26.1.13

Sulle banche più vigilanza da Bruxelles

Stefano Lepri (La Stampa)

Nell'Europa continentale le banche che hanno combinato più guai sono quelle vicine al potere politico locale: le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le Cajas de ahorro (Casse di risparmio) spagnole, il Monte dei Paschi. Per fortuna le dimensioni del caso italiano, pur grave in sé, appaiono assai inferiori a quanto accaduto negli altri due Paesi, dove è questione di svariate decine di miliardi di euro.
Se è così è fuori luogo che si indigni chi, come Giulio Tremonti e la Lega Nord, appena dieci anni fa intendeva accrescere in tutte le Fondazioni bancarie il peso degli enti locali (li fermò la Corte Costituzionale). Ancor più è paradossale proporre di nazionalizzare il Mps: per sottrarlo all'influenza dei dirigenti locali del Pd lo si' restituirebbe ad accordi spartitori tra tutti i partiti nazionali, come negli Anni 80. Il problema di un controllo esiste. Se le banche vengono sorrette con denaro dei contribuenti, occorre dissipare anche il più piccolo sospetto che si faccia un regalo ai banchieri. I 3,9 miliardi al Monte regalo non sono, sono un prestito a tassi di interesse assai alti, dunque il Tesoro ci guadagna; però occorre la garanzia che gli sbagli non si ripetano. Le vecchie ricette si rivelano tutte inadeguate. Il grande disordine della finanza mondiale nasce dall'illusione, di marca ultraliberista, che quel mercato così complicato e oscuro potesse regolarsi da solo. Ma se poi i banchieri di Wall Street quando volevano piazzare i titoli più tossici trovavano facile rifilarli alle Landesbanken, vuol dire che anche l'intrusione del potere politico nell'economia provoca danni gravissimi. Ovvero, gli alti rischi della finanza sregolata hanno attirato cattivi banchieri che sugli affari normali guadagnavano poco perché prestavano agli amici degli amici. Ancor peggio, una parte delle difficoltà dell'area curo si deve alle complicità tra governi e poteri bancari nazionali nel loro insieme. Per due anni almeno la Spagna si era rifiutata di riconoscere l'ampiezza del buco nelle sue Cajas: Tuttora la Germania resiste a una sorveglianza comune europea sulle sue banche medio-piccole, dopo averne lavato in casa i panni sporchi. Avremmo meglio avviato a soluzione la crisi dell'euro se una sola autorità sovrannazionale avesse potuto decidere quali banche in difficoltà chiudere e quali soccorrere, in modo trasparente, sotto controllo collettivo. Le controindicazioni del controllo politico sono minori se Io si esercita al livello più alto possibile. Invece l'intreccio troppo stretto fra Stati e banche fa sì che le fragilità degli uni si riflettano sulle altre, e viceversa. Resta vero che le banche italiane hanno sbagliato assai meno di altre, grazie alla vigilanza della Banca d'Italia. La lunga crisi le ha tuttavia messe in difficoltà; potrebbero prestare più soldi alle imprese se fossero più capitalizzate, ma il sistema proprietario che si regge sulle Fondazioni ha abbastanza esaurito le energie. I suoi limiti risaltano anche nell'apprendere che ora il più qualificato aspirante alla presidenza dell'Associazione bancaria è un ex politico. La vicenda anomala del Mps mostra inoltre in versione politicizzata i difetti del più asfittico capitalismo familiare all'italiana: rifiutare gli apporti di capitale esterni per paura di diluire il proprio controllo, strapagare acquisizioni valutate in termini di potere più che di guadagno. Far parte di una unione monetaria richiede banche non necessariamente grandi (le economie di scala sono dubbie), ma aperte oltre i confini nazionali.

20.1.13

Sì, no, anzi: probabilmente

di Carlo Rovelli

Nell’istituto dove lavoravo qualche anno fa, una malattia rara non infettiva colpì cinque colleghi, a poco tempo l’uno dall’altro. L’allarme fu forte e si cercò la causa del problema. Pensammo ci fossero contaminazioni chimiche nei locali dell’istituto, ma non fu trovato niente. L’apprensione crebbe e qualcuno, spaventato, cercò lavoro altrove. Una sera raccontai questi eventi a una cena, e un amico matematico si mise a ridere. «Ci sono 400 piastrelle sul pavimento di questa stanza; se lancio 100 chicchi di riso per terra – ci chiese -, troveremo cinque chicchi sulla stessa mattonella?». Rispondemmo di no: ci sarebbe stato solo un chicco ogni 4 piastrelle. Sbagliavamo: provammo molte volte a lanciare davvero il riso e c’era sempre qualche mattonella con due, tre, e anche cinque o più chicchi. Perché mai? Perché chicchi “lanciati a caso” non si dispongono in bell’ordine, a eguale distanza l’uno dall’altro. Atterrano, appunto, a caso, e ci sono sempre chicchi disordinati che arrivano su piastrelle dove sono arrivati anche altri chicchi. D’un tratto, il problema dei cinque colleghi malati prese tutt’altro aspetto. Cinque chicchi di riso sulla stessa mattonella non significano che la mattonella possieda forze attira-riso. Cinque persone malate non significano affatto che il nostro istituto fosse contaminato.
La mancanza di familiarità con le idee della statistica è molto diffusa, anche fra persone colte, e deleteria. L’istituto dove lavoravo era un dipartimento universitario. Noi professori sapientoni eravamo caduti in un grossolano errore di statistica. Ci eravamo convinti che il numero “fuori media” di malati richiedesse una causa. Avevamo confuso la media con la varianza. Qualcuno aveva addirittura cambiato lavoro, per niente. Di storie simili è piena la vita quotidiana
Non è raro sentire un telegiornale riportare con rilievo il fatto che in un certa località la percentuale di qualcosa sia superiore alla media. La percentuale di qualunque cosa è superiore alla media in più o meno metà delle località (inferiore nell’altra metà). Qualche anno fa gli italiani si commossero vedendo in televisione malati di cancro guariti dopo la cura Di Bella. Quale prova migliore dell’efficacia di questa cura, che non vedere guariti dei malati di tumori gravissimi? E invece era una sciocchezza. Con o senza cura, ci sono guarigioni naturali anche nei tumori più gravi. Esibire guarigioni, anche se numerose, non significa affatto che la cura abbia avuto effetto. Per sapere se la cura è efficace bisogna contare quante volte ha funzionato e quante non ha funzionato, e confrontare i risultati con quelli di malati non curati, o curati in altro modo. Se non facciamo così, tanto vale che danziamo per fare scendere la pioggia, come facevamo nella preistoria: ci saranno sempre giorni in cui la danza è effettivamente seguita dalla pioggia, e potremo esibire questi giorni a dimostrazione dell’efficacia della nostra danza… È l’incomprensione della statistica che porta molti a stupirsi per le guarigioni a Lourdes, a curarsi con medicine fatte di acqua e zucchero, o a morire in giochi pericolosi dopo aver visto altri giocare senza farsi male
Eviteremmo molte sciocchezze, e la società avrebbe vantaggi significativi se le idee di base della teoria della probabilità e della statistica fossero insegnate in maniera approfondita a scuola: in forma semplice nelle scuole elementari, in modo articolato nelle scuole medie e superiori. Ragionamenti di tipo probabilistico e statistico sono uno strumento della ragione potente e affilato. Non disporne ci lascia indifesi. Non avere chiarezza su nozioni come media, varianza, fluttuazioni e correlazioni, come purtroppo molti di noi non abbiamo, è un po’ come non sapere usare la moltiplicazione o la divisione. La poca familiarità con la statistica porta a confondere la probabilità con l’imprecisione. Al contrario, probabilità e statistica sono strumenti precisi, che ci permettono di rispondere in modo attendibile a domande precise. Senza di esse non avremmo l’efficacia della medicina moderna, la meccanica quantistica, le previsioni del tempo, la sociologia… Anzi, non avremmo l’intera scienza sperimentale, dalla chimica all’astronomia. Senza la statistica avremmo idee molto più vaghe su come funzionano gli atomi, le nostre società e le galassie. È stata la statistica, solo per fare un esempio, a permetterci di comprendere che fumare fa male e l’amianto uccide.
Noi usiamo ogni giorno ragionamenti probabilistici. Prima di prendere una decisione, valutiamo la probabilità che segua questo o quello. Abbiamo un’idea del prezzo medio della benzina, e della sua varianza, cioè quanto singoli distributori si discostino dal prezzo medio. Sappiamo intuitivamente che due variabili sono correlate (i distributori più vicini al centro sono generalmente più cari). Distinguiamo fatti molto improbabili e poco improbabili: la probabilità di essere coinvolti in un disastro ferroviario è molto piccola, quindi prendiamo il treno; la probabilità di finire sotto il treno attraversando un passaggio a livello chiuso è piccola anch’essa (la maggioranza degli sconsiderati che lo fanno sopravvive) ma è sufficientemente significativa per sconsigliarci vivamente dal farlo. E ancora, capiamo bene la differenza fra coincidenze avvenute “per caso” e fatti legati “da una ragione”, eccetera. Ma usiamo queste idee in modo approssimativo, spesso commettendo errori. La statistica affina queste nozioni, ne dà una definizione precisa, e ci permette per esempio di valutare in maniera affidabile se un farmaco o un ponte siano pericolosi oppure no. Lo fa trattando in maniera quantitativa e rigorosa la nozione di probabilità.
Ma cos’è la probabilità? Nonostante l’efficacia della statistica, la natura della probabilità è questione dibattuta, e un capitolo vivace della filosofia. Una definizione tradizionale è basata sulla “frequenza”: se lancio un dado molte volte, un sesto delle volte verrà il numero uno; quindi dico che la probabilità che venga “uno” è un sesto. Questa definizione è debole. Per esempio, usiamo la probabilità anche in situazioni dove non si può ripetere la prova. Penso che ci sia buona probabilità (non certezza) che il responsabile di questo supplemento pubblichi questo articolo; ma non ha senso pensare di mandargli l’articolo molte volte, perché la seconda volta non lo pubblicherebbe di certo. Un’alternativa è l’interpretazione della probabilità come “propensione”. Un atomo radioattivo, secondo alcuni fisici, ha una “propensione” a decadere durante la prossima mezz’ora, che viene valutata esprimendo la probabilità che questo accada. Neanche questa interpretazione è molto soddisfacente: suona un po’ come le virtù dormitive” della scolastica presa in giro da Molière nel Malato immaginario: il sonnifero ci fa dormire perché ha la virtù dormitiva e l’atomo decade perché ha la propensione a decadere.
La chiarezza sul concetto di probabilità è, a mio giudizio, il merito di un grande intellettuale italiano, forse non apprezzato in Italia quanto meriterebbe: il matematico e filosofo Bruno de Finetti (1906-1985). Negli anni Trenta del secolo scorso, de Finetti introduce l’idea che si rivela la chiave per comprendere la probabilità: la probabilità non si riferisce al sistema in sé (il dado, il responsabile della Domenica, l’atomo che decade, il tempo di domani), bensì alla conoscenza che io ho di questo sistema. Se dico che la probabilità che domani piova è uno su tre, non sto dicendo qualcosa che pertiene alle nubi, che possono essere già determinate dalla situazione attuale dei venti. Sto caratterizzando il mio grado di conoscenza-ignoranza sullo stato dell’atmosfera.
La geniale intuizione di de Finetti diventa concreta grazie a un teorema dimostrato nel diciottesimo secolo dal matematico inglese Thomas Bayes, e pubblicato per la prima volta due anni dopo la sua morte, nel 1763. Il teorema di Bayes fornisce una formula per calcolare come cambia la probabilità da attribuire a un evento, quando vengo a sapere qualcosa di più. Usando ripetutamente il teorema, le stime di probabilità soggettive convergono a una valutazione affidabile della possibilità di un evento. Pensiamo a un detective che abbia cinque sospetti. All’inizio dirà che la probabilità che ciascuno sia l’assassino è uno su cinque. Poi vari indizi renderanno maggiore la probabilità che il colpevole sia uno o un altro. La probabilità cambia perché il detective sa più cose, non perché siano cambiati i sospetti. Il teorema di Bayes, che fornisce la formula precisa per correggere la probabilità a ogni nuova informazione, ha trovato applicazioni dalla medicina alla fisica, e si pone al cuore della corrente soggettivista della filosofia della probabilità. Esso ci offre chiarezza sul significato della probabilità: la probabilità è la gestione oculata e razionale della nostra ignoranza.
Noi viviamo in un universo di ignoranza. Sappiamo tante cose, ma sono di più quelle che non sappiamo. Non sappiamo chi incontreremo domani per strada, non conosciamo le cause di molte malattie, non conosciamo le leggi fisiche ultime dell’universo, non sappiamo chi vincerà le prossime elezioni, non sappiamo cosa ci faccia davvero bene e cosa ci faccia male. Non sappiamo se domani ci sarà un terremoto. In questo mondo incerto, chiedere certezze assolute è una sciocchezza. Chi esibisce risposte certe è di solito il meno affidabile. Ma non per questo siamo nel buio. Fra certezza e totale incertezza vi è un prezioso spazio intermedio, ed è in questo spazio intermedio che si svolge la nostra vita e il nostro pensiero. Gestire queste conoscenze parziali è più facile se abbiamo idee chiare su probabilità e statistica.
Questo significa, per esempio, comprendere che una probabilità del 2%, cioè uno su cinquanta, che ci sia un terremoto all’Aquila la prossima settimana significa che è decisamente più probabile che il terremoto non avvenga, ma il rischio è lo stesso altissimo, e quindi richiede precauzioni. Nessuno si sognerebbe di prendere un aereo, se la probabilità che cadesse fosse il 2%, cioè se sapesse che in media si sfracella un aereo ogni cinquanta che partono. Il 2% è più o meno la probabilità di un evento maggiore valutata dalla Commissione Grandi Rischi prima del terremoto del 2009. In una società educata a pensare in termini statistici si potrebbe dire qualcosa di diverso che non: “Ci sarà un terremoto”, oppure “Non c’è pericolo: non ci sarà un terremoto”, oppure “Non sappiamo nulla sui terremoti”, tre alternative tutte sciocche. Sarebbe una società che non si farebbe abbindolare dai casi rari. Una società, con un potente strumento concettuale in più a disposizione. Per questo, dovremmo offrire una solida cultura di base di probabilità e statistica ai nostri ragazzi.

10.1.13

L’ e-commerce della droga? Funziona, vi spieghiamo come

Gabriele Martini (La Stampa)

Online è possibile acquistare decine di droghe sintetiche provenienti oltre che dal Nord America anche dalla Russia, dal Brasile e dai Pesi dell’Est Europa

Viaggio nei segreti del più grande sito di spaccio al mondo: l’ impunità è garantita


Come Scampia, più di Scampia. C’è una piazza di spaccio aperta 24 ore su 24, sette giorni su sette, dove migliaia di pusher vendono, impuniti, qualsiasi tipo di droga. Possibile? Sì, possibile. Provare per credere.

Il Paese dei balocchi per tossici è un sito internet. Si chiama «Silk Road», via della seta. Intendiamoci: arrivarci non è facile. Questo ebay della droga all’apparenza non esiste: se si digita l’indirizzo sul browser non si ottiene nulla. Ma il sito esiste, eccome. Sta nascosto in un angolo buio della rete: l’Internet sommerso, il «Darknet». Per entrare in questo mondo virtuale parallelo bisogna utilizzare «Tor», un software gratuito che rende anonima la navigazione. È lo stesso sistema che permette agli attivisti iraniani di scambiare informazioni o ai blogger cinesi di aggirare la censura. Si carica il programma e dopo pochi minuti il gioco è fatto: si naviga nell’immensa zona franca senza controlli né regole, dove nessuno sa chi fa cosa.

Silk Road sembra Amazon. Ci sono foto della merce, prezzi, tempi di consegna e recensioni dei compratori. Il logo è un beduino su un cammello. Da qualche mese sono sparite le armi. Bandite. Tutto il resto è lì, a portata di clic. Abiti contraffatti, medicine, sostanze dopanti, passaporti falsi, materiale pornografico. Briciole rispetto alle 4.400 droghe in vendita. La moda del momento sono le nuove sostanze sintetiche: 4-MMC e Crystal meth. Incolori, inodori e insapori. Preparate in modo artigianale, a volte si rivelano mix letali. Falciano giovani vite nelle periferie di Mosca, nelle discoteche di Ibiza e ai rave party sulle spiagge brasiliane. E’ lo sballo globalizzato: abbatte frontiere e viaggia in piccoli pacchi da un continente all’altro seminando dipendenza.

Su Silk Road i pagamenti avvengono in Bitcoin, la moneta elettronica che non lascia tracce. Si tratta di soldi virtuali generati automaticamente da una serie di computer in rete tra loro. Per comprarli basta una carta di credito. Si versiamo i Bitcoin sull’account ed ecco che tutto è pronto per l’acquisto, protetti dall’anonimato più assoluto. Molti spacciatori rifiutano di spedire ai nuovi arrivati. Non sempre il primo tentativo funziona: il rischio è finire nella lista nera dei «compratori sospetti». Ma conquistata la fiducia dei venditori, non resta che passare allo shopping. Dopo qualche giorno i pacchetti di droga arrivano a destinazione.
«Quello di Silk Road è un contesto smaterializzato, difficilmente aggredibile», ammettono gli investigatori. L’offerta di droga cresce con trend esponenziale. C’è chi spaccia pochi grammi di erba, ma c’è anche chi vende fino a un chilo di cocaina o centinaia di pasticche di ecstasy alla volta. Non sono numeri da piccoli spacciatori. Andrea Ceccobelli, Capitano del Nucleo frodi tecnologiche della Finanza, lancia l’allarme: «C’è il rischio concreto che la criminalità organizzata utilizzi questi nuovi canali. In altri Paesi sta già succedendo: in Russia da anni le mafie arruolano laureati in informatica». Carlo Solimene, direttore della Divisione investigativa della Polizia Postale e delle Comunicazioni, non si sbilancia: «Il fenomeno nel nostro Paese non sembra ancora particolarmente esteso». Sui trafficanti italiani il riserbo è massimo: «Posso solo dire – spiega Solimene – che ci sono attività investigative in corso».

In sei mesi il numero di venditori su «Silk Road» è più che che raddoppiato. Secondo uno studio della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, il volume d’affari nel primo semestre del 2012 è stato di 1,5 milioni di euro al mese. Sarà felice il misterioso amministratore del sito, che incassa una commissione del 6% su ogni transazione. Si fa chiamare «Dread Pirate Roberts» (come il simpatico pirata di un film fantasy). Definisce «eroi» i venditori. Da mesi l’Agenzia federale antidroga Usa gli dà la caccia. Inutilmente. Anche lui è un nickname su un sito che non esiste.

7.1.13

Come aiutarci

Gad Lerner (la Repubblica)

Dopo più di quattro anni di crisi ininterrotta, ciascuno di noi ha almeno un parente o un amico in difficoltà perché ha perso il lavoro; il traguardo della pensione appare distante; i figli restano a carico. Facciamo i conti con i problemi immediati del reddito venuto a mancare e col turbamento determinato da un inatteso cambiamento di status sociale. Senza contare i giovani, che ormai ci siamo abituati a sopportare precari per definizione. Come aiutarli, come aiutarci? Impossibile voltare le spalle: anche i fortunati hanno relazioni che li coinvolgono in un dramma fino a ieri vissuto privatamente, con vergogna; ma che ora s' impone dappertutto come esperienza da condividere. Come aiutarli, come aiutarci? L' urgenza degli interrogativi pratici non trova certo risposta nelle futuribili riforme degli ammortizzatori sociali propagandate nelle agende della campagna elettorale: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito (o di sopravvivenza)... per ora sono solo chiacchiere. Intanto che si fa? Si calcolano i risparmi, la possibilità di sospendere il mutuo, quanto dureranno i soldi della liquidazione, ospitalità provvisorie, lavoretti-tampone, durata ulteriore delle spese universitarie, vendita di beni superflui. La società reagisce allo smottamento attivando spontanee reti di sostegno molecolare che naturalmente funzionano meglio là dove si erano distribuite in passato quote significative della ricchezza nazionale. Percepiamo di dover fronteggiare ancora a lungo una stagione di penuria. Quali che siano le previsioni "macro" degli esperti sulla crescita del Pil, vera e propria mitologica araba fenice, è la dimensione «micro» dell' economia che s' impone nella quotidianità delle persone. Fin troppo facile sarebbe ironizzare sul distacco fra questo dato esistenziale e le diatribe interne della politica (o dell' antipolitica). Più rilevante a me pare indagare le contromisure già in atto, dettate dall' urgenza, nei reticoli di un organismo sociale disomogeneo e sofferente ma tutto sommato consapevole di dover fare da sé. È chiaro che il compito prioritario della politica nel 2013 e negli anni a venire dovrà essere l' organizzazione di una risposta collettiva all' impoverimento causato dalla perdita del lavoro e dalle sofferenze che essa comporta. Anche in termini di lacerazioni familiari, oltre che di compressione dei consumi e sconvolgimento delle abitudini di vita. Il governo e la classe politica saranno chiamati a dedicarsi alla ricostruzione di uno spirito comunitario senza cui non c' è protezione sociale che tenga. Ma su quali energie vitali, su quale sensibilità civile potrà far leva la buona politica, per assolvere a un compito che si presenta immane in un' Italia che ha già visto l' 85% delle famiglie tagliare i consumi e perderà altre centinaia di migliaia di posti di lavoro nei prossimi mesi? Fu nel 1932 che Roosevelt si presentò alla società americana sconvolta dalla Grande Depressione cominciata tre anni prima come il leader intenzionato a «preoccuparsi dell' uomo dimenticato in fondo alla piramide economica», dichiarando la volontà di trasferire nella sfera politica l' impulso religioso della carità per porre fine all' «epoca dell' egoismo», dominata dai "sultani della proprietà". Roosevelt denunciava la "mancanza di comprensione dei principi elementari della giustiziae dell' equità" di cui si erano macchiati i detentori di grandi ricchezze; da ribaltare - in un' epoca di scarsità permanente - sotto forma di nuovo spirito pubblico: l' America doveva stringersi intorno ai suoi poveri e riorganizzarsi come società solidale nel New Deal. I suoi toni e i suoi argomenti nell' Italia contemporanea sarebbero forse tacciati di estremismo anticapitalista, ma esercitarono dentro alla crisi, che pure si prolungò drammaticamente per tutto il decennio, un effetto culturale straordinario: legittimarono uno spirito di resistenza che si fondava dal basso sul senso di comunità; più precisamente su una galassia di comunità riunitesi intorno alla cura dei soggetti precipitati nell' indigenza. Avvertiamo la mancanza di un tale impeto nel nostro discorso pubblico. Ma anche queste sono solo parole, suggestioni storiche. Meglio chiederci, allora, quali insegnamenti trarre dalle pratiche già in atto di auto-aiuto tra persone e famiglie in difficoltà. Per usare una parola antica e gloriosa del lessico cooperativo: restituiamo il valore che merita all' esperienza del mutuo soccorso. È vero che, un secolo dopo, in una collettività come la nostra che ha mitizzato il lusso alla portata di tutti e trasformato i bisogni in desideri di consumo, la disperazione sociale può dare luogo a reazioni inconsulte. Ce lo confermano i pellegrinaggi nei centri commerciali divenuti luoghi di ritrovo anche per chi ha essiccato la sua carta di credito (o non l' ha mai posseduta). Giungono come avvertimenti sinistri i saccheggi perpetrati da bande di giovani dropouts nei negozi di elettronica per impossessarsi dei tablets e degli altri status symbol, a Londra come in Argentina. E domani, chissà, forse anche nella nostra penisola: non c' è solo l' Italia degli operai licenziati e dei precari del pubblico impiego; siamo anche il paese dei forconi, dei clan, delle corporazioni, degli allevatori e dei camionisti affiliati a un sindacalismo intrecciato con poteri opachi. La sistematica delegittimazione dei corpi intermedi della nostra società - dalle strutture democratiche dei partiti all' associazionismo solidale fino alle organizzazioni di base del lavoro dipendente - ha lasciato un vuoto di cui oggi avvertiamo i danni. A chi rivolgersi, nel momento della necessità? Eppure l' aspirazione a una nuova socialità diffusa sta già esprimendosi, lontano dalla ribalta mediatica in cui predominano la politica e l' antipolitica. Intorno ai nostri amici e ai nostri parenti che hanno perso il lavoro si manifesta, con il bisogno, la pulsione spontanea a rigenerare comunità fra simili. Una nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci, la trasformazione delle sedi pubbliche mortificate dalla burocrazia in luoghi comunitari, non sono un' utopia ma una necessità vitale. Qui e ora, coinvolgendo le troppe energie rimaste a spasso. La politica potrà trarne insegnamento, ritrovare il senso della comune cittadinanza che nasce - nella penuria - dall' obbligo del mutuo soccorso.