21.2.06

Tra le riforme anche l’onestà

di Carlo Bastasin

Evitare il declino dell’Italia è il tema dell’azione del prossimo governo. Piano piano anche i protagonisti di questa terribile campagna elettorale ne stanno prendendo atto. Cominciano a emergere proposte coraggiose di intervento come quella del centrosinistra sul costo del lavoro, assorbita poi anche dall’attuale coalizione di governo. I programmi, con dettaglio molto diverso, non trascurano più l’emergenza del declino competitivo e soprattutto del numero relativamente basso di individui che lavorano. Eppure, proprio mentre i politici aprono gli occhi sull'economia, gli economisti li aprono sulla politica, come se il vero problema dell’Italia fossero gli italiani!

Fino a pochi anni fa, si pensava che le differenze strutturali nel mercato del lavoro incidessero molto sulla distribuzione dei redditi, ma poco sull’efficienza di un’economia. Destra e sinistra potevano fingere che il proprio modello fosse quello più adatto al proprio elettorato, capitalisti o sindacalisti, senza che ciò cambiasse il tasso di crescita dell’economia. Ma l’emergere del modello danese, la cosiddetta flexicurity, ha modificato questa falsa convinzione. I danesi, diventati un riferimento esemplare per l’economia europea, hanno ottenuto uno straordinario successo abbattendo le protezioni al lavoro, rendendo cioè facile licenziare, ma accrescendo i sussidi per i disoccupati: facendo cioè il contrario di quanto avviene in Italia dove è difficile licenziare, ma non esiste un sistema di sostegno per chi perde il lavoro. Oggi tutti, salvo i disegnatori di vignette satiriche, vorrebbero essere danesi.

Un recente studio pubblicato da Algan e Cahuc per il Cepr, osserva però che il formidabile sistema danese può funzionare solo in Paesi in cui è forte lo spirito di fiducia civica, in cui cioè attribuire dei sussidi di disoccupazione non scatena imbrogli ai danni delle casse pubbliche da parte sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro. In Paesi, per esempio, con un’economia nera pari a oltre un terzo del pil e con regioni in cui la disoccupazione giovanile è un fenomeno generalizzato (in Paesi cioè a forma di stivale...) il sistema danese fallirebbe, il «nero» non si sbiondirebbe affatto. Quel che è peggio è che introdurre un buon sistema, come la flexicurity, non rende buoni gli individui, nemmeno col tempo. Al contrario li rende più esposti alle cattive tentazioni.

Quello che vale per le riforme del lavoro, vale per le politiche di spesa pubblica o per quelle di tassazione. Se non mi fido della moralità dei miei concittadini o di chi li governa, sono più tentato dall’evadere io stesso le tasse, sentendo debole il legame civico di solidarietà o anche solo dubitando del sostegno da parte degli altri, in particolare se pesa la retorica delle diversità regionali o etniche. Proprio comportamenti e preferenze tanto disomogenee nei Paesi europei, rendono difficile uniformare le politiche nell’Unione europea e quindi ne spiegano gli intoppi attuali, per esempio nella liberalizzazione dei servizi. Forse per disperazione, il filone «culturale» degli economisti sta così diventando corposo. Ottimi ricercatori - non a caso spesso italiani, come Tabellini, Guiso e altri - si interrogano sul peso delle tradizioni culturali e sui livelli storici di istruzione nell’esecuzione delle politiche economiche in un Paese. Ne emerge che la cultura è rilevante. Quindi la politica è decisiva e in particolare, allora, lo è l'esempio dei politici.

E qui veniamo a una campagna elettorale che all’inizio definivamo «terribile». A ben vedere, il fatto che sia ruotata attorno al caso Unipol o, adesso, attorno alle vicende della All Iberian, ha una sua coerenza in un sistema in cui il confine tra furbetti e istituzioni, tra Fiorani e Fazio, è permeabile. E’ anche la serietà e la onestà personale dei politici che deve essere accertata, prima di riuscire ad attuare riforme che per avere successo dovrebbero convivere con controlli di onestà «scandinavi» sui cittadini. Oppure ci si può rassegnare a un disonesto declino.

lastampa.it

17.2.06

Telepolitica il peccato capitale della democrazia

di GUSTAVO ZAGREBELSKY
Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.
In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?
Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.
Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.
Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.
L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).
Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.
La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.
L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.
La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.
L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.
Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?

La Repubblica (ripreso da eddyburg.it)

10.2.06

Una vecchia enciclica

ROSSANA ROSSANDA
Molti commentatori, amici ed amiche presumibilmente non credenti, sono rimasti positivamente colpiti dalla prima Enciclica di Benedetto XVI come un invito all'amore quanto mai attuale in un mondo tutto intriso d'odio. Non credo che vada letta così. Se nel preambolo si dichiara che nessuna guerra può essere fatta in nome di Dio, ed è un passo avanti rispetto alle ancora recenti guerre giuste, questo è anche il solo passo avanti, mentre l'asse della lettera più volte ribadito è un rigido alt messo alla secolarizzazione che avevamo salutato nel Concilio Vaticano II. Amatevi, dice Ratzinger, ma sappiate che ogni amore è impuro, salvo quello di Dio per noi e noi per Dio o fra noi in Dio. Non ce n'è un altro che non sia imperfetto e per natura degenerativo. Benedetto XVI fa qui un passo indietro perfino dalla lezione paolina, che riconosce dignità e valore anche ad aspetti prettamente e solamente umani. Quel che nella prima lettera di Giovanni, più volte richiamata, è un canto tutto indirizzato alla fraternità con l'altro, l'estraneo, o perfino mortalmente colpevole, qui diventa una barriera contro l'amore puramente terreno traversato dalla sessualità. Una chiusura totale alla problematica del moderno e dell'umano in quanto umano. Toccherà ai teologi discernere i fili dell'argomentazione sottile, talvolta causidica, di Ratzinger.
Ma intanto il non credente non ha di che estasiarsi, esimendosi dal coglierne l'intenzione centrale che è tutta politica - in senso pieno e perfino nobile della parola - e si allinea alla tradizione più retriva ottocentesca della chiesa di Roma. L'inizio - un po' filosofico scrive Ratzinger, un po' filologico diremmo noi - sul significato della parola «amore» in greco e nella cultura cristiana la definisce la prima eros come desiderio egoista o ricerca per sé, per un proprio bisogno mentre la seconda agape sarebbe tutta volta al bene e al bisogno dell'altro, amore perfetto. L'eros è declassato a mero egoismo, a mera materialità del corpo (la psiche nella lettera non ha posto), tendente alla degenerazione e alla mercificazione, il cui simbolo sarebbe la prostituzione sacra. L'Enciclica non concepisce un rapporto con l'altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell'amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un originale perversità. Dio amerà l'uomo, ma Ratzinger certamente no. Allora è più toccante e persuasiva la disperazione del mondo e propria di Agostino, che l'attuale papa non condivide, in quanto sicuro che con l'ascesi e secondo il magistero della chiesa ogni cattolico può trascendere se stesso. Se non vi riesce cade fuori dalla salvezza, o almeno dalla mente pedagogica dell'attuale pontefice. Ne consegue che la sola unione possibile è fra un uomo e una donna in forma «esclusiva» e «per sempre», come il patto di Javeh con Israele, lui sposo sapiente, lei facilmente infedele che soltanto dalla generosità di lui può essere «perdonata». Il matrimonio non è che il riflesso del nocciolo fondamentale delle religioni monoteiste: amare Dio, un solo Dio e per sempre. Impensabile dunque il divorzio, impensabile l'unione precaria, neanche evocata l'unione fra due creature del medesimo sesso, impura ogni relazione non consacrata dal sacramento. Ratzinger erige un baluardo granitico contro le conquiste già avvenute nel diritto civile e quelle che, come i Pacs che hanno già preso piede in Francia e in Italia, minacciano anche il nostro paese.

La seconda parte dell'Enciclica rivendica il magistero della chiesa anche come istituzione e nelle forme che ha preso dalla donazione costantiniana in poi. Neanche pensare a una ridiscussione del Concordato. Non che la chiesa faccia politica in prima persona, ma ha diritto e dovere di indicare ai fedeli come la devono fare. Siamo lontani dal «non expedit». Adesso i cattolici sono chiamati ad impegnarsi contro le imminenti o già avvenute degenerazioni dei rapporti fra gli uomini, come appunto fa il cardinal Ruini. Anche in tema di giustizia: neanche essa può essere raggiunta soltanto dall'umanità, come si sono arrogantemente permessi di dire l'illuminismo e il marxismo. Perché è vero che il mondo è pieno di ingiustizie, ma è un errore fatale credere che gli uomini possano ridurle, mentre possono soltanto alleviarle con la carità, prima di tutto fra i membri della comunità dei fedeli. «Per la verità», ammette Ratzinger, il cristianesimo degli inizi voleva la partecipazione comunitaria dei beni, ma questo «con il crescere della chiesa non è stato più possibile». Per la verità chi o che cosa lo avrebbe reso impossibile? Forse il primato che il sacerdote deve assicurare ai sacramenti e alla liturgia rispetto al dovere di soccorrere gli infelici? Tanto che deve delegare questo secondo compito ai diaconi? Ma è una domanda maliziosa. Resta che l'enciclica assume come proprio il concetto avanzato anche dalla Commissione europea di sussidiarietà: arrivi l'istituzione pubblica soltanto dove il singolo o l'associazionismo privato, nel quale la chiesa ha un peso rilevante, non arriva. E ci si guardi bene dall'interrogare Dio sul male o le ragioni della sofferenza e delle ingiustizie. Questo non è lecito, come dimostra il Libro di Giobbe. Se lo tenga per detto, par di capire, anche chi si è chiesto: ma quale Dio dopo Auschwitz?

Insomma l'Enciclica ci deresponsabilizza di tutto fuorché dalla necessità di trascenderci nella volontà divina, che è imperscrutabile. Ci pare di averlo già sentito dire dal nostro parroco quando eravamo bambini.

ilmanifesto.it

6.2.06

E Silvio insegue il record di Fidel

La svolta del Cavaliere parolaio
di Gian Antonio Stella
Fosse un cubista da reality, un conduttore scarso o un presentatore di quiz, il politico Berlusconi prenderebbe dal Berlusconi padrone di Mediaset una lavata di capelli. Ma come: va in prima serata a Liberitutti, si porta una claque di centravanti, preti e signorine buonasera, presidia l’etere fin quasi a mezzanotte, rinuncia agli spot temendo che la gente cambi canale e cosa fa? Il 5,38% di share! La metà di Superquark! Umiliato da un programma di neutroni, tundre e trichechi!
Non bastasse, la trasmissione condotta da Irene Pivetti, vispa farfalla uscita dal grinzoso bozzolo della badessa della Camera (che bacchettava allora il Cavaliere sul conflitto di interessi e ieri cinguettava: «Ma su, ce l’avrà almeno un difettino!») è finita pure nel mirino dell’Authority. La quale ha deciso di riunirsi d’urgenza per valutare se Liberitutti , oltre a far «marameo» agli appelli di Ciampi alla continenza, non abbia violato la delibera sulla par condicio. Che certo non prevedeva quel coretto di garruli osanna cui non si assisteva dai tempi del Re Sole.
La penuria di ascolti, arrivata dopo altre trasmissioni fluviali non popolarissime quale L’incudine condotta da Claudio Martelli, dovrebbe porre al Cavaliere una domanda: è davvero vincente dilagare nel palinsesto come il Mississippi nelle pianure alluvionali? Funzionerà questo «nuovo» Berlusconi sempre più lontano ed estraneo alle tesi del Berlusconi di una volta? Non aveva dubbi, un tempo, il Cavaliere: basta coi politici parolai. Il discorso della «discesa in campo» era essenziale: 1.085 parole. Studiate per andare al cuore di elettori assetati di poche cose chiare.
L’obiettivo era dichiarato: rifuggire dalle fumosità di sempre, tipo Forlani che gigioneggiava che avrebbe «potuto parlare per ore senza dire niente». Certo, anche per il Messia Azzurro che cerca continui richiami religiosi (gli apostoli, l’unzione, le dodici tavole, le zie suore, l’amaro calice…) non era facile seguire l’esempio sommo di rapporto diretto con la gente. Il Padre Nostro è fatto di 56 parole, l’Ave Maria di 42, il Credo di 95. Per non dire del Vangelo, dove una parabola come quella del buon samaritano (in Matteo) è concentrata in 123 parole. Ma quello era il senso: poche parole, massima chiarezza. Scrisse Michele Serra: «E’ un nullatenente culturale, per metter insieme 500 parole deve riunire il consiglio d’amministrazione». Errore: non era un limite, ma una scelta. L’asciuttezza era vigore. Il rifiuto del mondo di «quelli che nella vita hanno solo chiacchierato». Lo smarcamento dai «faniguttùn».
Quando il Cavaliere abbia cambiato idea non è facile da dire. Non c’è una data. Ma certo, via via che si lamentava di non essere abbastanza capito e apprezzato, ha cominciato ad arrotolarsi in una matassa di parole che, in bocca a chiunque altro, lo avrebbe spinto a sbuffare. Al punto che perfino l’amico Bruno Vespa arrivò a dire: «Di fronte alla domanda "che ore sono?", Parisi è uno che risponde: "Le otto". Berlusconi, invece: "In questo momento sul mio orologio una lancetta sta sulle otto e una su mezzogiorno"». Certo, la deriva ciacolona ha avuto rari ritorni all’antico. Come il «Contratto con gli italiani», riassunto in 288 parole secche secche: «Abbattimento della pressione fiscale con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% dell’aliquota per i redditi fino a 200 milioni; con la riduzione al 33% dell’aliquota per i redditi sopra i 200 milioni…».
Ma erano eccezioni. Basti ricordare il discorso alla Camera sull’Iraq del settembre 2002: 10.866 parole. Cioè 198 in più di quelle usate da Marx ed Engels per scrivere il «Manifesto» o diecimila in più della Dichiarazione d’indipendenza americana: 1.374 parole. E più l’attaccano più parla, parla, parla. Due ore e mezzo da Mentana rubando palla a Rutelli, due ore e mezzo da Martelli e dalla Pivetti in solitario… Incurante dei consigli di qualche amico, degli ascolti bassini, delle battute sul suo inseguimento ai record del companero Hugo Chavez (che con la sua diretta «Alò Presidente» è andato in onda sei ore e mezzo di fila) o di Fidel Castro, che nel ’98 riuscì a tenere un comizio di 7 ore e 14 minuti: «Volevo riflettere un po’ con voi». Tema: cosa ne penserebbe, il Berlusconi di una volta? Gli offriamo un termine di paragone: al comizio finale per le comunali di Messina (le comunali di Messina!) parlò due mesi fa per un’ora e 36 minuti. Cinquantanove minuti più di quelli usati da Giovanni XXIII per aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II.
repubblica.it