5.3.05

1968, quando studenti e operai fraternizzavano

Il maggio e le sue vite successive

Cosa resta del Maggio? I ricordi annebbiati d'una «generazione» che cerca le cause del suo pentimento? Eppure, come ricorda Kristin Ross, studiosa di New York in un lavoro pubblicato da Le Monde diplomatique e da Complete, la rivolta del 1968 fu prima di tutto l'occasione di uno straordinario incontro tra operai e studenti per la rimessa in causa dell'ordine sociale.

Kristin Ross
Le rappresentazioni che si fondano sull'austerità della vita militante nascondono totalmente un aspetto che pure emerge piuttosto chiaramente come uno dei ricordi salienti in quasi tutti i racconti di attivisti: il piacere che nasceva, a volte, dalla semplice cancellazione delle barriere sociali, in una società profondamente compartimentata come la Francia, dove la comunicazione, e a maggior ragione quella sovversiva, non si stabiliva facilmente tra un settore e l'altro della società! Durante le settimane dell'insurrezione, si verificarono parecchi cambiamenti, tra i quali la moltiplicazione di ciò che Jean-Franklin Narot (1) chiama «l'incontro»: non una riunione in qualche società segreta, riservata a pochi iniziati, ma piuttosto il risultato di contatti e di relazioni tra persone che, per le differenze di statuto sociale, culturale o professionale, non erano destinate a incontrarsi.
Anche se insignificanti a prima vista, certi piccoli segnali suggerivano l'idea che gli intermediari e la segmentazione sociale erano stati semplicemente spazzati via.
Il racconto di Martine Storti (2) non manca di ricordare il lato fastidioso della vita militante, che secondo lei, si cristallizza nella tecnica oggi obsoleta del ciclostile; molto più tardi (scrive anche lei nei tardi anni '80), il ricordo di questa esperienza la sommergerà, con la sua ricchezza sensoriale e emozionale, quando scoprirà la sua madeleine proustiana sotto forma di una matrice per ciclostile abbandonata: «E, stropicciata in mezzo ai volantini, una reliquia, questa matrice vergine vecchia di una trentina di anni: ha ancora lo stesso odore, quell'odore di inchiostro, di carta carbone, un odore particolare, acido e dolciastro assieme, pepato e zuccherato, l'odore delle ore, delle giornate, delle notti passate a fare volantini con il ciclostile, con il terrore della catastrofe, del momento in cui la matrice si sarebbe lacerata, per troppo inchiostro o eccessiva velocità del ciclostile. Dopo aver cercato, quasi sempre inutilmente, di aggiustare i pezzi lacerati e di azionare il ciclostile a rilento, con la mano, sperando che la matrice resistesse fino alla fine, dovevamo rassegnarci a battere di nuovo il testo su una nuova matrice, battendo con due dita su un vecchio rudere».
Questo racconto, e quelli di altri militanti, suggeriscono molteplici piaceri, legati alla trasgressione fisica e sociale, ma anche alla possibilità di nuove amicizie o complicità. Un piacere, dice Storti, ben diverso dalla rivendicazione, dalla parola d'ordine rivoluzionaria del Maggio '68 («Godere senza limiti») di cui, peraltro, ella diffida in particolar modo, che non è un fine in sé e che, sul momento non sembra nemmeno necessariamente tale. Il piacere di superare la segmentazione, fisica o sociale, è proporzionale alla durezza della segregazione sociale urbana del tempo; i dialoghi allacciati, nonostante questa segregazione, veicolano un sentimento di trasformazione urgente, immediata, vissuta non come una futura ricompensa ma nell'istante.
Nel 1978, Robert Linhart ricorda (3): «Circa quindici anni fa, le fabbriche erano un mondo chiuso, e dovevamo mendicare le testimonianze»; un'altra militante, che lavorava in fabbrica alla catena di montaggio, scrive che prima del suo arrivo e di quello di altri intellettuali, «gli operai lavoravano nei sobborghi di Parigi, e gli stabilimenti ci sembravano lontani e inavvicinabili quanto l'Algeria o il Vietnam (4)». Persino Jean-Pierre Thorn, realizzatore del documentario Oser lutter, oser vaincre, sullo sciopero violento di Flins, ricorda la sua infanzia e adolescenza segnate da una vera e propria segregazione sociale: «Fino al 1968, non ero consapevole della presenza delle fabbriche o della classe operaia. In quel momento ho cominciato a notare che esisteva intorno a noi un universo impressionante, che aveva il potere di paralizzare il paese smettendo di lavorare. Le bandiere rosse pendevano alle porte degli stabilimenti. Avevo vent'anni ed è stato un trauma. (5)» Claire, che insegnava in un liceo parigino nel 1968, parla, dieci anni dopo, dell'emozione provata nel vedere finalmente superate barriere sociali ritenute in passato invalicabili: «Incontravo per la prima volta degli operai. Non ne avevo mai visti.
Senza scherzi, neanche nella metropolitana. [...] mai visto una fabbrica.
Di colpo, ho vissuto e ho lavorato soltanto con operai: vecchi membri del partito e immigrati più giovani. I ricordi, i miei unici veri ricordi del Maggio '68, non sono le manifestazioni, ma piuttosto, le riunioni dagli operai, due volte alla settimana. Le fabbriche erano in sciopero, occupate, ci si riuniva per «fare teoria», E si faceva della teoria, ma come lo si poteva fare nel '68 [...]. Mi sentivo bene. E credevo che sarebbe durato. Non immaginavo ciò che oggi sono davvero costretta a costatare, cioè che non avrei proprio più visto operai [...]. Ci accoglievano senza problemi ai picchetti di scioperanti, ci lasciavano entrare liberamente nelle officine...
(6)». Un altro militante ricorda incontri come questi: «Quando militavo, invece, incontravo un sacco di altre persone, socialmente diverse [...] ricordo il calore umano che si stabiliva tra di noi. Quando militi, la cosa che fa sopportare tutto è il fatto di ritrovarsi come questa mattina, alle 4, quando il tempo è bello, con un obbiettivo comune che sfugge agli altri, con la felicità di stare in un posto dove non si dovrebbe stare, questa specie di complicità (7)».
Un altro piacere, forse più marginale, ma altrettanto autentico, accompagna questi spostamenti trasgressivi oltre le barriere sociali, dall'altra parte del «muro»: il piacere di abbandonare tutto dietro di sé, di liberarsi delle speranze vane e del peso morto delle abitudini che ancorano la gente in un luogo o in uno spazio prestabiliti. Per Jacques e Danielle Rancière (8), si tratta di un piaceree diverso, spesso taciuto nelle descrizioni miserabiliste post-68 dei militanti che «si mescolano ai lavoratori»: «L'intellettuale doveva estirpare da sé tutto quanto, nel suo modo di parlare o di essere, rischiava di ricordare le sue origini, tutto ciò che, nelle sue abitudini, lo separava dal popolo. Un ideale pieno di contraddizioni, assimilato con una analisi un po' troppo semplicistica alle figure dello scoutismo o dell'ascesi. All'epoca, il conto dei piaceri e delle sofferenze non era deficitario. Lasciare ai vecchi partiti e ai giovani carrieristi il compito di cogestire le università e di ridipingere il marxismo con i più recenti colori epistemologici o semiologici per penetrare nella realtà della fabbrica o nel clima di amicizia dei caffè e dei centri per immigrati non era poi cosi lugubre (cosa che si sarebbe capita in seguito). In un certo senso, servire il popolo non era che l'altra faccia dell'effettivo disgusto per il proseguimento degli esercizi universitari, da un lato o dall'altro della cattedra. La trasformazione dell'intellettuale può essere vissuta come una vera e propria liberazione».
Anche se gustato a posteriori, e sentito indirettamente e soprattutto nel momento difficile della ripresa e del ritorno alle proprie abitudini e nel proprio ambiente, il piacere è stato forte. I racconti di gente ormai affermata, intellettuali o militanti, che lavorarono talvolta anni in fabbrica, offrono scarsi elementi a favore di quell'altro stereotipo miserabilista di militanti che sposano lo stile di vita degli operai o soffrono di una sorta di bisogno patologico di diventare seriamente uno di loro. Né si trova traccia del discorso più utopistico di Gilles Deleuze sul divenire - divenire-animale, divenire-macchina, divenire operaio - concepito come desiderio di metamorfosi. Anzi, un notabile insiste: «L'unica cosa che mi interessava, era trovare operai per darci il cambio a livello politico. Soprattutto non volevo mettermi al loro posto (9)». «Per noi, non si è mai trattato di un gesto di purificazione, ma di una misura politica (10)». «Stavo bene in fabbrica; non volevo dimenticare la mia condizione di intellettuale ma far incontrare persone di origini diverse. Volevo lavorare dall'interno e soprattutto non intendevo tagliare i ponti appena arrivato (11)».
Eppure, come succedette all'inizio di maggio, si scopriva che la distanza tra operai e studenti non era poi così grande. «C'è stato il Maggio 68. Dopo quei pochi mesi passati in fabbrica, il mondo degli studenti era già molto avanti. Dopo la manifestazione del 13 maggio, Renault è entrata in sciopero; il 15 o il 16, è stata decisa l'occupazione della nostra fabbrica. [...] una vera piccola guerra dall'interno, che si è protratta per sei settimane! ... Mi sentivo a mio agio in questo clima, tanto più che, a quel tempo, gli operai 'si intellettualizzavano', ci incontravamo a metà strada dei nostri percorsi rispettivi. I giovani della fabbrica andavano sulle barricate e alla Sorbona (12)!».
Ha forse ragione Danieel Bensaïd (13) nel suggerire che tutti i travestimenti simbolici dei primi giorni del Maggio (manifestazioni pseudo-insurrezionali, selve di bandiere nere, barricate, occupazioni di università), chiaramente ispirate alle tradizioni delle lotte operaie, vanno capiti come un insieme semantico, un linguaggio attraverso il quale il movimento studentesco cercava di rivolgersi agli operai senza la mediazione dei leader burocratici, di creare una comunicazione tra due mondi finora chiusi e di raggiungere la classe operaia attraverso un lungo processo di cerchi concentrici. Persino una parola d'ordine come Crs14=Ss che gli studenti scandivano fin dal 3 maggio mentre erano stati chiamati alla Sorbona soltanto i gendarmi e non si vedeva ancora alcun Crs, potrebbe essere letto come un esorcismo. In un certo senso, gli studenti esageravano la situazione, visto che i Crs non erano ancora arrivati, accelerando gli avvenimenti o spingendoli al limite.
Ma essi si rivolgevano anche ai lavoratori, che non erano ancora presenti, e ciò facendo, ne prendevano a prestito il linguaggio specifico.
In fatti, non erano stati gli studenti a inventare questa parola d'ordine, che era stata usata per la prima volta dai minatori in sciopero negli anni 1947-48, subito dopo che il ministro socialista dell'interno aveva istituito, e si era rivolto a queste nuove forze dell'ordine per porre fine allo sciopero. All'inizio dello sciopero generale, a metà maggio, il comitato di azione Lavoratori-Studenti della periferia di Censier, diede il compito specifico di collegare l'università e le fabbriche. Censier era un po' al di fuori dei sentieri battuti dai giornalisti, più interessati alla Sorbona e al teatro dell'Odéon, questi grandi anfiteatri del delirio verbale. I documenti redatti dal comitato d'azione durante i due mesi di maggio e giugno confermano l'esistenza di una cooperazione tra giovani studenti e operai, durante lo sciopero. Ma a Censier, lo spostamento funzionava nell'altro senso, non erano gli studenti ad andare verso gli operai, ma il contrario. In realtà, gli operai erano attratti dalle enormi possibilità materiali offerte da questi luoghi: locali aperti a tutte le ore, ciclostili, manodopera sempre disponibile per i collegamenti, per i lavori di stampa, per i dibattiti, ecc. Era uno spazio diverso nei confronti della vita sindacale nelle fabbriche, dove gli operai dovevano fare i conti con inspiegabili interdizioni, reticenze, controlli, sorveglianze e manovre di ogni genere. Censier, dove si potevano redigere rapporti, nominare portavoce, fornire agli scioperanti un aiuto materiale , divenne un centro di coordinamento e di collegamento la cui efficacia fu, talvolta, reale.
La sua esistenza previene ogni diniego ironico della mitologia operaia spesso attribuita al Maggio, così come contraddice l'idea che lo sciopero si sia sviluppato in modo autonomo, senza alcun legame con il movimento studentesco come se la loro simultaneità fosse stata pura coincidenza.

note:

(1) Psicanalista, autore di «Mai 68 raconté aux enfants. Contribution à la critique de l'inintelligence organisée», Le Débat, n° 51, settembre-novembre 1988.

(2) Militante nel 1968, quindi giornalista a Libération, Martine Storti ha scritto Un chagrin politique: de Mai 68 aux annèes 80, L'Harmattan, Parigi, 1996, p. 52.

(3) «Évolution du procès de travail et lutte de classe», Critique communiste, 1978. Dirigente maoista, Robert Linhart ha tratto dalla sua esperienza in fabbrica un libro intitolato L'Établi, ed. de Minuit, Parigi, 1978.

(4) Jenny Chomienne, citata da Virginie Linhart, in Volontaires pour l'usine, Vies d'établis, 1967-1977, Seuil, Parigi, 1994, p.. 102.

(5) Jean-Pierre Thorn, citato da Linhart in Volontaires..., cit.
pp. 190-191.

(6) Claire, insegnante, citata di Libération, 19 maggio 1978.

(7) Un militante anonimo, citato da Bruno Giorgini in Que sont mes amis devenus? (Mai 68-été 78, dix ans après), Savelli, Parigi, 1978, p. 50.

(8) Danièle e Jacques Rancière, militanti maoisti, poi filosofi, «La Lègende des philosophes (les intellectuels de la traversée du gauchisme)», Révoltes logiques, 1978.
(9) Nicole Linhhart, citata da Linhart, in Volontaires, op. cit., p. 119.

(10) Georges, operaio-ingegnere, citato da Michèle Manceaux, in Les Maos de France, Gallimard, Paris, 1972 p. 63.

(11) Yves Cohen, citato da Linhart, in Volontaires, op.cit., p. 181.

(12) Danièle Léon, citato da Linhart, in Volontaires, op.cit., p.
123.

(13) Militante trotskista e filosofo.

(14) Crs: membro di una «Compagnie Répubblicaine de Sécurité» [N.d.T.].
(Traduzione di M.G.G.)

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