14.12.16

Mattarellum, quel passo indietro che i partiti non vogliono fare

Aldo Cazzullo (Corriere)

Chi ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici costituzionali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva? La Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una legge violano la Costituzione. È possibile che dalla sentenza esca una legge che possa essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislatore no. Non facciamoci illusioni: approvare una nuova legge elettorale in Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio interesse particolare e non quello generale. Non dappertutto è così. Nelle democrazie anglosassoni il sistema elettorale è lo stesso da generazioni. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono cambiare le regole in base alle convenienze del momento. Chi violò questo patto — Mitterrand nel 1986 — pagò caro l’azzardo; e fece subito retromarcia, ripristinando i collegi uninominali con doppio turno che hanno garantito alla Francia stabilità e alternanza. Anche nei sistemi anglosassoni ci sono i collegi uninominali, ma a turno unico.

Pure l’Italia ha conosciuto una stagione così. Poco più di centomila elettori esprimevano il loro parlamentare. In questo modo abbiamo avuto appunto la stabilità e l’alternanza per due intere legislature (quasi un miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il centrosinistra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato il centrodestra, con Berlusconi. Questa legge porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Un dettaglio non secondario. Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al Paese norme che non riflettevano l’interesse della propria parte, ma la volontà popolare. Il sistema maggioritario non nasce dal nulla. Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che domenica scorsa hanno bocciato la riforma costituzionale, per chiudere l’era del proporzionale. Qualcuno ha nostalgia degli anni in cui tracciavamo una croce sul simbolo di uno dei tanti partiti — che non perdevano e non vincevano mai veramente —, delegando la formazione del governo alle segreterie, provocando instabilità e consociativismo? Eppure è lì che si rischia di tornare: al proporzionale, con un modesto premio di maggioranza che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di conquistare. Con il retropensiero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle? Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della politica alle prese con alambicchi da cui distillare — ammesso che esista — la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese?

5.12.16

Referendum, così Renzi ha perso i giovani e il Sud

Ilvo Diamanti (La Repubblica)

Il referendum costituzionale, alla fine, si è tradotto in un referendum su Renzi.  Ma il risultato ha travolto anche il Premier, insieme alla riforma costituzionale. Perché il significato "politico" del voto è indubbio. Sottolineato, non solo dalla misura raggiunta dai No, circa il 60%, ma, anzitutto, dall'ampiezza della partecipazione elettorale. Quasi il 70%. Molto più elevata rispetto ai precedenti referendum costituzionali. Impossibile per Renzi non rassegnare le dimissioni, insieme al governo.

D'altra parte, sia l'affluenza al voto, sia il risultato del Sì riflettono quasi fedelmente ciò che era avvenuto alle elezioni europee del 2014. Il momento di maggiore affermazione per Renzi e il suo PD. Il problema è che da allora molte cose sono cambiate nel Paese ma anche a livello internazionale. La crisi, in particolare, ha generato incertezza. E ha aperto divisioni nel Paese. Non per caso si è riaperta la distanza rispetto al Mezzogiorno, l'area dove il No ha raggiunto risultati fra i più elevati. Ma anche nel Nord l'affluenza e il distacco nei confronti del referendum appaiono ampi ed estesi. Perché l'economia non funziona più come un tempo. Mentre, sul piano generazionale, è significativa la sfiducia espressa dai giovani, con il voto. Segno che oggi credono poco nel futuro di questo Paese. E per questo se ne vanno altrove, appena possono. L'analisi del risultato referendario, condotta a partire dalle elaborazioni di Demos e dell'Osservatorio elettorale del LaPolis, dell'Università di Urbino, non permette di produrre scenari politici. Che, peraltro, sono incerti. Di certo c'è solo il fatto che, dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi, in assenza di altri progetti e obiettivi unitari. Ma da domani tutto tornerà instabile. Quanto alla "riduzione" del Bicameralismo paritario e dei poteri del Senato, tutto rinviato. A data da destinarsi.
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