruzione sembra sì importante nel raggiungimento di risultati positivi, ma ancora più importante è una cultura di supporto all'educazione. Non è un caso che, negli Stati Uniti, a seconda della cultura d'origine, ci sono forti differenze, per cui è statisticamente provato che studenti provenienti da famiglie di Hong Kong o Singapore fanno meglio di studenti che vengono dall'America latina o da Haiti. La questione dell'istruzione appropriata in vista di una futura crescita economica, in grado di offrire agli studenti gli strumenti per affrontare un futuro incerto sono il cuore di alcune riforme scolastiche sopratutto in Asia. Il fatto di anticipare, nella formazione, quelli che saranno i lavori di domani, ha fatto sì che il sistema educativo di Singapore, per esempio, fin dal 1997, sia passato da una forma di apprendimento tradizionale, con grande attenzione allo studio mnemonico, a una formazione che si basa su matematica, scienza e cultura generale combinata con l'apprendimento di come applicare le informazioni che si acquisiscono. I sistemi scolastici di alcuni dei Paesi che si collocano più in alto nella classifica si basano su un'enfasi maggiore sullo sviluppo di «creatività, personalità e collaborazione».
Dallo studio emerge che insegnare a lavorare in squadra, a interagire ed empatizzare con gli altri è la sfida della scuola di domani, tanto che un gruppo di lavoro che include i ministeri dell'Educazione di alcuni Stati stanno cercando di elaborare un metro di valutazione per queste abilità, che verrà introdotto nel programma di valutazione internazionale Pisa del 2015.

26.11.12

Un anno dopo, Monti e a capo

Rossana Rossanda  (da sbilanciamoci.info)

È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes.
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”, Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è aumento, crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika, cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes, senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e diritti. Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di lavoro (la Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era ovvio). Sarebbe stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente in feeling con la Confindustria. Il grimaldello per dare una botta decisiva al salariato, che si cercava di imporre già dagli anni ottanta del secolo scorso è stata la nostra competitività sui mercati, troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro (una volta si diceva lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per via dei salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno prospere, come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre fantasie a parte, sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra lavoratori e padroni venisse riportata per legge soltanto su scala aziendale, senza pari trattamento tra chi vende meno e chi vende di più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la Cina, sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di essere competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a migliore qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è il caso della Germania. Monti non segue la strada della sua amica Merkel e di qualcuno che la ha preceduta (perfino abbassando l’orario di lavoro), per cui oggi anche una povera diavola come me compra più volentieri una lavapanni tedesca, e non parliamo di merci di più elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo ripetesse Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di fatto che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio – perfino i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro ex rettore in casa sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è sconfessata una settimana dopo l’altra.
Nel suo Dna sta un gene padronale. Il governo tecnico ammette una sola variante politica: non toccare gli abbienti, non tassare la rendita, non infastidire troppo la finanza, se no queste “parti sociali” se ne vanno verso altri lidi. Negli Stati Uniti perderebbero anche la cittadinanza, in Europa no. Vien da pensare che hanno ragione coloro che ci ammoniscono, badate che ormai l’economia è diventata più forte della politica. È lei che ha vinto, e ogni giorno azzanna qualche lembo di potere che pareva ancora del dominio politico, in soldi e diritti. È cosi? Non credo. I poteri che sono passati alla proprietà non sono stati strappati a mano armata ai governi; questi – finora espressione della politica – glieli hanno consegnati. E non sempre e solo i governi di destra; quando Cofferati trascinava con sé qualche milione di italiani al Circo Massimo il governo era di Berlusconi, ma quando Rifondazione ha fatto cadere un Prodi che stava andando in questa direzione, tutta l’Italia l’ha coperta di obbrobrio. Ma veniamo ad oggi: la famosa competitività sta spingendo sulla stessa strada anche il socialista Hollande, che non vi è ancora approdato come noi, ma su cui preme la tesi che, se si vuol fare soldi sui mercati, conviene abbassare il costo del lavoro, invece che migliorare, innovandolo, il prodotto. Del resto l’Europa monetaria e l’Organizzazione mondiale del commercio pretendono che gli stati possano legiferare sul costo diretto e indiretto del lavoro (su cui si pagano istruzione e sanità) ma non abbiano diritto di intervenire sugli investimenti. Se no dove va a finire la libertà d’impresa? La libertà dell’operaio o del salariato, come è noto, non è un problema.
E poi, che cosa è l’”economia”? Che ha a che vedere con la tecnica? Sempre di questi giorni è successo che la Francia ha perduto una delle sue tre A nel giudizio di quegli organismi tecnici e oggettivi che sarebbero le agenzie di rating, nel caso Moody’s. Ma quel che è successo ad altri paesi così severamente sanzionati – borse in convulsione, cadute, tassi sui prestiti alle stelle – non è successo affatto: le borse non hanno battuto ciglio e il costo del denaro, invece che salire di due cifre, è aumentato di due decimi di punto. Non dovevano essere penalizzati dalla mano invisibile del mercato? Com’è che la Francia e il suo governo, assai poco amato, se la sono cavata così a buon prezzo? È successo che la Germania finisce per trovarsi, con le sue tre A, sola fra le già grandi potenze fondatrici dell’Europa, in compagnia di Finlandia, Danimarca e simili. Strana Europa: Italia, Francia, Spagna disastrate assieme a Portogallo e Grecia, sana fra i fondatori solo la Germania, fulgida fra un mucchio di pezzenti. Immediato passo indietro, le A intere restano, ma nulla ne consegue. Meglio tenere per una manica la Francia fra i debitori di cui ci si fida, mollarle i soldi a un tasso più basso di tutta l’Europa del sud, una considerazione del tutto politica. La gretta Moody’s ha preso sul serio che la politica non conta, mentre l’economia è il respiro della società, libero o soffocato. Sono i governi a deciderlo; è sul territorio della politica, che ogni tanto – come da trent’anni a questa parte – perde la bussola.
In capo a due mesi, votata una finanziaria sicuramente montiana, il nostro presidente della repubblica scioglierà le camere, mandandoci alle elezioni che, come è noto, di tecnico e oggettivo non hanno niente, ridanno voce ai partiti e premono il pedale delle emozioni. La famosa ideologia riprende posto e si vedrà che cosa ha maturato nell’anno in cui è stata sotto la tutela del professore. Potrebbe, per esempio, ribaltare quell’occhio di riguardo che aveva per i più abbienti, e spostarlo verso i lavoratori, pensionati, precari, disoccupati; potrebbe essere questo il discorso della sinistra. Ma è verosimile? Il bifido Pd ha nelle sue tre anime due culture assolutamente montiane (o peggio) e una, quella bersaniana, di un montismo appena emendato. Una passione travolgente lo spinge verso il premier, che non vedrebbe male – ma come confessarlo? – mantenere il suo mandato o ancora meglio, dato che scade anche il presidente della repubblica, andare al posto di Giorgio Napolitano. Che cosa speri di ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro. A sinistra del Pd si affollano sigle e candidati, impegnati a strappare uno strapuntino di minoranza, cosa del tutto legittima se dal medesimo riuscissero ad esprimere un programma, che non abbia da pretendersi ipocritamente oggettivo e super partes, e abbia il coraggio di dire da che parte sta. Per ora non vedo.
Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato, abbiamo detto che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta alla finanza, unifichi il suo disorientato fisco, investa sulla crescita selettiva ed ecologica, non solo difenda ma riprenda i diritti del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?

17.11.12

Guida a sinistra. Ora e sempre uguaglianza

Il filosofo americano spiega, in un nuovo saggio-conversazione, quale sia l’obiettivo politico per i progressisti di oggi

di Michael Walzer (La Repubblica)

Se la mia vita e il mio lavoro sono stati segnati da una passione politica, questa è l’egualitarismo: una profonda avversione a qualsiasi forma di gerarchia, all’arroganza che quest’ultima alimenta in chi sta al potere e alla deferenza e all’umiltà che incute in quanti occupano gli ultimi posti. Sono insofferente verso le pretese elitarie ovunque si manifestino, nelle organizzazioni di sinistra come nel mondo accademico. È difficile conservare la stessa passione per oltre cinquant’anni, specialmente se è una passione monogama (nel mio caso, la fedeltà alla sinistra).
La disuguaglianza è una caratteristica essenziale delle società capitaliste? Sì. Ma a ben vedere è stata prodotta da molti sistemi politici ed economici diversi, non solo dal capitalismo. La società feudale era gerarchica, e così pure quella romana, quella dell’antica Grecia e quella cinese. Si tratta di un modello ricorrente che assume forme diverse in tempi e luoghi diversi; una sorta di struttura gerarchica di base, tuttavia, è stata prodotta più e più volte nel corso della storia dell’uomo. Tanto che si è portati a pensare che il desiderio di differenziarsi, di raggiungere un certo status sociale, di essere migliori, più ricchi e politicamente più influenti dei propri vicini sia profondamente radicato nella natura umana. Robert Michels avanzò una teoria di questo tipo, sostenendo – sulla base dei suoi studi sulle organizzazioni socialiste – che vi sia una tendenza costante a creare forme di autorità e gerarchia persino all’interno di un sindacato o di un partito socialista. Non ho una teoria completa sulla natura umana, ma sono convinto che vi sia una sorta di desiderio ricorrente di differenziazione: per questo la difesa dell’uguaglianza è l’eterna missione della sinistra. Non è una battaglia; è una guerra infinita contro la disuguaglianza, la gerarchia, l’arroganza e le pretese elitarie. Le nostre organizzazioni non sono immuni da tutto ciò, per cui la lotta è al tempo stesso locale e globale; dobbiamo combattere nel nostro stesso campo, ma anche contro altre forze politiche. È importante riflettere sulla natura di questa guerra. In un certo senso, è quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi a una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di una cittadina polacca incarica un tizio di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo vedrà arrivare, possa dire a tutti gli ebrei di prepararsi. Qualcuno chiede all’uomo: «E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?». Al che lui risponde: «Sì, è un lavoro. Il compenso non è un granché, ma è un lavoro stabile». Anche l’egualitarismo è un “lavoro stabile” e poco remunerativo. Al tempo stesso, ciò che ne garantisce di tanto in tanto la buona riuscita è una certa forma di instabilità. La lotta contro la disuguaglianza, le gerarchie e l’autoritarismo richiede momenti di insurrezione e mobilitazione popolare: basti pensare al movimento sindacale americano negli anni Trenta del secolo scorso, alle campagne per i diritti civili negli anni Sessanta o alle battaglie femministe nei Settanta. Momenti in cui particolari forme di gerarchia sono state sfidate da una sorta di esplosione di rabbia e ostilità; non mi riferisco necessariamente a un evento rivoluzionario, ma a un periodo di intensa attività politica. Ai miei occhi, la lotta per l’uguaglianza è un “lavoro stabile” inframmezzato da quei momenti di insurrezione, e non credo che assisteremo a cambiamenti in tal senso. Non esiste un traguardo utopico raggiunto il quale l’uguaglianza potrà regnare incontrastata per il resto della storia dell’uomo. Non è così che funziona. (…) Nel XIX secolo, lo Stato-nazione garantiva uno spazio di contestazione politica e la socialdemocrazia era una forza politica attiva in molti Paesi. Dov’è tale spazio nella società globale? Deve esserci, così come deve esserci un modo per sviluppare una socialdemocrazia internazionale in grado di contrastare il capitalismo globale, proprio come la socialdemocrazia del XIX e del XX secolo mise in discussione il capitalismo nazionale; ma non l’abbiamo ancora trovato. L’anti-globalizzazione è molto simile all’anti-industrializzazione del XIX secolo. Non credo che sia la giusta soluzione. La globalizzazione racchiude una grande promessa, ma comporta anche molti rischi. Per ora, si direbbe che il suo effetto a breve termine sia stato un aumento delle disuguaglianze sociali a livello internazionale. Ma la globalizzazione potrebbe anche favorire una maggiore uguaglianza, se l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale adotteranno politiche socialdemocratiche anziché neoliberali.
Quale forma dovrebbe assumere una socialdemocrazia globale? Purtroppo non esiste nulla di simile, neppure lontanamente, a uno Stato mondiale o a un governo politico globale. Il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite sono assolutamente inefficaci, e questo è una parte del problema.
Quel che vediamo, però, è che lo Stato-nazione garantisce ancora, almeno in parte, la possibilità di adottare misure a tutela della propria comunità. Uno Stato giusto ed efficiente è molto utile. Ma occorre anche riflettere, per esempio, su come il diritto del lavoro internazionale abbia facilitato l’organizzazione di sindacati in Paesi come la Cina comunista. I sindacati indipendenti possono essere un fattore di uguaglianza nella misura in cui favoriscono un aumento dei salari e un miglioramento dei servizi sociali a beneficio dei lavoratori cinesi, oltre che lo sviluppo del mercato interno, riducendo il divario con i loro colleghi del Messico, dell’Indonesia o addirittura del Bangladesh. Così chi oggi cerca idee per la sinistra anche di questo, dei diritti globali dei lavoratori, non può non tenere conto.

13.11.12

Alle sbarre Dirceu, braccio destro di Lula

Condannato a 11 anni l'uomo forte  del primo governo di sinistra della storia in Brasile

  (Corriere)

RIO DE JANEIRO - E' stato l'uomo forte del primo governo di sinistra della storia in Brasile, il braccio destro di Lula, il compagno di una vita dell'ex operaio poi diventato un leader mondiale. José Dirceu, 66 anni, primo ministro tra il 2003 e il 2005, è stato condannato lunedì a quasi 11 anni di prigione per lo scandalo di compravendita di voti parlamentari che quasi travolse Lula. La condanna è assai dura e probabilmente Dirceu trascorrerà almeno una parte della pena in un carcere comune, a partire dal prossimo anno. Sentenza esemplare, e non solo per un Paese sudamericano a lungo considerato sinonimo di impunità nella politica.
L'OPPOSITORE - Dirceu è stato un giovane oppositore negli anni della dittatura militare, militanza pagata con il carcere e l'esilio. Ha fondato poi il Pt (Partito dei Lavoratori) insieme a Lula. Ma la Corte Suprema brasiliana non ha avuto riguardi: la sentenza parla di corruzione attiva e associazione a delinquere, e senza attenuanti per evitare il carcere. La vicenda risale agli anni del primo governo Lula, quando Dirceu era il ministro della Casa Civil, coordinatore dell'esecutivo, il “capitano della mia squadra”, lo definiva il presidente. Poiché il partito di Lula non aveva la maggioranza in Parlamento, a Dirceu spettava il compito di tenere i rapporti con i riottosi parlamentari della maggioranza per far approvare leggi e decreti.
IL DENARO - Anche con modi spiccioli, come foraggiarli di denaro per uso personale e per le rispettive campagne elettorali. Lo scandalo esplose all'epoca, e si venne a sapere che il Pt aveva messo in piedi un colossale riciclo di denaro che proveniva da banche e imprese pubbliche verso i parlamentari “amici”. Lo scandalo venne denominato “mensalão” perchè ai deputati veniva corrisposto un “regalo” mensile, e Lula riuscì a non esserne coinvolto solo perché tutti i coinvolti dichiararono che non ne sapeva nulla. La sentenza è giunta soltanto oggi per le lungaggini del sistema giudiziario brasiliano.
LA CONDANNA - Dure condanne, oltre per Dirceu, sono arrivate per José Genoino, all'epoca segretario del Pt e per il tesoriere Delubio Soares. José Dirceu, considerato una delle mente politiche più raffinate del Brasile, fu leader studentesco negli anni Sessanta ed entrò in clandestinità con la repressione militare. Arrestato, venne rilasciato quando i militari cedettero allo scambio chiesto da guerriglieri che avevano sequestrato l'ambasciatore Usa Charles Elbrick. Dirceu fu tra i 15 prigionieri politici rilasciati e si trasferì a Cuba. Dall'isola, tornò clandestinamente in Brasile dopo una plastica facciale, e visse con nome falso fino alla fine degli anni Settanta, quando giunse l'amnistia politica. Persino la moglie ignorava la sua vera identità. Poi la fondazione del Pt e la lunga marcia per portare Lula alla presidenza della Repubblica, avvenuta nel 2002 dopo tre tentativi. Vittima infine della sua stessa spregiudicatezza e dell'enorme potere che si ritrovò tra le mani dopo una vita passata ad inseguirlo con ogni mezzo.

4.11.12

L'alternativa Grillo, catastrofe annunciata

di EUGENIO SCALFARI

Beppe Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale.

La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo "Servizio Pubblico" trasmettendo l'attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell'antipolitica dopo due ore di nuoto. Il "Servizio Pubblico" ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce ("cazzo", "coglioni" e "vaffa" punteggiavano quasi ogni frase).

L'ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative. Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell'ordine.

Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.

Conclusione: Beppe Grillo gode d'una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l'ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché "cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri". Monti "è un rompicoglioni che affama il popolo". E "Napolitano gli tiene bordone". Sul suo "blog" uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell'Economia Beppe in persona, De Magistris all'Interno, Ingroia alla Giustizia, Saviano all'Istruzione. Quest'ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c'è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare. Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda: perché lo fanno?

* * *
La risposta l'ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d'Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato "Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò" racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell'articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista.

Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l'obiettivo desiderato da Flores, il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D'Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo... insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d'azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.

* * *
Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido "in bocca al lupo" per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati. Sulla sua credibilità l'attuale classe dirigente è interamente d'accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale. Faccio in proposito le seguenti riflessioni.

1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità dell'Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d'interesse.

2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall'Europa ma l'eventuale default dell'Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell'intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d'una guerra perduta.

3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l'Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l'economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.

Ce n'è abbastanza per concludere: in gioco non c'è Monti ma l'Italia. Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l'equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.

Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i liberal.

Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933. Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France. Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità. L'alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale. La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta.