30.5.05

La grande repulsione

di Barbara Spinelli

Esiste dunque un’ira funesta della Francia, che l’ha spinta a sollevarsi contro la costituzione siglata nel 2004 dai governi europei e a pronunciare ieri un fragoroso no al nuovo edificio dell’Unione. Il popolo francese ha detto no in maniera confusa, perché nel rifiuto si mescolano le passioni più contraddittorie: il viscerale desiderio di chiudersi nazionalisticamente dietro le frontiere e la speranza delusa in un’Europa che non è ancora potenza; la paura xenofoba legata all’allargamento e il timore che l’Unione così come si sta facendo non protegga dalle tempeste che possono venire da un mondo in mutazione, dove rude sarà la competizione tra molti Grandi.

Ma da Parigi viene un messaggio talmente tonante, la differenza tra i sì e i no è talmente enorme, che l’Europa esce a pezzi anche se il fronte negazionista è un’accozzaglia di contraddizioni, resa compatta dal rigetto incollerito della presidenza Chirac e dalla mescolanza letale tra politica nazionale ed europea. A partire dal momento in cui l’Europa esce a pezzi è la componente di estrema destra nazionalista che trionfa, monopolizzando per intero il no. I socialisti che negli ultimi anni hanno vinto tante battaglie (regionali, cantonali, europee) sono d’un tratto condannati al disastro per il cinismo di un suo dirigente, ieri europeo oggi antieuropeo per mera convenienza personalistica: Laurent Fabius. Nel 2002 la sinistra francese precipitò nel marasma aprendo la strada a Le Pen, che vinse il primo turno delle presidenziali. Oggi per colpa di Fabius la sinistra apre le strada all’estrema destra nazionalista di De Villiers, che è l’alter ego meno scandaloso di Le Pen. Per le sinistre europee, per la sinistra italiana che proprio in queste ore si dilania mentre sembrava vincente, l’ora è buia.

Il no francese riguarda tutti noi. Visto che l’Unione continua a esistere e a legarci gli uni agli altri siamo nella stessa zattera, e il rifiuto di una stragrande maggioranza di francesi è un pezzo della nostra stessa anima che entra in tumulto e chiede risposte alternative, vie d’uscita, soluzioni dei dilemmi, scioglimenti di enigmi. E non è un pezzo qualunque: la Francia con la Germania ha inventato l’Europa, e niente si è fatto o disfatto senza che lei fosse protagonista, lungo i decenni. Tutti siamo davanti a un bivio, e davanti a esso per tutti toccherà scegliere: o rispondere alla crisi con una reazione a catena positiva, o con una reazione a catena rinunciataria, regressiva. O far nascere dalla crisi un’Europa ancor più ambiziosa, meno timorosa e povera di mezzi e istituzioni di quella negoziata da Giscard con gli Stati, o ridurre le aspettative rinazionalizzando l'intero progetto emerso nel dopoguerra.
Il cammino comunque minaccia d’esser lungo, per chi vuol medicare l’Europa ferita. Ci vorranno anni, forse.
Crisi in origine non vuol dire patologia, malanno: la parola indica l’ora della decisione, del discernimento tra due possibili vie. È il malessere provato ogni qualvolta giungiamo al punto in cui i sentieri si biforcano che ha dato, alla crisi, il colore di una condizione patologica, dalla quale si uscirebbe con farmaci o addirittura col riposo e non, come invece urge, con la contromossa consistente nel prendere una decisione, nell’agire scegliendo la via ritenuta migliore. L’unica cosa che non si può dire è che l’Europa muore a Parigi: sarebbe non solo cupio dissolvi ma controverità.

L’esigenza di una crisi-decisione vale per la Francia come per l’Unione, e per questo il no pronunciato ieri è una prova alla quale ambedue dovranno al più presto sottoporsi, Chirac e i socialisti e la società francesi da una parte, gli europei dall’altra, per vedere se la gara potrà alla fine esser vinta. Non siamo infatti di fronte a un incidente momentaneo, non possiamo fischiettare nella notte per meglio allontanare gli spettri veri e immaginari che hanno acceso tante paure in Francia. Siamo di fronte a un sommovimento che viene dai sottofondi di una Francia specialmente inferma ma anche dai sottofondi d’Europa. Siamo alle prese con una strana bestia che ha il calore attraente d’ogni negazione e che somiglia non poco a quello che Nietzsche chiamava grosser Ekel, Grande Repulsione o letteralmente Schifo, Nausea. Con un gesto iracondo il Ribrezzo cancella l’essere stesso, installando al suo posto la potenza del nulla.

Quel che la Francia può imparare dalla veemenza di tale gesto negazionista è l’importanza di rispondere a paure e malcontenti con radicali svolte in politica interna e, in Europa, con argomenti più arditi e netti, meno rituali o evasivi. Una cosa, infatti, è apparsa limpida nella campagna referendaria per quanto riguarda l’Unione. Il fronte del no accampava una parola precisa, non equivocabile, e proprio qui era il suo fascino. Ben altro era il sì detto da gran parte della classe dirigente (politici e stampa): non da oggi, ma da decenni, è un sì caratterizzato da intenebrate ambiguità. Non da oggi mostra d’aver coscienza di quanto siano divenuti deboli gli Stati nazione, e dunque bisognosi di un’Unione di dimensione continentale, e al tempo stesso chiude gli occhi alla realtà, fingendo l’inossidabilità della grandeur nazionale.

Paradossalmente, una vittoria del sì avrebbe confortato l’Unione ma avrebbe prolungato quest’abitudine francese ad avere perennemente i piedi in due staffe, a presentarsi sempre con due anime. Il no obbliga molto più del sì a sceglierne infine una. Obbliga i dirigenti a dire quel che fin qui si son guardati di dire: che l’Europa intera e non solo gli sconfitti del ‘45 sono usciti perdenti dal ‘900. Che l’Europa è la risposta a questo declino storico, e alle sovranità assolute dei singoli Stati da cui il declino è scaturito. Che è insieme agli altri che Parigi può ritrovare grandezza. Che il suo universalismo deve trasformarsi in cosmopolitismo, perché nell’Unione non è lecito uniformare i valori di tutti attorno al credo d’uno solo. Il no è precipizio in un passato immaginario ma è anche immensa stanchezza (ribrezzo, appunto) per l’incessante doppiezza dei piccoli passi.

Ma un lavoro non meno impegnativo spetta ora agli altri stati dell’Unione. Sono questi che saranno chiamati a decidere il che fare, perché Parigi possa rientrare e la Costituzione esser tratta in salvo dai tifoni, senza naufragare e neppure subire danni completamente distruttivi da eventuali correzioni di rotta. Spetta in primo luogo a loro gestire il no francese e quello che altri paesi, a cominciare dall’Olanda, il 1° giugno, poi Danimarca, Polonia, Inghilterra, potrebbero pronunciare. È come se una nazione della Comunità fosse stata aggredita, non dall’esterno ma dall’interno. Ora si tratta di far valere la clausola di solidarietà e venirle in aiuto con senso dell’urgenza e del dramma.

Gli ostacoli a tale cammino sono certo rilevanti. Oggi manca una leadership forte nell’Unione in particolare nel drappello dei Fondatori, determinante per una ripresa europea che sappia cogliere l’attimo storico e ripartire come seppero Kohl e Adenauer, De Gasperi o Andreotti, Schuman o Delors. Ciampi ha questo fiato tenace, ed è sperabile che da lui vengano iniziative. Ma urgono segnali di tutti i fondatori, visto che l’importante non è solo la leadership, in questa fase.

In questa fase occorre prefigurare una strada percorribile perché il popolo francese possa tornare a votare in condizioni di maggiore chiarezza: sia tra francesi sia tra alleati; sia avendo di fronte una classe politica nazionale meno ambigua e più disposta all’ascolto negli affari interni, sia avendo di fronte un’Europa che può accettare molte correzioni, ma non l’immobilismo e ancor meno l’arretramento e la rinuncia a una costituzione. I compiti che gli stati europei avranno l’interesse ad assumersi nell’immediato sono molti, ma potremmo provvisoriamente riassumerli i due punti.

Primo punto: è più che mai necessario che il processo delle ratifiche continui, in Europa: sia nei parlamenti sia nei referendum. 500 milioni di abitanti non possono rinunciare solo perché più della metà degli elettori ha detto no in un paese, e sarà bene che i francesi lo capiscano. Gli accordi prevedono che se quattro quinti degli stati (almeno 20) approveranno la Costituzione, non si imporrà in maniera automatica il rinegoziato ma il Consiglio dei capi di stato e di governo ridiscuterà e delibererà. Non è escluso anche se improbabile che i francesi escano dall’ebbrezza del no, quando vedranno di essere molto isolati alla fine delle ratifiche, nel 2006.
Secondo punto: i più vari compromessi e rilanci sono possibili, purché l’obiettivo (salvare l’idea d’una costituzione e i suoi muri maestri) sia salvaguardato. Si può attutire questo o quel paragrafo, o precisarlo. In teoria si potrebbe anche stralciare dalla Costituzione la terza parte (quella che costituzionalizza le politiche contenute nei trattati precedenti) e lasciare in piedi definizione e obiettivi dell’Unione, carta dei diritti, disposizioni generali e finali (Parti I, II e IV).

Ma il vero compito riguarda quel che avverrà dopo le azioni immediate, intese a salvare la costituzione. Ed è compito cruciale perché più profondo, che concerne la filosofia e la strategia stessa dell’Unione. Si è visto nel referendum francese (e lo si vedrà nei prossimi in Europa) quanto abbiano pesato temi come l’allargamento, l’eventuale inclusione della Turchia, la questione d’Oriente in Ucraina. Si è visto come il sì fosse muto in materia: privo non solo di visione, ma anche riluttante quando si trattava di denunciare la xenofobia che andava concentrandosi nel fronte del no. È su questi temi che urgerà, non troppo tardi, dire quel che si vuole.

Questo vuol dire che anche per l’Europa verrà presto il momento di uscire dalla doppiezza. A parole, essa vuole essere innanzitutto un’unità capace di governarsi, e di avere i mezzi e le istituzioni e il metodo politico per una politica estera comune. Nel linguaggio comunitario, questo scopo si chiama approfondimento, e nessun allargamento dovrebbe prodursi senza di esso. In realtà le due cose non sono veramente progredite insieme, e preminente col tempo è divenuto l’allargamento. O per esser precisi: lo strumento attraverso il quale l’Unione si è data una politica di stabilizzazione e democratizzazione del proprio retroterra orientale e sudorientale, ai confini della Russia come della Turchia, è divenuto l’allargamento e l’allargamento stesso si è trasformato in vera finalità anche istituzionale dell’Europa.

Naturalmente è essenziale che questa politica di stabilizzazione riesca, anche attraverso un’estensione della democrazia. Ma lo strumento privilegiato non può essere la sola adesione. Né l’Europa può imbarcarsi in una serie sterminata di allargamenti senza porre preliminarmente i quesiti essenziali: la lealtà primaria che i candidati devono all’Unione, le associazioni che possono esser offerte in alternativa all’adesione, la preminenza assoluta che convien dare al rafforzamento politico dell’Unione e alla sua costituzione interna. Costituzione che deve divenire, se mai nascerà, il vero confine dell’Europa unita.

Forse questo diverrà col tempo il punto principale. Il compito per l’Europa non è oggi di dare una risposta alla sfida americana dell’esportazione delle democrazie, ma di creare un’Unione sufficientemente legittimata da poter avere le politiche che rispondono ai suoi interessi di grande potenza. Prima di darsi una certa linea politica (estensione della democrazia, ordine ottenuto con adesioni o associazioni) occorre sapere chi siamo, quanti vogliamo essere, che tipo di governo (sovrannazionale e nazionale) vorremo dare al nostro voler essere insieme. Se l’Europa potenza esistesse già, molti più europei voterebbero la Costituzione. E la prima sarebbe forse proprio la Francia, che da sempre coltiva il sogno di un’Europa che parli da pari a pari con le potenze del mondo.

lastampa.it

26.5.05

Il web decolla in Europa

Ricerca Eurostat

Spopola tra le imprese, con una media dell'89%, e tra i cittadini dell'Ue, con un 50% di penetrazione. Allineate le imprese italiane, decisamente meno entusiasmante il dato relativo, invece, alla diffusione tra gli abitanti del Belpaese

Il web decolla in Europa. Secondo una ricerca Eurostat, accade tanto tra le imprese dell'Unione quanto tra i cittadini, con un 50% di penetrazione. Buona la tendenza delle aziende italiane, meno entusiasmante la percentuale di connazionali utilizzatori, che si assesta tra le più basse del continente. Ma vediamo nel dettaglio l'analisi dell'Ufficio statistico europeo.

A utilizzare Internet nell'Unione e' il 47% delle persone di eta' compresa tra i 16 ed i 74 anni, con un picco del 53% tra gli uomini, mentre tra le donne la percentuale scende al 43%. Il livello di diffusione decresce comprensibilmente con l'aumentare della fascia d'eta', passando dal 75% circa tra la fascia di 16-24, al 22% di quella 55-74.

In Italia, si registra tra gli abitanti un netto ritardo rispetto alla media europea, e avvicina i risultati del Belpaese ai nuovi stati membri dell'est, che si stanno aprendo relativamente da poco alle nuove tecnologie. In particolare, la proporzione di italiani che usa il web si attesta al 31% (sui livelli di Lituania, Lettonia e Polonia), lontano dalla media Ue del 47%, in netto ritardo rispetto alla Gran Bretagna (62%) e alla Germania (61%), e lontanissima dai primi della classe scandinavi: Svezia (82%), Danimarca (76%) e Finlandia (70%). A fare ricorso a Internet in Italia sono soprattutto gli uomini (37%), mentre tra le donne l'uso del web scende a livelli preoccupanti con un 26% che rappresenta la seconda peggiore prestazione continentale dietro alla sola Grecia.

Il dato piu' evidente riguarda invece il mondo imprenditoriale europeo. Complessivamente, l'89% delle imprese utilizza Internet, con un picco del 99% tra le grandi societa' e dell'89% tra le piccole e medie imprese (Pmi). L'Italia e' in linea con i dati che emergono a livello continentale, con l'87% delle imprese in generale e, in dettaglio, l'87% delle Pmi e il 98% delle grandi imprese. Tra le imprese europee si fanno sempre piu' strada le connessioni a banda larga, che permettono una velocita' di trasmissione dei dati sensibilmente piu' elevata. In media, il 53% delle imprese europea fa ormai uso di questo tipo di tecnologia, che sale all'87% tra le grandi attivita' e che si attesta al 51% nel settore delle Pmi. Anche in questo caso l'Italia e' sui livelli europei, con il 51% delle imprese complessive che fa ricorso alla banda larga e con un'ottima percentuale del 93% tra le grandi imprese.

Tra le Pmi, la media e' del 51%. A livello europeo trova conferma il dato che, per le imprese, avere a disposizione Internet non vuol dire automaticamente usarlo per comprare o vendere: nel complesso, infatti, nonostante il buon tasso di penetrazione registrato, solo il 32% delle imprese usa il web per comprare (livello che sale pero' al 48% tra le grandi societa'), e appena l'11% per ricevere ordini di acquisto (tra le grandi imprese e' il 18%). In Italia i livelli scendono drasticamente: solo 15% delle imprese usa la rete per acquistare (28% tra le grandi imprese) e appena l'8% per vendere (13% tra i colossi)
rainews

Greggio e guerra, il grande gioco

CECENIA, ABKHAZIA, KARABAKH: UNA SCACCHIERA INFUOCATA

di Anna Zafesova

Alla festa per «l’oleodotto del secolo» non ci sarà Vladimir Putin: non è stato invitato e, anche se lo fosse stato per buona educazione, non ci sarebbe andato. Il lancio del Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), il grande oleodotto che dovrà dare uno sbocco alle riserve potenzialmente senza fondo del Caspio, è un regalo che il Cremlino non avrebbe mai voluto ricevere. Ma non è riuscito a fare nulla e i petrolieri che parlano inglese sono tornati in quella Baku che i fratelli Nobel 80 anni fa avevano trasformato nella capitale del greggio e alla quale, 40 anni fa, Hitler aveva puntato le sue armate, bloccate a Stalingrado. Il «Grande gioco» del petrolio del Caspio torna a essere il passatempo più avvincente da queste parti. Basta guardare la mappa per vedere come la geografia rende fondamentali per la politica zone che altrimenti sarebbero state insignificanti. E come la politica permette di combinare in modo inedito la geografia. Per la prima volta la Russia si trova tagliata fuori dalla partita: il petrolio estratto nel suo ex territorio non passerà più per le sue mani: il tubo del Btc lo trasporterà nel porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, attraverso quel Caucaso dal quale Saakashvili con l’aiuto degli Usa sta cacciando le truppe di Mosca.

Quando il progetto partì, nel 1994, con la benedizione dell’amministrazione Clinton, sembrava l’affare del secolo: il bacino del Caspio veniva stimato in 200-300 miliardi di barili, il fabbisogno Usa per 30 anni. Ci guadagnavano tutti: America ed Europa si affrancavano dalla dipendenza dal Golfo, i Paesi del Caspio - Azerbaigian, Kazakhstan e Turkmenistan - appena diventati indipendenti dall’Urss rilanciavano la loro economia ricca di risorse. La Turchia si liberava dal vincolo energetico con Mosca e portava in dote all’Ue lo sbocco delle risorse dell’Asia Centrale, proponendosi inoltre come locomotiva dell’area turcofona ex sovietica che nelle ambizioni di Ankara è considerata una sua zona d’influenza naturale.

L’unica a rimetterci era la Russia che infatti - per calcolo economico e vecchia abitudine imperiale - ha rivendicato l transito delle risorse dalle sue ex colonie proponendo l’alternativa del suo oleodotto Baku-Novorossiysk. Che oltre a dover venire ampliato, aveva un altro difetto: passava per Grozny. E’ stato versato forse più inchiostro che petrolio per dimostrare che il casus belli ceceno fu proprio il Btc. Se così fosse, Mosca ha ottenuto l’effetto opposto: invece di garantire la sicurezza per gli investitori ha reso impraticabile forse per sempre quel lembo di Caucaso. E il Baku-Novorossiysk ha chiuso per anni fino a quando è stato costruito un bypass che aggira la Cecenia.

Come ironizza Robert Abel del Center for Strathegic and International Studies, «un oleodotto non porta la pace, al massimo segue una pace». La mappa del Caspio e dell’Asia Centrale è un’intricata ragnatela di tracciati del petrolio e del gas che coinvolge anche l’Iran. Chi non ha greggio cerca di accaparrarsi almeno il transito. Ma tutti i progetti dovevano fare zigzag tra zone di guerra vecchie e nuove: Nagorno-Karabakh in Azerbaigian, Abkhazia in Georgia, Daghestan e Cecenia in Russia. Non è un caso forse che il Btc ha ccelerato con la «rivoluzione delle rose» di Saakashvili che ha riportato sotto controllo parte della sua costa.

Undici anni dopo la saga del Btc arriva al lieto fine, e si cerca di non pensare ai dubbi sulle risorse del Caspio che molti esperti ora ritengono gonfiate, al punto che si teme i fondali azeri non contengano abbastanza greggio da riempire il megatubo. Ma Mithat Balkan, sottosegretario turco all’Economia, è esplicito: «Non si tratta solo di un oleodotto, contribuirà alle aspirazioni politiche di tutti i popoli della regione». Per la Turchia senz’altro, visto che il progetto alternativo di Putin approda a Novorossiysk e viene poi trasportato via mare dal bacino chiuso del Mar Nero attraverso il Bosforo. Uno stretto che funziona da ulteriore leva nel «Grande gioco» per i turchi che minaccia di chiudere il transito alle petroliere temendo in caso di incidente una catastrofe ambientale a Istanbul. Il Btc invece sfocia direttamente nel Mediterraneo e il leader kazakho Nursultan Nazarbaev ha subito fiutato i vantaggi annunciando di voler dirottare il suo petrolio sul nuovo oleodotto abbandonando quello che aveva finora utilizzato in società con i russi e che da Aktau approdava alla solita Novorossiysk.

Si tratterebbe non più di «petrolio del futuro», come Abel chiama il Caspio, ma di un presente di milioni di barili finora maneggiati dai russi. Tradimento dettato da economia e geografia, che però non sarebbe possibile se non fosse cambiata la politica. «Le aspirazioni dei popoli» di cui parla il ministro turco, sono quelle di liberarsi dal diktat di Mosca. Lungo il perimetro dell’ex impero russo esplodono «rivoluzioni» di colori vari, e i khan asiatici rimasti ancora sul trono colgono l’allarme e fanno i loro calcoli. Quello che il Cremlino chiamava familiarmanete «il vicino estero» dell’ex Urss si vuole allontanare. La Russia avrà un motivo in più per sentirsi accerchiata. Il flusso del petrolio cambia rotta, la bussola non punta più dai giacimenti del Sud al Nord, ma dall’Est verso l’Ovest dell’Europa e dell’America.
lastampa.it

25.5.05

Web di lotta e di rivolta

L'era digitale crea un nuovo conflitto di classe. Molto simile a quello del '900. Ma ora la rivoluzione si fa con un clic. Colloquio con Mckenzie Wark

di Francesca Gantes

C'erano una volta capitalisti e operai, protagonisti del conflitto di classe. Oggi, nell'era digitale, l'asse della lotta si è spostato tra i "lavoratori cognitivi" e i "vettorialisti", ovvero coloro che producono informazioni nel mondo dei nuovi media contro coloro che detengono il monopolio dei mezzi di produzione delle informazioni.

L'australiano McKenzie Wark, 43 anni, studioso dei media e docente alla New School University di New York, analizza i termini del nuovo conflitto sociale in "Un manifesto hacker" (Feltrinelli, pp. 184, 11 euro, in libreria dal 28 aprile), unendo alla rilettura di Marx il pensiero libertario che ha accompagnato lo sviluppo di Internet. Wark per definire i lavori cognitivi parla di "classe hacker", intendendo però qualcosa di profondamente diverso dai "pirati informatici" con cui vengono spesso identificati gli hacker.

Professor Wark, chi è per lei un hacker?
«Chiunque produca nuove informazioni è un hacker. Non importa che si occupi di musica o chimica, di romanzi o di programmi per computer: tutti questi sono modi di "performare un hack"».

Cioè?
«Cioè trarre nuove informazioni da dati non elaborati, astrarre conoscenza, liberare il virtuale nell'attuale: questo significa "hackerare". Gli hacker sono quelli che astraggono nuovi mondi».

Che cosa intende con astrazione?
«L'astrazione è tutto ciò intorno a cui ruota il mondo moderno. Significa mettere insieme e portare sullo stesso piano elementi diversi per realizzare il loro potenziale. La comunicazione è il principale agente dell'astrazione perché mette in contatto differenti parti del mondo, dando origine a nuovi tipi di lavoro, di mercato, di cultura, di politica. La modernità è un biglietto di sola andata. Il mondo che stiamo costruendo diventa sempre più astratto».

Tutti coloro che lavorano con l'astrazione, i lavoratori cognitivi, per lei dunque sono hacker. Questo significa anche che formano una nuova classe sociale?
«Gli hacker sono già una classe in sé, anche se non per sé, volendo utilizzare i termini di Sartre. Ci sono molti progetti che esprimono, in vari modi, l'esistenza di un interesse comune per gli hacker: per esempio il movimento per il software libero; la licenza Creative Commons; l'ascesa dei blog e di tutte le forme di file sharing cioè di condivisione di informazioni di varia natura; enciclopedie aperte come Wikipedia; il Progetto Genoma Umano, nella misura in cui gli scienziati sono attivamente coinvolti e interessati a rendere di pubblico dominio i risultati delle loro ricerche, o ancora il movimento per la diffusione dei farmaci generici nei paesi in via di sviluppo. Molti non riescono ancora a vedere i legami tra queste differenti cose. Sono tutte una medesima lotta: quella per superare la forma proprietaria dell'informazione. E tutte le lotte contro la proprietà sono lotte di classe».

Quindi gli hacker sono una classe, anche se con uno scarso livello di consapevolezza, perché lottano contro la proprietà?
«Ciò che definisce e instaura la classe hacker è effettivamente l'imporsi di una nuova forma di proprietà, la proprietà intellettuale, al di fuori dalle rovine dei vecchi diritti sociali dei brevetti e del copyright, e della volontà di combatterla. Se in passato brevetti e copyright riuscivano a trovare un equilibrio tra la proprietà privata e i beni d'uso sociale, la proprietà intellettuale è proprietà privata tout court perché mette la conoscenza, la cultura e la scienza, che sono prodotti collettivi della civiltà, nelle mani di pochi».

Chi sono questi pochi?
«La proprietà intellettuale tutela i produttori, gli autori delle nuove informazioni solo in apparenza: in realtà protegge gli interessi di una nuova classe di proprietari che chiamo "classe vettoriale"».

Che cos'è?
«Definisco vettoriale la nuova classe che ha rimpiazzato il capitale come classe dominante perché possiede i vettori lungo i quali l'informazione viene veicolata e i mezzi con i quali viene prodotta e archiviata. In Italia, Berlusconi è l'esempio più evidente dell'ascesa di questa nuova classe. Che, tuttavia, non include solo le grandi corporation dei media, della tecnologia e dei farmaci: man mano tutte le imprese stanno diventando vettoriali, tutte cioè cercano sempre più di estendere il loro controllo non solo e non tanto alla produzione, ma anche ai marchi registrati, ai brevetti, al copyright, per non parlare dei "segreti aziendali". Questo significa che la classe vettoriale sta sì creando nuove strutture aziendali, ma anche prendendo dall'interno il controllo delle vecchie imprese». Dunque è in corso un nuovo conflitto di classe tra hacker e padroni dell'informazione?
«Sì, io parlo di hacker e classe vettoriale, inventando una nuova terminologia, per identificare il nuovo asse del conflitto di classe, che in passato ha avuto due diverse declinazioni. Il primo asse era quello dei contadini contro gli allevatori; il secondo quello degli operai contro i capitalisti. Le classi produttrici lottano contro le classi espropriatrici. Come contadini e operai lottavano rispettivamente contro allevatori e capitalisti, ora gli hacker lottano contro i vettorialisti».

Che cosa devono fare gli hacker per avere la meglio sulla classe vettoriale?
«Si tratta di realizzare che la privatizzazione dell'informazione non fa parte dei nostri interessi a lungo termine. La proprietà intellettuale come proprietà privata è un vantaggio solo per chi possiede i mezzi per guadagnarci sopra, cioè per la classe vettoriale. Come produttori di nuove informazioni tendiamo a focalizzarci su ciò che produciamo e sul desiderio di avere qualcosa in cambio. Tendiamo a dimenticare che non realizziamo mai niente di assolutamente nuovo. Dipendiamo sempre dalle creazioni di altri. Il lavoro degli hacker è sempre sociale, sempre collettivo. Privatizzare l'informazione quindi, quando la si considera dal punto di vista collettivo, non ci conviene: significa continuare a pagare, sempre di più, le poche corporation che detengono il materiale grezzo su cui lavoriamo».

Che cosa si deve fare allora per liberare l'informazione?
«Dal punto di vista della proprietà, l'informazione è molto diversa dalla terra o dal capitale, perché non conosce scarsità. Se io possiedo delle informazioni, il fatto di possederle non ne priva gli altri. Cosa che non succede per esempio con una sigaretta: se io la fumo, gli altri non possono fumarla. In questo senso, la questione non è come possiamo liberare l'informazione, perché tale libertà è ontologica, fa parte della sua stessa natura. Il problema riguarda la straordinaria capacità che la classe vettoriale ha di mercificare l'informazione: stanno provando con ogni mezzo, legale e tecnologico. Bisogna contrastare questa tendenza. L'informazione vuole essere libera, ma è in catene ovunque. L'antidoto è il file sharing, cioè la condivisione di tutte le informazioni, che è il vero, nuovo movimento sociale, perché mette in pratica la vera natura della cultura che è da sempre basata sul dono, sulla condivisione e non è una merce come vorrebbero i vettorialisti».

Gli hacker devono allearsi con gli altri lavoratori?
«Questa è la grande questione, ed è proprio qui che entrano in gioco fenomeni come il file sharing. Come ho detto, si tratta in tutto e per tutto di un movimento sociale, tranne che nel nome. La gente continua a scaricare musica, film, ricerche scientifiche, testi letterari, manuali di istruzioni. Ora si tratta di capire come formare alleanze attraverso la creazione tecnologica e culturale di una comunità. Gli hacker devono raggiungere la consapevolezza che il loro interesse risiede nella libera circolazione dell'informazione e non nella sua mercificazione. È è la questione centrale per l'avanguardia, sia nell'arte sia nella politica».

Che tipo di politica favorisce la liberazione dell'informazione?
«Non credo a una politica a di resistenza e negazione, ma di creazione e invenzione di nuove pratiche collettive di cultura, conoscenza e scienza. Si tratta di incoraggiare la fuga dall'economia basata sulla mercificazione dell'informazione, di rivedere il vecchio rapporto tra dono e merce sulla base del nuovo concetto di informazione come dono. Inoltre, si tratta di acquisire una volta per tutte la consapevolezza che la creazione del nuovo è sempre sociale, collettiva».

Lei crede che questo sia possibile?
«Sì, credo che sia possibile. Io sono stanco della resistenza. Ciò che mi interessa sono quei movimenti che creano nuove possibilità, che reinventano la speranza».

espressonline.it

21.5.05

La scuola inglese regalata all'impresa

Blair, solerte demolitore del pubblico

La solerzia di Anthony Blair nel soddisfare i desideri del padronato - nello specifico bloccando ogni avanzamento sociale nei negoziati sul trattato istituzionale - è nota. Ma nessuno avrebbe immaginato che si sarebbe spinto fino a consegnare nelle mani dei privati il controllo del settore educativo. Trasformando la scuola in impresa, il «nuovo lavorismo» mostra una volta ancora di incarnare l'avvenire dell'Europa liberale.

Richard Hatcher

Nel marzo 2000, il Consiglio europeo di Lisbona aveva fissato, come primo obbiettivo per la politica dell'Unione nel campo dell'educazione, la produzione di un capitale umano redditizio al servizio della competitività economica (1). In Inghilterra (il resto del Regno unito è meno colpito), costruendo sulle fondazioni lasciate da Margaret Thatcher, il governo laburista di Blair, in questa logica, ha utilizzato tre leve per «riformare» il sistema scolastico (2). La prima è costituita da potenti agenzie governative come l'Ufficio delle norme educative (Office for Standards in Education - Ofsted), il quale pratica ispezioni molto rigorose negli istituti, e l'Agenzia per la formazione degli insegnanti (Teacher Training Agency) incaricata di sovrintendere alla formazione iniziale e permanente dei professori.La seconda leva è costituita dal tentativo di riqualificazione dei presidi e direttori scolastici per farne una struttura direttiva fortemente impegnata nel perseguimento degli obbiettivi governativi.Il terzo perno, che forma oggetto del presente articolo, è il settore privato, descritto nel 1998 - un anno dopo l'arrivo di Blair al potere - come «lo strumento migliore per pilotare il cambiamento e l'innovazione», per citare le parole di Michael Barber, consigliere del governo per le questioni legate all'educazione. Sette anni dopo, si può effettivamente constatare che le società e le imprese private, sia che agiscano a titolo commerciale che come associazioni di volontariato, sono ormai elementi centrali del sistema educativo. In effetti, il governo si appoggia su di loro, sia per i metodi pedagogici che per i programmi o per la gestione degli istituti scolastici. Lo dimostra, per quanto riguarda i metodi, l'attribuzione, da parte dello Stato, di un contratto di cinque anni e di una somma di 177 milioni di sterline (253 milioni di euro) alla principale società di «business dell'educazione», Capita.Questa impiegherà varie migliaia di consulenti incaricati di organizzare sessioni di formazione e di fornire consigli agli insegnanti circa le modalità di applicazione della Strategia nazionale per l'apprendimento della lettura, della scrittura e dell'aritmetica nella scuola elementare (National Primary Strategy for Literacy and Numeracy) e della Strategia per il livello-soglia 3 di apprendimento della lettura e della scrittura nell'insegnamento superiore (Key Stage 3 Literacy Strategy in Secondary Schools). Il ruolo centrale del settore privato nel «management» si rileva inoltre dal fatto che agli insegnanti vengono riconosciuti stipendi legati al merito. Sono stati firmati contratti di varie centinaia di milioni di sterline con numerose società per la definizione di criteri di valutazione delle capacità degli insegnanti, per il reclutamento di consulenti incaricati di formare i direttori d'istituto alla valutazione dei propri insegnanti, e anche per la valutazione degli stessi direttori d'istituto circa la loro capacità di assicurare la realizzazione dei propri compiti. Altra notevole fonte di profitti: la privatizzazione dei servizi negli istituti, molti dei quali dipendevano fino a oggi della responsabilità delle autorità locali in materia di educazione (Local Education Authorities, Lea). Si va dalla mensa alla manutenzione dei locali, a prestazioni che si situano al centro stesso dell'attività educativa: la messa a disposizione di operatori specializzati nella formazione o di consiglieri pedagogici. Le Lea, ognuna delle quali copre una città o una contea, esclusa la città di Londra che ne annovera 33, sono i dipartimenti incaricati dell'educazione nelle collettività locali. La politica del governo Blair costringe le Lea a trasferire praticamente la totalità dei propri bilanci agli istituti, i quali sono tenuti ad acquistare un gran numero di servizi presso il settore privato. A più riprese le Lea sono state ispezionate dall'Ofsted e ritenute «carenti». In tal caso sono costrette dallo stato a subappaltare tutti i loro servizi ai privati. Tuttavia, le aziende private non mostrano molto interesse per la gestione diretta delle scuole pubbliche a fini di lucro. Non che questa sia vietata: la legge del 2002 sull'educazione obbliga le Lea ad appaltare a imprese private la gestione dei futuri istituti la cui costruzione è in programma o di quella degli istituti ritenuti «carenti» dall'Osted. Ciononostante, dopo l'arrivo del partito laburista al potere nel 1997, soltanto tre scuole pubbliche sono passate sotto il diretto controllo di società private. Principalmente per due ragioni: perché finora le Lea sono riuscite a evitare il ricorso a gare d'appalto e perché le stesse aziende esprimono dubbi circa la reale redditività di tali operazioni. La Bibbia presa alla lettera Il governo ha adottato anche un'altra strategia per fare delle imprese altrettanti motori del cambiamento nel sistema educativo: il mecenatismo, la cui forma più indiretta, ma più influente, è la sponsorizzazione di istituti «specializzati». Si tratta di collegi o di licei (11-16 anni o 11-18 anni) che, oltre all'insegnamento del Programma nazionale (National Curriculum), si specializzano in una disciplina particolare: arti, scienze, lingue moderne o «affari e imprese». La giustificazione adottata è che questi istituti devono rispondere alla diversità delle «attitudini» degli studenti, e che la molteplicità delle opzioni possibili costituisce un ampliamento della democrazia. La maggior parte degli insegnanti sono tutt'altro che convinti, ma oltre la metà degli istituti superiori, attratti dalla prospettiva di ricevere crediti governativi supplementari, sono diventati «specializzati» e il governo pretende che, a termine, tutti lo diventino. Per ottenere questo statuto, essi devono reperire 50.000 sterline (71.000 euro) da fonti esterne, principalmente dalle imprese. Tale dispositivo adempie a due funzioni. Stimolare lo spirito d'impresa nella gestione degli istituti e associare più strettamente questi al mondo del business. In pratica, numerosi sponsors sono grandi società desiderose di apparire come «imprese dotate di spirito civico» (3). Esse non sono interessate alla gestione degli istituti, sebbene alcune deleghino rappresentanti presso i consigli direttivi. Tra questi mecenati, si nota l'assenza delle aziende del «business dell'educazione».L'altra forma di mecenatismo, di gran lunga più ambiziosa, riguarda le «accademie». Si tratta di nuovi istituti secondari statali, creati nelle aree socialmente sfavorite. Queste accademie ricevono finanziamenti diretti dal governo ma sono rette dallo stesso quadro legislativo degli istituti privati, sicché sfuggono a quello imposto agli altri istituti pubblici. Di conseguenza non dipendono dalle Lea e godono di una libertà totale, in particolare in materia di programmi. Finora se ne sono aperte 17 e l'obiettivo è di arrivare a 200 nel 2010.I mecenati devono accollarsi il 20% dei costi di impianto (circa 2 milioni di sterline, o 2,8 milioni di euro) e il governo assume le restanti spese per la costruzione della scuola (mediamente 25-30 milioni di sterline, ossia 35-42 milioni di euro, vale a dire molto di più che per una scuola normale), nonché le spese di funzionamento.I terreni e gli edifici della scuola pubblica esistente, oggi proprietà della collettività locale, sono trasferiti alla nuova accademia, ciò che consente agli sponsor di acquisirli al 20% del loro valore.Lo sponsor può nominare la maggioranza dei membri del consiglio direttivo e avere quindi il controllo dell'istituto, in particolare nella scelta e nella promozione degli insegnanti (4). Oltre alle imprese, il governo spinge le Chiese e le scuole private più facoltose a sponsorizzare questi istituti. Il sito del governo recensisce i 17 già esistenti assieme con le innovazioni pedagogiche (5). I mecenati sono in gran parte businessmen miliardari dalle motivazioni varie e spesso complementari: filantropia, trasmissione dei valori del mondo del business, promozione dell'immagine della propria azienda, ricerca di una immagine politica. Uno di essi, Sir Peter Vardy, è proprietario di una vasta rete di concessionarie di automobili. Ed è anche un cristiano fondamentalista che crede che la Bibbia debba essere presa alla lettera. Nella sua accademia, si insegnano il creazionismo allo stesso titolo della teoria darwiniana dell'evoluzione, e i libri di Harry Potter sono banditi perché accusati di incoraggiare la credenza nella stregoneria. Questa accademia è stata ispezionata dall'Osfsted e ha beneficiato di un eccellente rapporto. Può il mecenatismo educativo rappresentare una tappa verso l'acquisizione della scuola pubblica all'impresa privata lucrativa? Si tratta sicuramente di una eventualità da non escludere per il futuro, in particolare nel contesto dell'Accordo generale sul commercio dei servizi (Agcs) dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Esistono tuttavia diversi ostacoli. In primo luogo, gli attuali sponsor dovrebbero essere sostituiti da altri che si prefiggano l'obbiettivo del profitto, i quali dovrebbero vedervi la prospettiva di ottenere profitti maggiori che in altri settori. Ma, negli Stati uniti, per l'anno scolastico 2003-2004, soltanto 47 società avevano contratti di gestione in 417 scuole pubbliche, e poche tra esse hanno ricavato profitti. La questione della redditività si pone per le probabili conseguenze dell'Agcs sull'educazione. La lobby del «business dell'educazione» ha come principale obbiettivo l'insegnamento post-obbligatorio piuttosto che la gestione degli istituti, e ciò attraverso sistemi di insegnamento a distanza o la creazione di campus universitari all'estero. Inoltre, nella loro maggioranza, e contro le posizioni della Commissione, i governi degli Stati membri dell'Unione europea (Ue) sembrano tuttora restii all'idea di impegnarsi in materia di scolarità obbligatoria nell'ambito dell'Agcs. L'articolo II-315 del trattato costituzionale europeo in corso di ratifica precisa che, per il dibattito e la conclusione di accordi commerciali, è richiesta l'unanimità (e non più a maggioranza qualificata) «nel campo dei servizi sociali, dell'educazione e della sanità, quando questi accordi rischiano di perturbarne gravemente l'organizzazione a livello nazionale e di attentare alla responsabilità degli Stati membri per la fornitura di questi servizi».Blair è andato molto oltre la posizione adottata nel dibattito Ue per l'Agcs aprendo il sistema di educazione pubblica al settore privato.Ma negli ambienti degli affari non si scorgono iniziative a favore di una presa di controllo della gestione di questi istituti a fini di lucro, cosa che, del resto, il governo esclude in modo esplicito.In effetti, per il governo, più delle aziende del «business dell'educazione», un settore relativamente debole dell'economia, contano soprattutto gli interessi dei settori capitalistici dominanti e dei grandi datori di lavoro. Per questi ultimi, spetta al sistema pubblico formare il «capitale umano», ma secondo i loro desideri (6). È esattamente quanto chiede il comitato consultivo degli affari e dell'industria dell'Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (Ocse) in un documento di lavoro (7) presentato durante l'incontro dei ministri dell'educazione tenutosi a Dublino il 18 e il 19 marzo 2004: «A nostro parere, la responsabilità principale in materia di formazione iniziale spetta al governo. I datori di lavoro e le aziende vi contribuiscono lavorando con il governo e con le istituzioni educative per fissare loro obiettivi chiari in funzione delle esigenze del mercato».Il Libro bianco sui 14-19 anni, pubblicato in febbraio 2005 dal governo britannico corrisponde alla perfezione a questo programma. Invece di conservare un tronco comune di materie fino all'età di 16 anni, prevede un orientamento verso materie professionali all'età di 14 anni, sotto la guida del padronato: «Intendiamo mettere i datori di lavoro ai posti di comando, perché svolgano un ruolo chiave nella determinazione delle filiere di insegnamento e nella definizione dettagliata del contenuto dei diplomi». Una base di sapere a buon mercato, senza scienze sociali, senza studi umanistici, senza lingue vive, senza insegnamento artistico. Una specie di equivalente educativo del salario minimo, e non a caso perché a questo finirà per condurre gli studenti delle classi popolari...note:* Direttore di ricerche alla facoltà di scienze dell'educazione, University of Central England, Birmingham, Regno unito.(1) Si legga Louis Weber «L'école républicaine mise en bière», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2005.(2) Ken Jones, Education in Britain, Polity Press, Cambridge, 2003.(3) Visitare il sito di Specialist Schools Trust, l'agenzia governativa incaricata di promuovere le scuole specializzate: www.specialistschoolstrust.org.uk/ (4) Visitare il sito del Sindacato nazionale degli insegnanti (Nut) sulle accademie: www.teachers.org.uk/resources/word/Academies04.doc (5) Visitare il sito del ministero dell'educazione e delle qualificazioni (Dfes) sulle norme pedagogiche: www.standards.dfes.gov.uk/academies/projects/openacademies/?version=1 (6) Visitare il sito www.biac.org/statementsedu/ Fin05-03-04_BIAC_Paper_OECD_Education_Ministerial_Dublin.pdf/ (7) Si legga Richard Hatcher, «Privatisation and sponsorship: the re-agenting of the school system in England», Journal of Education Policy, volume 20, Londra, 2005.(Traduzione di M.G.G.)

il manifesto

20.5.05

Pincio oltre la polvere di mondi probabili

Aggrappata al suo indecifrabile stalker, un uomo ossessionato dai calcoli matematici che ama parlare saltando le vocali, La ragazza che non era lei dà il titolo all'ultimo e il più bello dei romanzi di Tommaso Pincio, appena pubblicato da Einaudi Stile Libero. Un viaggio di andata, malinconico e coraggioso, verso un altro mondo possibile. Con un ritorno tutt'altro che prevedibile
EMANUELE TREVI
Con La ragazza che non era lei (Einaudi «Stile libero», pp.307, euro 14,80), Tommaso Pincio ha rischiato grosso, ed è stato premiato da quella fortuna che, secondo l'antico motto, si concede volentieri solo agli audaci. Leggendo questo suo quarto libro, mi è spesso venuta in mente l'immagine di uno di quei giocatori accaniti che mai si sognerebbero di allontanarsi dal tavolo da gioco quando hanno già accumulato di fronte a sé un discreto gruzzoletto. Quella vincita già ottenuta, infatti, è solo il mezzo per alzare ulteriormente la posta, ottenendo maggiore profondità e velocità alla propria vertigine. Da Dostoevskij a Tommaso Landolfi, abbiamo imparato che un vero giocatore può comportarsi solamente così. Evadendo dalla metafora, bisognerà ammettere che le stesse prerogative appartengono al vero scrittore. Nella cui opera, intesa come successione di libri, esistono certamente degli elementi, anche immediati, di riconoscibilità, ma ogni volta, appunto, rimessi in gioco, sottoposti a torsioni e giri di vite così violenti da evocare costantemente lo spettro del fallimento. Il fatto è che per Pincio la forma stessa della narrazione, l'architettura di quell'oggetto verbale che definiamo una «storia», non è mai la cornice, inerte ed accogliente, delle idee, dei fatti e delle emozioni che intende esprimere. Il suo impianto narrativo, in altre parole, a partire dal punto di vista e dal «montaggio» delle sequenze, è radicalmente poetizzato. Ciò che rende assolutamente unici e inconfondibili i suoi romanzi, non è solo il fatto, constatabile ad apertura di pagina, che essi costruiscono sempre dei malinconici e stupefatti universi paralleli che il lettore è costretto ad accettare (o magari a rifiutare) in quanto tali. È il regime di senso che si instaura all'interno di queste visioni ad apparire ancora più interessante delle visioni in sé. Perché, nell' «America» di Pincio, come accade in quella di Kafka e di Burroughs, dal tramonto della verosimiglianza non deriva l'anarchia, ma un nuovo, misterioso e vagamente sapienziale modello di coerenza simbolica. Tutta la folgorante sezione iniziale della Ragazza che non era lei è un esempio perfetto del funzionamento del mondo immaginale di Pincio. Laika Orbit vive, da un tempo imprecisato che ormai le appare lunghissimo, prigioniera di una realtà estranea e bizzarra, di cui non comprende le regole elementari e nella quale è scivolata al seguito di un uomo incontrato casualmente in un bar. A quanto pare, è bastato salire nella macchina di quell'uomo per smarrire completamente la via del ritorno. Se ogni incontro umano, e soprattutto ogni incontro tra un uomo e una donna, implica la possibilità di accedere a un altro mondo, nel racconto di Pincio questa espressione, rassicurante fin tanto che si mantiene generica come ogni modo di dire, diventa una realtà empirica concreta. Sfruttando un procedimento che appartiene a un millenario patrimonio fiabesco, Pincio reifica la metafora, ne scopre le carte semantiche. Ebbene, come la disorientata, indifesa Laika scopre a sue spese, un altro mondo è possibile. Ma il rovescio della metafora (o dello slogan politico, come non sarà sfuggito a nessuno), insomma la sua declinazione letterale, dà luogo a una specie di incubo senza possibilità di risveglio. Aggrappata al suo indecifrabile stalker, un uomo ossessionato dai calcoli matematici che ama parlare senza impiegare le vocali, Laika non può che continuare il suo viaggio in una terra incognita e perturbante dove un'unica stazione radiofonica trasmette continuamente una sola canzone, la polvere che si deposita implacabile dappertutto spia ogni gesto e, una volta ingerita, si trasforma in una potente e pericolosa sostanza psicotropa, la luce di ogni ora del giorno è quella del crepuscolo... Ma c'è di più. Non solo Laika non sa niente della realtà che la tiene prigioniera, ma ha dimenticato tutto ciò che riguarda la sua vita precedente al fatale incontro con l'uomo che parla senza vocali. L'incubo in cui si trova a vivere deriva da questa recisione del filo dell'identità e della memoria un decisivo supplemento di angosciosa incertezza.

Ancora più che dalla inospitale stranezza di tutto ciò che la circonda, infatti, Laika è afflitta dal non sapere nulla su se stessa. Era una ragazza infelice? È per questo motivo che ha seguito il richiamo dell'altrove? Chi erano i suoi genitori, i suoi amici, i suoi ragazzi? Gli interrogativi dettati dall'amnesia si avvitano su se stessi, scavando un ulteriore abisso nell'abisso dell'estraneità. L'ultima tappa del folle viaggio è la città di Cloaca Maxima, dove i macchinari delle fabbriche, adeguatamente alimentati, producono immense quantità di merda. L'infida polvere si insinua dappertutto. E Laika, al colmo della sua derelizione, rimane sola in una camera d'albergo che ovviamente non può pagare, e che dovrebbe abbandonare entro l'ora del tramonto...

Mentre leggiamo la prima parte del romanzo di Pincio, sempre più identificandoci con le assurde traversie della sua involontaria e smemorata eroina, ci troviamo giocoforza a desiderare, assieme a lei, la possibilità di una via del ritorno, o di un risveglio. Ammesso e non concesso che il narratore ci concederà un simile sollievo, la narrazione però imbocca una strada totalmente imprevista, che per molto tempo ci farà abbandonare, a malincuore, l'adorabile e derelitta Laika al suo destino. Tanto per cominciare, un sapientissimo e graduale cambiamento di registro fa sì che dalla terza persona iniziale si passi alla prima. È lo sconcertante «rapitore» di Laika che inizia a raccontare la sua storia. E questa storia ci riporta a un mondo, e a un tempo, che sono i nostri, ma che ben poco sollievo ci procurano con la loro indubbia riconoscibilità. Tanto più che quest'uomo che si confessa dichiara di parlarci dal regno dei morti, o meglio dal Bush of Ghosts di Brian Eno e David Byrne che dà il titolo al sesto capitolo del romanzo. «Sembra proprio che ora tocchi a me. Certo, sarebbe stato meglio non dover arrivare a questo punto. Per quanto non è che mi possa lamentare. Prendere la parola dall'oltretomba al cospetto di un uditorio di idioti ancora in vita comporta i suoi vantaggi. Il principale è che non ti interrompe nessuno».

Zxyz, questo è il nome del nostro beckettiano eroe, deve partire da lontano per riportarci fino a Laika. Ma attenzione: non è detto che un morto abbia la voglia, o il potere, di dire la verità - o solo la verità. La sua storia di bambino cresciuto in una comunità di hippy, tra San Francisco ed Amsterdam, sembra svolgersi tutta all'interno di una mente tormentata dalla solitudine, dalla mancanza d'amore, e infine da una immedicabile depressione. Come già nel suo romanzo precedente, Un amore dell'altro mondo, Pincio si dimostra un vero maestro nella gestione narrativa del «male oscuro», con tutto il suo sinistro corteggio di fallimenti e inibizioni. Nel senso che il fallimento della vita non è semplicemente un tema enunciato dal racconto, ma un modello del mondo, un cosmo senza vie d'uscite, né più né meno della distopia nella quale la storia ha abbondonato la povera Laika, allontanandosene sempre più via via che il monologo del morto prosegue verso la sua fine ineluttabile. A un certo punto, i lettori inizieranno a chiedersi come mai le due storie di questo libro, quella raccontata in terza e quella raccontata in prima persona, stentino così tanto a ricongiungersi in un punto di comprensione e illuminazione reciproca. Ma mentre si pongono questa domanda, alla quale solo l'ultima pagina darà una risposta plausibile (che non intendo affatto anticipare) quegli stessi lettori non potranno non rimanere ammirati da quello che è l'effetto poetico più intenso e difficile da ottenere in questo romanzo: la certezza - inspiegabile ma concreta - che attraverso e nonostante un così radicale slittamento di piani, in realtà quella che ci viene raccontata è la stessa storia, dotata di un'unità molto più profonda di quella assicurata da una successione univoca di fatti all'interno di uno spazio-tempo omogeneo.

Dalla prima all'ultima pagina, infatti, La ragazza che non era lei non ci parla d'altro che di un solo argomento: è davvero possibile, un altro mondo? E come uscire da questo? Ci sono frasi, e parole, che l'uso e l'abitudine rendono logore, e destinate entropicamente all'inerzia del loro senso. E se c'è una vera missione della letteratura, cerdo l'unica possibile, è invertire questo processo costante. Affondando le dita fino al midollo del linguaggio, rivoltandone gli elementi come un calzino. La ragazza coi capelli strani è uno di quei rarissimi libri contemporanei che ci insegna l'arte, preziosa e interminabile, di ridare senso e nuova vita alle parole che amiamo di più, e che amare non basta mai.

il manifesto

Tutti sulle orme di Caino e Edipo

SENSO DI COLPA E RESPONSABILITÀ

di Elena Loewenthal

Malgrado la distanza, le due storie hanno molto in comune. Caino uccide il fratello in preda a un accesso di ira ma anche di ottusa, irrefrenabile gelosia. Prima ancora che lo scontro fra due civiltà primordiali, l'una pastorale e l'altra agricola, l'episodio biblico è il dramma di due fratelli. In un altro angolo del mondo, Edipo inconsapevole uccide il padre e sposa la madre: con ciò abbraccia un fato che è al tempo stesso demiurgo e tragica predestinazione. Questi due delitti sono all'origine dell'umanità, sono una specie di zoccolo duro delle emozioni, perennemente latente nell'inconscio.

Al di là della distanza che separa questi due eroi in negativo, c'è un tratto comune e fondamentale che li unisce: quando il Signore interroga Caino su dove sia suo fratello, questi ribatte, con una tremebonda alzata di spalle, «sono forse il custode di mio fratello?». Dal canto suo, nel momento in cui sa, in cui conosce il proprio destino, Edipo si acceca. Entrambi rifiutano la responsabilità, rinnegano ciò che è stato commesso, vuoi con le parole vuoi con un gesto terribile contro se stessi, che non è espiazione bensì rifiuto della realtà. Tale rifiuto è la radice del senso di colpa, che è il rovescio della medaglia della responsabilità.

A questo tema antico quasi quanto il mondo, ma così lento ad affiorare alla coscienza - ci son voluti millenni, e c'è voluta l'incoscienza coraggiosa dell'inventore della psicoanalisi... - è dedicato un corposo volume in uscita presso Bruno Mondadori. Si tratta di L’interpretazione della colpa, la colpa dell'interpretazione, a cura di Marco Francesconi. Il chiasmo del titolo richiama i due fronti di questa miscellanea: dapprima una rassegna interdisciplinare sul concetto di colpa nelle religioni e nelle teorie laiche, e poi due sezioni dedicate all'interpretazione della responsabilità e a quella della colpa.

Freud stesso, cita Paolo D'Alessandro nel suo saggio, sostiene che è «difficile dar conto in modo adeguato del fenomeno del sentimento di colpa. Si giunge ad averlo, perché si riconosce di aver fatto (o anche solamente pensato) qualche cosa di male, esprimendo un giudizio sulla scorta di una (presunta) capacità di discernere il bene dal male... Quel che matura come istanza interna ha poi una sua proiezione esterna, nel nome della legge e dell'autorità di un Dio». La psicoanalisi ci insegna, però, che il più delle volte il senso di colpa non è la conseguenza di un male commesso o pensato, ma sta invece a monte. È, in sostanza, il principio rimosso, il nucleo inconscio di un nostro modo di pensare o di agire. Che ha per conseguenza la violenza verso noi stessi e gli altri: scontando insomma le malefatte di Caino e Edipo, finiamo di ritrovarci sulle loro orme. E la colpa è davvero un modello ancestrale delle nostre emozioni, dal quale è arduo affrancarsi.

Per usare un linguaggio più acconcio, ricavato dalla psicoanalisi, la colpa è la manifestazione di quell'aggressività primaria cui l'uomo ha risposto, a un certo punto della sua storia, con l'invenzione del sacro. Ma è anche una costante storica, come rilevano alcuni dei saggi qui presentati: ne parlano ad esempio Luisa Accati e Mauro Pasqua. Giovanni Foresti pone invece l'accento sulla delicata distinzione fra peccato, sofferenza e colpa.
«Se proprio dobbiamo parlare di male, sarebbe meglio distinguere almeno il male commesso dal male subito», che sono effettivamente due categorie ontologiche diverse, cui bisognerebbe anche trovare due nomi diversi. Anche la colpa è sofferenza, ma una sofferenza dalla natura del tutto particolare, distinta da quella che procura tanto il male subito quanto quello commesso (se mai).
Inutile? Dannoso? Liquidare il senso di colpa sarebbe comodo, e fors'anche provvidenziale. Ma esso è così radicato nelle culture e nella coscienza, che l'impresa ha un che di messianico. Forse bisognerebbe cominciare da una educazione al valore della responsabilità, che è il suo unico, efficace antidoto.

lastampa.it 19 maggio 2005

19.5.05

Un pianeta con la pancia vuota

«Dalla parte dei deboli», un libro sul diritto all'alimentazione di Jean Zigler
L'opulenza inventata. Le diseguaglianze tra Nord e Sud e i programmi di lotta alla fame lanciati dall'Onu, dal Brasile e dal Sudafrica
MAURO TROTTA
La nostra è una società opulenta. Almeno, così dicono molti studiosi. Attualmente, considerando il livello di sviluppo delle forze produttive agricole, si potrebbero nutrire senza problemi dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione mondiale. Eppure la lotta alla fame negli ultimi anni ha vissuto solo cocenti sconfitte. Invece di progredire si registrano regressi impressionanti. Se nel 2001 ogni sette secondi un bambino al di sotto dei dieci anni moriva per fame o per malattie legate a essa, nel 2004 le cose sono peggiorate sensibilmente e ogni cinque secondi un bimbo è morto per fame. Sempre nel 2001, 826 milioni di persone sono diventate invalide per sottoalimentazione grave e cronica, nel 2004 gli invalidi per tale causa sono saliti a 841 milioni. Tra il 1995 e il 2004 il numero di vittime della fame è aumentato di ben 28 milioni. E, attualmente, ogni giorno nel mondo centomila persone muoiono di fame o per le conseguenze immediate della fame. La ragione principale di tale disastrosa situazione è nota. Stiamo pagando in maniera sempre più dura e insostenibile le conseguenze delle politiche di liberalizzazione selvaggia e privatizzazione estrema portate avanti dai padroni del mondo e dai loro mercenari, come il Fondo monetario internazionale o l'Organizzazione mondiale del commercio (i tristemente famosi Fmi e Wto).

Proprio per cercare di far fronte a questa situazione l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di creare un nuovo diritto universale, il diritto all'alimentazione, e di operare in maniera tale da rendere gradualmente possibile il ricorso ai tribunali sulla base di tale diritto. Così, il 4 settembre 2000, Jean Ziegler è stato nominato relatore speciale della «Commissione per i diritti dell'uomo sul diritto all'alimentazione».

Ora un libro, intitolato Dalla parte dei deboli (Marco Tropea editore, pp. 156, € 14,50) dà conto di parte del lavoro svolto da Ziegler in questo suo ruolo. Il volume raccoglie, infatti, un rapporto generale sul diritto all'alimentazione discusso all'Assemblea generale dell'Onu nel 2001 e il resoconto di una missione in Niger presentato alla Commissione per i diritti dell'uomo l'anno successivo. Completa il libro un interessante saggio introduttivo, intitolato La fame e i diritti dell'uomo, che offre una panoramica esauriente della situazione.

Ziegler, docente all'Università di Ginevra e più volte eletto al parlamento svizzero, è autore noto anche in Italia, dove sono stati pubblicati numerosi suoi testi contro la globalizzazione neoliberista e il sistema finanziario svizzero. In questo suo Dalla parte dei deboli espone con forza e chiarezza l'insostenibilità dello stato di cose presente e con rabbia trattenuta la mancata adozione di rimedi concreti e praticabili senza troppe difficoltà. Nel panorama generalmente desolante emergono anche barlumi di speranza legati, ad esempio, al «Programa fame zero», la strategia di lotta alla fame avviata, pur con difficoltà e ritardi, dal governo di Lula in Brasile o, ancora, alla creazione in Sudafrica - paese che ha iscritto nella sua costituzione il diritto all'alimentazione - di una «Commissione nazionale dei diritti dell'uomo», dotata di competenze molto vaste, come la possibilità di contestare davanti alla corte suprema qualsiasi legge votata dal Parlamento, qualsiasi decisione del governo e qualsiasi azione di imprese private che violi il diritto all'alimentazione.

Nella sua analisi puntuale e approfondita, sempre interessante, anche quando l'autore è costretto a usare un linguaggio più «burocratico» - è il caso dei due rapporti alle Nazioni unite - Ziegler non nasconde nemmeno la burocratizzazione, l'incompetenza, le difficoltà che affliggono le organizzazioni specializzate e i vari «programmi», «fondi» e «comitati» dell'Onu: «Le Nazioni unite sono una galassia complicata, abitata da decine di migliaia di uomini e donne dotati di capacità, origini, remunerazioni e funzioni molto diverse tra loro. La maggior parte mostra una certa buona volontà. Alcuni sono brillanti e molto competenti. Altri sono incompetenti. Altri ancora corrotti». Eppure ne difende, tutto sommato, la validità, citando le parole di Sérgio Vieira de Mello, l'ex alto commissario per i diritti umani, ucciso a Bagdad il 19 agosto 2003, il quale, a proposito della sua commissione, disse: «La Commissione va male [...] ma se la si distrugge invece di portarle aiuto non ci sarà più alcuna possibilità di ricorso».

Questo, però, potrà avvenire soltanto se la lotta diventerà una priorità sentita da tutti. È vero, «i predatori trionfano. Impongono al mondo la privatizzazione. Invece di affrontarli, le Nazioni unite cercano di ammansirli. Senza successo». E allora: «Che fare? Mobilitare le forze popolari, organizzare la resistenza. Usare tutte le armi di cui disponiamo, mettendo al servizio di questa lotta tutto il nostro sapere e le nostre forze».

il manifesto

18.5.05

Il Rubicone del lavoro dipendente

Il concetto di «eterodirezione» che continua a definire le attività lavorative subordinate è superato. Oggi le imprese richiedono soggetti in grado di effettuare scelte autonome
Un tipo unico di contratto imperniato sulla dipendenza economica offrirebbe sia agli attuali lavoratori subordinati sia ai collaboratori le necessarie garanzie
PIERGIOVANNI ALLEVA
Un interessante articolo di Giuseppe Bronzini, pubblicato dal manifesto il 30 aprile con il titolo «La costituzione dei lavori» ha toccato un argomento di grande rilievo per il futuro assetto del diritto del lavoro, e per il programma di governo del centrosinistra. L'argomento è quello di un nuovo assetto della tipologia dei rapporti di lavoro, che non soltanto ponga rimedio alla moltiplicazione di figure precarie e sottotutelate indotta dalla legislazione del centrodestra (specialmente dal Dlgs n. 368/2001 e dal Dlgs. n. 276/2003) ma offra anche una convincente soluzione a problemi già evidenti nel precedente quadro normativo. Ci si riferisce, come intuibile, a quella distinzione, o più esattamente dicotomia, tra lavoro «subordinato» e lavoro «parasubordinato» (anzitutto, anche se non solo, collaborazione coordinata continuativa) che almeno dagli inizi degli anni `90 ha rappresentato il principale strumento della precarizzazione e di massiccia evasione o elusione, in danno di tanti lavoratori, dalle tutele legali e contrattuali. Elusione resa possibile da due ordini di ragioni, la prima delle quali consiste nel fatto che il lavoro che si definisce «parasubordinato» è, dal punto di vista tecnico-giuridico, lavoro autonomo, e di conseguenza resta al di fuori dell'ambito di applicazione di tutta la normativa legale e contrattuale di tutela del lavoro subordinato, anche della più elementare e basilare in tema, ad esempio, di stabilità del rapporto e di sufficienza della retribuzione.

La seconda decisiva ragione è che il tradizionale criterio distintivo usato dalla giurisprudenza per qualificare una prestazione lavorativa come subordinata o, invece, come di collaborazione autonoma coordinata e continuativa, - criterio costituito dalla cosiddetta «eterodirezione» - è ormai del tutto obsoleto, storicamente datato e, come vedremo, anche in sé equivoco e incapace di svolgere una effettiva funzione selettiva e di qualificazione delle fattispecie concrete.

L'incertezza dei criteri

È esperienza comune che lavoratori che svolgono attività lavorative del tutto, o in massima parte, similari presso la medesima impresa, siano qualificati gli uni come subordinati - godendo così della pienezza delle tutele legali e contrattuali - e gli altri come collaboratori autonomi privi di ogni garanzia. Ed è ancora esperienza comune che i datori di lavoro cerchino di qualificare come a loro più conviene i nuovi assunti, e che questo «abuso» non trovi poi rimedio neanche in un giudizio proprio per l'incertezza del criterio distintivo.

Esaminiamo ancora più da vicino questo criterio della «eterodirezione»: esso afferma, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, che il lavoratore è subordinato (e per questo destinatario delle normative di garanzia) quando è sottoposto a direttive precise, vincolanti, «capillari», sul modo di svolgimento della prestazione e a continui controlli sul loro rispetto nonché a sanzioni disciplinari in caso di inosservanza. Il che, nel concreto, si traduce - o dovrebbe tradursi - in orario di lavoro rigido, disciplina paramilitare del lavoro, organizzazione gerarchica e riduzione al minimo della possibilità del lavoratore di effettuare delle scelte anche puramente tecniche.

La figura di lavoratore tratteggiata da questo criterio è in definitiva quella di un soggetto «pagato per lavorare e non per pensare», ma proprio qui sta l'obsolescenza del criterio stesso: infatti l'impresa moderna, di un simile lavoratore, che si limiti a operare secondo precise direttive, non saprebbe che farsene. Quel criterio poteva essere attuale in uno scenario di prima o, al massimo, di seconda industrializzazione, caratterizzata da produzione di massa, lavorazioni parcellizzate, scarsa scolarità.

Un'impresa moderna, destinata a competere in un'economia di servizi ha invece caratteristiche e necessità opposte: orizzontalizzazione dei rapporti, capacità di ogni soggetto di effettuare le migliori scelte operative, aggiornamento culturale e tecnico continuo, orientamento costante agli obiettivi. Accade, allora, per paradosso, che se veramente bisognasse restare fedeli a quel criterio, la maggior parte dei lavoratori che pure sono assunti come «subordinati» dovrebbero essere qualificati come «autonomi». Dunque, alla fine, il datore di lavoro ha una ampia possibilità di «etichettare» il rapporto nell'uno o nell'altro modo, a suo piacimento.

Moduli gerarchici obsoleti

Bisogna, però, aggiungere che anche nei tempi in cui più o meno rifletteva la realtà produttiva, quel criterio della eterodirezione era comunque il frutto di un equivoco, ovvero di uno scambio o inversione tra epifenomeno e sostanza del lavoro alle dipendenze di altri. Si può dire, in massima sintesi, che la dipendenza tecnico-funzionale e personale, ossia la soggezione alla «eterodirezione», ha rappresentato solo il modo, storicamente condizionato da un certo grado di sviluppo delle tecniche produttive, di utilizzare i soggetti in stato di dipendenza economico-sociale. Di quei soggetti, cioè, che al fine di procurarsi i mezzi di sopravvivenza loro e delle loro famiglie «vendono» la propria forza e capacità lavorativa, aderendo a un piano economico e di impresa altrui ed alla organizzazione produttiva che lo supporta.

Un tempo il modo più semplice, efficiente e fruttuoso di utilizzarli era quello di inquadrarli secondo un modulo gerarchico e paramilitare, dunque e per l'appunto, secondo il canone della eterodirezione, ma oggi non lo è più, essendo mutata l'economia e il modo di produrre, mentre per altro verso, quella che è rimasta immutata è la relazione sostanziale di dipendenza socioeconomica tra i soggetti. L'equivoco legislativo e giurisprudenziale, è stato quello di cristallizzare e rendere eterno l'epifenomeno della eterodirezione, facendone il proprium del lavoro subordinato, e, soprattutto collegando a essa, e non alla dipendenza socioeconomica, l'introduzione e la vigilanza di norme di tutela.

L'aporia è evidente: forse che al lavoratore subordinato è stata riconosciuta la garanzia del salario sufficiente e della stabilità del posto perché ogni giorno deve «timbrare» a una certa ora ed è tiranneggiato da un capo reparto? O non piuttosto perché la sua fondamentale risorsa di vita è di spendere la propria forza-lavoro presso quell'impresa?

Per converso, il collaboratore - che allo stesso modo conta su quella identica risorsa - non avrebbe bisogno di quelle fondamentali garanzie solo perché non è tenuto a un orario fisso, e può organizzarsi la prestazione con una qualche discrezionalità?

Un equivoco storico

Tutte le considerazioni fino ad ora svolte sono oramai acquisite all'opinione comune, così da poter apparire anche scontate. Perché, allora, giunti a questo punto, non passare decisamente il Rubicone e riconoscere in sede di riforma legislativa che la figura di lavoratore meritevole delle tutele previste dal corpus del diritto del lavoro è ampia e unitaria, e ricorre quando un soggetto si obbliga, senza propria organizzazione di mezzi, a prestare attività lavorativa, personalmente e continuativamente, in un progetto o in un'organizzazione o impresa altrui?

Una volta chiarito l'equivoco storico della eterodirezione come criterio di qualificazione del lavoro dipendente e ratio della legislazione di garanzia, perché non trarre le logiche conseguenze? È questa la proposta riformatrice che Bronzini chiama «monista», perché predica, appunto, la necessità di configurare un tipo unitario di rapporto di lavoro alle dipendenze altrui (seppur con articolazione di modalità esecutive).

Dobbiamo rilevare, invece che tra i soggetti politici che si riconoscono nel centrosinistra permangono dubbi e contrarietà, talché alla proposta cosiddetta «monista» viene contrapposta quella, di cui lo stesso Bronzini si dimostra sostenitore, di mantenere una configurazione «pluralista» dei rapporti di lavoro, e dunque di conservare (anzi di reintrodurre, compiendo un passo indietro rispetto allo stesso Dlgs 276/2001) le collaborazioni coordinate e continuative anche a tempo indeterminato, ma fornendole di garanzie oggi inesistenti e simili, su scala minore, a quelle che assistono i rapporti di lavoro subordinato.

L'idea, ci sembra, è quella di «svuotare» il problema anziché affrontarlo direttamente, e certamente soluzioni del genere si sono, in passato, anche raggiunte, ma in questioni molto minori: così , ad esempio , quando il trattamento degli operai era di gran lunga peggiore di quello degli impiegati in ordine a retribuzione, qualificazione, ferie, liquidazione, e via dicendo. Così, si dibatteva molto in giurisprudenza il problema se il «magazziniere» fosse da qualificare operaio o impiegato. E si è smesso di discutere - pur senza averlo risolto - quando, con l'inquadramento unico, i trattamenti di operai e impiegati sono stati parificati.

Su un argomento di questa rilevanza, invece, un simile approccio empirico non può essere giudicato affidabile, perché prospetta ai «parasubordinati» una «lunga marcia» verso la parificazione, defatigante e dagli esiti quanto mai incerti: chi può credere che per questa via si possa, ad esempio, giungere ad assicurare ai collaboratori una stabilità reale del posto di lavoro, o la parità di trattamento in tema di ammortizzatori sociali, contribuzione e pensione?

Regole frustranti

Le varie proposte di «statuto dei lavori» che sono circolate non consentono di nutrire illusioni: i differenziali di trattamento resterebbero, alcuni per sempre, altri per molto tempo, e dunque continuerebbero simulazioni ed abusi. Di questo i sostenitori della soluzione «pluralista» sono - riteniamo - consapevoli e dunque la ragione vera del loro atteggiamento è un'altra, evidenziata nella parte finale dell'articolo di Bronzini. La convinzione, cioè, che non esista più «un solo modo» di lavorare, e che la proposta «monista» porterebbe invece proprio e solo a un appiattimento delle regole e condizioni di effettuazione della prestazione, con generalizzazione di quelle attualmente previste dal codice civile per il lavoro subordinato in senso stretto e tradizionale. Le quali regole, certamente, per come sono scritte possono risultare frustranti del legittimo desiderio di molti lavoratori delle giovani generazioni di organizzare autonomamente il proprio apporto lavorativo nell'impresa, di far valere la propria capacità professionale nei risultati, di sottrarsi a vincoli gerarchici poco comprensibili, ed anche di contrattare la propria remunerazione.

Formuliamo, allora, la considerazione che simili legittime aspirazioni urtano, semmai, contro la eterodirezione, della cui inessenzialità si è detto, ma non hanno nulla a che vedere con lo stato di dipendenza socioeconomica dei collaboratori coordinati e continuativi, ragion per cui non esiste contraddizione nella loro diffusa rivendicazione di avere sicurezza (al pari dei lavoratori oggi detti subordinati) ma senza obbligo di timbrare il cartellino.

Distinzioni inutili

Bisogna liberarsi dell'idea che per sottrarsi alla eterodirezione «in senso forte» occorre di necessità passare a un «altro tipo» di contratto di lavoro, e abbracciare invece, quella che la eterodirezione o la «autorganizzazione» della prestazione possono essere solo due modalità esecutive di un unico contratto di lavoro dipendente. Infatti, un tipo unico di contratto di lavoro, imperniato sulla dipendenza socioeconomica, comprenderebbe naturalmente sia gli attuali lavoratori subordinati, sia i collaboratori, e altrettanto naturalmente offrirebbe allo stesso modo agli uni e agli altri tutte quelle tutele di sufficienza salariale, di stabilità del rapporto, di garanzia contro le diverse sopravvenienze negative (malattie infortuni, crisi aziendali ecc.) che la dipendenza economica invoca: a quel punto non avrebbe più senso distinguere tra «subordinati» e «parasubordinati», proprio perché la eterodirezione in senso forte non sarebbe più un elemento costitutivo della fattispecie negoziale.

Questo tuttavia non impedirebbe che la prestazione potrebbe poi essere effettuata sia con eterodirezione che con autorganizzazione perché questa non sarebbe più un'alternativa tra contratti ma tra due modi di adempiere allo stesso contratto, così come un aereo «a geometria variabile» è sempre lo stesso aereo sia quando vola ad ali estese sia quando vola ad ali ripiegate.

Si tratterebbe di una modalità secondaria, da negoziare tra le parti in base alla reciproca convenienza, perché anche agli imprenditori può comunque convenire puntare più sull'estro e sulla motivazione che sull'obbedienza di un dipendente, e nulla vieterebbe d'altro canto a una legge di riforma non solo di consentire, ma anche di regolare, simili parti di deroga alle norme codicistiche (molto poche, invero) che disciplinano i poteri di eterodirezione.

La proposta «monista» vuole comunque puntare non solo alla giustizia e alla parità di trattamento, ma anche alla qualità delle condizioni e degli apparati lanciando una «via alta» per il recupero della competitività laddove invece, la pluralità e frammentazione dei tipi contrattuali con conseguente diversificazione delle tutele, ha purtroppo sempre significato fino ad oggi, incentivo alle scelte di comodo, e al risparmio a breve, con danno del lavoratore e sul medio periodo anche della stessa impresa. La proposta cosiddetta monista, d'altra parte, è quella fatta propria anche dalla Cgil nelle sue proposte di legge, dopo una approfondita elaborazione nella sua Consulta di cui chi scrive si onora di far parte. È, dunque, questo qui descritto un importante terreno di confronto per valutare l'effettiva diversità di orientamenti programmatici tra le forze dell'Unione e del centrodestra.

il manifesto

Abusi a Bolzaneto A giudizio in 45

Dopo la Diaz, via libera al processo per Bolzaneto. Rinviati a giudizio a Genova 45 tra agenti e medici penitenziari, poliziotti e carabinieri. Abusi vari, lesioni, percosse e violazione delle norme europea sulla tortura
ALESSANDRO MANTOVANI
Sarà una lotta contro la prescrizione, che scatterà nel gennaio 2008. Entro quel termine bisognerà arrivare alle condanne di primo grado per assicurare almeno il risarcimento alle 150 parti civili ammesse al processo per Bolzaneto. Quasi tutti i contestati si prescrivono in cinque anni più la metà, dunque sette e mezzo da quel fatidico luglio 2001. E' ben difficile, anche senza la legge «salva Previti», che possa pronunciarsi la cassazione. Ieri mattina a Genova, alla presenza di tre soli imputati, il giudice dell'udienza preliminare Maurizio De Matteis ha rinviato a giudizio 45 dei 47 imputati, accogliendo la quasi totalità delle tesi dei pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello. E' il via libera al secondo grande processo alle forze dell'ordine per i fatti del G8 di quattro anni fa. L'altro è quello per l'assalto e le prove false alla scuola Diaz, 28 imputati tra i quali alti dirigenti della polizia.Alla sbarra per Bolzaneto andranno quattordici appartenenti alla polizia penitenziaria (il più alto in grado è il generale Oronzo Doria) più cinque medici della stessa amministrazione compreso il responsabile sanitario del carcere provvisorio del G8, Giacomo Toccafondi; quattordici della polizia di stato a partire dal vicequestore Alessandro Perugini ex vicecapo della Digos di Genova, già rinviato a giudizio per l'aggressione a un manifestante minorenne; dodici carabinieri tra cui un tenente. Per un imputato, agente penitenziario, il giudice ha disposto il non luogo a procedere. Un suo collega, Antonio Biribao, sarà giudicato a parte con rito abbreviato. Sono stati stralciati alcuni capi d'accusa che riguardavano imputati comunque rinviati davanti al tribunale. E conviene ricordare che per altri centodue indagati la procura ha già sollecitato l'archiviazione, dimostrando di non voler sparare nel mucchio. Tra loro anche il magistrato Alfonso Sabella, capomissione del Dap a Genova e primo responsabile del carcere eccezionale e provvisorio istituito per il G8.I reati contestati a vario titolo sono abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico per i verbali in cui si affermava che gli arrestati erano stati informati dei loro diritti (qui la prescrizione è più lunga). Sono state denunciati insulti fascistoidi e imposizione odiose come quella di gridare «viva il duce», ma l'apologia del fascismo è stata esclusa. Secondo la memoria depositata a marzo dai pm, a Bolzaneto fu violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti: applicando i criteri della Corte di Strasburgo si rientra precisamente in quest'ultima definizione, un gradino sotto la tortura. Ma in Italia non è previsto un reato specifico, come invece esigerebbe la Convenzione europea contro la tortura, e per questo la procura di Genova ricorre alle diverse fattispecie elencate che prevedono tempi di prescrizione ridotti.Per molti episodi di violenza - dita divaricate fino a strapparle, pestaggi, spray urticante nelle celle - vittime e testimoni hanno riconosciuto i diretti responsabili. E i riconoscimenti si sarebbero moltiplicati se fossero stati possibili fin dall'inizio, subito dopo le scarcerazioni: gli stranieri vennero invece espulsi e quindi ascoltati solo a distanza di uno o due anni; gli italiani hanno comunque dovuto attendere i tempi lunghi degli album fotografici, per non dire della qualità delle foto.Al contrario il vicequestore Perugini, il generale Doria e altri, come l'ispettore Biagio Antonio Gugliotta e i vari ispettori e sottufficiali che avevano la responsabilità delle celle rispondono anche dell'operato dei loro sottoposti e dunque dei reati che avrebbero dovuto impedire. Da subito era parso chiaro, sulla stampa come nelle prime deposizioni, che nella caserma c'era un clima diffuso di violenza e di abuso. Fin dal comitato d'accoglienza in cortile e dalle due ali di agenti disposte nel corridoio per malmenare gli arrestati al loro passaggio. Nell'ordinanza il giudice De Matteis sottolinea che si andò ben al di là di «qualsiasi ipotesi di limitazione ulteriore della libertà dei detenuti stessi, anche con forme di rigore non consentite. Non si vede infatti come, ad esempio, il costringere una persona a chinare la testa dentro un vespasiano possa costituire una `misura di rigore non consentita'. Tali azioni appaiono, per la loro feroce gratuità, totalmente estranee a qualsiasi nozione di `misura di rigore', sia essa consentita o meno, in quanto non perseguono il fine di limitare e controllare la libertà di una persona, ma solo di umiliarne la personalità».

il manifesto

12.5.05

La memoria dei guastafeste

di Barbara Spinelli

La notte che Hitler invase la Russia, il 22 giugno 1941, Stalin stava adagiato sul letto nella sua dacia di Kuncevo, presso Mosca, e a tutto pensava tranne a quest'inaudibile atto d'aggressione. Era deluso, ma soprattutto incredulo. Aveva preparato l'industria a una guerra - fin dai tempi di Lenin la guerra era fondamento del comunismo sovietico - ma quest'offensiva l'aveva sottovalutata. Per mesi aveva ricevuto ammonimenti (84 avvertimenti scritti) e mai aveva accettato la realtà, che pure sembrava verosimile da quando, nel settembre '39, era iniziata la seconda guerra mondiale.

Il fatto è che in quello stesso anno - il 23 agosto '39, otto giorni prima dell'invasione della Polonia - il Cremlino aveva stipulato con Hitler un patto speciale, che era molto più d'un patto di non aggressione. Il Trattato sulle frontiere e l'amicizia rivelò l'esistenza non del tutto stupefacente di una sotterranea affinità d'intenti, di visioni. Ambedue i dittatori diffidavano dei risultati della prima guerra mondiale, che s'era conclusa restituendo l'indipendenza a tante nazioni collocate in territori che Mosca e Berlino vedevano come mere retrovie. Ambedue erano convinti che l'occupazione di spazi vitali avrebbe dato loro una potenza mondiale. In un protocollo segreto si spartirono dunque terre, popoli che entrambi reputavano schiavi.
Hitler poté invadere la Polonia senza temere l'apertura d'un secondo fronte, avendo promesso di suddividersela con Stalin. Stalin ricevette in regalo i Baltici (Lituania, Estonia, Lettonia) oltre a Bessarabia. Lo scrittore Martin Amis racconta quel che accadde in Stalin, la notte in cui Hitler lo tradì, nel libro Koba il Terribile - Una risata e venti milioni di morti: «Quando giunsero le notizie ("Stanno bombardando le nostre città"), la psiche di Stalin semplicemente crollò. Ne fu prostrato, divenne un sacco di ossa in una giubba grigia; non fu più altro che un vuoto di potere (...). Era convinto che se lui non vedeva la realtà, anche la realtà non avrebbe potuto vederlo».

L'Unione Sovietica vinse infine la guerra - ed è questo trionfo che le democrazie s'apprestano a celebrare, domani con Putin a Mosca - ma il prezzo che pagò fu enorme e scandaloso: 27 milioni di morti secondo le stime ottimiste, 30 secondo Alexander Yakovlev, presidente dalla Fondazione della Democrazia Internazionale a Mosca. Yakovlev conferma che il Paese fu mal preparato, che ai soldati vennero distribuiti pochi fucili (uno ogni tre soldati), che si combatté per innumerevoli città pur d'arrivare prima degli anglo-americani. Martin Amis ricorda le conseguenze della prostrazione di Stalin: nelle prime settimane di guerra l'Urss perse il 30 per cento di munizioni e il 50 per cento delle riserve di cibo e carburante. Nei primi tre mesi l'aeronautica perse
il 96,4 per cento degli aeroplani. Alla fine del 1942, 3,9 milioni di soldati russi erano prigionieri (il 65 per cento dell'Armata Rossa). Ancor oggi la vittoria evoca, com'è naturale, la liberazione di Auschwitz. Ancor oggi, il 9 maggio inorgoglisce i russi: forse è l'unica data che li unisce, dicono i sondaggi. Ma la verità su quella guerra e sui morti sovietici e sulle nazioni che Stalin pretese d'aver liberato ancora non è stata detta, in Russia.

Koba il Terribile sarà dunque presente senza esser stato veramente rimesso in questione, alla festa per il sessantesimo anniversario della Liberazione allestito da Putin. Certo fu un tiranno, Putin lo ha ammesso in un'intervista a Bild, ma la Grande Guerra Patriottica (così vien chiamata dai russi l'ultima guerra) ha poco a vedere con la tirannide comunista - secondo l'interpretazione ufficiale - e nulla con il patto Hitler-Stalin e il successivo dominio sovietico su Baltici e Polonia. Putin stesso smentisce ogni altra versione. Il 22 febbraio, a Bratislava, ha ricordato che il patto nazi-sovietico fu stipulato in risposta al ben più infame trattato di Monaco, che nel '38 consegnò a Hitler la Cecoslovacchia. Ha taciuto tuttavia una differenza sostanziale: per gli occidentali Monaco non è più un punto di riferimento legale, mentre il patto Ribbentrop-Molotov continua a esser visto a Mosca come un normale trattato, rientrante nel diritto internazionale anche se «deviante rispetto alle norme leniniste» (dichiarazione del Parlamento sovietico nell'89).

In altre parole: l'indipendenza conquistata dai Baltici nel '91 non ha, per Putin, alcuna base legale. È tutta la politica espansiva dell'Urss che egli difende, ed è questo che lo ha spinto a ribadire, il 25 aprile nel discorso sullo stato della nazione: «Il crollo dell'Urss è la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Non pochi liberali russi lamentano questa sclerosi della memoria: un ripensamento ancora non è cominciato, essi sostengono, e solo quando il popolo sarà davvero informato sul passato, quando la vittoria del '45 potrà convivere con la sconfitta dell'Urss nel '90, potrà nascere una società responsabile, non prigioniera di una storia falsificata.

Se questa falsificazione oggi non è più possibile è perché sono molti i guastafeste venuti a turbare la festa della memoria trasformata da Putin in festa della potenza russa inossidabile. Alle celebrazioni non parteciperanno Estonia e Lituania, perché per i Baltici la liberazione del '45 coincise con una dittatura pluridecennale. La Lettonia sarà presente a Mosca, ma il capo di Stato Vike-Freiberga metterà in questione l'interpretazione russa della guerra. Varsavia verrà, ma per denunciare le spartizioni della Polonia e dei Baltici fra Hitler e Stalin, e per ricordare il massacro di Katyn del '40: un massacro di più di 20.000 alti ufficiali, sacerdoti, intellettuali polacchi commesso dai sovietici e attribuito per decenni ai nazisti (gli archivi russi si sono aperti sotto Eltsin, si sono richiusi sotto Putin). Poi ci saranno altre delegazioni, che ricorderanno il passaggio di mezza Europa da un totalitarismo all'altro: tra esse Georgia e Ucraina, che evocheranno le deportazioni compiute dal comunismo sovietico. Prima, durante e dopo la guerra, l'Urss deportò interi popoli in Siberia: meskheti georgiani, tatari di Crimea, ceceni, ucraini, ingusci, caracevi, calmucchi, balcari, tedeschi del Volga, baltici.

Se la memoria della seconda guerra pesa ancora sui rapporti tra democrazie e Russia è perché il presente russo è contagiato da quel passato non riesaminato, perché il potere di Putin si fa sempre più autoritario, e perché l'Europa che confina con l'ex impero sovietico è radicalmente cambiata. Dicono che è la guerra fredda che ritorna, ma la guerra fredda fu tutt'altro. Fu una cosa ambigua, prese la forma di un conflitto con l'Urss ma al tempo stesso ebbe come fondamento una complicità di visioni storiche, tra potenze vincitrici dell'ultima guerra. È quest'ambiguo status quo che il Cremlino vuol preservare, temendo di apparire d'un tratto come Stato perdente della guerra fredda. In realtà i guastafeste indicano che la guerra fredda è finita. Che son finiti i suoi equivoci, nel momento in cui son crollati l'Urss e le sue egemonie. Lo schema alleato della storia s'infrange, in questi giorni a Mosca, non solo perché Bush ha ricordato in Lettonia la schiavitù dei Baltici. S'infrange perché dell'Europa fanno ormai parte nazioni che hanno vissuto in maniera diversa il maggio '45, e per i quali la liberazione è venuta solo dopo: nell'89 per la Polonia, nel '91 per Lituania, Estonia, Lettonia. Per altri popoli che Stalin deportò, come i Ceceni, la guerra (una guerra imperiale cominciata nel '700) non è finita.

Con questa realtà l'Unione europea deve ancora fare i conti: stabilendo infine un legame tra il '45, l'89 e il '91; celebrando la liberazione di Auschwitz ma anche dei Gulag; tenendo conto di quel che pensano europei orientali e baltici; edificando con l'immensa Russia ai propri confini una relazione basata su verità, non su capricciosi inchini o capricciose collere. Nel Parlamento europeo sono ancora tanti, coloro che rifiutano di accettare la verità detta nei giorni scorsi dall'ex ministro polacco Geremek: «Yalta fu un regalo delle democrazie a Stalin». Il gruppo socialista si è opposto alla richiesta, avanzata da baltici e polacchi, di adottare una risoluzione su Yalta. «Così si offende la memoria di 20 milioni di morti sovietici», ha detto la socialista belga Véronique de Keyser. Già una volta, in marzo, il Parlamento votò contro la commemorazione della strage di Katyn.

Non è solo la Russia dunque a dover rivedere la storia del continente. Anche l'Europa è davanti a un compito inconcluso. Spesso gli Stati dell'Est sono visti come filoamericani, con cui un'Unione potente è impossibile. Ma nel loro filoamericanismo non c'è sempre antieuropeismo: c'è una diffidenza profonda verso la Russia, e verso una memoria ancor oggi pericolosamente sprovvista, a Mosca, di senso della realtà. Una Russia che non ha avviato un'autentica revisione dei miti sovietici. Che ancora identifica statuto di grande potenza e ordine territoriale postbellico. La guerra in Cecenia (ricominciata da Eltsin e Putin per debellare un indipendentismo, non un terrorismo) è la dimostrazione di quanto ancora conti lo spazio vitale, per il Cremlino. È quello che lo rende così malvisto in tanta parte d'Europa, e incapace d'esser utile a sé e agli altri nella battaglia contro il terrorismo.

1.5.05

Le geografie mobili della precarietà

«Lavoro contro capitale», un libro collettivo sull'economia mondiale e la crescita dei lavoratori atipici dall'Europa all'America latina agli Stati uniti
MAURIZIO GALVANI
Si è fatto un gran parlare in quest'ultimo periodo di declino industriale italiano e, forse, a ragione. Il paese è ormai collocato nell'ambito della divisione internazionale del lavoro tra le nazioni meno presenti nei settori a tecnologia avanzata e il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto di solo l'uno per cento a fine anno. Per una serie di paradossi, la globalizzazione allarga il mercato e l'Italia deve sempre di più confrontarsi con i paesi emergenti che a loro volta insediano il made in Italy. Dalla seconda metà degli anni Novanta e dall'inizio del Duemila, il capitalismo italiano è entrato in una crisi gravissima e non può più nemmeno utilizzare le «armi» tradizionali della svalutazione della lira o gli strumenti di protezionismo (essendo ormai confluita nell'Unione europea). Può, semmai, usare lo strumento della delocalizzazione produttiva nei paesi «terzi». Soprattutto, può ricorrere alla precarizzazione del lavoro che - secondo le ultime statistiche relative ai trend occupazionali - è in continua crescita e, non solo, nei settori tradizionali della manifattura ma anche in quelli del pubblico pubblico e della prestazione di tipo intellettuale. Vengono dunque al pettine le distorsioni proprie di un certo sviluppo del capitalismo italiano durante tutto il Novecento, come spiegano i vari autori del libro Lavoro contro Capitale (Jaca Book, pp. 286 € 18). Come ricordano, infatti, Luciano Vasopollo, Donato Antonello, Vladimiro Giacchè: «la situazione attuale è la logica conseguenza dell'incompiutezza della borghesia italiana»; «una classe inadeguata», come sottolinea Vladimiro Giacchè.

L'economia italiana è passata attraverso varie fasi: quella del dualismo industria-agricoltura, quella della divaricazione tra Nord industrializzato e Sud contadino, l'epoca dei grandi interventi statali, in due distinti periodi (il ventennio fascista e quello dei grandi monopoli pubblici lottizzati dalla Democrazia Cristiana), l'epoca delle grandi famiglie capitalistiche che, comunque, si sono sempre giovate di un sostanziale sostegno dei vari governi, anche di centrosinistra; l'epoca delle tre Italie e, più recentemente, il periodo delle privatizzazioni e della scomparsa dei grandi gruppi privati. Infine la riaffermazione del nostro sistema industriale nei comparti a basso impiego di tecnologica. Oltretutto, come spiega Sergio Carraro, in un periodo nel quale si è passati dalla celebrazione indistinta ed unilaterale della globalizzazione alla conflittualità agita (sopratutto commerciale) tra i vari blocchi: l'Europa, l'Asia, gli Stati uniti. All'interno dei quali, il paese più forte assume una centralità e sfrutta le risorse, le opportunità di mercato delle nazioni satellite.

E' quello che sta avvenendo in America latina (il saggio dell'economista James Petras lo evidenzia molto bene); potrebbe essere il destino della Cina, che sta progressivamente sostituendo il Giappone nell'area asiatica. Mentre in Europa, i paesi di nuova integrazione stanno offrendo: sia la possibilità di sfruttare i lavoratori senza diritti che l'occasione per inglobare milioni di consumatori nel nuovo mercato europeo. L'altra faccia di questo scenario ma ad esso strettamente collegato, riguarda ovviamente i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro salariato.

Senza nessuna forzatura si può dire che la globalizzazione ha diffuso ormai a livello generalizzato la precarizzazione del lavoro e la flessibilità più selvaggia. Con le dovute differenze, i lavoratori marginali dei paesi del Sud del mondo non sono così «lontani» dalle condizioni di lavoro delle nuove povertà del mondo più industrializzato. Le nuove povertà che interessano solo coloro che suono fuori dal mercato del lavoro, piuttosto vedono coinvolti migliaia e centinaia di lavoratori che hanno un occupazione, a tempo determinato, a progetto, co.co.co, e cosi via. Inoltre, nell'attuale realtà del mondo capitalista sono sempre di più i lavoratori occupati in nero, senza diritti e rappresentanza sindacale. Come cerca di evidenziare questo libro la fine del lavoro fordista non ha significato la fine del lavoro salariato tutt'altro. La sua trasformazione in una quantità di «figure professionali» che sono fonte comunque di realizzazione del plusvalore. E le sinistre e i sindacati?

Le politiche concertative praticate negli anni '80-'90 hanno provocato più di un danno, mentre, come spiega l'economista brasiliano Ricardo Antunes, le esperienze che avevano suscitato un rinnovato entusiasmo (vedi la vittoria di Lula in Brasile) stanno riproponendo esperienze di capitalismo neoliberale.

Per quanto riguarda l'Italia, nel libro si sostiene che le organizzazioni sindacali confederali hanno praticato una battaglia contrattuale che, quasi sempre, ha eluso il conflitto di classe (tra capitale e lavoro). Soprattutto, Cgil, Cisl e Uil non sono riusciti a rappresentare i «nuovi lavoratori», come pure non è stata in grado di garantire i diritti acquisiti ai medesimi occupati stabili. Tranne, in alcune situazioni, (ad esempio, a Melfi) dove si è imposta un rappresentanza autonoma degli operai.
il manifesto

Domande cruciali sull'arte del narrare

Un libro di Lidia De Federicis per Manni analizza il patto con i lettori in un'epoca di racconti ai confini dell'io
MASSIMO ONOFRI
Una riflessione su che cosa significa «raccontare»? O, più semplicemente, qualcosa che ha a che fare, e in chissà che modo, con l'arte del racconto? Del raccontare, in effetti, s'intitola l'ultimo libro di Lidia De Federicis edito da Manni (pp. 80, euro 8,00): né il sottotitolo, Saggi affettivi, ci aiuta a scioglierne le ambiguità, semmai si aggiunge per accrescerle, oltre a dichiarare l'angolazione dalla quale si è scelto di parlare, quella di «una soggettiva verità». Lidia De Federicis è stata tra i fondatori d'una rivista, «L'Indice dei libri del mese», che proprio ora ha compiuto vent'anni, e si è occupata da sempre, in proprio ma anche per delega ai tanti collaboratori, di letteratura italiana, soprattutto recentissima. Ma ha anche alle spalle una lunga esperienza nella scuola pubblica dove ha insegnato, quasi da subito al Gobetti di Torino, per più d'un quarto di secolo. Da questo suo doppio e precoce ruolo di insegnante e critico (la prima recensione fu nel 1956, su «Lettere italiane») è venuto fuori, in collaborazione con Remo Ceserani, quell'impresa editoriale che è Il materiale e l'immaginario, che ha contribuito a cambiare, piaccia o no, la didattica della letteratura nelle nostre scuole. Quando la si riconduce con troppo zelo - e accade non di rado - a questa cifra pedagogica, Lidia De Federicis mostra insofferenza. E non ha torto: quella del Materiale e l'immaginario è una vicenda ormai conclusa, così come è finito per sempre un ciclo decisivo della scuola italiana, legato alle speranze di un fervoroso riformismo, a una bella utopia, tutta giocata sulla scommessa d'una vera democratizzazione della società italiana. Si trattava di un'Italia che si fa fatica, oggi, a credere che sia esistita, quella che, per la De Federicis, rispondeva ai nomi di Francesco De Bartolomeis e l'antipedagogia, di Elvio Fachinelli e la psicoanalisi antiautoritaria, di Giovanni Arpino (con cui la De Federicis ha scritto un Novecento) e Albino Galvano, di Tullia Carrettoni, carismatica dirigente del Psi torinese.

La storia di Lidia De Federicis oggi è un'altra e questo libro magrissimo e veloce lo testimonia: un libro spalancato su problemi di non poco conto e non eludibili per chiunque abbia chiara (e a cuore) la situazione della nostra contemporaneità letteraria: poco importa che i narratori italiani coevi, magari i famosi e accreditati campioni del giallo e del noir, non si pongano nemmeno lontanamente questi problemi, piuttosto regredendo a strutture e a situazioni pacificanti (in modo, così, da eludere il conflitto sociale), proponendo una letteratura consolatoria e di risarcimenti che dissimuli il disordine. I problemi veri, De Federicis lo sa, sono altri: chi è che scrive, quando scrive per un pubblico? E per cosa scrive? Quali garanzie può offrire al lettore, una volta che il patto di credulità stipulato con gli autori è andato, conflagrante il `900, completamente in frantumi, e, davvero, non si può più far finta di niente. Si direbbe che, come molti degli scrittori italiani qui rubricati (dalla Ramondino de L'isola riflessa alla Rasy di Tra noi due, dal Carraro di Non c'è più tempo al Trevi de I cani del nulla), la De Federicis non voglia garantire nulla del proprio racconto, se non attraverso la sua vita e il suo corpo, e grazie alla memoria, credibile, appunto, proprio perché singolare e irripetibile, non replicabile. «Se davvero, e si è detto, alla fine del Novecento, dopo due secoli di confessioni e autobiografie, l'io è come un genere, il problema sarà quale genere farne, ora che va finendo il novecentesco romanzo dell'io. Il problema è biografico, situarsi e raccontarsi nella mutazione culturale. Tenersi ai limiti dell'io e tuttavia percepire il carattere illimitato, asistematico, della nostra contemporaneità». Sono parole dalle quali si capisce bene che questo libro non sarebbe nato se non trovando il giusto tono di voce: che è, anch'esso, problema cruciale, abbracciando tutte quelle forme di scrittura non solo autobiografica che, solo per pigrizia critica, continuiamo a chiamare saggistica.

Problema cruciale, tanto più per Lidia De Federicis, che s'è trovata ad accordare, a un io prosodico, una vita plurale: critico militante e recensore, saggista, professoressa e, integralmente calata nella storia delle donne, con laico disincanto ma sacrosanta partigianeria, si è impegnata a raccontare la propria vita anche attraverso i libri, e a pensarli, ripassandoli, anche in forza delle esperienze che la vita imponeva. L'ha trovato, quel tono di voce, incontrando qualche anno fa la «sottorubrichetta a intervalli liberi» di «Belfagor»: Minima personalia, appunto, che è il suo modo, un po' all'inglese (ma senza filarsela), di dire delle faccende massime col minimo di retorica possibile. Ecco perché, come la Morante, la De Federicis pare credere che non possa darsi romanzo degno che non si confronti con «le cose ultime»: giusto, allora, il rilievo dato a un libro misterioso, Dava fine alla tremenda notte, della più misteriosa delle nostre scrittrici, Marosia Castaldi. L'extratesto, ecco il punto, qui vince sempre sul testo. Come potrebbe essere altrimenti: «La letteratura può riuscire insopportabile, rispetto al `corpo di un essere vivente che combatte con la morte'».
il manifesto