11.12.07

Nichi Vendola agli Stati generali della Sinistra Arcobaleno di Roma

“E’ come se d’improvviso avvertissimo un sentimento oscuro di spaesamento, di smarrimento dei nostri punti cardinali, di perdita del peso specifico dei nostri alfabeti, di esodo dagli universi simbolici della nostra vita. E’ come se i nostri pensieri e il nostro fare abitassero sul ciglio di un crepaccio, dentro una frattura del senso delle cose, dentro uno smottamento in cui si schianta tutto lo spazio che abbiamo attraversato e in cui muore tutto il tempo – il tempo sociale, il tempo politico – che ha scandito le nostre storie. Vedevamo il futuro illuminato da una idea, da un sole, da una volontà corale. Oggi vediamo il presente illuminato da tanti roghi in cui bruciano le cose materiali e le cose simboliche: bruciano i nostri boschi insieme alla idea-chiave dei beni comuni e dell’interesse generale; brucia nella sua roulotte un bimbo rom e insieme a lui s’incenerisce una soglia della nostra civiltà e persino un ancestrale sentimento di pietà; brucia la carne giovane del nuovo proletariato della fabbrica planetaria e insieme brucia tutta una storia della coscienza operaia, tutto un mondo del lavoro che aveva, nel corso dell’intero novecento, guadagnato la sua trama di significato sociale, la sua rete di dignità e di diritto.
Ciascuno di questi roghi ha il potere di rivelare il vuoto della politica che si è barricata nel talk-show, la crisi di una discussione pubblica che si trascina stancamente in forma di guerra civile simulata, la perdita di autorevolezza di una sfera politico-istituzionale che appare una replica dell’isola dei famosi. Mentre fuori dalla politica, la società appare come certe spiagge quando c’è la bassa marea: con la battigia sporca di detriti, plastiche e alghe rinsecchite. Se togliamo l’audio al grande blob quotidiano sulla crisi di governo che appare e scompare come una lucina intermittente, sentiamo la voce degli esperti di banalità che danza sulla psiche dei nostri vicini-modello che hanno appena seviziato e straziato la vita di qualcuno, mentre il modello di padre e fratello e figlio perpetua il genio maschile della vitalistica onnipotenza dello stupro, mentre qualcuno dei nostri ragazzini videoregistra, col suo cellulare, un coetaneo che si toglie la vita. Eccoci qua. Sepolta senza elaborazione del lutto e senza rito funebre l’ideologia della speranza, avanza l’ideologia del tubo digerente, del consumo mordi e fuggi, dell’epica del mio ombelico. Sepolti, con una certa furia iconoclasta, i partiti di massa della democrazia novecentesca, avanzano i partiti di cassa organizzati tra le viscere della cronaca nera e l’apologia della televendita. E in questa post-modernità in cui domina la materia e il feticcio della merce, in cui i poteri si concentrano sempre più nello spazio trascendente del mercato mondiale, in cui la vita e la morte diventano accidenti fenomenici della biologia, cosa volete che sia la politica? Un frammento di casta, in un universo di frammenti e di poltiglia, di corporazioni e di lobbies e di residui solidi urbani.
C’è davvero una frattura multipla che racconta i perché del nostro perderci e anche delle nostre perdizioni. Frattura nella condizione di lavoro, appunto: cioè cesura tra il lavoratore e la sua condizione, solitudine tipica del suo contratto atipico, esternalizzazione della sua storia produttiva rispetto a qualunque codice della cittadinanza, precarietà come destino e come identità, il prestatore di braccia e di cervello a un ciclo economico che non intende più assumerlo come un interlocutore sociale ma come un ingrediente meccanico, o al massimo come solitaria risorsa umana o materiale rotabile, rottamabile, magari infiammabile. Del Welfare è questo il nuovo protocollo che non si può accettare: l’espulsione del lavoro dalla terra del diritto sociale e la sua regressione nella palude esistenziale della precarietà. E questo che oggi uccide, uccide metaforicamente quando ti toglie il senso delle cose, e ti uccide letteralmente, ogni giorno, quattro volte al giorno: una orribile morte proletaria che certo fa meno audience dei delitti di provincia consumati tra la noia adolescenziale e la paranoia televisiva.
C’è la frattura nella condizione del vivere urbano, in quella feroce distanza tra il lunapark del centro e l’inferno della periferia, in quella tracimazione del cemento che, alleando rendita fondiaria e speculazione edilizia, immaginò la crescita ipertrofica di città senza comunità, di luoghi senza qualità, di corpi edilizi incontinenti per corpi individuali spezzati e incomunicanti. E la periferia è diventata tutt’altro che un mondo residuale, ma la grammatica generale del vivere associato, anzi del vivere dissociato, il plastico urbano dell’ideologia totalitaria della precarietà.
C’è la frattura nella condizione della famiglia, disarticolata per fasce generazionali, con la fine della coabitazione delle tre generazioni che non mescolano più i loro saperi e le loro esperienze, con gli anziani esternalizzati in luoghi specializzati, gli adulti intenti sulle proprie carriere, l’infanzia affidata all’agenzia educativa del grande fratello o delle piccole chat.
In questa geografia dei nostri territori polverizzati e caotici, in questa antropologia orfana di polis e quindi disperatamente estranea alla politica, c’è un bisogno vitale, direi viscerale, di tornare a porci le domande giuste. Non le risposte giuste, quelle in cui ognuno diventa geloso della propria nostalgia e si presenta come il custode fallimentare della propria identità e della propria bandiera. Le domande giuste. Quelle sui poteri che ergono barriere architettoniche e sociali e culturali per dividere, per separare il genere umano, per dare nevrotiche appartenenze nei recinti angusti del proprio villaggio o della propria tribù o del proprio alfabeto. La precarietà e la nevrosi della sicurezza sono gli ingredienti decisivi dell’egemonia culturale della destra, e cioè del berlusconismo che trascende gli schieramenti politici e diviene lo spirito dei tempi: che celebre la religione della competitività e la liturgia della flessibilità; che è garantista con chi è garantito e giustizialista con chi è già stato giustiziato dal tribunale della globalizzazione; che mistifica le parole fino al punto di immaginare la pace economica in termini di guerra infinita; che vuole indurci nella tentazione della violenza affinché ogni idea di cambiamento (la rivoluzione) possa smarrire e mistificare se stessa.
E’ una società della paura, in cui l’ordine costituito delle corporation divora ogni ordine democratico e lo riduce a fiction televisiva.
Qui serve il coraggio di una nuova nascita. Non la sapienza di chi mette insieme tante piccole cose antiche. Serve che ciascuno e ciascuna lavori per questo cimento del futuro: un parto, un partire, non so se un partito.
Una costituente, non l’equilibrio precario di corpi costituiti. Un soggetto che sappia leggere nel cuore della nostra società, sappia sondarne i fondali melmosi, sappia coglierne il dolore sociale e le domande di senso. Una sinistra che non sia un riassunto, un bignami di ciò che fummo, ma una casa capace di ospitare quelle domande di libertà che chiedono di rompere la gabbia di tutte le precarietà e di tutte le solitudini socialmente programmate. Certo è doloroso uscire da se stessi, si ha paura di dissipare sentimenti e patrimoni messi assieme con tanti sacrifici. Ma è necessario farlo. C’è un verso di Pisolini che mi pare particolarmente adatto a indicare questa nostra condizione sentimentale e politica; dice così “Piange ciò che muta, anche per farsi migliore”. Appunto, compagni e compagne, è il dolore di un parto ma anche la curiosità e l’allegria di una nuova partenza”.
regione.puglia.it

3.12.07

Ma io mi tengo Voltaire

di Mino Fuccillo
Papa Ratzinger ha scritto che il tempo è venuto, il tempo della rivincita. Attesa da quasi tre secoli, rivincita sull'Illuminismo. E che sarà mai questo Illuminismo? Fu la fine delle monarchie per diritto divino e l'inizio dei governi legittimati dalla volontà popolare. La fine della scienza che doveva abiurare se vedeva nel cannocchiale la terra che girava intorno al sole. Fu l'inizio degli uomini tutti uguali davanti alla legge. Fu «libertà, eguaglianza e fraternità».
Fu il suffragio universale, fu il diritto di amare e procrare secondo individuale sentimento e non per precetto canonico. Fu detta l'epoca del «lumi» perché la ragione doveva guidare l'agire, nesso che oggi l'enciclica giudica sbagliato e pericoloso.
In Turchia vietano i libri di chi non crede in Maometto. In Sudan quindici giorni di galera, ma potevano essere sessanta con contorno di 40 frustate, per chi ha chiamato Maometto un orsetto. Lì l'Illuminismo non c'è, non c'è mai stato. Da noi un parroco giudica sacrilego uno spot dove gli angeli volano più in alto perchè bevono Red Bull e lo spot non va più in onda. Qui l'Illuminismo c'è stato, c'è, ma non gode di buona salute. Ci sarà ancora domani?

La Provincia Pavese sabato 1 novembre 07

18.11.07

Esistenze informi tradotte in geometrie romanzesche

Quando è la scrittura stessa di un'opera letteraria a sollecitare l'indagine sulla biografia dell'autore, la critica sembra riattualizzare la lezione della antropologia settecentesca, che per la prima volta stabilì un nesso tra due domande antiche: «che cos'è l'uomo?» e «che uomo sono io?» Le strategie della finzione osservate dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista indagata dalla prospettiva che fornisce l'opera
Roberto Gilodi

Che cos'è l'uomo? Che uomo sono io? Sono le due domande centrali dell'antropologia del Settecento. Singolarmente prese non sono domande nuove, ma hanno segnato storicamente lo spartiacque che separa due concezioni radicalmente differenti: alla prima domanda si sono applicate la metafisica e le filosofie sistematiche; alla seconda hanno dato risposte - talora incerte, in altri casi prevedibili - un variegato insieme di scritture, mosse da un bisogno o di natura religiosa, di sincerarsi di se stessi in relazione a Dio, oppure di perpetuarsi nella memoria dei posteri, attraverso i codici retorici dell'esemplarità, collaudati da una lunga tradizione di matrice classica o anch'essa religiosa.
Un fatto è certo: le due domande hanno seguito fin dall'antichità percorsi diversi, le risposte che di volta in volta sono state date non si sono quasi mai incontrate, la vita del singolo uomo aveva rilevanza solo a condizione di funzionare da exemplum per dimostrare le tesi che riguardavano la definizione dell'uomo all'interno delle partiture generali dei sistemi filosofici.
Al centro i dati biografici
Il cammino intrapreso dall'antropologia filosofica del Settecento, che si qualificò come nuova disciplina dell'uomo in relazione oppositiva alle metafisiche tradizionali, stabilì per la prima volta una connessione significativa tra le due domande: solo se scopro esattamente che uomo sono io, posso forse azzardare una risposta alla prima domanda: che cos'è l'uomo? Il momento centrale di questo rovesciamento di prospettiva è quello che il filosofo tedesco Odo Marquardt, con un prestito husserliano, ha chiamato la «Zuwendung zur Lebenswelt», ossia l'esplorazione della vita concretamente vissuta, la vita quindi del singolo individuo. Come tale essa si confronta con «l'uomo nella sua totalità», vale a dire come un insieme dotato di «corpo e anima».
Quanto questa nuova gnoseologia della soggettività individuale abbia avuto effetti sulla scrittura letteraria della modernità, in particolar modo sulla letteratura dell'Ottocento e, contestualmente, sulla critica letteraria, lo dimostra un saggio dello studioso Wolfgang Matz, titolato 1857... Flaubert, Baudelaire, Stifter, recentemente uscito in Germania da Fischer Verlag. Provocatoriamente minimalista nel titolo - quasi da voce di enciclopedia - il saggio rivela un'ambizione che può apparire a tutta prima anacronistica: fornire della modernità letteraria l'immagine di un processo graduale, in cui l'autocoscienza del fare artistico è intrecciata strettamente con le trasformazioni, che un tempo si chiamavano «storico-oggettive». Enunciato così, il progetto del libro corre tuttavia il rischio di dare un'impressione di deja vu, di ripresa di schemi interpretativi che non hanno retto al disincanto storiografico, portato con sé dalla fine delle ideologie.
La vita si fa stile
La novità del libro di Matz sta invece nella tessitura di un discorso critico, che pone al centro il dato biografico-esistenziale, la vita dell'autore e la sua trama di relazioni sociali, ma le osserva dalla specola delle sue realizzazioni letterarie. Non interessa la vita in sé, né la storia in quanto tale ma la «trasformazione della vita in letteratura». Di qui la centralità della relazione tra autobiografia e scrittura, a condizione però di tenere fermo un principio, spesso trascurato, secondo il quale «autobiografico è il procedimento letterario stesso» e non i dati oggettivi di una vita.
Questo orientamento ricorda da vicino un'idea di critica genetica che, come diceva Peter Szondi, tende a vedere non l'opera nella storia ma la storia nell'opera. Storia dunque, e in primo luogo storia di una vita nella sua relazione conflittuale con il mondo, vita che si fa stile, trasformando l'informe materia esistenziale nella geometria di un accadere compiuto.
Nella prima parte del saggio, dedicata a Flaubert, Matz segue con paziente acribia filologica lo sforzo quasi disperato dell'autore dell'Educazione sentimentale di fissare i contorni di quella che già Friedrich Schlegel auspicava come una mitologia della modernità. Seguendo le tappe del suo epistolario - e Matz le ripercorre tutte, a cominciare da quelle infantili in cui l'«idiota della famiglia» comincia a rendersi conto del fatto che solo attraverso la scrittura letteraria potrà dare al suo disagio una fisionomia riconoscibile - osserviamo l'evolversi dagli iniziali «esercizi di stile di un invasato» fino alla scommessa titanica di dare forma alla banalità di un male di vivere non più traducibile nei linguaggi consueti della scrittura letteraria.
Scrivere, per Flaubert, è innanzitutto inventare se stesso come scrittore e le sue creazioni letterarie sono esperienze vissute non in quanto trovano un corrispettivo nella realtà ma in quanto è lo scrivere stesso la sua realtà.
Ricostruire la genesi delle opere attraverso le testimonianze epistolari, intrecciare confession e invenzione letteraria è dunque per Matz un modo, anzi il solo modo di fissare i contorni di una poetica. C'è un esempio di questo procedimento singolare di antropologia letteraria che merita di essere citato. Matz ricorda l'«entusiasmo» provato da Flaubert leggendo la Femme de trente ans di Balzac - «Riportare alla luce nuovi tesori ... in ciò che era stato gettato via come inutile, scoprire nell'universo dell'amore un nuovo continente... non è forse geniale e sublime?» - e osserva come ad entusiasmare Flaubert non sia stato il romanzo in sé, che notoriamente non era gran cosa, ma la capacità di Balzac di unire psicologia e fisiologia. «Se Balzac definisce la sua eroina esclusivamente mediante l'età... un'età, che secondo le convenzioni e la psicologia di quel tempo si trovava già abbondantemente al di là della passione erotica, per tacere di quella sessuale, ciò significa che egli ha offerto alla letteratura una figura tipica fino ad allora sconosciuta, più vera dell'immagine femminile tradizionale.»
Il nuovo universo letterario, che si disegna con Madame Bovary, dimostra come la lezione di Balzac abbia affinato in Flaubert la capacità di cogliere nella fisiologia dei sentimenti, nella 'malattia dell'anima', negli scarti sentimentali, nei margini inespressi dell'odiata borghesia le nuove figurazioni letterarie, di cui le Lettere a Colet, registreranno in presa diretta le tappe più significative. Quanto alla storia, alle rivoluzioni, in particolare quella del '48, l'atteggiamento di Flaubert - ci spiega Matz - non è quello dell'analista politico ma quello di un «fenomenologo della nuova società»: le sue scienze antropologiche sono anzitutto la fisiognomica e l'estetica, quest'ultima intesa nel suo senso originario quale sapere della percezione sensibile.
E così, quando finalmente è di scena Madame Bovary, conta davvero non ciò che accade o ciò che essa fa ma i gesti dell'inazione, come quello celebre della punta del coltello con cui Emma disegnava distrattamente delle righe sulla tovaglia incerata mentre Charles «était long a manger» (ci metteva troppo a mangiare). Questa scena, già magistralmente analizzata da Auerbach in Mimesis, esprime sì la noia, la malinconia, Auerbach dice la «disperazione» di Emma ma è resa possibile perché il romanzo - come dichiara il suo autore a Louise Colet - è «opera della critica anzi dell'anatomia». E aggiunge: «Il lettore non si accorgerà (come spero) di tutto il lavoro psicologico nascosto sotto la forma ma ne avvertirà gli effetti».
La fredda anatomia delle passioni è per Flaubert uno strumento della critica, in cui è implicita, secondo Matz un'attitudine kantiana: il romanzo moderno, se aspira a cogliere la verità, deve, al pari della ragione, conoscere i suoi limiti e le sue possibilità. Se non lo fa, rimane schiavo di un dogmatismo poetico che vanifica le sue intenzioni. La domanda intorno al proprio fare letteratura accompagna come un'ombra ogni gesto poetico di Flaubert e inaugura una svolta nella coscienza moderna del romanzo europeo.
La lezione di Madame Bovary è dunque questa (per chi vorrà raccoglierla): l'autoriflessione critica del narratore non può più affidarsi ingenuamente alle interpolazioni saggistiche (che Flaubert detestava); se vorrà davvero essere efficace dovrà farsi opera essa stessa, trasformarsi in scrittura. «In questo senso un abisso epocale - sostiene giustamente Matz - separa Balzac da Flaubert, la Femme de trente ans da Madame Bovary.»
«Il martire della poesia» è il titolo della parte dedicata a Baudelaire. Il fil rouge è ancora lo stesso: da un lato la bancarotta storica delle grandi illusioni rivoluzionarie e la noia come sentimento dominante di una borghesia che si appresta a conquistare il mondo, dall'altra il desiderio di dare voce agli umori del mondo contemporaneo in tutte le forme disponibili: saggio, critica, traduzione, teatro, arte, musica e naturalmente poesia.
«Baudelaire vive da poeta già prima di esserlo», dichiara Matz, e a suffragio della sua tesi dipana un reticolo di testimonianze autobiografiche descrittive di un apprendistato poetico che è insieme apprendistato alla negatività della vita. Sarah, la prostituta conosciuta nel settembre del 1839, a cui è dedicata una delle prime poesie de Les Fleurs du Mal, contiene quella miscela di elementi che sarà tipica della sua poesia successiva: «lo splendore del brutto, l'erotismo della perversione, il dettaglio esplicitamente realistico, il tentativo di trascenderne il significato figurale, la povertà, la libidine, la provocazione e il blasfemo, l'impulso a salvare il reietto.» Anche qui vita e arte sono intrecciate non per dare voce a un generico disagio ma per distillare un lessico poetico che sappia cogliere, come dice Baudelaire nel Salon del 1846, «il lato epico della vita odierna».
Prospettive moltiplicate
Con Stifter il «disagio della civiltà» assume i connotati utopici di un cammino di formazione etica, che si sottrae e si contrappone provocatoriamente alle costrizioni della razionalità strumentale della società borghese. «L'ideale della libertà è per lungo tempo distrutto» scrive l'autore in una lettera datata 6 marzo 1849. Anche in questo caso la traccia biografica e l'evoluzione letteraria si richiamano in un complesso gioco di dissimulazioni incrociate e alla fine di questo tormentato percorso si distende una sorta di pessimistica liquidazione, tanto degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza, progresso, quanto delle mitologie dello stato di natura. E la compiutezza etica di Heinrich, l'eroe protagonista, della Tarda estate), la Bildung a cui aspira con docile sottomissione ha una valenza palesemente antistoricistica. Forse era questo tratto del romanzo che Nietzsche amava e di cui dirà, nel secondo volume di Umano troppo umano, che è fra le poche opere tedesche in prosa che «meritano di essere lette e rilette».
«La letteratura non è fatta di carta, non è una piramide, non è un giacimento immenso di libri, non è una biblioteca di Babilonia circondata di mura. Biblioteca sì ma con finestre e molteplici entrate e uscite attraverso le quali transitano svariate persone». Le parole conclusive dell'imponente lavoro di Wolfgang Matz, che si legge a tratti come un romanzo di romanzi, sono emblematiche di un metodo di cui si è persa la memoria: la critica, quando è vera critica, non è mai solo esercizio anatomico ma moltiplicazione di prospettive e potenziamento creativo delle opere a cui si applica. Perciò è difficile dare un nome a questo tipo di indagine, che unisce l'ermeneutica dell'indizio all'antropologia della scrittura, che osserva le strategie della finzione dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista dalla prospettiva dell'opera, in un continuo movimento di entrata e uscita che non approda a certezze apodittiche ma assume equilibrio e contraddizione come essenza ultima del fare letteratura.
La lezione che se ne può trarre è che l'indagine biografica non solo non pregiudica l' intelligenza del testo ma ne è al contrario la condizione indispensabile quando a sollecitarla è la scrittura stessa.

15.11.07

La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami

Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d'agosto», un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parla Nakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi
Tommaso Pincio

Per troppo tempo il lettore italiano ha conosciuto uno dei più grandi romanzi del Ventesimo secolo in una traduzione che, seppure d'autore, non gli rende giustizia. Per errori, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luce d'agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confini dello scempio letterario. Finalmente, grazie alla cura di un fine conoscitore come Mario Materassi, questo capolavoro è stato ora restituito al suo originale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23). William Faulkner lo portò a compimento poco dopo essere diventato una celebrità. Fin dall'inizio della carriera si era guadagnato discrete e talvolta ottime recensioni, ma fu soltanto nell'autunno del 1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscitato davvero molta sensazione» scrisse alla moglie rimasta in Mississippi riferendosi al clamore per Santuario, uscito una decina di mesi prima. «Adesso sono la più importante figura letteraria in America. Mi aspetta un grande futuro».
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L'urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l'immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d'agosto rappresenta, almeno in parte, un'eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d'estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c'è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l'appunto dall'immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall'Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l'uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all'omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest'ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l'aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l'idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità - prima ancora del delitto di cui si macchia - a farne un paria. D'altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d'agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell'antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d'agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell'immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un'entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto. L'influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste - o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 - uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l'umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell'impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l'etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell'Ottocento, con l'apertura del paese all'Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all'apparenza l'identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d'America, nonché all'opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l'impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell'universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l'uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell'incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l'immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un'intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l'autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l'occupazione americana fu istituita l'istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all'Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l'appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un'opera tanto brutale ed esplicita all'intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.

3.11.07

Andirivieni di Hilary Putnam

I contributi del grande epistemologo americano alle concezioni della mente, in due prossimi incontri: sabato 3 novembre al Festival della scienza di Genova e martedì 6 all'Università Roma Tre, dove si svolgerà un convegno titolato «Il futuro della filosofia»
Francesco Ferretti

Ecco un problema semplice, almeno in apparenza. Prendete una tavola con due fori, uno quadrato col lato di due centimetri, e uno circolare col diametro di due centimetri. Ora prendete un piolo a base quadrata col lato di poco inferiore a due centimetri e provate a inserirlo nei fori. Entrerà in quello quadrato, ma non nel foro circolare. Perché? A sollevare il quesito è Hilary Putnam, filosofo di Harvard, senza dubbio il più grande epistemologo vivente, nei prossimi giorni in Italia per partecipare a due incontri: il Festival della scienza di Genova in cui terrà una lectio magistralis sabato 3 novembre (ore 18.00, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio) e il convegno internazionale organizzato il 6 novembre dall'Università Roma Tre con il titolo «Il futuro della filosofia» (ore 9.30, Rettorato dell'Università Roma Tre, Via Ostiense 159).
Il quesito posto da Putnam apre una questione decisiva rispetto al tema dei rapporti tra filosofia e scienza: la questione del riduzionismo - l'idea secondo cui le leggi delle scienze di «livello superiore» devono essere ridotte alle leggi delle scienze di «livello inferiore». Per un riduzionista i fatti sociali, ad esempio, devono essere analizzati in riferimento alla psicologia degli individui, quelli psichici in riferimento alla neuroscienza o alla biologia. La tesi di Putnam è che il riduzionismo non è adeguato sul piano esplicativo: per dar conto del perché il piolo entri soltanto nel foro quadrato, non è alla struttura atomica dei due oggetti che dobbiamo riferirci. Che il piolo e la tavola consistano di atomi organizzati in un certo modo fornisce senz'altro delle spiegazioni di alcuni fenomeni, ma non dà le informazioni richieste per rispondere alla domanda. Per risolvere il quesito, in effetti, l'informazione pertinente è quella che fa riferimento a proprietà (di macrolivello) quali la rigidità degli oggetti o la loro configurazione geometrica.
Passando a casi più concreti, l'idea di Putnam è che quando si affrontano questioni del tipo «le leggi della società capitalistica» o il concetto di «persona» l'analisi riduzionista conduce a esiti del tutto insoddisfacenti. Non è possibile descrivere le leggi del capitalismo deducendole dalle leggi della fisica o dallo studio del funzionamento del cervello umano. Ovviamente, gli esseri umani sono sistemi fisici: come tali, alcuni fenomeni che li riguardano possono essere descritti utilizzando le leggi della fisica. Da ciò, tuttavia, non deriva che tutti i fenomeni che li riguardano possano essere descritti in questo modo: le leggi del capitalismo si situano a un livello di descrizione che è autonomo da quello fornito dalla fisica, dalle neuroscienze o dalla biologia. Quando si trascura la possibilità di incontrare descrizioni della realtà che coinvolgono diversi livelli di analisi si incorre in quello che può essere considerato l'errore comune a tutte le forme di riduzionismo: trascurare i livelli alti di spiegazione, comportandosi di fatto come se questi non esistessero.
Ora, poiché lo stesso Putnam è stato in passato un fervente riduzionista, è ovvio che questa revisione di prospettiva (una delle tante che caratterizzano il suo percorso di ricerca) ha implicazioni anche in altri aspetti del suo sistema teorico: quella principale riguarda il ripudio del funzionalismo nella filosofia della mente.
Il funzionalismo - di cui Putnam è stato tra i padri fondatori - è l'idea secondo cui gli stati mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale: ovvero, per il tipo di relazioni che intrattengono con gli input ambientali, gli output comportamentali e i legami causali che connettono gli stati mentali tra loro. Dal fatto che gli stati mentali siano concepiti in questo modo dipende un'altra importante caratteristica del funzionalismo: l'idea secondo cui la mente è in larga parte indipendente dal sostrato fisico che la realizza.
La possibilità di ipotizzare menti artificiali si regge, ovviamente, su questa importante caratteristica del funzionalismo: se la mente dipendesse in modo esclusivo dalla «materia cerebrale», infatti, verrebbe meno ogni pretesa di costruire sistemi artificiali pensanti.
Per quanto, negli anni '60 del '900, Putnam sia diventato famoso sostenendo che la macchina di Turing era un buon modello per spiegare ciò che avviene nella mente, oggi egli considera questa ipotesi viziata da un forte riduzionismo. Dal suo punto di vista attuale, infatti, deve essere totalmente rivista la convinzione per cui ciò che di più rilevante riguarda la mente avviene all'interno della testa degli individui. La critica a questa concezione «internista» è stata sferrata da Putnam tramite il cosidetto esperimento mentale «della Terra Gemella»: oltre alla Terra in cui viviamo, esisterebbe nell'universo una Terra Gemella. Le due terre - sostiene l'esperimento - sono identiche sino alla struttura atomica degli individui e degli oggetti che la popolano; allo stesso modo sono identici anche gli eventi che vi accadono: in questo momento, ad esempio, mentre voi state leggendo questo articolo, anche il vostro gemello su Terra Gemella, sta leggendo lo stesso articolo, il che implica stati mentali e cerebrali identici ai vostri. Solo una proprietà rende diverse la Terra e la Terra Gemella: la struttura chimica dell'acqua. Pur avendo la stessa apparenza, lo stesso sapore e la stessa funzione del liquido con cui noi tutti ci dissetiamo, la struttura chimica dell'acqua gemella è XYZ, non H2O.
Questa piccola diversità ha una portata decisiva nello studio della natura del contenuto mentale e del significato. Quando i due gemelli proferiscono un enunciato del tipo: «c'è dell'acqua nel bicchiere di fronte a me» quello che accade è che pur trovandosi (per definizione) nello stesso stato cerebrale e nello stesso stato mentale, si riferiscono a due entità diverse: ciò che avviene all'interno della scatola cranica non è dunque sufficiente a determinare il riferimento delle espressioni linguistiche - il significato, in altri termini, non sta nella testa dei parlanti. È una critica che ha avuto profonde ripercussioni nella filosofia della mente più vicina alla scienza cognitiva. Jerry Fodor, ad esempio, ha cercato di far fronte alle critiche di Putnam distinguendo il contenuto nella testa degli individui (narrow content) da quello che tiene conto delle relazioni causali col mondo esterno (broad content). Andy Clark, per citare solo un altro caso, ha sostenuto che la mente si deve intendere come estesa fuori della scatola cranica a inglobare l'ambiente esterno, considerato come una «impalcatura» su cui il cervello fa leva per rendere più efficaci i suoi processi di elaborazione.
Entrambe le argomentazioni, insieme a altre analoghe, invitano dunque a considerare il ruolo del mondo esterno - quello sociale e quello fisico - nella vita mentale degli individui, e la scienza cognitiva deve tenerne conto se vuole definire correttamente alcuni degli assunti centrali che la caratterizzano, con il risultato di approdare a un nuovo proficuo ripensamento dei rapporti tra filosofia e scienza.
ilmanifesto.it 02 novembre 2007

1.11.07

Copiare è un'arte

Una band in crisi di ispirazione. Che trova il successo grazie a un'idea rubata. Nel nuovo romanzo di Lethem. In guerra con il copyright
intervista a Jonathan Lethem

di Enrico Pedemonte

Tutti gli artisti copiano, dice Jonathan Lethem che a febbraio ha scritto un lungo saggio sulla rivista 'Harper's', difendendo la libertà artistica di 'appropriarsi' delle idee degli altri. Lethem compie una lunga requisitoria contro quella che lui definisce "la tirannia del copyright". Per sostenere la sua tesi Lethem ammette che quasi ogni riga scritta nel corso della sua prolifica vita di scrittore è stata copiata da qualche parte, e poi modificata, reinterpretata, reimpastata.

Anche la band protagonista del suo ultimo romanzo ('Non mi ami ancora', in uscita in Italia per i tipi del Saggiatore) non esita a copiare pur di raggiungere il successo. Si tratta di un quartetto di musicisti squinternati che non riescono a trovare né l'ispirazione artistica, né un nome per la band. Mattew, il cantante, lavora allo zoo di Los Angeles, rapisce un canguro e lo nasconde nel bagno di casa. Bedwin, il chitarrista, guarda ossessivamente un vecchio video di Fritz Lang. Denise, la batterista, vende giochi erotici. E Lucinda, la bassista che non ha inibizioni né con l'alcol né con il sesso, passa ore a rispondere al telefono di uno sportello reclami - che in realtà è un'installazione artistica - dove chiunque può sfogarsi raccontando le proprie delusioni, dalle fregature al ristorante ai rancori esistenziali. La storia ha una svolta quando Lucinda si imbatte nella creatività di un 'reclamante' che nel corso di alcune telefonate sconce le offre lo spunto per la prima canzone di successo della band. A questo punto la trama si concentra intorno a un interrogativo: a chi appartengono le idee? Il 'reclamante' ha diritto di pretendere la sua parte di successo?

Lethem pensa di no. Nel corso del romanzo non si dilunga in noiose dissertazioni sul plagio, ma negli ultimi mesi l'argomento è al centro della sua attenzione. La sua è insieme una battaglia culturale e una sperimentazione editoriale. A novembre sul suo sito Internet ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui', dove mette decine di sue opere a disposizione di altri artisti. Chi vuole utilizzarle, modificandole a piacere, deve versare un dollaro e firmare un contratto in cui si impegna a lasciar usare lo stesso materiale a chiunque altro. A 43 anni, dopo il successo ottenuto con 'La fortezza della solitudine' (Tropea editore), Lethem non è solo considerato uno dei più dotati scrittori della sua generazione, ma anche un intellettuale e un saggista di prim'ordine. Lo scrittore divide la sua vita tra Brooklyn, dove è nato, e Blue Hill, nel Maine, dove lo abbiamo intervistato, durante una lunga conversazione più volte interrotta dalle urla del suo bimbo di due mesi e mezzo.

Lei sostiene che gli artisti creano imitando e copiando.
"Non posso immaginare un altro modo possibile. L'imitazione era normale anche nelle botteghe rinascimentali, dove gli artisti creavano capolavori grazie a un processo di assimilazione e di appropriazione del lavoro di altri. Un artista ha l'istinto di un bambino che impara a parlare: prende a modello tutto quello che sente intorno a lui e di tutto fa imitazioni, parodie, collage... L'individualità può essere costruita solo a partire dalla cacofonia di voci che risuonano intorno a noi".

Nabokov prese in prestito Lolita da Heinz von Lichberg, mentre Bob Dylan ha saccheggiato Shakespeare e Scott Fitzgerald. E lei?
"Io ho preso molto da Nabokov e Bob Dylan, e poi da Philip Dick e Jack Kirby e John Cassavetes e molti altri. In particolare ho imparato a scrivere romanzi studiando Graham Greene e Kafka, ma il mio lavoro è chiaramente influenzato dal dibattito sull'arte pop. Alcune di queste influenze sono ovvie leggendo i miei libri, altre sono visibili solo a me".

Qual è il confine tra appropriazione e plagio?
"Si tratta di valutazioni istintive. Quando uso un riferimento, un elemento riconoscibile di un'altra opera, mi domando subito se - inserito in un nuovo contesto - quell'elemento sia sufficientemente trasformato, inaspettato ed emozionante. Poi mi chiedo se sia necessario riconoscere il mio debito. Ogni artista spera che chiunque si appropri di un elemento della sua opera lo riconosca, e non sorvoli sull'appropriazione".

Lei se la prende con Walt Disney...
"Le storie di Disney sono tratte dalle opere dei fratelli Grimm, dalle 'Mille e una notte' e altro ancora. Ma nonostante siano abituati a trovare altrove l'ispirazione, quelli della Disney impediscono a chiunque di usare le loro creazioni e di trasformarle. Io penso che la possibilità di appropriarsi di un'opera d'arte dev'essere libera. Per questo non solo ho scritto il saggio su 'Harper's', ma ho cercato di introdurre alcuni gradi di libertà nell'utilizzare le mie opere".

Infatti lei ha reso diverse sue opere disponibili gratis su Internet. Una scelta etica o un modello di business?
"Non credo che la mia strategia possa diventare un modello per altri. È più un gioco e una provocazione. È una soluzione personale che non raccomando a nessun altro".

Ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui' sul sito mentre scriveva il suo ultimo romanzo. Qualche riferimento alla promiscuità sessuale della protagonista Lucinda?
"Direi di sì, anche se mentre scrivevo il romanzo non ne ero conscio. C'è una compenetrazione tra la promiscuità dei corpi e quella del lavoro artistico".

Nel romanzo c'è uno sportello telefonico per i reclami che in realtà è una installazione...
"Non ho mai avuto problemi a pensare che un artista possa dichiarare artistico qualcosa di inaspettato mettendoci una cornice intorno. Nell'era dell'arte concettuale molte cose che non sembravano arte potevano essere definite artistiche anche se non erano tali".

Da dove nasce l'idea?
"Negli anni Settanta a New York c'era un tale che si faceva chiamare Mister Apology e aveva una linea telefonica che chiunque poteva chiamare per scusarsi di qualunque cosa avesse fatto. Mister Apology colpì la mia immaginazione, mi sembrava che meritasse un racconto. Ne ho approfittato per esplorare il mondo della realtà virtuale, che in questo caso è la cultura telefonica. Amo descrivere come si comporta la gente quando si incontra in questi spazi virtuali".

Perché i protagonisti del suo romanzo non sono neanche capaci di dare un nome alla loro band?
"Sono affascinato dal potere dei nomi. Nella 'Fortezza della solitudine' ogni personaggio ha diversi nomi. Dylan è soprannominato 'Dillinger' e 'D-man', alla fine assume le sembianze di un super-eroe, 'L'uomo freccia', e firma 'Dos' i suoi graffiti. C'era un eccesso di nomi, perché ogni cosa aveva diversi significati. Al contrario le vite dei personaggi del nuovo libro sono per certi versi così stupide, libere e arbitrarie, che c'è la difficoltà a trovarne anche un solo nome. Questo per me rappresenta la qualità senza forma delle loro esistenze".

Nei suoi romanzi compaiono spesso i canguri. Un simbolo o un gioco?
"Sono strani, mi affascinano. Vent'anni fa, quando ho scritto di canguri per la prima volta in 'Gun, With Occasional Music', non pensavo che lo avrei fatto ancora. Poi è diventato un gioco".

Perché ha ambientato il romanzo a Los Angeles?
"Volevo rompere con l'abitudine di scrivere su Brooklyn. La California è l'altro posto dove ho vissuto per parte della mia vita. Ma in realtà ho scelto Los Angeles, che per molti versi è per me un luogo ignoto e misterioso, perché si tratta di una città che mi genera curiosità e confusione. Volevo esplorare la stranezza della città".

Lei descrive un mondo senza scopo, senza significato...
"Non userei questa parola. Il significato delle cose è un fatto individuale e soggettivo. Certo le vite che descrivo sono proiettate in un universo assurdo".

È un universo senza utopie, dove tutto sembra accadere per caso... È questa la sua filosofia?
"Non ho una filosofia. Credo di avere fede solo nelle strutture concettuali costruite dall'uomo: la famiglie, le subculture. Sono luoghi che offrono opportunità e salvezza al di fuori del vuoto dell'universo".

Ha avuto esperienze negative vendendo alcune delle sue storie a Hollywood.
"Non è stata un'esperienza soddisfacente nel senso che i film non sono ancora stati prodotti. Ma è stata molto positiva perché i soldi garantiti da questi contratti mi hanno permesso di scrivere liberamente per parecchio tempo. E questo è esattamente quello di cui uno scrittore ha bisogno: la libertà di scrivere. Hollywood mi ha aiutato regalandomi questo tempo".

Ora due registi stanno girando film tratti da racconti da lei offerti liberamente su Internet. Uno a Chicago, un altro in Germania.
"Sono curioso di vedere il risultato finale. Molti hanno la tendenza a non mettere in discussione il modo in cui tradizionalmente si accordano autori e registi. Ma in realtà non c'è alcuna norma etica che dica di fare in quel modo. In fondo, come dice lei, si tratta solo di 'modelli di business'. Perché allora non guardarsi intorno e non creare accordi di altro tipo?".
(L'Espresso 31 ottobre 2007)

L'esordio crudele di Sam Taylor

Un finale drammatico e imprevisto spezza l'idillio di quattro adolescenti, il cui esperimento di convivenza nella foresta dei Pirenei ricalca l'esempio del «Contratto» di Rousseau. Dalle parole dello stesso Taylor, gli indizi per risalire alla sua necessità di affogare nel sangue «La repubblica degli alberi», da poco uscito per Neri Pozza Bloom
Tommaso Pincio

Non è ancora un fenomeno di massa, tuttavia capita sempre più spesso di sentire di persone che emigrano lontano per la mera voglia di allontanarsi, tagliare i ponti con il mondo nel quale sono nate e vissute. Di gran lunga maggiore, ovviamente, è il numero di coloro che, pur non potendo passare a vie di fatto tanto radicali, vagheggiano comunque di mollare tutto. Auden diceva che «l'uomo ha bisogno di evadere, così come ha bisogno di cibo e sonno profondo». Lo diceva però in senso letterario, per spiegare quanto rinfrancante e indispensabile sia, per lo spirito, intrattenersi con storie immaginarie. Se però romanzi e film non bastano più la faccenda si complica. Decidere di vendere i propri beni e usare il ricavato per trasferirsi in qualche omologo della famosa «isola deserta» è il sintomo di una crisi. Significa che un ingrediente essenziale della società inizia a scarseggiare in misura preoccupante: il senso di vivere in una comunità.
Quando si giunge a un simile punto di rottura si dovrebbe allora smettere di parlare di fuga, per chiamare il problema con un termine più appropriato: rifiuto. Perché questo è il male insidioso che serpeggia da qualche tempo in Europa e che si manifesta in maniere varie e ambigue, a cominciare dalla cosiddetta antipolitica. Il rifiuto è diverso dall'evasione in quanto è più definitivo. Allo scontento e alla rabbia per lo stato di cose, il rifiuto somma una forte mancanza di fiducia, l'idea che la società sia a tal punto marcia da escludere la possibilità di un cambiamento in positivo. Storia vecchia, se vogliamo.
Due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau mosse critiche morali a una società che ai suoi occhi appariva come il regno della falsità e della corruzione, un avvilente concentrato di vanità e sopraffazione. Era tuttavia convinto che certi mali non fossero il prodotto diretto della natura umana, bensì il risultato della disuguaglianza economica.
Propose anche un modello di convivenza alternativo nel quale gli individui potessero riacquistare la fiducia. E proprio al famoso contratto sociale di Rousseau si ispira la fuga dalla civiltà narrata nell'incantato quanto inquietante romanzo d'esordio dell'inglese Sam Taylor, La repubblica degli alberi (Neri Pozza Bloom, traduzione di Chiara Brovelli, pp. 283, euro 16).
All'alba di un giorno di giugno, poco prima dell'inizio delle vacanze, quattro adolescenti lasciano le case dove vivono, montano in sella a una bicicletta e puntano verso la foresta, decisi a impiantare una loro piccola utopia in mezzo agli alberi. Il tutto si svolge nei Pirenei perché - esattamente come l'autore - i personaggi del libro sono espatriati in Francia. I quattro si accampano in una casa diroccata e cintano il territorio circostante proclamandone l'indipendenza. Alex e Louis vanno a caccia di cibo. Isobel, sorella di Alex, prepara il caffé e si prende cura della dimora. Michael, il più giovane del gruppo nonché voce narrante, si arrampica sugli alberi come una scimmia perché è ancora un ragazzino per il quale parole come succhiotto, puttana e hashish sono suoni dal significato misterioso e bizzarro. Micheal attraversa però anche quella fase della vita in cui la consapevolezza del proprio corpo si arricchisce di nuove sensazioni. Mostra a Isobel un lago che ha appena scoperto e lei lo ricambia con un bacio. Massaggia innocentemente per ore la morbida pelle di Isobel e riceve in cambio altri favori. In breve, questa estate tra i boschi diventa sempre più calda per via della tensione sessuale. Contemporaneamente i ragazzi cominciano a giocare alla Rivoluzione francese, costruiscono una ghigliottina di fortuna con la quale giustiziano papere innocenti. Com'è facile immaginare, sarà proprio il sesso a trasformare la finzione in tremenda realtà. A rompere il fragile equilibrio della repubblica tra i boschi sarà l'irruzione nel gruppo di un quinto elemento, una ragazza che a dispetto del suo nome, Joy, porterà gelosia e sete di vendetta facendo annegare l'utopia in un bagno di sangue. Il tutto ricorda naturalmente Il signore delle mosche di William Golding ma regala comunque pagine di rinfrescante bellezza. Qualche problema si presenta nel momento fatidico della catarsi che, seppure in parte prevedibile, coglie il lettore un po' impreparato per il modo brusco e sfilacciato nel quale si dispiega, rischiando di togliere credibilità a una storia che finora aveva galleggiato mirabilmente in un limbo da favola.
A tale proposito, viene in soccorso lo stesso autore. In un lungo articolo comparso su un quotidiano inglese, Sam Taylor ha ripercorso in lungo e in largo la travagliata genesi del romanzo, rivelando di avere sempre vissuto con la testa tra le nuvole e che il suo sogno di ragazzo era quello di trasferirsi in un paese straniero e scrivere un romanzo. A venticinque anni si ritrovò invece padre di famiglia rassegnandosi a una grigia esistenza da pendolare. Finché un giorno il cartello di un'agenzia immobiliare gli offrì su un piatto d'argento la soluzione per mollare il lavoro e una città che gli piacevano sempre meno: poteva vendere la casa nello squallido sobborgo in cui era relegato e trasferirsi con la famiglia in una remota zona rurale della Francia meridionale, nei pressi dei Pirenei. Lì i suoi avrebbero tirato avanti arrangiandosi, mentre lui si sarebbe dedicato al sogno di sempre. La stesura del romanzo non fu un letto di rose. Nei momenti più difficili gli veniva però in soccorso l'impossibilità di tornare indietro.
Lunga e tormentata fu anche la strada per trovare un editore. Ma per venire al terrificante finale che si abbatte quasi senza ragione sull'atmosfera idillica del libro, Taylor lo spiega così: in un bel giorno d'estate il più piccolo dei suoi figli rischiò di annegare in una piscina. «Quella terrificante immagine della testa che spunta come un'isola di capelli biondi nel blu placido dell'acqua è marchiata a fuoco nella mia mente» - racconta. «È come un monito continuo, un simbolo...l'orrore che si nasconde dietro ogni attimo di felicità e lo intensifica».

ilmanifesto.it del 31 ottobre 2007

30.10.07

Da Barbara Spinelli a Giulio Anselmi

Ma il Governo non va delegittimato

Caro direttore,
ti scrivo perché la linea editoriale che esprimi non mi trova del tutto consenziente. Non è questione di convinzioni diverse, né di diversa collocazione politica.

Che in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti mi pare non solo normale, ma arricchente. Quel che sento davanti al tuo articolo, e a tanti che somigliano al tuo nei giornali indipendenti, non è dissenso, ma un disagio molto profondo. Ho l’impressione di assistere a una sorta di disfacimento della democrazia rappresentativa, e di perdita di senso del voto espresso alle urne dagli elettori. Dalla primavera dell’anno scorso l’Italia ha un governo, scelto dagli italiani per la durata di cinque anni, che è stato messo in questione quasi fin dal primo giorno: non dagli elettori tuttavia, ma da un capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, che il giudizio delle urne non l’ha mai accettato e che ogni sera da diciotto mesi annuncia a televisioni e giornali la fine di Prodi: prima negando i risultati, poi denunciando brogli, poi intimidendo i senatori a vita, poi appellandosi al cattivo umore della gente, in dispregio costante dei dettami costituzionali. Una strategia di delegittimazione del tutto anomala, ma che molto rapidamente è stata banalizzata e fatta propria da tutti coloro che fanno opinione, essenzialmente giornali e televisioni pubbliche oltre che private.

Adesso questo governo ha circa un anno e mezzo ed è giudicato spacciato, finito, senza che io come elettore abbia in alcun modo concorso a questo sviluppo. In un certo senso mi sento defraudata del mio voto: organismi intermedi si sono insediati tra l’elettore e la rappresentanza da esso scelta, e sono questi organismi che hanno deciso e decidono tutto: i giornali appunto e questa o quella corporazione sindacale, questa o quella lobby, questo o quel personaggio della maggioranza, ansioso di cambiar casacca per ottenere posti che non ha avuto nel presente governo. Sono questi organi intermedi che stanno decretando che questo governo è caduto (che è «una carcassa che si trascina», scrivi con linguaggio che, ti confesso, mi ha scosso per la violenza che contiene). Sono questi organi che per la seconda volta nella storia recente - e in modo ancor più inquietante che nel 1998 - accettano che il crimine contro il ministero Prodi venga compiuto. E lo decretano prima che il tempo costituzionalmente assegnato al governo sia concluso. Prima che gli italiani siano chiamati a votare, allo scadere normale della legislatura. Non sono defraudata solo del voto. Mi vien tolta anche la sacralità del tempo conferito col mandato, così preziosa nelle democrazie: la certezza che il tempo che ho dato al governo eleggendolo non sarà interrotto da forze interessate e sondaggi senza rapporto con le urne.

Tu scrivi che il centro-sinistra deve andare a casa perché mai c’è stato in Italia governo impopolare come questo. Anche qui provo vero disagio, non fosse altro perché non manca giorno in cui i riformisti chiedono ai governanti di «rischiare l’impopolarità». I governi non vanno a casa perché a un certo punto (dopo una settimana o un mese o un anno) si constata che non si vendono troppo bene: nella democrazia rappresentativa un governo non è un sapone, né un’automobile, e neppure un giornale che conquista o non conquista lettori. È qualcosa di radicalmente diverso, costruitosi lungo i secoli, reso sempre più complesso da una storia lunga. Il disagio cresce se penso ai Paesi europei che mi è capitato di conoscere negli ultimi decenni: tutti hanno prima o poi traversato periodi anche assai lunghi di impopolarità (è stato così per i governi Schmidt, Kohl, Schröder; per i primi ministri e Presidenti francesi; per i premier inglesi a cominciare dal governo Thatcher) e mai ho visto all’opera il tumulto che esiste da noi: il gusto apocalittico che si espande, l’inestinguibile sete di andare alle urne prima del tempo, trascinati da sondaggi e da opinioni che prevalgono nei salotti. Mai ho visto un così vasto schieramento di forze distruttive, che quasi hanno timore di costruire e pazientare. Forze che prese una per una sembrano aver dimenticato il proprio mestiere, oltrepassandolo sempre. Che confondono, in maniera inaudita, il criticare anche severo con l’esigere, perentorio, che il governo cada al più presto. Neppure George W. Bush, eletto grazie a una decisione indecorosa della Corte Suprema che ha escluso il vero vincitore delle presidenziali, nel 2000, ha avuto davanti a sé una sì intensa volontà demolitrice. Mai ho visto tanta gente uniformemente invocare la fine d’una legislatura, e volontariamente servire il disegno di chi parla di democrazia ma non ne rispetta la regolamentazione. Tra la strategia di riconquista apprestata da Berlusconi fin dal 10 aprile 2006 e quel che mi dicono oggi giornali e tv non riesco, per quanto ci provi, a scorgere più differenza alcuna.

Il fatto è che queste forze distruttive si comportano come se non sapessero la storia che stanno facendo, e cosa precisamente vanno disfacendo. Hanno anzi l’impressione di essere indipendenti, libere come non lo sono state in passato.

Non mi paiono libere. Tranne alcune eccezioni, ancor più luminose perché rare e solitarie, quasi tutti son sedotti da questo desiderio di dissoluzione, che allarga i cuori e trasforma ogni commentatore critico in governatore dell’universo, oltre che dell’Italia. Commentatori che constatano un disastro che essi stessi, giorno dopo giorno, hanno contribuito a creare. Non è l’idea che mi faccio né della democrazia, né della vocazione di testimone e pensatore affidata alla figura del giornalista.
Un caro saluto.

Cara Barbara, pubblico con piacere la tua lettera, convinto come te dell’opportunità che «in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti», senza entrare nel merito della tua risposta e dell’interpretazione che tu hai dato del mio fondo pubblicato giovedì 25 ottobre. Un caro saluto. [G.A.]

lastampa.it

28.10.07

Naomi Klein - Il mondo alla rovescia del libero mercato

Non c'è stata nessuna rivolta delle élite, ma una vera e propria controrivoluzione. Intervista con l'autrice di «Shock economy», in Italia per presentare il suo libro La privatizzazione dei beni comuni e dei servizi sociali sarà più graduale che in passato, mentre maggiore attenzione sarà dedicata al conflitto di interessi. Ma è consolatorio affermare che stiamo assistendo al declino del neoliberismo
Benedetto Vecchi

L'uscita di Shock economy (Rizzoli, pp. 620, euro 20,50, il manifesto del 15 settembre) ha avuto una critica stizzita del premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, che ha riconosciuto a Naomi Klein il merito di denunciare l'«estremismo» dei neo-con. Allo stesso tempo, però, Stiglitz ha sostenuto, sul «New York Times» del 30 settembre, che quelle dell'attuale amministrazione statunitense sono solo degenerazioni, perché l'economia di mercato è il migliore strumento, se usato bene, per promuovere il benessere collettivo. Dunque, per Stiglitz, il problema non è il modello sociale e economico che il neoliberismo propone, quanto le persone che lo realizzano. «Non credo - afferma Naomi Klein - che il problema siano gli errori umani. Il neoliberismo è stata una vera e propria controrivoluzione. Possono pure cambiare gli uomini, ma gli obiettivi rimangono sempre gli stessi: muovere una guerra di classe contro i lavoratori e privatizzare i servizi sociali».
L'intervista che segue è avvenuta a Roma, lasciando all'intervistatore l'amaro in bocca. Tante le domande da fare, poco il tempo a disposizione.

Nel tuo libro descrivi l'ascesa e l'affermazione del neoliberismo come un prodotto da laboratorio. Da una parte, la scuola di Chicago con Milton Friedman che «dava la linea». Dall'altra alcuni esperimenti pilota per poi applicare quelle dottrine nel Nord America, in Europa...
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milton Friedman era considerato un nostalgico di un'economia di mercato che non esisteva più. Il pensiero economico dominante era di tipo keynesiano. Le tesi della scuola di Chicago erano considerate l'espressione di un estremismo ideologico a favore del libero mercato fuori dalla realtà. L'economia statunitense era prospera grazie all'intervento statale e alla «collaborazione» tra sindacati e imprese. Tutto sembrava andare in un'altra direzione da quello che sosteneva Friedman. Certo la sua apologia del libero mercato era sicuramente più aderente agli interessi delle grandi corporation, ma nessun manager sarebbe intervenuto per sostenerlo. Allo stesso tempo, però, Friedman ha ricevuto ingenti finanziamenti da fondazioni prestigiose, nonché dal governo per continuare le sue ricerche. Le teorie economiche della scuola di Chicago non erano solo espressione di un'ideologia, ma anche di precisi interessi economici, quelli del big business.
Molti studiosi o analisti spesso descrivono il neoliberismo come una rivolta delle élite per sottrarsi al controllo dello stato. Non sono d'accordo, perché la storia della scuola di Chicago può essere considerata la cover story di una controrivoluzione, di una guerra di classe contro i sindacati e i diritti sociali dei lavoratori.

Tu sottolinei che l'insicurezza e i disastri ambientali sono usati come grimaldello per imporre politiche neoliberiste. Non credi, però, che proprio l'insicurezza possa diventare la spinta per un rafforzamento del welfare state? In fondo, lo stato sociale nasce anche per risolvere lo «shock collettivo» che aveva colpito gli Stati Uniti e l'Europa negli anni Trenta e Quaranta?
Gli shock collettivi possono essere usati per introdurre politiche neoliberiste se gli uomini e le donne sono disorientati, soli, se cioè sentono la loro condizione come precaria. In Italia, sono all'opera movimenti sociali che si battono contro la precarietà dei rapporti di lavoro, per i diritti dei migranti, contro la guerra. Il problema è se riescono a dare continuità alla loro azione, perché solo un loro rafforzamento può aiutare nella resistenza alle politiche neoliberiste.
Prendiamo Vicenza: il progetto di ampliare la base militare statunitense ha incontrato l'opposizione di gruppi, associazione, centri sociali. A Vicenza sono state evocate pessime prospettive per il suo sviluppo se i lavori saranno bloccati. Finora, la presenza dei movimenti sociali ha creato le condizioni affinché il ricatto sia stato rifiutato da parte della popolazione. Prendiamo la precarietà dei rapporti di lavoro. Ci sono movimenti che si battono contro di essa e per estendere anche ai precari i diritti del lavoro. Finora sono riusciti ad organizzare una parte del lavoro precario. Il passo successivo è di coinvolgere sempre più uomini e donne, riuscendo a depotenziare il ricatto a cui sono sottoposti molti lavoratori e lavoratrici. Credo, cioè che i movimenti debbano darsi un'organizzazione stabile, meno effimera per rafforzare la loro azione.
Nei miei viaggi di lavoro incontro uomini e donne che sentono moltissimo questa urgenza politica di dare continuità e forza alla loro azione politica. Possono forse peccare di ottimismo, ma mi sembra che molti movimenti si stanno muovendo in questa direzione.
Per quanto riguarda la tua domanda, anche io credo che bisogna sviluppare un altro tipo di organizzazione sociale. Non ritegno però che questa nuova organizzazione sociale debba essere introdotta dall'alto. Deve essere infatti sviluppata dal basso.

Nel tuo libro scrivi che il neoliberismo si caratterizza non tanto per l'occupazione dello stato, ma per la privatizzazione di alcune funzioni che gli competono, dalla difesa nazionale alla sanità alla formazione scolastica. C'è stato poi lo scandalo della società di «contractors» Blackwater in Iraq e molti analisti hanno denunciato come folle la privatizzazione della difesa nazionale. Stiamo assistendo al declino del neoliberismo? Oppure sono solo scosse di assestamento?
Il caso dell'uragano Kathrina è emblematico. Nei primi giorni dopo l'inondazione di New Orleans i media statunitensi hanno puntato l'indice contro le politiche di disinvestimento dell'amministrazione Bush per quanto riguarda la protezione ambientale. Appena le acque hanno cominciato a ritirarsi, gran parte dell'establishment liberista ha visto nell'uragano la mano divina che consentiva di cacciare gli abitanti poveri e gli afroamericani per lasciar spazio alle imprese private. Non credo dunque che il neoliberismo sia giunto al capolinea. È ovvio che lo scandalo della Blackwater qualche problema lo pone per i neoliberisti. Ma nei media mainstream non viene criticato il modello neoliberista, bensì l'operato di una singola impresa, in questo caso la Blackwater. Tutt'al più viene invocata una maggiore sorveglianza sull'operato di un'impresa privata che svolge una funzione statale, pubblica.
Stiamo assistendo a un mutamento delle politiche neoliberiste. Ci sarà maggiore attenzione al conflitto di interesse, che negli Stati Uniti e anche qui in Italia è giunto al parossismo. Oppure, l'applicazione delle politiche neoliberiste sarà più graduale. Affermare però che siamo alla crisi del neoliberismo è un azzardo analitico autoconsolatorio.

In Italia c'è molto interesse per le primarie del partito democratico negli Stati Uniti e alla competizione tra Hilary Clinton e Barak Obama. Possono i movimenti sociali condizionare gli esiti delle primarie nel partito democratico?
E' strano che lo chiedi a me che sono canadese. Non sono molto interessata al fatto che Hilari Clinton rappresenti gli olds democratics e Obama i news democratics. E trovo strano che un italiano sia interessato al conflitto tra Hilary e Obama.

La politica statunitense ha da sempre condizionato quella italiana. E poi tu vivi in un osservatorio privilegiato come è il Canada. Tuttavia ciò che mi interessa capire è quale rapporto - di conflitto, di cooptazione - i movimenti sociali negli Stati Uniti voglio intrattenere con il potere politico e la politica istituzionale.....
Il processo elettorale statunitense è molto complicato e consuma tempo, energie e soldi. Se un movimento sociale prova a condizionare l'esito di primarie o di una competizione elettorale rimane quasi sempre intrappolato nei meccanismi politici americani. Lo ha fatto Ralph Nader e non è andato molto bene. Lo ha fatto Move On, rischiando di diventare solo una componente del partito democratico.
Negli Stati Uniti c'è stato un appuntamento che i media hanno quasi del tutto ignorato. Mi riferisco al primo social forum statunitense a Atlanta. Centinai di gruppi, associazioni, migliaia attivisti si sono incontrati per conoscersi e discutere sul che fare. I pochi giornalisti che sono andati ad Atlanta sono rimasti meravigliati, perché vedevano uomini e donne che discutevano di povertà, di emarginazione, di diritti dei migranti, di mancanza di lavoro, di diritto alla sanità e all'istruzione pubblica, di pacifismo, proponendo iniziative di lotta e alternative praticabili al neoliberismo senza aspettare che il partito democratico presti loro attenzione. In altre parole, penso che i movimenti sociali devono sviluppare la loro iniziativa, organizzarsi, sviluppare una sorta di contropotere senza attendere l'esistenza di un candidato che prometta di rappresentare le loro proposte o che il loro punto di vista entri nell'agenda politica di un qualche partito.

I movimenti sociali, almeno qui in Europa, non godono di buona salute. Ci sono state importanti mobilitazioni contro la precarietà in Francia in Italia. Il movimento pacifista inglese ha continuato a portare in piazza centinaia di migliaia di persone. Eppure sono innegabili le difficoltà dei movimenti sociali. Non credi che queste difficoltà derivi anche dal fatto che il movimento dei movimenti, per usare un'espressione a te molto cara, non riesca a svolgere una lettura critica del mondo attuale e dunque a sviluppare forme di lotta e di organizzazione adeguate?
Concordo. Anche negli Stati Uniti i movimento sociali antiliberisti. sono in difficoltà. Secondo me, in Nord America, ma credo che questo possa valere anche per l'Europa, le difficoltà derivano dalle conseguenze dell'attacco alla Torre Gemelle. L'11 settembre ha cambiato il mondo. Il problema è capire come lo ha cambiato. C'è stata la guerra in Afghanistan, poi in Iraq. Guantanamo. Le crisi economiche. Non riusciamo però ancora a cogliere il senso pieno di quello che è accaduto dopo le Twin Towers. Ci vorrà tempo per capirlo. Spero di contrinuire, come molti altri, a capirlo. Mi piace pensare che questo libro sia un piccolo contributo a capire come è cambiato il capitalismo.
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Il trionfo dei ratti malgrado l'agio della civiltà

Una inchiesta di Robert Sullivan, giornalista del «New Yorker» tradotta da Isbn. Si direbbe che le pantegane, in virtù del significato assunto nella sfera simbolica, custodiscano il segreto delle verità ripugnanti e lo trasmettano per contagio. Non a caso, le fobie che ispirano i topi hanno a che vedere con la dialettica tra il dicibile e l'indicibile, il puro e l'impuro
Pierpaolo Ascari
Nonostante se ne fosse già parlato alcuni anni prima, quando il sindaco Giuliani ne aveva fatto l'oggetto di una guerra senza quartiere, fu solo nel settembre del 2000 che il rattus norvegicus associò il proprio nome a quello dell'uomo più potente del mondo. Anche per un mammifero che intorno al 1750 era emigrato dalla Russia per figliare nelle capitanerie di mezza Europa e portare a termine la navigazione dell'Atlantico in un giorno imprecisato del diciannovesimo secolo, gli onori della stampa internazionale non erano affatto scontati.
Eppure il rattus norvegicus era lì, installato al centro della campagna elettorale per le elezioni del presidente americano. A trascinarcelo erano stati i ragazzi della comunicazione assunti dal governatore del Texas, o meglio ancora un pensionato di Seattle che, armato di videoregistratore, li aveva messi al tappeto. Gary Greenup, così si chiamava il pensionato, aveva notato come nello spot che riassumeva il punto di vista dei repubblicani sulle qualità di Albert Gore, gli uomini del futuro presidente avessero inserito alcuni fotogrammi subliminali, che per un momento parvero compromettere le aspirazioni di Bush alla Casa Bianca. In quei fotogrammi appariva una scritta di sole quattro lettere - rats, ratti appunto - che Greenup era riuscito a stanare dalle fogne della competizione politica.
Che si trattasse del rattus norvegicus, il ratto marrone, non poteva essere motivo di discussione: infatti, una volta sbarcati sul suolo americano, i topi scandinavi (così classificati solo grazie a causa di un errore contenuto nei Profili della storia naturale della Gran Bretagna di John Berkenhout) avevano costretto i pochi cugini neri sopravvissuti a ritirarsi sulle palme e nelle soffitte di Los Angeles. In ogni caso, la comparsa dei ratti nel videoregistratore di Seattle operava una sorta di processo ai limiti della democrazia - tanto simile all'esercizio di un voto estemporaneo da mortificarsi nella pulsazione di un fotogramma - e il fatto che a rivelarne l'oroscopo fossero proprio loro, i topi di fogna, non aveva nulla di occasionale.
Anche nell'inchiesta - titolata Ratti, trad. di Carlo Torielli, Isbn - che Robert Sullivan ha dedicato al rattus norvegicus qualche mese dopo le elezioni del presidente americano, infatti, si direbbe che tutto ciò che appartiene all'universo dei topi si inserisca in una prospettiva analoga a quella indicata dalle scritte di Bush. I ratti fanno tendenzialmente schifo, questo è noto, trasmettono le pulci della peste, la febbre gialla, il virus del Nilo, si cibano di immondizia e soprattutto hanno la propensione a rivelare gli aspetti più sgradevoli e maleodoranti di tutto ciò che finisce nel loro raggio di azione.
Un esempio tra i tanti lo potrebbe fornire Barry Beck, il più grande derattizzatore di New York, che non si perde in giri di parole per ammettere di non essere minimamente interessato a chiunque gli impedisca di fare cassa: «Sono un capitalista - taglia corto. - Se non ci guadagno non ho bisogno di te». Ancora meno sorvegliate potrebbero risultare le parole pronunciate dal rappresentante di una grande compagnia per il controllo dei parassiti, nel corso di un convegno organizzato dalla rivista «Pest Control Technology»: «La cattiva notizia - dichiara l'esperto - è che i ratti vinceranno la guerra contro gli uomini. La buona notizia è che potremo fare un mare di soldi».
Soldi già fruttati a Kit Burns, un immigrato irlandese che a partire dal 1840 organizzò combattimenti tra uomini e animali alla Sportsman's Hall, una specie di arena nella quale gli uomini dovevano decapitare i ratti con un morso, qualche decennio prima che gli uni e gli altri venissero salvati dal nuovo entusiasmo del pubblico per il baseball.
In virtù del significato che hanno storicamente assunto nella sfera simbolica, si direbbe che le pantegane custodiscano il segreto delle verità ripugnanti e che lo trasmettano per contagio, aggirandosi nel sistema fognario di una civiltà che allo stesso tempo sfruttano e aggrediscono, saccheggiano e santificano, popolano e tradiscono. A volte basta loro una piccola parte in commedia, come quando il sindaco di Milwaukee, impegnato in una campagna di disinfestazione, esclude che vi sia un qualsiasi rapporto tra l'aumento della criminalità e l'impoverimento dei sobborghi: il punto è che commettere reati sarà sempre «più divertente che immergere una lega di metallo in qualche sostanza chimica in una centrale termica». Perché svaligiare un attico o rapinare una banca è più eccitante che lavorare, alla faccia di tutti i discorsi che tenderebbero a dissimulare il contenuto di violenza delle differenze di ceto. Ma forse la verità dei ratti e delle fobie che ispirano, alla resa dei conti, è mutuata proprio da qui, dal ruolo che interpretano nella dialettica tra il dicibile e l'indicibile, la conformità e l'indecenza, il puro e l'impuro.
Una volta Italo Calvino scrisse che il programma della modernità si poteva riassumere nella riduzione del mondo a un «cromato candore ospedaliero e dentistico», un sogno malato di purezza che l'esistenza dei ratti, di per sé, sembra deputata a squadernare. Di tutti i ratti, dice Sullivan, anche di quello che nuota nelle acque di scarico per spuntare dal water e che si fa interprete di una potenza della vita irriducibile a qualsiasi modello sanitario. A dirla tutta, esistono forme di liberazione meno traumatiche della comparsa di un topo di quaranta centimetri tra gli elementi della nostra camera da bagno, ma è pur vero che il rattus norvegicus oppone alla sterilità dell'ambulatorio la buona novella di una vita sensibilmente più impura, compromessa e quindi reale. «Una scintilla feconda - come la chiama Robert Sullivan, - che vi piaccia o meno».
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20.10.07

Attrazioni criminali nella fabbrica del consenso

Prove tecniche di «legge e ordine» in «tv-movie» dove ex-marines sono a caccia di killer in un paese sepolto sotto una montagna di cadaveri.
Da Cogne a Erba, da Erika e Omar a Garlasco, la cronaca nera è diventata una pervasiva macchina del controllo sociale. Sono così cancellati i delitti compiuti dall'ecomafia e contro i beni comuni operati da quella grande industria dell'illegalità che vede nello stesso consiglio di amministrazione la criminalità organizzata e la grande finanza
Massimo Carlotto
Come racconta il crimine la televisione italiana? E soprattutto quale crimine racconta? Vi è mai capitato di vedere un servizio sulla mafia russa o su una delle tante organizzazioni transnazionali che ormai hanno pianta stabile in questo paese? E sulla commistione tra investimenti economici italiani in certi stati dell'est e mafie locali? I casi sono troppo numerosi per essere elencati tutti ma, a parte qualche coraggioso esempio, come Blunotte di Carlo Lucarelli, Chi l'ha visto dell'era Sciarelli e Report di Milena Gabanelli, la televisione si guarda bene dal fare giornalismo d'inchiesta. Anzi, non ne ha la minima intenzione e il motivo è semplice. Gli affari criminali di un certo livello, quelli dove si fanno i soldi veri, non possono non prevedere il coinvolgimento di personaggi che provengono dal mondo della finanza, dell'imprenditoria e della politica. Il bacino del Mediterraneo è l'area dove viene riciclata buona parte del denaro sporco delle mafie internazionali, pensate che sia possibile senza rapporti di complicità con settori importanti delle categorie appena citate? E l'ecomafia?
L'Italia è sempre di più un paese corrotto e criminogeno, non c'è un solo settore della nostra società che non sia investito dal malaffare. Eppure tutto questo per la televisione non esiste pur occupandosi ampiamente di crimine. Dalla mattina alla sera non c'è programma dove conduttori e una pletora di «esperti» non si dilunghino sul caso del momento. Da tempo esiste un intreccio, anche produttivo, tra programmi di intrattenimento con momenti di informazione e quelli di «approfondimento» che ha come scopo occuparsi di delitti e crimini, seguendo due precisi filoni. Da un lato l'omicidio del momento e dall'altro l'allarme sociale più attuale.
Gogna mediatica
In Italia ci si ammazza spesso e volentieri. Soprattutto in famiglia. La causa è determinata dalla fine dello stato sociale che alimenta insicurezze profonde nelle persone sempre più preoccupate del presente e del futuro. Ansie che si riversano nella famiglia, che è diventata il fulcro di queste e altre contraddizioni pericolose e spesso insanabili. Ma ovviamente non è questa la lettura data al fenomeno e tantomeno si tenta di comprenderlo mettendo in discussione il tipo di società in cui viviamo ma, al contrario, vengono accuratamente scelti casi che per le caratteristiche di mistero e/o orrore e morbosità possono «affascinare» l'opinione pubblica. Dalla misteriosa morte della contessa Agusta in poi è stato messo in piedi un circo mediatico pronto a girare l'Italia alla ricerca di questo tipo di delitti, totalmente privi di «senso» per la comprensione dei fenomeni criminali in questo Paese. Erika e Omar, Cogne, la strage di Erba, il più recente delitto di Garlasco sono gli esempi più conosciuti e che tanto appassionano gli italiani. Casi di cui non ci libereremo mai perché anche la notiziola più insignificante è in grado di rimettere in pista il caso. Se fate attenzione vi renderete conto che sono tutti trattati nello stesso modo. Questo modo di fare giornalismo è perennemente uguale a se stesso. Gli esperti, in particolare, ripetono all'infinito sempre i soliti concetti. A ben vedere, le trasmissioni, peraltro seguitissime, sono di una noia mortale. Il segreto del loro successo sta nell'aver riprodotto e adattato al mezzo televisivo «l'uso sociale» del romanzo poliziesco e che lo ha reso il genere letterario più letto al mondo, il quale fin dalle sue origini ha avuto lo scopo di reificare la morte. Un concetto astratto che genera in ognuno di noi ansia, paure e infinite domande, nel giallo diventa un «oggetto» da analizzare. Non è la morte del lettore quella in discussione ma quella di un estraneo. La morte non è più tragedia ma l'oggetto di un'inchiesta. In questo senso la televisione ha fatto un salto di qualità perché lo spettatore nel seguire le infinite ore di trasmissione sul delitto di Garlasco riesce a sopprimere temporaneamente «tutte» le proprie ansie sostituendole con quelle determinate dal caso. La gente non ha mai letto Sherlock Holmes per coltivarsi, per capire la natura della società o quella della condizione umana in generale, ma semplicemente per distendersi. Ecco, anche lo spettatore si distende con quelle piccole tragedie ingigantite ad arte dalla spettacolarizzazione.
Magistratura delegittimata
Ma mentre il rapporto tra lettore e libro è individuale e intimo, quello tra spettatore e mezzo televisivo è collettivo. La conseguenza è stata la celebrazione dei processi al di fuori delle aule di giustizia. Al bar, in ufficio, sotto l'ombrellone, tra sconosciuti in treno, la moda nazionale è discutere del caso del momento con la stessa competenza da allenatore che gli italiani hanno sempre avuto nel parlare di calcio. E in un paese che, dal tempo della strage di Piazza Fontana, ha perduto il senso della verità e nessuno crede più alle versioni «ufficiali», questo agire collettivo ha determinato un lento processo di delegittimazione della magistratura e dei suoi giudizi. Perché una corte può decidere quello che vuole ma la parte dell'opinione pubblica orientata diversamente non sarà mai convinta della giustezza del verdetto.
Ma nel caso di Garlasco, il grande circo mediatico ha alzato il tiro. Per la prima volta, in modo massiccio, ha chiesto alla gente della strada un giudizio sulla colpevolezza di Alberto Stasi e questa insensatezza ha creato un clima da tribunale popolare a cui nemmeno gli esperti hanno saputo sottrarsi. Ore di trasmissione per analizzare se la presunta «freddezza» del giovane indagato era o meno la maschera dietro cui si nascondeva un omicida. Anni di garantismo e civiltà giuridica spazzati via dalla necessità di spolpare l'osso anche quando la notizia segnava il passo. E gli effetti si sono visti nel momento dell'arresto di Stasi, quando la gente, di fronte alle telecamere, ha ringhiato come un fedele rottweiler. E nessuno che si sia precipitato a dire che quel comportamento era incivile.
In stallo il caso di Garlasco, a tenere in piedi la baracca ci hanno pensato i coniugi accusati della strage di Erba, ritrattando la confessione. D'altronde anche imputati e avvocati guardano la televisione e hanno imparato le regole del gioco e se i Ris non hanno trovato tracce degli accusati sul luogo del delitto vuol dire che sono innocenti.
Questo reparto della scientifica è diventato un personaggio fondamentale di questa spettacolarizzazione e il messaggio che si è sedimentato nell'immaginario collettivo è che la scienza applicata alle indagini di polizia è infallibile. Peccato che la realtà sia ben diversa da una puntata di Csi e, nonostante tutti i casi più celebri abbiano puntualmente dato risultanze ambigue sul piano scientifico, si continua a blaterare di tracce ematiche e dna prive di reale significato probatorio. Questa non è solo cialtroneria e ignoranza ma corrisponde alla necessità di inviare al telespettatore un messaggio socialmente rassicurante e cioè che la scienza elimina la possibilità dell'errore giudiziario. E su questo spingono tutti, giudici compresi.
A proposto di giudici il caso di Garlasco ha visto come ospite in una trasmissione televisiva il procuratore capo, segno che nessuno ormai si può permettere di rimanere all'esterno del tendone del circo. Nessuno ha obiettato. Sarebbe troppo facile limitarsi ad affermare che si tratta di un segno dei tempi, è invece evidente che si stanno trasformando anche i rapporti tra magistratura e informazione e questo non fa presagire nulla di buono. Qualche malalingua sostiene che nelle procure tiri una certa aria, da voglia pazza di '92... ma si tratta certamente di illazioni come suggerisce la qualità dei rapporti tra magistratura e mondo politico.
Cercasi repressione
Diverso il ruolo dei programmi di intrattenimento con momenti di informazione che hanno il compito di trattare i cosiddetti fenomeni di allarme sociale, dalla droga ai rom, dagli effetti devastanti dell'indulto alle moschee. Ovviamente di Garlasco come degli altri casi hanno parlato ampiamente ma, per il tipo di struttura, sono più adatti ad affrontare il «sociale» tra un servizio sull'«Isola dei famosi» e uno sull'ultimo amore dell'ultima stellina dell'infinito firmamento televisivo.
Inutile soffermarsi sul modo in cui vengono tratti i vari argomenti ma quello che va sottolineato è che il messaggio generale punta a un rafforzamento del controllo sociale nella direzione di una società più repressiva. Non c'è un solo programma fuori dal coro. Gli esperti (che ormai sono il tormentone di questo modo di fare informazione e che sono trasversali alle reti) anche in questo caso vengono chiamati a dare autorevolezza ai soliti luoghi comuni. Non si può parlare di qualità dell'informazione ma si deve invece rendersi conto che si tratta di una potente fabbrica del consenso. Chi non capisce perché parte della sinistra sia oggi così meno sensibile ai temi dei diritti, delle libertà individuali e della solidarietà sociale farebbe bene a farsi una scorpacciata di questi programmi. Senza scordare quelli delle emittenti locali. Magari quelle del Nordest, tanto per fare un esempio.
ilmanifesto.it

14.10.07

Una impertinente nel mondo del romanzo

Ancora un Nobel politically correct. Premiando l'autrice del «Taccuino d'oro», l'Accademia di Svezia ha voluto riconoscere «lo scetticismo e la passione» con cui Doris Lessing ha raccontato l'epopea dell'esperienza femminile. Nell'arco di oltre mezzo secolo ha scritto diverse decine di opere tra narrativa e saggistica
Maria Antonietta Saracino

In esergo, sulla pagina bianca che precede l'inizio del suo primo romanzo, una frase anonima recita: «È dai falliti e dagli sconfitti di una civiltà che se ne possono meglio giudicare le debolezze». Era il 1949. Con il manoscritto di quel romanzo, L'erba canta, sotto il braccio, studi da autodidatta, una esperienza di lavoro come centralinista, due matrimoni falliti e tre figli alle spalle, Doris Lessing - nata Tyler in Persia, nel 1919 - lasciava la Rhodesia del sud, oggi Zimbabwe, nella quale aveva trascorso trent'anni, per approdare a Londra dove tuttora vive. Si lasciava dietro i due figli avuti dal primo marito (il terzo figlio lo avrebbe portato con sé) e i ricordi della famiglia di origine - emigrata in quella parte di mondo dopo la prima guerra mondiale - impoverita e sconfitta: il padre mutilato di una gamba per colpa di una mina, la madre delusa da una vita che non aveva scelto.

Scetticismo e passione
Insieme agli anni trascorsi in una fattoria nel veld, Lessing lasciava anche la fase dell'impegno politico, cui proprio in Rhodesia si era intensamente dedicata. Dell'Africa, osservatorio privilegiato di alcune delle più grandi follie dei nostri tempi (colonialismo, razzismo, violenza, guerre), dirà che è stata il più grande dono che la vita le abbia fatto, a quel mondo insistentemente tornando in tanti suoi romanzi. Con lo stesso sguardo lucido e attento, che da allora costantemente la accompagna e che proprio in quel contesto aveva preso forma, osserverà la vita delle donne, raccontata fin dal primo romanzo, e nei molti che sarebbero seguiti, senza enfasi o retorica. Sarà questo sguardo, grazie al quale intere generazioni si sono riconosciute nei suoi libri, a fornire la motivazione di questo Nobel per la letteratura, che in Lessing vede «l'autrice di un'epopea dell'esperienza femminile che con scetticismo, passione e forza visionaria ha sottoposto una civiltà divisa a un attento scrutinio».
Da L'erba canta (La Tartaruga), apparso a Londra nel 1950, a oggi, Doris Lessing ha presentato pressoché ogni anno un'opera di narrativa. Alla sua prosa lineare e solida, che richiama quella dei grandi narratori ottocenteschi, ha consegnato una ininterrotta serie di romanzi, ma anche di racconti brevi e novelle, tre opere teatrali e numerosi saggi e scritti di viaggio, tutti con un preciso taglio politico. È ad esempio a seguito della pubblicazione di uno di questi, Going Home, nel 1957, che verrà dichiarata persona non grata in Rhodesia, dove tornerà solo dopo l'indipendenza, nel 1981, esperienza questa riportata nel volume Sorriso africano. Quattro visite nello Zimbabwe, del 1992. E sarà tra i primi a scrivere con occhio fortemente critico della presenza occidentale in Afghanistan, dove si recò al seguito di un programma umanitario, in un prezioso libretto intitolato non a caso The Wind Blows Away Our Words, «Il vento soffia via le nostre parole», del 1987. Di politica e follia umana parlerà ancora nelle Massey Lectures, che tenne in Canada nel 1985, pubblicate con il titolo di Prisons We Choose To Live Inside (Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Minimum Fax).
Ma soprattutto ha scritto di donne, guadagnandosi la mai accettata quanto superficiale etichetta di «scrittrice femminista», dando voce lungo un arco di oltre cinquant'anni ai più importanti momenti dell'esperienza femminile: dalla Mary Turner dell'Erba canta, nella quale traspone il personaggio di sua madre, sopraffatta da un'Africa che non capisce e che le fa paura, alla figura di Anna Wulf del Taccuino d'oro (1962), libro-culto di una generazione, dalle figure femminili che affollano i cinque corposi volumi della serie I figli della violenza, apparsi tra il 1966 e il '75, a quelle, forse più inquietanti, del ciclo di fantascienza Canopus in Argos cui approda dopo un avvicinamento alla filosofia sufi. Ma anche la Harriet del Quinto figlio, del 1988, quintessenza della sposa felice, la cui vita viene sconvolta dalla nascita di un figlio difficile, un diverso, la cui esistenza ricadrà interamente sulle spalle della madre. O il personaggio della «brava terrorista», che dà il titolo all'omonimo romanzo e che si interroga sulla doppia vita di chi, dietro una esistenza apparentemente «normale», aveva scelto la militanza armata.
A Lessing si deve il merito di averci saputo rimandare lo sguardo sul mondo di una bambina di tre anni, lei stessa, nello struggente Sotto la pelle, primo di due volumi di una autobiografia che Lessing diede alle stampe nel 1994, a settantatré anni, rivendicando il diritto di raccontare la propria storia per impedire ad altri di farlo per lei. Il racconto è durissimo: il mondo non capisce i bambini e li condanna a un dolore che li accompagnerà nella vita adulta. Così è stato per lei, che - con la memoria di allora, vivida e impietosa - rivela il suo nocciolo di rancore verso la famiglia. Verso la madre, innanzitutto, tutta presa da se stessa, descritta con immutato risentimento a decenni dalla sua morte: a lei Lessing dedica nel 1986 una biografia dal titolo Impertinent Daughters. My Mother's life, apparsa in italiano con il titolo Mia madre (Bollati Boringhieri). Di lei parla estesamente e ancora con acredine nei volumi della sua autobiografia, Sotto la pelle appunto e Camminando nell'ombra. Ma è dura anche nei confronti del padre, ritratto nella figura di Dick Turner, il colonizzatore povero e perdente dell'Erba canta, travolto dal sogno di una realizzazione economica che non arriverà mai.

Il valore della vecchiaia
Impietosa nei confronti della retorica della maternità, la smaschera parlando delle maternità sue, mai del tutto accettate. Che le hanno insegnato, dice, come l'affetto verso i bambini nulla abbia a che vedere, nella donna, con l'esperienza fisica dell'essere madre. Così è stato per lei che, non ancora trentenne, in Rhodesia, si fece sterilizzare. All'altro estremo della parabola umana, a Lessing si devono straordinari personaggi di donne anziane, come la indomita barbona del Diario di Jane Somers che non si lascia accudire per non consentire agli altri di sentirsi con la coscienza a posto. Un personaggio di grande forza che Judith Malina del Living Theatre ha portato sulle scene teatrali in un celebre monologo.
Le sue donne anziane rivendicano il diritto all'amore e all'erotismo, come accade alla protagonista sessantacinquenne di Amare, ancora, del 1996, turbata e incredula davanti a una ondata di emozioni che, per la prima volta dopo tanto tempo, ricomincia a provare quando si scopre innamorata di un uomo assai più giovane di lei. Sul tema dell'amore tra una donna anziana e un ragazzo poco più che adolescente, Doris Lessing torna, nel 2003, con il lungo racconto Le nonne, che dà il titolo all'omonimo volume (Feltrinelli), presentato dalla scrittrice al Festivaletteratura di Mantova del 2004.

Ideologie inaffidabili
Fragile nel fisico ma estremamente lucida, Doris Lessing si è presentata in quella occasione pronta a ragionare sul presente e sul passato, sulla stupidità degli uomini e sulla inaffidabilità delle ideologie, il suo costante pensiero di questi anni. Perché «in my extreme old age», ha detto, «mi rendo conto di aver vissuto momenti della storia che sembravano immortali. Ho visto il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini, che sembravano destinati a durare mille anni. E il comunismo dell'Unione Sovietica, che si credeva non sarebbe finito mai. Ebbene tutto questo oggi non esiste più. E allora perché mi dovrei fidare delle ideologie?». Si è detta stanca, Doris Lessing, di vivere in un mondo che sembra avere perduto ogni centro di gravità; dove le donne di molti paesi occidentali non vogliono più fare figli, i giovani non trovano lavoro né casa, dove vecchi e bambini vivono una insostenibile condizione di incertezza.
Ma oggi, e ormai da tempo, è il pensiero della guerra a tormentarla, anzi delle molte guerre che il mondo si ostina a ignorare. Ne ha viste davvero tante, lei, nata nel 1919, prima fra tutte la Grande Guerra, il cui ricordo ha ossessionato la sua giovinezza. «La stupidità degli uomini è tale che nonostante tutto quello che abbiamo vissuto, non siamo riusciti a imparare dall'esperienza. La guerra porta solo distruzione e morte, e sono i più indifesi a pagarne il prezzo». Su questa mostruosità, aveva concluso la scrittrice in quella occasione, tutti dovremmo riflettere, se vogliamo che davvero le cose comincino a cambiare.

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