22.5.12

L'impero Britannico: libero scambio e moneta unica

di Cesare Del Frate (FaceBook)

L'economista Giorgio Ruffolo, in Testa e croce. Una breve storia della moneta, spiega come l'Impero Britannico per primo creò il nesso fra dominio imperiale, libero scambio di merci, cambi monetari fissi, un sistema che avvantaggia il "centro dell'impero", cioè l'economia più competitiva, ingabbiando le altre nella gabbia dorata del libero scambio e della stabilità dei cambi fissi. Riporto un estratto illuminante del saggio (p. 103-108) (se sostituite alla parola "Inghilterra" quella "Germania", si comprende la situazione attuale dell'Unione Europea):

"A questo punto [nel XIX secolo] si verifica una decisiva mutazione della strategia britannica, con l'abbandono dell'imperialismo mercantilista e il passaggio a quello che è stato felicemente definito un imperialismo del libero scambio: una innovazione che cambierà l'Europa. La Gran Bretagna, alla svolta del nuovo secolo liquidò, non senza aver superato forti resistenze esterne, con un'audacia sostenuta da una vera rivoluzione culturale, il sistema mercantilista. La vittoria su Napoleone aveva scompaginato il sistema dirigistico che egli aveva preteso di imporre all'Europa. Ma soprattutto la rivoluzione industriale aveva rafforzato i vantaggi già acquisiti dall'Inghilterra con l'espansione commerciale, dotandola di un'industria dei beni capitali che le assicurava una indiscutibile supremazia mondiale.

Il miglior modo di preservare questa supremazia era quella di ribadirla attraverso un sistema di cambi liberi. Lo scambio libero impediva la formazione di nuovi poteri monopolistici che avrebbero intralciato la supremazia industriale conquistata dall'Inghilterra. Una volta stabiliti ccerti rapporti di forza, la "libera competizione" tra le forze non faceva che ribadirli. L'ideologia del libero scambio inoltre aveva dalla sua un formidabile potere di convinzione culturale grazie alla sua modernità paradossale (l'egoismo individuale al servizio dell'interesse pubblico) alla contestazione della grettezza dei sistemi protezionistici, al fascino che le virtù di un sistema "automatico" esercitava sulla pubblica opinione. Era comprensibile che questa ideologia si combinasse con la convinzione, sapientemente coltivata dall'intelligenza britannica, che la superiorità dell'Inghilterra convenisse a tutti.

[...] La sua moneta è stabile. Alla Banca d'Inghilterra, in origine privata, fondata da un mercante con un credito allo Stato di un milione e duecentomila sterline, fu concesso il privilegio di emettere banconote. Il sistema che il governo britannico introduce ufficialmente nel 1716 dando alla sterlina una base aurea con l'obbligo della piena convertibilità consiste in un meccanismo molto semplice. La moneta è legata all'oro da parità di cambio fisse. I disavanzi che si manifestano nel commercio con gli altri Paesi sono regolati, a quelle parità, in oro. Il Paese da cui l'oro defluisce deve ridurre proporzionalmente la quantità di moneta. Ne deriva automaticamente un abbassamento dei prezzi e dei salari che deprime l'attività produttiva, e quindi le importazioni mentre, grazie alla contrazione dei costi, stimola l'esportazione. Si torna così al riequilibrio della bilancia.

Ma emergono col tempo anche i guai di questo sistema. Quello che diveniva via via più grave era il freno deflazionistico che il sistema inseriva nell'economia. Questi effetti furono compensati dalla capacità dell'Inghilterra, grazie al suo avanzo nella bilancia commerciale, di finanziare il resto del mondo con esportazioni di capitale, fungendo quindi da banchiere mondiale. Quando, tra le due guerre mondiali, l'Inghilterra non fu più in grado di esercitare quella funzione gli effetti deflazionistici emersero.

La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico.

Il meccanismo di funzionamento del sistema monetario internazionale [fra le due guerre mondiali] fu distrutto, il gold standard fu abbandonato. Si chiudeva così, nel 1931, il lungo secolo britannico".

17.5.12

Futuro sostenibile - Meno consumi più benessere

Marco Morosini (Avvenire)

«Economia della sufficienza» è un ossimoro per buona parte degli economisti. Uno di loro mi diceva: «Per noi economisti, di più è sempre meglio». Per questo sarà così interessante leggere quanto si dirà al Simposio "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell’Agenda per Rio", che il Wuppertal Institut e la Fondazione Heinrich Böll organizzano a Berlino il 21 e 22 maggio in onore di Wolfgang Sachs (programma:http://qualenergia.it/articoli/20120403-economia-della-sufficienza-cio-che-manca-nell-agenda-rio ). Scelti o subìti, i limiti ecologici e la sufficienza sono concetti ai quali il sociologo tedesco ha dedicato una vita di studi, di scritti e di militanza culturale per un mondo in cui giustizia sociale e salvaguardia della natura siano una la condizione per l’altra.
La nostra contraddizione è clamorosa. Da una parte, le scienze naturali stimano con crescente precisione i limiti biofisici da non superare nello sfruttamento della natura. Dall’altra, la maggioranza degli economisti, dei politici e dei leader economici insistono che "di più è sempre meglio" e cercano di stimolare ulteriormente i consumi materiali anche nei paesi ricchi. Costoro non si accontentano neppure di una crescita costante ma invocano addirittura una crescita esponenziale, cioè un’infinita "crescita della crescita": ogni 20 anni l’economia dovrebbe raddoppiarsi. Per sempre.

Si deve a un collettivo di scienziati internazionali guidati da Johan Rockström, dello Stockholm Environment Institute (www.sei-international.org ), la formulazione nel 2009 di nove "limiti planetari" (planetary boundaries), cioè determinati valori di alcuni parametri ecologici che sarebbe prudente non superare con le attività umane, per evitare gravi squilibri nella biosfera: emissioni di CO2, di azoto, di fosforo, acidificazione dei mari, prelievo di acqua dolce, appropriazione umana dei suoli, velocità di perdita della biodiversità. Niente di simile esiste invece da parte della maggioranza degli scienziati sociali - e tanto meno degli economisti - circa i limiti che sarebbe bene dare al nostro agire individuale e collettivo, per restare dentro i "limiti planetari". Quanta energia pro capite possiamo permetterci? Quanti chilometri in automobile o in aereo? Quanti chilometri per cibi e beni che spostiamo per il mondo? Quanto spesso è opportuno rinnovare i nostri veicoli, vestiti, apparecchi elettrici? Quante materie prime possiamo usare per fabbricarli?

Se la formulazione di limiti biofisici prudenziali è soggetta a diverse approssimazioni e presunzioni, la formulazione di limiti prudenziali ai consumi materiali individuali è ancora più precaria. Contano infatti anche fattori poco conoscibili: la futura grandezza della popolazione, la distribuzione più o meno equa dei beni, il progresso ecologico nelle tecniche di produzione, uso e smaltimento, l’invenzione e diffusione di nuovi beni. Eppure, se davvero vogliamo restare entro i "limiti planetari", non è ammissibile accettare come fatalità o addirittura auspicare l’ulteriore espansione dei consumi materiali nei Paesi industrializzati.

Certo, l’inventiva tecnica e sociale permetterà anche a noi di continuare a migliorare la qualità della vita. Ma dovremo aspirare solo a quei miglioramenti che siano compatibili con una forte riduzione del nostro attuale consumo di natura, perché esso è incompatibile sia con i "limiti planetari" ecologici sia con il legittimo bisogno di due terzi dell’umanità di aumentare i propri consumi materiali.

Più benessere, con meno consumo. È questa la sfida e la nuova frontiera del progresso nelle società più ricche. Quei governi, istituzioni e imprese che dichiarano di far propria questa sfida puntano però su un’unica strategia: un aumento dell’efficienza tecnica, in modo che produzione, trasporti ed edifici riescano a consumare sempre meno energia e altre risorse per ogni unità di merce o di servizio prodotta. Un aumento di efficienza tecnica è molto necessario.

Ma i profeti dell’efficienza sembrano ignorare il bilancio storico degli aumenti di efficienza. Da secoli quando i manufatti e i servizi diventano più efficienti se presi uno per uno, le prestazioni diventano più accessibili e più a buon mercato, e il consumo complessivo di energia e risorse naturali cresce, invece di diminuire. È il cosiddetto effetto rebound (rimbalzo). È per questo che senza un’«economia della sufficienza» l’«economia dell’efficienza» non solo non basta, ma complessivamente è controproduttiva.

Le élite politiche ed economiche sembrano non rendersi conto che entrambe le strategie, efficienza e sufficienza, sono indispensabili. Ma milioni di cittadini del mondo - certo, per ora una piccola minoranza - lo stanno capendo e provano a praticare nuovi stili di vita (www.bilancidigiustizia.it). Nel campo della mobilità, per esempio, si possono moderare il numero, la velocità e la distanza degli spostamenti in automobile e il peso del veicolo che si sceglie. Si possono ridurre la frequenza e il numero dei chilometri dei viaggi aerei.

A questi due mezzi si può preferire il treno, quando il divario di tempo non sia proibitivo. Invece che a motore, parte dei tragitti brevi possono avvenire a piedi o in bicicletta, con beneficio anche per la salute. Si può ridurre la frequenza di acquisto di articoli nuovi per sostituire quelli vecchi o presunti vecchi: veicoli, vestiti, mobili, apparecchi elettrici. Più a lungo si usa un bene, più vengono ammortizzati i suoi costi in energia, materiali e inquinamento e più si ritardano costi e danni per produrre un nuovo bene e smaltire quello dismesso.

Nell’alimentazione si posso preferire più spesso cibi locali e di stagione, piuttosto che quelli trasportati, con dispendio di energia e di emissioni nocive, da lontanissimo e nelle stagioni più disparate. Nell’abitare si possono moderare il riscaldamento e il raffreddamento dei locali, risparmiando energia, inquinamento e denaro. Lo stesso si può fare con l’illuminazione e gli altri apparecchi elettrici e spegnendo, quando non necessari, i sempre più numerosi stand-by che consumano elettricità giorno e notte.

Purtroppo un disincentivo a questi comportamenti è la consapevolezza che i più non li praticano, quindi la loro percezione come sacrifici inutili e ingiusti. Per questo occorre anche una dimensione collettiva della sufficienza. Nel suo ultimo libro Futuro sostenibile (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609 ), per esempio, Wolfgang Sachs propone che il legislatore non consenta la costruzione di automobili più veloci di 120 km/h e treni più veloci di 200 km/h, con gran risparmio dell’energia usata dai veicoli, che cresce in proporzione al quadrato della velocità. Agli ascensori e alle scale mobili, gli architetti potrebbero affiancare scale invitanti, ben visibili e accessibili, invece di nasconderle dietro una porta mal segnalata.
Infine, c’è una dimensione politica e culturale della sufficienza. Come scrive Sachs «il passaggio a un’economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie: ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici, ed ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese».

Perché questo avvenga in tempi utili, occorre che l’idea guida della sufficienza diventi priorità nella politica e predomini nella cultura di massa. Dal raggiungimento di questo obiettivo sembrano separarci anni luce. Ma la storia ci ha insegnato che altre tappe del progresso umano apparentemente inaccessibili sono state raggiunte prima di quanto molti pensassero.

16.5.12

Europe’s Economic Suicide

By PAUL KRUGMAN (The New York Times)

On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.
Just a few months ago I was feeling some hope about Europe. You may recall that late last fall Europe appeared to be on the verge of financial meltdown; but the European Central Bank, Europe’s counterpart to the Fed, came to the Continent’s rescue. It offered Europe’s banks open-ended credit lines as long as they put up the bonds of European governments as collateral; this directly supported the banks and indirectly supported the governments, and put an end to the panic.
The question then was whether this brave and effective action would be the start of a broader rethink, whether European leaders would use the breathing space the bank had created to reconsider the policies that brought matters to a head in the first place.
But they didn’t. Instead, they doubled down on their failed policies and ideas. And it’s getting harder and harder to believe that anything will get them to change course.
Consider the state of affairs in Spain, which is now the epicenter of the crisis. Never mind talk of recession; Spain is in full-on depression, with the overall unemployment rate at 23.6 percent, comparable to America at the depths of the Great Depression, and the youth unemployment rate over 50 percent. This can’t go on — and the realization that it can’t go on is what is sending Spanish borrowing costs ever higher.
In a way, it doesn’t really matter how Spain got to this point — but for what it’s worth, the Spanish story bears no resemblance to the morality tales so popular among European officials, especially in Germany. Spain wasn’t fiscally profligate — on the eve of the crisis it had low debt and a budget surplus. Unfortunately, it also had an enormous housing bubble, a bubble made possible in large part by huge loans from German banks to their Spanish counterparts. When the bubble burst, the Spanish economy was left high and dry; Spain’s fiscal problems are a consequence of its depression, not its cause.
Nonetheless, the prescription coming from Berlin and Frankfurt is, you guessed it, even more fiscal austerity.
This is, not to mince words, just insane. Europe has had several years of experience with harsh austerity programs, and the results are exactly what students of history told you would happen: such programs push depressed economies even deeper into depression. And because investors look at the state of a nation’s economy when assessing its ability to repay debt, austerity programs haven’t even worked as a way to reduce borrowing costs.
What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.
So if European leaders really wanted to save the euro they would be looking for an alternative course. And the shape of such an alternative is actually fairly clear. The Continent needs more expansionary monetary policies, in the form of a willingness — an announced willingness — on the part of the European Central Bank to accept somewhat higher inflation; it needs more expansionary fiscal policies, in the form of budgets in Germany that offset austerity in Spain and other troubled nations around the Continent’s periphery, rather than reinforcing it. Even with such policies, the peripheral nations would face years of hard times. But at least there would be some hope of recovery.
What we’re actually seeing, however, is complete inflexibility. In March, European leaders signed a fiscal pact that in effect locks in fiscal austerity as the response to any and all problems. Meanwhile, key officials at the central bank are making a point of emphasizing the bank’s willingness to raise rates at the slightest hint of higher inflation.
So it’s hard to avoid a sense of despair. Rather than admit that they’ve been wrong, European leaders seem determined to drive their economy — and their society — off a cliff. And the whole world will pay the price.

15.5.12

Le Cassandre dell'economia

Cesare Del Frate (FaceBook)

Che cosa avevano previsto gli economisti circa l'introduzione dell'euro? Avevano previsto tutto, leggere per credere:

Luigi Cavallaro, 2006:

Come già accadde per l’Argentina, l’Italia affronta una crescente perdita di competitività dovuta all’aggancio ad unamoneta sopravvalutata, com’è attualmente l’euro. Ciò ha comportato la progressiva caduta delle nostreesportazioni, la crescita del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti e, in un contesto dominato dapolitiche fiscali sostanzialmente restrittive, l’ovvio rallentamento della crescita. Dal canto suo, il peggioramento dellaperformance della nostra economia non può che riflettersi in un peggioramento del deficit e, di qui, del debitopubblico. E non potendo più farsi ricorso alla svalutazione per ridurre i salari reali, l’unico modo per annullare lasopravvalutazione del tasso reale di cambio può essere solo un lungo e penoso processo di deflazione di salari eprezzi.

Rudiger Dornbusch, docente al MIT, Da “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, settembre/ottobre 1996, scriveva:

"La critica più seria all’Unione monetaria è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi... diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia". "Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira".

Paul Krugman, nel 1998!!!!!

"L’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania – per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro"; "il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese [cioè crescita stagnante ndr.]: che scivoli inesorabilmente nella DEFLAZIONE [cioè diminuzione dei salari], e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi".

Martin Feldstein, 1997

"Anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea".

Dominick Salvatore: "Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale, e l’atteggiamento della Bce che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri".

Keynes, Le conseguenze economiche di Wiston Churchill, 1932:

«Se vogliono essere fedeli ai loro principi [l’agganciamento della sterlina al gold standard] le autorità della Banca d’Inghilterra dovranno sfruttare questo margine di tempo per attuare quelli che vengono eufemisticamente chiamati i riassestamenti fondamentali. [...] Che cosa significa, in parole povere? Significa che dobbiamo ridurre i salari monetari e, per loro mezzo, il costo della vita, nella convinzione che quando il processo delle compressioni a catena sarà concluso, i salari reali avranno lo stesso valore, o quasi, che avevano prima. E qual è il processo pratico attraverso cui [...] si consegue questo risultato? Uno solo: aumentando deliberatamente la disoccupazione. [...] Questa è la sana politica che si impone come risultato della sconsiderata decisione di inchiodare la sterlina ad un valore aureo che, calcolato in potere d’acquisto della manodopera inglese, ancora non ha. Ma è una politica da cui ogni essere umano o razionale dovrebbe rifuggire».

Giorgio Ruffolo, Testa e Croce, 2012:

"La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico"

Se Wall Street è senza regole

Paul Krugman (La Repubblica)

Uno dei personaggi dell`intramontabile film Ombre rosse (1939) è un banchiere, Gatewood, che ai suoi sottoposti propina una lezione sui mali di Big Government, l`interventismo statale, in particolare della regolamentazione bancaria. A un certo punto Gatewood esclama: «Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare le nostre banche!». In seguito, più avanti nel film, scopriamo che Gatewood taglia la corda dalla città, portando via una bisaccia piena zeppa dí bigliettoni che ha sottratto indebitamente.

Da quel che ne sappiamo finora, Jamie Dimon - presidente e amministratore delegato di JP Morgan Chase - non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà come due miliardi dí dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari, ci sono un bel po` di giustizia divina e una fondamentale lezione comportamentale da apprendere. Giusto per essere chiari: gli uomini d`affari sono uomini - quantunque i Signori della finanza abbiano una certa tendenza a dimenticarlo - e di conseguenza commettono di continuo errori in perdita.

Di per sé questa non è una ragione sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però, sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona parte, dai contribuenti e dall`economia nel suo complesso. E il caso di JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che sono autorizzati ad assumersi. Per la precisione: perché le banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti "ondate di panico", in grado di scatenare il caos in tutta l`economia. La destra sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo andamento del settore bancario è sempre conseguenza diun intervento del governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei liberai al Congresso. In realtà, tuttavia, l`America dell`Età Dorata - quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed non esisteva neppure - era soggetta al panico più o meno una volta ogni sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite all`economia.

Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall`altro, le banche furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero abusare dello status privilegiato derivante loro proprio dall`assicurazione sui depositi, in pratica unagaranzia governativa dei loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali Lehman Brothers.

Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di relativa stabilità finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di attività baricaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso sía alle banche tradizionali sia a quelle all`avanguardia di accollarsi rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell`Età Dorata, con conseguenze tremende.

È evidente pertanto che dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già citato il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie?

Arriviamo adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan - e a Dimon - il merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l`uomo di punta nella battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli si è distinto e si è fatto particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rul e, che precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la possibilità di impegnarsi nel "proprietary trading", in sostanza di effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi», ha detto in pratica il capo della IP Morgan. «È tutto sotto controllo».

Pare proprio di no, invece. Che cosa ha fatto in realtà la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha utilizzato il mercato dei derivati - complessi dispositivi finanziari - per scommettere fortemente sulla sicurezza dell`indebítamento delle aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di assicurazioni Aig sull`indebitamento immobiliare di qualche anno fa. Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scornmesse. Tanto meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei contribuenti.

Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà: mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nei giro di settimane, forse addirittura giorni. In verità, abbiamo appena assistito a una dimostrazione pratica del motivo perii quale, di fatto, Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon.

12.5.12

E NOI?

 di Rossana Rossanda (Il Manifesto)

Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata, anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o Prodi o Amato.
D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi); tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.
Quel che mi preme è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva, stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere. Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti, visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base ripartire.
E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei "tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta" delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non vogliono entrare in agonia.
E pur nelle difficoltà grandi in cui si trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Melenchon - si tranquillizzi Joseph Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.

9.5.12

Grillo, il guru che tira la volata

 di Fabrizio Garlaschelli  (La Provincia Pavese)

Gran risultato del Movimento 5 stelle.
Sono contento per i "grillini" giovani e impegnati sul territorio. Qualcuno vuole paragonarli ai leghisti dei primi tempi. Direi che sono agli antipodi per preparazione culturale e tipologia politica. Almeno quelli che conosco. Come sempre quando un movimento cresce non mancano nelle sue fila fanatici e sostenitori acritici che prendono per oro colato tutte le stupidate sparate del loro guru. E Grillo è un guru.
Non esistono guru democratici. L'uomo che sta dietro magari lo è, così come può essere umanamente splendido, almeno fin tanto che non si prende totalmente sul serio.
Per Grillo questo è il maggior limite. Ha bisogno di un pubblico che penda dalle sue labbra; è nella sua natura di attore. Ma è anche persona dotata di intuito straordinario nel cogliere il "nuovo" dalle sollecitazioni che riceve. Lo ha fatto con l'ecologia, con l'economia, con la rete e il suo uso, con la politica. Dire che è un qualunquista antipolitico significa non tener conto del suo iter teatral-politico. Anzi, a ben guardare ha recuperato all'interesse per la cosa pubblica una frazione importante di persone che non ne volevano più sapere. Eccessivo, volgare, schematico, superficiale, piace al pubblico proprio per la semplicità immediata con la quale veicola i contenuti, spesso non facili, dei suoi messaggi, allo stesso modo delle sciocchezze demagogiche. Gli intellettuali che sostengono cose simili alle sue sono ovviamente più precisi ed articolati, ma anche infinitamente più prolissi e noiosi. Le loro "corrette" argomentazioni non raggiungono lo scopo di scaldare e tantomeno influenzare un pubblico né grande né piccolo.
Così Grillo è riuscito nell'impresa di costruire un partito ora forse superiore al dieci per cento. Ma non con un elettorato che vota per lui, improponibile leader politico, bensì per una serie di personaggi anonimi, a volte anche abbastanza grigi, però volenterosi, ai quali il "guru" tira la volata finale riempiendo una piazza con i suoi frizzi e lazzi.
Fino ad ora tuttavia la cosiddetta "gente" veniva, rideva, applaudiva e solo in minima parte votava Movimento 5 stelle.
Ci sono voluti quasi vent'anni di porcherie berluscon-leghiste, lo sfascio etico-culturale non solo della destra, ma anche della sinistra, l'informazione televisiva e giornalistica "paludata" priva di credibilità, la diffusione di internet e dei social network, una devastante crisi economica e la spocchia "professorale" antipopolare del governo Monti per ottenere questo risultato.
Ora agli eletti nelle amministrazioni comunali spetta l'onere di far seguire alle parole i fatti, senza trasformarsi nella ennesima speranza delusa. Ma è presto: ben pochi avranno autentiche responsabilità di governo locale. Per ora dovranno far bene l'opposizione che è pur sempre più facile che governare.
Alla prossima tornata elettorale tutto potrebbe essere diverso. Se in qualche modo la situazione dovesse rinormalizzarsi anche il successo elettorale dei "grillini" si ridimensionerebbe. Se le cose peggioreranno, come c'è fortemente da temere, le chance del Movimento 5 stelle aumenteranno.
Ciò che i partiti tradizionali e i loro leader non sembrano aver capito, insieme a mille altre cose, è che non è stato Grillo a vincere facendo leva sul populismo e l'antipolitica. Sono stati loro a perdere continuando ad autoalimentarsi come ceto politico corrotto ed inetto, incuranti del fatto che aumentano coloro che, aperti gli occhi, hanno cominciato a gridare "il re è nudo!".
Anche a Pavia se si fosse votato ora le cose sarebbero andate diversamente.

8.5.12

Il sindaco Pd sembra un leghista

Niente più pasti ai bambini di chi non ha pagato la mensa
Gli immigrati tornino a casa loro


di Furio Colombo (Il Fatto Quotidiano)

C’era una volta un piccolo centro padano di nome Cavenago. Non tutti gli abitanti di Cavenago erano nati in quella fertile terra. Alcuni venivano da Paesi lontani che non tutti conoscono, neppure se hanno davanti un atlante. Ci sono abitanti di Cavenago che se la cavano bene e altri che sono un po’ in ristrettezze. Fa niente, dicevano a Cavenago, ci pensa il Sindaco, che una mano la dà a tutti. Nel senso che un comune ha un fondo e con quel fondo da un piccolo aiuto ai più poveri, cominciando dai bambini della mensa scolastica. Nessun bambino qui è mai stato senza mangiare, ti dicevano con orgoglio i cittadini del luogo. Una bella mattina il Sindaco di Cavenago, Sem Galbiati fa sapere che i tempi sono cambiati e lo dice così: “Qualcuno qui pensa di mangiare a scrocco. Sono 170 le famiglie che non hanno pagato. Ma è scattata l'ora della tolleranza zero. Anche se manca poco più di un mese alla fine dell'anno scolastico, saremo inflessibili”.
Che vuol dire, nel linguaggio del coraggioso sindaco, niente soldi, niente pasti. Però la storia bisogna raccontarla tutta, e continua così: “Agli stranieri che bussano alla porta per chiedere assistenza – ci fa sapere Sem Galbiati – dico che dovrebbero prendere in considerazione l'idea di tornare a casa. Dico di pensarci. Se hanno ancora una famiglia nella loro terra d'origine, avranno più possibilità di sopravvivere, ci saranno genitori o parenti in grado di garantire loro un tetto e un tozzo di pane”. Ora come tutti sanno, ci sono interi continenti detti “in via di sviluppo” che pullulano di casette con il fuoco acceso e il pentolone ricolmo, che sono in attesa del ritorno di parenti lontani. Ecco realizzate, con una sola, limpida decisione, due importanti iniziative politiche annunciate alternativamente dalla destra rigorosa e dalla sinistra generosa: fare finalmente qualcosa per le famiglie. E riunire finalmente anziani e giovani che fossero rimasti accidentalmente separati dall'arrischiato viaggio in Europa. S'intende che una lettura accurata della vicenda Cavenago ti fornisce altri dati. Uno è che l'Imu sarà un disastro e dissanguerà il Comune. Poi ci sarà la tassa sui rifiuti che andrà a sommarsi alla tassa sulla casa. E “il patto di stabilità che ci mette in ginocchio”. Qui finisce la parabola di Cavenago che potrebbe anche intitolarsi “la sottrazione dei pani e dei pesci” oppure “il divorzio di Cana”. Nel primo caso l'idea è: “Guarda che di pani e di pesci non ce ne sono così tanti, nascondili subito, che se no gli stranieri e i più poveri si fanno venire idee sbagliate”. Il secondo celebre evento evangelico invece va riscritto così: “Non hanno più vino. E allora?”. Molti lettori avranno già capito che cattivo umore e sarcasmo di chi scrive hanno una ragione che chi mi legge conosce: questa è la Lega, che vuole che il mondo finisca con la Padania (e siccome la Padania non esiste, il mondo finisce in quel di Belsito). Ma Cavenago, terra del valoroso sindaco Sem Galbiati, è governo Pd. Vi rendete conto? Sem Galbiati sarebbe, se lo sapesse, di sinistra. Pensate a questa terribile verità e poi andate a rivedere tutto ciò che ha detto e che qui è riportato fra virgolette, citando da Repubblica (pagine di Milano), da Facebook e Twitter.
I bambini immigrati vengono lasciati digiuni prima che l'Imu (di cui si ignorano ancora rate ed entità) faccia sentire il suo peso. Le famiglie che “credono di mangiare a scrocco” vengono punite prendendo in ostaggio i bambini (digiuni) che, ovviamente non sono e non possono essere responsabili. Quante di quelle famiglie “a scrocco” sono di infidi immigrati che pensano di vivere sulle spalle degli italiani? E quanti saranno onesti lavoratori cavagnanesi il cui voto scomparirebbe all'istante se i loro bambini, “a scrocco” o no, venissero puniti come gli stranieri?
Bella anche l'idea del focolare che in qualche parte del mondo, povero ma felice, attende tutti coloro che, per vivere e lavorare a Cavenago, hanno attraversato il Mediterraneo infestato dalle motovedette armate italo-libiche disposte da Maroni (quello buono della Lega) per eseguire i famosi respingimenti in mare che voleva dire annegare o essere consegnati alle prigioni libiche (vedi la testimonianza della portavoce Boldrini per le Nazioni Unite o di Amnesty International). Ora che in Francia ha vinto Hollande contro Sarkozy (“cacciateli tutti” era il suo motto elettorale) e contro Marine Le Pen (“mai più uno di loro su suolo francese”) il sindaco Pd di Cavenago, si sentirà vincitore o sconfitto?

1.5.12

Insostituibile Rousseau

Alberto Burgio (Il Manifesto)

A 250 anni dalla pubblicazione, il «Contrat social» mette in luce le intuizioni del filosofo sui dilemmi della democrazia borghese.

Il 2012 è un anniversario rousseauiano perfetto: Jean-Jacques nacque (a Ginevra) 300 anni fa e 250 anni sono trascorsi dalla pubblicazione del Contrat social e dell’Émile, le due opere che – insieme ai Discorsi e alle Confessioni – hanno consacrato il loro autore a una fama imperitura.

Teorie «empie e scandalose»
Rousseau è figura controversa per eccellenza. Uomo dei Lumi, «anticipò» secondo alcuni la temperie romantica. Amico di Diderot (e collaboratore dell’Encyclopédie), fu la bestia nera di tanti philosophes che non gli perdonarono le invettive contro la «civilizzazione» e i suoi miti progressisti. Padre della Rivoluzione e icona dei giacobini che ne vollero traslare le spoglie mortali nel Pantheon, è non di rado accusato di conservatorismo per la tenace nostalgia verso l’arcadia e la riverente attenzione alla lezione di Montesquieu.

Il piano politico è centrale nella controversia, che coinvolge in particolare il Contrat social, pubblicato nel 1762 e subito messo all’Indice, insieme all’Émile, sia a Parigi che a Ginevra, dove il Piccolo Consiglio che governa la città ne definisce le teorie «temerarie, scandalose ed empie: tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo». Come ha mostrato in una preziosa analisi Louis Althusser, il capolavoro rousseauiano è un’opera complicatissima, labirintica, apparentemente contraddittoria. Non vi è traccia del geometrismo cartesiano, abbondano invece anacoluti logici, prolessi criptiche, iati e duplicazioni. Lo stesso Rousseau se ne avvede e chiede – esige – la pazienza del lettore, se non la sua complicità. «Tutte le mie idee si tengono, ma non posso esporle tutte in una volta» scrive, quasi a prevenire più che prevedibili critiche. Ma non è solo questione di difficoltà espositive. I problemi sono altri e ben altrimenti concreti.

Il plauso di Kant e di Hegel
Dove si può dire risieda il cuore del libro? Paradossalmente, nella critica del contrattualismo moderno. Anzi, nella sua decostruzione in omaggio a un criterio (il primato della ragione e dell’interesse comune) che susciterà il plauso di Kant (nel cui Olimpo Rousseau affianca Hume e Francesco Bacone) e Hegel (che gli riserverà uno dei rari elogi presenti nelle Lezioni berlinesi sulla storia della filosofia). Vediamo schematicamente come si svolge questa critica demolitrice dall’interno del paradigma contrattualista, già condotto alle più alte vette di precisione e potenza da due protagonisti del Seicento filosofico inglese, Hobbes e Locke.

In apparenza Rousseau condivide il punto di partenza del contrattualismo hobbesiano e lockeano: il problema politico sorge perché gli individui sono liberi per natura (ex jure naturali) e dotati di forza sufficiente a imporre il rispetto della propria libertà. Per di più sono egoisti: mirano ciascuno al proprio vantaggio particolare, secondo la nascente antropologia dell’homo oeconomicus.

Sulla base dell’influente sintesi contrattualistica della piattaforma ideologica borghese, avversa all’autocrazia di antico regime, il problema della legittimità politica può essere risolto soltanto con l’accordo tra tutti. Da qui l’idea che a dar vita alla sovranità debba essere un «contratto sociale», garante del rispetto dei diritti e degli interessi individuali.

Agli antipodi di Hobbes
Ma questa è solo l’apparenza, o l’avvio del discorso. A valle del quale Rousseau va per la sua strada, distaccandosi dai predecessori e muovendo loro contestazioni radicali. Quella prospettata nel De cive o nel Leviatano (Hobbes) e nel Secondo Trattato (Locke) non è una vera società né una forma legittima di sovranità, poiché l’accordo di tutti gli individui – pure indispensabile – di per sé non garantisce affatto il rispetto dei loro diritti né, tanto meno, la giustizia sociale, non meno decisiva ai fini della legittimazione.

L’egoismo è spesso miope e distruttivo. Nel perseguire il proprio vantaggio i più non esitano a danneggiare il prossimo. Inoltre spesso ci si sbaglia sul proprio interesse, poiché è facile sapere quel che serve nell’immediato, ma è molto difficile prevedere ciò che servirà in futuro. Senza contare che spesso si viene raggirati da chi, con pochi scrupoli, mente, simula o mistifica. Come presumibilmente avvenne all’atto della fondazione della «società civile», quando – per riprendere un celebre luogo del Discorso sull’ineguaglianza, dato alle stampe sette anni prima del Contrat - chi si era appropriato di un podere lo recintò (torna alla mente il resoconto marxiano della «cosiddetta accumulazione originaria»), se ne dichiarò proprietario («questo è mio») e realizzò l’usurpazione in quanto «trovò persone ingenue abbastanza da prestargli fede».

Il contratto sociale, dunque, non garantisce la legittimità del potere: da qui prende le mosse un lavoro ai fianchi del modello contrattualista che lo rovescia come un calzino e di fatto lo smonta e lo rottama. L’egoismo irrazionale (immorale, distruttivo) è un problema che deve essere risolto. Per questo la politica non può limitarsi a un’algebra delle forze, ha un compito di ben altra portata: deve trasformare gli individui nella loro moralità, estirpare alla radice ogni loro propensione anti-sociale.

Siamo agli antipodi di Hobbes (per il quale si era trattato di stabilire le condizioni della sicurezza dei corpi e dei beni) e di Locke (che aveva conferito legittimità all’accumulazione illimitata delle proprietà). Il contratto rousseauiano è chiamato a operare una mutazione antropologica nel segno del primato dell’interesse comune. Da qui la messa in discussione della stessa dimensione individuale: «all’istante, in luogo della persona particolare di ciascun contraente» il patto fondativo della nuova società deve generare «un corpo morale e collettivo» che «da questo atto riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà».

Ma Rousseau non è un ingenuo. Non si illude che veramente un contratto (peraltro, in questo caso, una metafora, un semplice schema logico utile ad articolare l’istanza democratica nella lotta antifeudale) possa di per sé avere ragione di una forma concreta dell’individualità: estirpare come d’incanto il particolarismo consolidatosi nel corso del lungo processo di modernizzazione, luogo d’incubazione dell’antropologia proprietaria egemone nell’Europa borghese. Egli sa bene che il contratto serve a poco.

Se c’è una speranza, questa riposa sul concreto funzionamento delle istituzioni politiche, sulla sua coerenza con la loro ratio costitutiva. Quella che si tratta di giocare è una delicata partita a scacchi dentro il quadro dei poteri e nel corpo stesso della collettività. Gli egoismi vanno estirpati o almeno imbrigliati. E Rousseau le tenta tutte per vincere questa battaglia.

Qualità e quantità
Tenta, dapprima, la carta delle procedure. Stabilisce con puntiglio le regole del voto nell’assemblea legislativa, graduando il principio di maggioranza in base alla rilevanza e all’urgenza delle decisioni. Ma è sin troppo evidente (almeno a lui, visto che di questi tempi corre invece l’idea che la democrazia sia una questione di «regole del gioco») che le procedure di per sé non garantiscono nulla. Persino l’unanimità dei consensi non dimostra coesione o disinteresse personale, visto che domina anche nelle assemblee servili, quando «i cittadini non hanno più libertà né volontà».

È poi la volta della carta teoreticamente più ardita, intorno alla quale generazioni di lettori del Contrat si sono variamente rotte la testa: la definizione della volonté générale come sinonimo (a priori) del bene comune. L’insufficienza dei vincoli procedurali dimostra che non è possibile desumere la qualità delle decisioni dalla quantità dei consensi. Allora, per quanto bizzarro possa sembrare, il discorso andrà rovesciato di sana pianta. Posto che «ciò che generalizza la volontà» (ciò che garantisce la corrispondenza tra volontà e giustizia, tra volontà e bene comune) «è meno il numero dei voti che l’interesse comune che li unisce», bisognerà partire dall’interesse comune. Il quale (lo sappiano o no i cittadini riuniti nel corpo sovrano) risiede nella solidarietà, nella (relativa) uguaglianza, nella sobrietà, nella moderazione.

Una resa apparente
Ma così, che fine fa l’autonomia decisionale del corpo sovrano? E poi: nell’assemblea votano individui corrotti dallo spirito del tempo, i quali – come abbiamo visto – hanno tutt’altra idea dei propri interessi. Per questo spesso si formano consorterie e fazioni, intese, le une e le altre, a curare il proprio particulare. Quale ascolto daranno costoro alle indicazioni della volonté générale? Quando si dice «volontà», spesso e volentieri ci si fraintende: si vuole sempre il proprio bene, ma come lo si troverà se non si è in grado di vederlo?

Il risultato sembra una resa incondizionata: «come può una moltitudine cieca, che spesso ignora ciò che vuole poiché raramente sa che cosa è per lei bene, compiere un’impresa grande e difficile come un sistema di leggi?» Per parte sua, la volonté générale ha un bell’essere per definizione «retta e tesa alla pubblica utilità», «sempre costante, inalterabile e pura»: se il popolo è fuorviato, se nell’assemblea prevalgono i particolarismi, essa non verrà espressa («ammutolisce») e di certo sarà sopraffatta.

Dal tutto alla parte
Consapevole di ciò, Rousseau tenta, infine, l’ultima carta – sorprendente e fatale (se non altro perché sancisce il fallimento del modello contrattualistico, o quanto meno la fuoriuscita del Contrat dal suo quadro di riferimento). Nell’estremo tentativo di venire a capo del problema, constatata l’inemendabile miseria degli uomini («ci vorrebbero degli dei per dare loro un corpo di leggi»), Rousseau fa intervenire la figura platonica del legislatore, antitesi vivente della partecipazione democratica. Un dio profano, forte di un’autorità trascendente («di un’altra specie»), è in effetti «il meccanico che inventa la macchina» dello Stato. Ed è sin troppo evidente che la sua irruzione mette in mora il dispositivo contrattualistico, visto che il legislatore assolve esattamente il compito affidato al contratto: fonda la nazione e per questo cambia la natura umana, sostituendo «un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo tutti ricevuto dalla natura» e «trasformando ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande».

Difficile immaginare una più esplicita affermazione dell’impossibilità di risolvere il problema politico attraverso il contratto sociale. Rousseau non ne formalizza il ripudio né rinuncia al carattere democratico della teoria; si preoccupa di circoscrivere le prerogative del legislatore («il suo ufficio non è magistratura, non è sovranità»); conserva il principio di maggioranza per le decisioni collettive e, soprattutto, riserva la sovranità all’assemblea dei citoyens. Ma in questo modo, come nel gioco dell’oca, i problemi che aveva cercato di risolvere si ripropongono tali e quali, nulla garantendo che il corpo sovrano dia voce alla volonté générale. Ce n’è abbastanza perché a uno sconsolato Rousseau il Contrat appaia ben presto «un libro da rifare».

La volontà «vera»
Nondimeno, quest’opera esplosiva rimane per noi, dopo due secoli e mezzo, insostituibile. Perché? Per almeno due buone ragioni. In primo luogo, proprio questo tormentato percorso rivela che gli interessi particolari sono qui e ora troppo forti perché sia possibile coniugare partecipazione (esercizio dell’autonomia individuale e collettiva) e giustizia sociale. Rousseau vede precocemente un dilemma-base della democrazia borghese: intuisce (sta qui un nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione concreta degli interessi) sarà possibile produrre una forma politica realmente democratica. Sino a quel momento, la politica potrà tutt’al più ridurre i contraccolpi distruttivi del rapporto sociale capitalistico. Col senno di poi, comprendiamo che Rousseau affida, inconsapevolmente, questo insegnamento al Contrat social. Il quale è, per tale ragione, qualcosa di più di un classico del pensiero democratico. È anche un antefatto della critica marxiana della politica, una premessa indispensabile della denuncia dell’ideologia democratica che prenderà forma nelle pagine della Judenfrage.

La seconda ragione è sorprendente, forse paradossale. Abbiamo visto che Rousseau abbandona il quadro di riferimento del contrattualismo moderno imponendo alla scelta collettiva vincoli esterni e non negoziabili. Non basta che la decisione sia partecipata (formalmente democratica), dev’essere anche giusta: promuovere la solidarietà, la coesione, la giustizia sociale, l’uguaglianza, insomma l’interesse generale. Con ciò, a guardar bene, il Contrat non si limita a congedarsi dal contrattualismo, apre la strada – implicitamente – alla più complessa strategia discorsiva che di lì a poco (nel corso del XIX secolo) darà avvio alla ricerca teorica del costituzionalismo moderno, la cui ratio consiste nel distinguere tra gli orientamenti immediati delle assemblee legislative (non di rado condizionati da poteri forti) e la sua volontà «vera» – generale – in quanto frutto dell’esperienza storica di lungo periodo.

Perché questo è sorprendente, perché è paradossale? Perché la discussione sull’opera di Rousseau è andata perlopiù in tutt’altra direzione. Già all’indomani della Rivoluzione francese, e a maggior ragione nel secolo scorso, i suoi avversari di parte liberale gli hanno imputato gravi responsabilità, leggendo nel Contrat - in particolare nella teoria della volonté générale - un dispositivo liberticida, propedeutico al «totalitarismo». Ma a dimostrare che si tratta di accuse insensate basterebbe la sdegnosa risposta che Rousseau dette ai fisiocratici che speravano di arruolarlo tra i fautori del cosiddetto «dispotismo illuminato». No grazie, ribatté: o una collettività trova da sé la strada verso la giustizia, oppure «tutto è perduto»: niente e nessuno autorizza vie di fuga verso il leviatano di Hobbes.