12.12.06

Piazze piene e democrazia

di Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 12-12-2006)

La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c´è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch´egli ha dedicato alla realtà italiana con l´attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l´annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.
La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell´essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c´è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall´esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società. Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.
La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.
Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch´essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell´auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.
Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.
La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all´inizio sono rappresentativi di questa alternativa.
Una parola d´ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.
Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all´insicurezza per l´avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c´è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore. Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L´inquinamento ambientale è alle stelle? L´acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d´accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L´Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell´Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!
Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c´è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L´espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.
Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo. È la società partecipante, che vince la passività e l´indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall´alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L´espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all´uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell´elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l´individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni». A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L´accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all´apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.
Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici. Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L´alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all´auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.
In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l´affascinante e terribile storia di Pasqua, l´isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.
Finirono con l´abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un´infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l´ultimo albero che sarebbe servito per l´ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all´ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.

14.11.06

Quella forza dei ragazzi senza cuore

di UMBERTO GALIMBERTI

MA ATTRAVERSO quali processi i nostri ragazzi costruiscono la loro identità e l'autostima di sé? Attraverso processi molto arcaici e primitivi, a giudicare dal fatto che tra i video più cliccati su Google c'è quello girato in una scuola superiore italiana da un gruppo di ragazzi che, senza pietà, menano e umiliano un compagno Down. Si sa che i Down sono molto miti e affettuosi, quasi la natura avesse compensato il loro difetto genetico con l'affetto che inducono con la loro gestualità impacciata ma commovente.

Commovente per tutti, ma non per quella moltitudine di ragazzi che traggono soddisfazione identificandosi con quei coetanei che pensano che la natura ci ha dato mani e piedi solo per menare il prossimo. Naturalmente quando il prossimo è ritenuto più debole di noi. L'umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola.

Oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma, nella completa afasia del cuore e della mente, nella forza dei muscoli, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell'altro.

E nel loro cuore latita non dico l'amore, sentimento troppo sofisticato per i loro cuori, ma la commozione che non devi fare nessuno sforzo per trovare. Viene da sé, tocca il tuo cuore per il semplice fatto che di fronte a te hai un tuo simile, e per giunta più svantaggiato di te.

"Senza cuore" non è un'espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente il simile non attacca il simile. Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, le salvaguarda.

Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole? Sì, dobbiamo pensarlo se è vero che quel video è tra più visti sul Web.

E allora la scuola, prima delle discipline che è incaricata a insegnare, prima dell'educazione civica impartita per avviare all'osservanza della legge, dovrebbe incominciare a indagare se i fondamentali della natura umana sono ancora presenti e attivi nei ragazzi che ogni giorno vanno a scuola e poi a casa accendono il loro computer per identificarsi con quell'aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l'affermazione della propria identità con l'accanimento fisico sul più debole e il più indifeso.

Scuola, scuola, scuola. So che i compiti che oggi vengono affidati agli insegnanti sono molti. Ma incominciamo da questo, perché senza il più elementare dei sentimenti umani, nessun processo culturale può partire.

la Repubblica
(12 novembre 2006)

6.7.06

La mela avvelenata di Alan Turing

Una macchina per aumentare la conoscenza dell'universo, un numero stellare di informazioni, senza interrogarsi sul loro possibile uso
Un frutto intriso di cianuro, lo strano suicidio del padre dell'intelligenza artificiale, l'uomo che aveva contribuito a decrittare i cifrari nazisti «Alan Turing. Una biografia» di Andrew Hodges. L'avventura esistenziale e intellettuale di un protagonista della matematica del XX secolo
Franco Voltaggio

Nel pomeriggio di martedì 8 giugno 1954 a Cambridge, Alan Turing, insigne matematico del King's College, fu trovato morto, compostamente disteso sul letto, dalla sua governante. La presenza di schiuma attorno alla bocca, il reperimento in casa di un recipiente contenente cianuro di potassio e di un barattolo di marmellata pieno di sali di cianuro, condussero gli inquirenti a ipotizzare un decesso per avvelenamento risalente alla notte di lunedì. Stranamente non fu data molta importanza ad una mela, trovata accanto al letto, e più volte morsicata. Il frutto non venne analizzato e non fu così riscontrato il fatto, decisamente probabile, che la mela era stata intinta nel cianuro sì che mangiandola lo scienziato aveva incontrato la morte. Chiusa l'inchiesta, il verdetto del coroner fu di suicidio «attuato in un momento di squilibrio mentale». A queste conclusioni il magistrato pervenne soprattutto sulla scorta di quanto si sapeva di Turing. Infelice, tendente alla depressione, in cura da uno psichiatra, Turing era stato processato due anni prima per omosessualità e condannato alla castrazione chimica, restandone sconvolto. Poco dopo la tragica scomparsa, che privava l'Inghilterra della straordinaria mente di un uomo ancora giovane - era nato nel 1912 - cominciarono a circolare voci inquietanti: Alan Turing non si era suicidato, ma, semmai, era stato suicidato da un qualche agente, inglese o americano, dei servizi segreti. Tanto l'«Intelligence Service» britannico quanto la Cia avevano il timore che Alan, il quale durante la guerra aveva collaborato in una posizione chiave alla decrittazione di «Enigma», il sistema dei cifrari della Germania nazista, e che continuava a lavorare in questo settore di ricerche, potesse divulgare, anche senza volerlo, contenuti coperti da segreto militare. Avrebbe potuto farlo e forse poteva averlo fatto proprio per le sue abitudini omosessuali che lo portavano a incontrare molti giovani nel corso di viaggi incontrollabili, prestandosi a facili ricatti o, più semplicemente, lasciandosi andare a imprudenti confidenze. Si era allora in piena guerra fredda e molti scienziati inglesi - alcuni dei quali, d'altronde, erano fuggiti in Unione Sovietica - erano sospettati di simpatizzare per il comunismo. Ma c'è di più. Nel pubblico inglese e americano, come anche in molti politici, si era creato il terrore di una triangolazione «viziosa», densa di pericolo per il «mondo libero», costituita dai tre angoli della «Big Science», dell'omosessualità e del filocomunismo. Non è allora per nulla inverosimile, anche se non provata, l'eventualità che Alan Turing fosse stato vittima, fra tanti altri, di questa odiosa versione di caccia alle streghe.
Un giovane tra scienza e amore
Questa ipotesi viene ora ventilata da un bel libro di Andrew Hodges, matematico inglese e collaboratore di Roger Penrose (il fisico che mira all'unificazione della meccanica quantistica e della teoria della relatività), Alan Turing. Una biografia (Bollati Boringhieri, pp. 762, euro 19). Va però detto, a merito di Hodges, che l'autore non si lascia sedurre dall'allettamento di scrivere una spy's story. La sua, nella cornice di una biografia documentatissima, è semmai un'implicita indagine sulla relazione tra vissuto dei sentimenti e avventura intellettuale in un protagonista della matematica del XX secolo, uno studio che, tra l'altro, getta una luce insospettata sulla sua omosessualità.
Alan, secondogenito di Julius, funzionario (sino al 1912) del governo indiano, e di Ethel Stoney, di origine in parte irlandese, apparteneva allo strato per così dire inferiore della high class inglese. La sua famiglia non rientrava a rigore né nella nobiltà terriera, né nei ranghi degli status allora ritenuti elevati, come la professione delle armi o quella ecclesiastica. Sotto un certo aspetto i Turing, nell'Inghilterra dell'età imperiale, erano degli outsider, che potevano sperare di uscire dalla loro condizione solo attraverso i figli, sempre che questi frequentassero una buona public school, ossia una scuola privata prestigiosa, che ne facesse dei gentiluomini i quali, una volta diplomati, potessero essere accolti a Oxford o a Cambridge. John, il primogenito, fu così iscritto nella public school di Marlborough e Alan in quella di Sherborne. Alan non riuscì ad adattarsi facilmente al sistema e ai contenuti dell'insegnamento di Sherborne. La scuola, che risaliva al 1550, era incentrata, come del resto tutte le public schools, sull'educazione umanistica: vi venivano impartite lezioni di latino e di greco e si dava la massima importanza a uno stile di composizione e di scrittura che permettesse agli allievi di acquisire una perfetta competenza nell'uso dell'inglese. Anche uno scritto di matematica o di quel tanto di scienza che vi si insegnava doveva rispondere agli stessi requisiti. Alan non solo non mostrava alcuna inclinazione per le lingue classiche, ma sembrava assolutamente insensibile alle regole dello stesso inglese, tanto che per anni i suoi lavori furono disseminati di errori di grammatica e di ortografia. Contemporaneamente mostrò, ancora prima di raggiungere l'adolescenza un forte interesse per la chimica - i suoi esperimenti destavano il dileggio dei compagni che lo vedevano immerso nelle «puzze» - per la natura vivente e per l'astronomia, associandovi una predisposizione per la matematica talmente spiccata da consentirgli di inventare addirittura nuove regole di calcolo e di impostazione dei problemi. Parallelamente, prese a nutrire una forte curiosità per il sesso o, come si diceva allora, per il mistero della vita, arrivando alla conclusione che solo la scienza gli avrebbe fornito le risposte che cercava.
Dalle pagine di Hodges emerge non il ritratto di uno scolaro sostanzialmente asociale e disadattato, infarcito di nozioni scientifiche mal digerite, un infelice che non sarebbe mai diventato un gentleman, ma l'immagine di un ragazzo assetato di conoscenza e di amore, un personaggio, decisamente fuori dagli schemi, che per molti versi ricorda il protagonista dei Turbamenti del giovane Törless di Musil. A 15 anni conobbe Christopher Morcom, di un anno più vecchio di lui, con il quale strinse una calda amicizia. Quando Chris, affetto da una gravissima malattia polmonare di origine virale, il 13 febbraio 1930 morì a Londra, Alan ne provò un dolore tanto forte da indurlo a fare dell'amico un oggetto di culto e della madre di Chris una seconda madre, se non addirittura la sua vera madre.
Da quel che ci dice Hodges non risulta che tra i due giovani vi fosse stata un'esplicita relazione omosessuale, ma non c'è dubbio che il sentimento nutrito da Alan per Chris non fosse tanto un'amicizia, quanto piuttosto un amore, per di più ricambiato. In realtà il luogo di incontro tra loro non era il corpo, né a spingerli l'uno verso l'altro l'eventuale (e naturale) pulsione omofila di due adolescenti, ma il mondo delle idee e degli interessi scientifici condivisi, culminanti nella ricerca della verità. Morto Chris, Alan ebbe più tardi, almeno sino al 1952, frequenti rapporti omosessuali che nascevano in parte dal bisogno di ritrovare in un altro uomo l'amico perduto, in parte dall'esigenza, crescente con l'avvento della maturità, di rompere una solitudine sempre più dolorosa, una volta accettata, non senza travaglio, la sua condizione di omosessuale. Poiché non risulta che in Alan vi fosse una marcata misoginia, la sua omosessualità non può neppure essere spiegata come l'epifenomeno di quella speciale forma di edonismo che contrassegnò in quegli stessi anni personalità eminenti quali l'economista Keynes o lo scrittore Forster. Fu un'altra cosa e, per taluni aspetti, fu il ritorno, nel complicato clima dell'Inghilterra tra le due guerre, dell'eros socratico-platonico in un uomo perso, come si direbbe a Roma, dietro a una visione vertiginosa e ideale della matematica, che invitava perentoriamente alla ricerca di un nuovo altro se stesso, quale era stato lo sfortunato Christopher Morcom, il vero specchio nel quale Alan poteva rispecchiarsi. A guidarci in questa convinzione è la teoria fondamentale del matematico inglese, la «macchina di Turing», alla quale Hodges dedica alcune tra le pagine più penetranti della biografia.
Risposte illegittime
Tra il 1936 e il 1937 Turing pubblicò un lavoro dal titolo On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungs problem («Sui numeri computabili con un'applicazione al problema della decisione», cioè della dimostrazione della congruenza di un sistema matematico). Ora che cosa significa «numero computabile»? E' un numero calcolabile da parte di una macchina. Naturalmente si tratta di una macchina ideale («macchina di Turing»). Seguendo per semplificare la lucida esposizione che ne dà Umberto Bottazzini (vedi «Gödel e gli sviluppi recenti della logica», in P. Rossi, Storia della scienza moderna e contemporanea, UTET, 1988), diciamo che «una macchina di Turing è una macchina capace di un numero finito di stati mentali - detti anche configurazioni - prefissati e dotata di un nastro potenzialmente infinito che l'attraversa in entrambe le direzioni». Il nastro è diviso in riquadri, ognuno dei quali può essere vuoto o contenere un simbolo. «In ogni istante c'è un solo riquadro "in esame" nella macchina e dunque c'è solo simbolo di cui la macchina sia per così dire consapevole. Tuttavia, cambiando la sua configurazione, la macchina può effettivamente ricordare alcuni dei simboli che ha "visto" (esaminato) in precedenza». In buona sostanza, la macchina riproduce schematicamente il meccanismo essenziale di un computer, il suo software, suscettibile di produrre un numero illimitato di operazioni. Sotto questo aspetto, la macchina di Turing costruisce schematicamente una intelligenza artificiale, intendendo con questa espressione una simulazione esaustiva dell'intelligenza propriamente detta, cioè umana. Naturalmente questa simulazione ha un limite preciso, consistente nel fatto che la macchina, se produce, riproduce e traduce informazioni, non contiene tuttavia una peculiarità dell'attività mentale, vale a dire l'intenzionalità. Ci spieghiamo. Se chiediamo a una persona «sai l'ora?», questa ci risponde le «12,22», mentre il computer ci risponde semplicemente «sì» senza darci l'informazione richiesta. Per ottenerla dobbiamo mutare quesito, ossia chiedere «che ora è?», in altre parole modificare la configurazione. A questo punto intervengono alcune riflessioni, alcune delle quali compiute dallo stesso Turing, specie nelle sue conversazioni con Wittgenstein. La prima è di merito. Una macchina di Turing, dotata di un software supportato da un hardware adeguato, può - è vero - aumentare enormemente le nostre conoscenze, ma rischia di fornire risposte illegittime a interrogativi sui quali man muss schweigen (bisogna tacere) come concludeva Wittgenstein nell'ultima proposizione del Tractatus Logico-philosophicus. Dobbiamo evincerne che tutte le questioni di merito, vale a dire le domande di tipo etico, giuridico, teologico, sono fuori - devono esserlo - della portata di una macchina di Turing, ossia dell'intelligenza artificiale. Per contro, se vogliamo avere informazioni sullo stato del mondo o informazioni su contesti di informazioni, la macchina è indispensabile. Lo è, tra l'altro, se vogliamo decifrare la reale natura di un sistema formale. Alla luce della macchina ideale, un sistema formale non è altro che un procedimento meccanico per generare teoremi. In altre parole, sotto il profilo del futuro sviluppo della matematica di essa non possiamo fare a meno. Ma c'è ancora un'altra cosa sulla quale intendiamo attirare l'attenzione del lettore. Dobbiamo chiederci se davvero le questioni di merito interessassero al nostro matematico. Se, in altre parole, non fosse animato da un'angoscia metafisica che non poteva che condurlo a una posizione diametralmente opposta a quella di Wittgenstein. Sospettiamo di sì. Vediamo perché.
La perdita dello specchio
Dalla dettagliata ricostruzione di Hodges apprendiamo che Alan Turing non solo collaborò attivamente alla decrittazione di «Enigma», ma contribuì in modo decisivo, con la messa a punto delle «bombe», cioè dei sistemi di decrittazione, a sottrarre il controllo dell'Oceano Atlantico da parte della Germania già a partire dalla fine del 1942 (pur restituendolo piuttosto agli Stati Uniti che all'Inghilterra che, anche per questa ragione, iniziò ad attraversare il suo declino, perdendo il vecchio ruolo di prima potenza mondiale). Molte delle «bombe» non erano che particolari applicazioni della sua macchina, talché non sarebbe azzardato affermare che uno dei vincitori della seconda guerra mondiale è stato proprio lui. Risulta allora singolare la desolazione e la depressione in cui cadde nei sette anni dalla fine della guerra alla morte. Abbiamo avuto l'impressione, leggendo il suo libro, che la causa prima di questo stato sia per Hodges riconducibile alla caduta di Alan in una sindrome assai simile a quella che afflisse Robert Oppenheimer pentito di aver partecipato al Progetto Manhattan, cioè alla costruzione della prima bomba atomica. Come dire che la macchina ideale si risolveva di fatto in un'usurpazione dei diritti della naturale intelligenza umana. In altre parole, una catastrofe umanitaria, come si direbbe oggi, persino più grave della distruzione di Hiroshima e Nagasaki. In realtà, non è così. Quello cui Alan aveva mirato, con la sua macchina ideale, era proprio pervenire ad aumentare a dismisura la conoscenza possibile dell'universo, accumulando un numero stellare di informazioni, senza chiedersi il perché del loro possibile uso. La macchina era stata per lui la riproduzione del delirio di onnipotenza conoscitiva della fanciullezza e della adolescenza, uno specchio di se stesso. L'utilizzazione pratica glielo aveva mandato in frantumi e, tra l'altro, essendo un tale specchio un sostituto dell'amico morto, aveva compromesso una difficile riparazione del lutto. Ammesso che Alan Turing si sia suicidato, probabilmente mangiando la mela avvelenata, verrebbe fatto di pensare che avesse voluto, lui ateo, ripercorrere a modo suo il mito biblico del frutto proibito. Morderlo non già per acquisire il dono della conoscenza, ma per punirsi di averla per sempre perduta. E' davvero sbagliato pensarlo?


ilmanifesto.it

4.7.06

Sadismo e solitudine nei racconti di Yates

Tassisti con ambizioni letterarie, sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi, coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili: i personaggi dell'autore di «Revolutionary Road» si rendono visibili attraverso lo schermo del loro isolamento. E l'autore americano, tradotto da minimum fax, li racconta innestando la lezione di Fitzgerald su quella di Flaubert

Emanuele Trevi

Forse è un po' esagerata l'affermazione di Kurt Vonnegut, che definisce Undici solitudini di Richard Yates (prefazione di Paolo Cognetti, trad. di Maria Lucioni, minimum fax, pp.261, euro 10,00) addirittura «la migliore raccolta di racconti mai pubblicata da un autore americano». Quello che è certo, in ogni modo, è che si tratta di un'ulteriore dimostrazione della grandezza di questo scrittore nato nel 1926 e morto, dopo una vita non facile segnata da alcolismo e depressione, nel 1992. Spetta alla minimum fax il merito di aver riscoperto l'opera di Yates, non del tutto inedita ma rimasta sostanzialmente inosservata qui in Italia, iniziando a ripubblicarla a partire dal capolavoro del 1961, Revolutionary Road, che è anche il suo libro d'esordio, e proponendo in seguito Disturbo della quiete pubblica, uscito nel 1975. Ma anche negli Stati Uniti sembra in corso una rivalutazione postuma, che fa perno, più che sulla critica in senso stretto, sull'ammirazione professata da molti scrittori, come Richard Ford, Michael Chabon, Tobias Wolff. L'essere spesso considerato uno «scrittore per scrittori» a corto di un grande pubblico dovette essere un altro dei crucci che afflissero la vita di Yates, assieme a quello, ben più grave e paralizzante, della coincidenza tra il primo libro e il suo capolavoro, pubblicato a trentacinque anni e di fatto rimasto ineguagliato.
Undici solitudini uscì a Boston da Little & Brown nel 1962, un anno dopo Revolutionary Road, a confermare la presenza di un nuovo e straordinario talento sulla scena letteraria americana. Yates iniziò a collaborare con dei racconti a riviste letterarie negli anni cinquanta, e dunque questo libro contiene le prime prove della sua arte narrativa. Per rubare l'espressione a Thomas Pynchon (anche lui la usa a proposito dei racconti giovanili), si tratta di un vero e proprio slow learning, il lento apprendistato di uno scrittore alla ricerca del suo timbro, e impegnato a saggiare nel concreto le strategie di rappresentazione che gli dettano l'istinto e la cultura. Quanto a quest'ultimo punto, Yates stesso in più d'una occasione ha dichiarato di aver innestato la lezione di Fitzgerald su quella, fondamentale, di Flaubert. Pienamente flaubertiane, infatti, sono le premesse del suo libro d'esordio: Revolutionary Road è la Madame Bovary di una middle class nevrotica e alcolizzata, che vive nei placidi e lindi sobborghi familiari dove è facile far crescere i bambini e i vicini sono tutti amici e tutti simili, almeno in apparenza. I maschi, la mattina, abbandonano i sobborghi per andare a lavorare a Manhattan. Così come la signora Bovary è identica a migliaia di altre mogli di medici di provincia, anche i coniugi Wheeler sono gente perfettamente normale. Non fosse, tanto per l'eroina di Flaubert quanto per i suoi tragici epigoni inventati da Yates, che per un particolare: il veleno fatale dell'immaginazione, tanto più fatale quanto più debole è l'organismo mentale che deve sostenerlo e assimilarlo. Di questo pessimismo antropologico offrono già alcune splendide miniature certi racconti di Undici solitudini, forse con più efficacia dove Yates è già padrone della sua formidabile terza persona che quando usa la prima. Ma in tutti i racconti di questo libro c'è almeno qualche pagina già magistrale.
La loneliness che fin dal titolo dà unità alla raccolta più che fornirne l'argomento (che in effetti risulterebbe molto generico e pretestuosamente valido per tutto) è considerata e trattata da Yates come una tecnica narrativa, una possibilità della rappresentazione verbale. La solitudine, in altre parole, non è un sentimento, e tantomeno un valore incarnato da un personaggio o da una situazione. Non si carica di nessun significato particolare perché tutti i significati le convengono alla stessa maniera e con gli stessi diritti. Sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi in sanatorio, giovani coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili, tassisti con ambizioni letterarie - le creature solitarie di Yates ci si rendono visibili e credibili solo attraverso lo schermo del loro isolamento. Paradossalmente, ciò che li condanna all'infelicità è anche ciò che (sul piano della scrittura) li rende vivi e possibili sul piano estetico. Molti lettori di Yates sono rimasti impressionati dalla sua impassibilità di narratore, da una sostanziale indifferenza al dolore senza riscatto delle sue creature.
Effettivamente, si può sospettare con buone ragioni una certa dose di sadismo in questo tipo di atteggiamento dello scrittore di fronte ai suoi propri fantasmi. In generale, potremmo considerare il sadismo una specie di padre nobile - e di eterno presupposto implicito - di ogni tipo di naturalismo. Nei racconti di Yates il ritmo necessario e implacabile che connette le cause agli effetti finisce sempre per ricordare, più che una semplice spiegazione logica del mondo, una kafkiana macchina per la tortura. E forse, viene da pensare leggendo questi bellissimi racconti, i più grandi scrittori sono quelli che suscitano in noi, di fronte al pathos delle situazioni, sentimenti di ambivalenza. Vorremmo sostituirci allo scrittore, e penetrando nello spazio della pagina, scrollarli per le spalle, i suoi poveri eroi, avvertirli della brutta figura o della catastrofe imminenti. E nello stesso tempo, godiamo della loro rovina, la magia della prosa di Yates è lì per farcela apprezzare come giusta e necessaria. Yates è sadico, tecnicamente sadico anche in questo: allo spessore vischioso dell'identificazione preferisce la distanza della scena, la sua lieve irrealtà, la sua isteria sempre imminente. Quanto al regista, egli lascia che le cose vadano come devono andare, e sorveglia imperterrito l'agghiacciante precisione dei particolari.
ilmanifesto.it

23.5.06

Perché sono crollate le Borse

dal BLOG di Beppe Turani

Questa mattina su "Repubblica" ho pubblicato il seguente commento, scritto a caldo, sul crollo delle Borse. Sarebbe interessante conoscere, sulle quattro teorie esposte nell'articolo, l'opinione dei lettori.

Ci sono almeno quattro teorie per spiegare il crollo di questi ultimi giorni delle Borse. Crollo che si è portato via alcune centinaia di miliardi di euro e che ha rimesso i listini, grosso modo, esattamente dove si trovavano a fine 2005.

1- La prima teoria è forse la più semplice e fa riferimento al fatto che i listini erano saliti troppo, e quindi sono tornati indietro. A marzo erano già raddoppiati rispetto al 2003. Ma la corsa è andata avanti. Poiché niente ha più successo del successo, i listini hanno continuato a correre. Un po’ come ciclisti impazziti o dopati. I crolli di questi giorni, quindi, rimettono solo le cose a posto. Un giorno o l’altro l’avanzata riprenderà. E allora operatori smaliziati e belle signore un po’ ingenue torneranno a contare i loro guadagni e a regalare e a regalarsi gioielli di Bulgari e di Cartier.

2- La seconda spiegazione è assai più sofisticata. Gli operatori più importanti, si dice, si sarebbero accorti che l’inflazione sta tornando e alla grande. E poiché i capi delle banche centrali considerano (giustamente) l’inflazione come il nemico numero uno della civiltà moderna, sono già pronti con i fucili spianati. Sono già pronti, cioè, a far salire ancora i tassi di interesse (cioè il costo del denaro) proprio quando un po’ tutti erano convinti che l’aumento dei tassi era ormai giunto alla fine. E si sa che le Borse non amano il rialzo del costo del denaro. Per una ragione molto semplice. Se il denaro costa di più, costa di più fare operazioni finanziarie con soldi presi a prestito. Ma peggiorano anche i conti delle aziende che hanno molti debiti.

Insomma, con l’inflazione che ritorna e i tassi che forse si rimettono a crescere, ci sono buoni motivi (compresi quelli psicologici) per mandare a picco i listini.

3- La terza teoria è ancora più complessa e tira in ballo le materie prime, che sono crollate. Sono andate giù, si dice, perché c’è aria di inflazione, ma anche (se non soprattutto) perché l’economia (dall’Asia all’America) è vista in fase frenante subito dopo l’estate, forse anche prima. E se l’economia rallenta, sarà difficile che le aziende (che in Borsa avevano già raggiunto livelli record) possano crescere ancora. Bene che vada, scenderanno. E quindi perché non anticipare qualcosa che è già scritto nelle previsioni sull’economia? Perché non vendere e mandare i listini a quel paese?

4- La quarta spiegazione è persino meglio del Codice Da Vinci e dei migliori galli in circolazione. Le Borse mondiali, si dice, sono ormai dominati dagli hedge fund (fondi di investimento ai quali non si può accedere se non si dispone almeno di qualche centinaio di migliaia di euro, una sorta di club dei super ricchi del pianeta). Questi fondi, si aggiunge, controllano non solo le Borse, ma anche un po’ tutti gli altri mercati, primo fra tutti quello delle materie prime.

E in questi anni sarebbero stati loro a spingere i mercati (materie prime e Borse) fino agli attuali eccessi. Sarebbero stati loro, gli hedge fund, a far triplicare e anche quadruplicare i prezzi di certe materie prime e a mandare le Borse al raddoppio oltre ogni ragionevole aspettativa.

E sarebbero sempre loro che in questi giorni hanno deciso di mandare a picco quella costruzione artificiale (l’insano rialzo di tutto) che essi stessi avevano eretto. Hanno deciso di abbattere il loro grattacielo artificiale perché hanno capito che non si poteva più andare avanti. Insomma, dopo aver raddoppiato le quotazioni in tre anni, hanno capito che non si poteva continuare. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che era un bluff. E allora, meglio tagliare la corda per primi. E, quasi certamente, perché hanno capito che la stagione delle vacche grasse (crescita economica da boom) aveva i giorni contati. Naturalmente, si dice nelle sale operative di mezzo mondo, gli hedge fund hanno guadagnato prima e ci stanno guadagnando adesso, visto che hanno sempre condotto loro il gioco.

Quale scegliere fra queste quattro teorie? Difficile dare la risposta. Probabilmente c’è del vero in tutte e quattro. L’inflazione comincia a preoccupare di nuovo, i tassi forse non è vero che hanno finito di aumentare, l’economia rallenterà di sicuro e gli hedge fund (grazie anche all’uso dei derivati e di altre diavolerie finanziarie) sono effettivamente molto potenti e molto spregiudicati.

Che cosa succederà adesso? In questo caso le teorie sono soltanto due, anche se entrambe poco rassicuranti. La prima (la più moderata) sostiene che si andrà giù ancora del 5-6 per cento (forse addirittura del 10 per cento). Poi tutto si fermerà e si tornerà a ragionare. Le signore e gli operatori potranno tornare a comprare titoli in Borsa.

La seconda teoria è più amara e sostiene che i listini (salvo interventi straordinari della Federal Riserve, la banca centrale americana) andranno giù come mattoni ancora a lungo, anche del 20-30 per cento, fino a riportare i prezzi delle azioni verso livelli più ragionevoli e più accettabili.

Oggi, è impossibile dire chi ha ragione e quale sarà la teoria vincente. E cercare di fare gli stregoni.

Oggi, di fronte al massacro dei listini si può solo avere paura.

Citazioni

Il regista e Cerami si sono divertiti a mettere in bocca
ai personaggi del film una nutrita serie di citazioni famose
Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti
che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI

IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.

E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno.
E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati.

Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità.
Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa.

Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi.
Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.

Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto.


Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova).
Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità.

Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne.

Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo).
Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio".
E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson.
Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio.

E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!
Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito!

Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea.

Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor.
Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me.
Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco.

Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.

P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.

repubblica.it

14.5.06

L'esercito dei "poveri", dieci milioni sotto i 6 mila euro

I Paperoni de´ Paperoni sono, sarebbero, una minoranza. I poveri, invece, tantissimi. Così gli italiani si raccontano al Fisco nella dichiarazione dei redditi. Il ministero dell´Economia (Dipartimento per le Politiche fiscali) rivela che solo 49.645 contribuenti incassano, o quantomeno dichiarano, più di 200 mila euro nel 2003. Sono lo 0,12% tra quanti hanno presentato "Unico" o il 730. Quattro gatti. Se guardiamo a chi dichiara oltre 100.000 euro, le fila dei benestanti si affollano di poco raggiungendo quota 0,61%. Mentre i cittadini che giurano di vivere con meno di 500 euro al mese (pari a 6 mila euro l´anno) sono 10 milioni. Rappresentano il 26% dei contribuenti. Di questi, 2,4 milioni denunciano redditi inferiori ai mille euro l´anno.

C´è poi il famoso ceto medio. La maggior parte dei contribuenti è concentrata in una fascia di reddito mediana che va dai 12 mila 500 ai 25 mila. Sono 14 milioni e mezzo. La fascia comprende il 64,5% di tutti i contribuenti se si considera chi va da 7 mila 500 ai 30 mila 990. Regione che vai, dichiarazione che trovi. I lombardi sono al primo posto nella classifica della generosità. In media denunciano al Fisco oltre 18 mila euro di reddito e ne versano 4 mila 600 euro, come Irpef. Pagano così 900 euro in più della media italiana. Ma i contribuenti del Lazio sono vicini. Dichiarano 17 mila 550 euro di reddito l´anno e pagano solo 100 euro in meno di Irpef (cioè 4.500 euro). Gli emiliani sono a quota 17 mila 200 euro.

Versano un´Irpef superiore alla media anche i trentini (3.880 euro), i piemontesi (3.870) e i liguri (3.830). A metà classifica Friuli (3.720) e Toscana (3.660). I calabri dichiarano meno di tutti: 11 mila 330 euro di reddito, ma pagano 2 mila 600 euro di imposta, 50 in più dei vicini della Basilicata. A proposito di Irpef battono un colpo anche gli Artigiani di Mestre. L´associazione calcola i risparmi che gli italiani hanno ottenuto nel 2005 (rispetto al 2004) in seguito alla riforma del governo Berlusconi. L´indagine conferma che la riforma ha premiato soprattutto i redditi alti e le famiglie più numerose. Un numero su tutti. Chi ha un reddito di assoluto rispetto, pari a 300 mila euro, e una moglie a carico, ha portato a casa uno sconto fiscale vicino ai 6 mila euro.

kataweb.it

13.5.06

Basta unilateralismi, parliamo di Jugoslavia

Peter Handke
Finalmente, dopo più di un decennio di un linguaggio giornalistico a senso (e a non-senso) unico, sembra che si stia creando un'apertura in Francia nella stampa (1), forse non soltanto in Francia, per parlare in modo diverso - o semplicemente per cominciare a parlare - della Jugoslavia.
Sembrano divenuti possibili un dibattito, una discussione, un discorso, una fruttuosa contesa, un interrogarsi comune, e narrazioni che si parlano...Prima c'era il nulla e ancora il nulla, diffamazioni al posto del dibattito, costruite con parole prefabbricate, ripetute all'infinito e utilizzate come armi automatiche.
Allarghiamo dunque questa breccia o apertura, questa primavera di parole. Ascoltiamoci finalmente gli uni e gli altri invece di urlare e abbaiare da due campi nemici. Ma non tolleriamo più nemmeno gli esseri(?), le anime (?) cattive (!) che, nel magico dilemma jugoslavo, continuano a lanciare parole-proiettili come «revisionismo», «apartheid», «Hitler», «dittatura sanguinaria», ecc. Fermiamo ogni paragone e parallelo su quello che riguarda la guerra nella Jugoslavia. Restiamo agli avvenimenti che, come avvenimenti di una guerra civile, innescata o almeno coprodotta da un'Europa in malafede o, almeno, ignorante, pure se già messi a nudo restano per tutte le parti comunque terribili. Smettiamola di paragonare Slobodan Milosevic a Hitler. Smettiamola di paragonare lui e sua moglie Mira Markovic a Macbeth e alla sua Lady o di fare paralleli tra la coppia e il dittatore Ceausescu e la sua donna. E non usiamo mai più per i campi disseminati nella guerra di secessione in Jugoslavia l'espressione «campi di concentramento».
E' vero: c'erano campi intollerabili tra il 1992 e il 1995 nel territorio delle Repubbliche jugoslave, soprattutto in Bosnia. Però smettiamo di legare meccanicamente nella nostra testa questi campi ai Serbobosniaci: c'erano anche campi croati e anche campi musulmani, e i crimini che vi sono stati commessi vengono e verranno giudicati dal Tribunale dell'Aja. E, finalmente, smettiamola di legare i massacri (dei quali - al plurale - quelli di Srebrenica del luglio 1995 sono di gran lunga i più atroci) alle forze armate o ai paramilitari serbi. Ascoltiamo anche - finalmente - i sopravvissuti ai massacri fatti dai musulmani nei numerosi villaggi serbi attorno a Srebrenica - musulmana - massacri commessi e ripetuti nei tre anni che precedettero la caduta di Srbrenica, stragi guidate dal comandante di Srebrenica che portarono nel luglio 1995 - una vendetta infernale e una vergogna incancellabile per i responsabili serbobosniaci - alla grande mattanza, e per una volta la parola che è stata spesso ripetuta è davvero giusta, «la più grande in Europa dopo la Seconda guerra mondiale». Aggiungendo questa informazione: che tutti i soldati e gli uomini di Srebrenica che sono fuggiti dalla Bosnia serba traversando il fiume Drina, la frontiera tra i due Stati, fuggivano in Serbia, paese all'epoca sotto l'autorità di Milosevic, che tutti questi soldati arrivando nella cosiddetta Serbia nemica venivano salvati, senza che lì si verificassero uccisioni o stragi.
Sì, ascoltiamo, dopo aver ascoltato «le madri di Srebrenica», anche le madri o una sola madre del vicino villaggio serbo di Kravica, raccontare il massacro del Natale ortodosso 1992-1993, perpetrato dalle forze musulmane di Srebrenica, un massacro anche contro le donne e i bambini di Kravica (il solo crimine per il quale vale la parola genocidio).
E smettiamola di associare gli «snipers» di Sarajevo ciecamente ai «Serbi»: la maggior parte dei caschi blu francesi uccisi a Sarajevo furono vittime dei cecchini musulmani. E smettiamola di collegare l'assedio (orribile, stupido, incomprensibile) di Sarajevo esclusivamente all'armata serbobosniaca: nella Sarajevo degli anni 1992-1995, decine di migliaia di civili serbi rimasero bloccati nei quartieri del centro, come Grbavica, che a loro volta erano assediati - eccome se lo erano! - dalle forze musulmane. E basta attribuire gli stupri soltanto ai serbi. Smettiamola di collegare le parole in modo unilaterale, alla maniera del cane di Pavlov. Allarghiamo l'apertura che ci si presenta. Che la breccia non sia più ostruita da parole marce e avvelenate. Resti fuori ogni mente malvagia. Abbandoniamo finalmente questo linguaggio. Impariamo l'arte della domanda, viaggiamo nel paese sonoro, in nome della Jugoslavia, in nome di un'altra Europa. Viva l'altra Europa. Viva la Jugoslavia. Zinela Jugoslavija.
(1)Tra gli altri, gli articoli di Brigitte Salino e di Anne Weber su Le Monde del 4 maggio, il commento di Pierre Marcabru nel Figaro dello stesso giorno e l'appello di Christian Salmon su Libération del 5.
Questo articolo dello scrittore e drammaturgo austriaco censurato dalla Comédie Française «perché è andato al funerale di Milosevic», è uscito mercoledì 10 su Libération, ed è stato pubblicato da il manifesto su autorizzazione dell'autore.
ilmanifesto.it

2.5.06

150 anni dopo. «Professor Freud, ma lei è mio papà»

Edoardo Sanguineti

Freud. Venga, venga avanti, la prego. Non deve mica sentirsi a disagio. Qui, i clienti, io li ricevo quando voglio. L´avrà vista, lì sull´uscio, la mia targhetta d´ottone, bella lucida, che dice: «consultazione perpetua, giorno e notte».
Sanguineti. Certamente, l´ho vista. Ma io, vede, non vengo mica qui in veste di paziente.
F. Lasciamola perdere, la veste. Perché, guardi, dicono tutti così. Ma siamo tutti pazienti, qui. Mi dica dunque quali disturbi l´affliggono.
S. Non si tratta di disturbi, illustre professore, anche se mi rendo conto, naturalmente, di disturbarla non poco. Si tratta semplicemente di alcune domande, assai discrete, che sarebbe mia intenzione sottoporre alla sua cortesia.
F. Gran brutto giro di parole, per incominciare. E sarà bene che io le dica immediatamente che le domande, se di domande si tratta, sarò io a porle, e non lei. Capirà bene, che è il mio mestiere. Ma perché se ne sta lì in piedi, titubante e perplesso? Si metta comodo qui, sopra questo lettino, bello disteso, come se dovesse farci una dormita, giù. Adesso si concentri, chiuda gli occhi, si rilassi, ecco, così. Parli pure, se ne ha voglia, ma si lasci andare. Io mi metto qui, fuori tiro, e se permette, prenderò soltanto qualche appunto,
S. Veramente, sì, ero io che volevo prendere qualche appunto.
F. Tutti così, benedett´uomo, tutti così: è un´epidemia. Ho pensato di definirla, questa sindrome qui, una «nevrosi da scambio». Come lei può constatare, consiste in un tentativo di inversione delle parti, per cui si vogliono alterare i ruoli e rovesciare i rapporti: è come se lei, tanto per dire, essendo un fratello di una sorella, volesse fare la sorella di suo fratello, cioè la sua sorella, di lei, e si convincesse che sua sorella, invece, è il fratello della sorella, cioè suo fratello, di lei sorella. Sono stato chiaro? Lei ha sorelle?
S. No, illustre professore: sono figlio unico.
F. Gran brutta situazione, altamente patogena, di norma. Penso al suo papà, poveretto, che ne avrà visto delle belle, immagino. Per non parlare della sua povera mamma, ahi, ahi, ahi. Ma ecco, torniamo alla nostra nevrosi da scambio. Si metta bene in testa, gentile visitatore, che il medico interroga, e che il paziente risponde. E che io sono qui per interrogare, sono qui per sapere, e che mi pagano, proprio per questo, anche qui, sissignore: che sono mantenuto, io, qui, per i miei punti interrogativi, non per altro. Capito?
S. Sì, chiarissimo. Quello che voglio dirle è tutt´altro: perché lei deve sapere che da tanto, tanto tempo io sognavo di poterla incontrare.
F. Benissimo, ci siamo, ci siamo. Guardi, con lei, che mi è simpatico, anche perché è piuttosto timido - e io, per i timidi, sa, per gli introversi, come diceva quel disgraziato - ma lasciamo perdere - ci ho una certa tenerezza - con lei io voglio giocare a carte scoperte - per quel che si può e che l´onore della professione permette. E insomma, nei limiti del lecito, procederemo confidenzialmente, come alla luce del sole: le va bene? Anzi, per non accrescere ulteriormente il suo manifesto stato di disagio, perché la vedo lì sopra il lettino, che si scontorce e si dibatte non poco, io parlerò di lei come di una terza persona, di cui noi andiamo familiarmente discorrendo, così fra di noi, per amore di pettegolezzo, per il piacere di chiacchierare: per esempio, diremo, il signor Zeta: le piace?
S. Sì, sì, benissimo.
F. - Or dunque, mi ascolti. Capita da me, un certo giorno, un certo signor Zeta, non meglio identificato, e due cose emergono subito. Primo, egli risulta affetto - già lo abbiamo accertato - dalla ben nota nevrosi da scambio, situabile sintomaticamente sull´asse interrogazione/risposta. Secondo, egli accenna, sebbene brevemente, a un sogno, probabilmente ricorrente, se non addirittura ossessivo, nel quale sono coinvolto io medesimo, il Freud: quanto a detto sogno, si sa per ora chr lo Zeta brama, pare da tempo, incontri onirici, non meglio definiti, con il Freud.
S. No, onirici no.
F. Non onirici?
S. No, no, incontri veri, come questo.
F. Sognava un incontro, in sogno.
S. Sognava in sogno, naturalmente: ma, nel sogno, l´incontro era ben reale. Sognava questo, che io mi vivo adesso, che lui si vive adesso, cioè, là, lo Zeta.
F. Scusi che prendo un appunto. (Il signor Zeta - lei, intanto, si distragga un po´, si rilassi - sogna di incontrarmi fuori del sogno, e parla di un incontro vero, virgola, che se lo vive adesso, punto. Alla luce della nevrosi di base sopra indicata, virgola, il soggetto dimostra un intenso desiderio di identificazione con il medesimo Freud, due punti: il rovesciamento interrogazione, sbarretta, risposta, può dunque chiarirsi come brama male repressa di sottoporre il Freud, fatto paziente, virgola, a oggetto di analisi, con corrispondente sostituzione di persona, punto). Ehm, ho scritto qui poche parole, non ci badi, e vada avanti.
S. Professore, io mi sento così inibito.
F. Ha detto inibito?
S. Certo, capirà, un uomo come lei con un uomo come me, vedermelo qui davanti, cioè dietro veramente, che mi ascolta, che mi risponde: io, ecco, non ho più parole. Mi sento un tale complesso di inferiorità.
F. Lei, questo Freud, come se lo vedeva, in sogno?
S. Ecco, io non so bene come spiegarle, quelle cose che vedevo: perché si vede che stanno come sepolte in me, dentro, sotto, nel profondo, giù. A me, già, mi pareva di conoscermelo come da sempre, il Freud, lì nel sogno.
F. (Notare l´impressione di virgolettato, déjà vu, fine del virgolettato, sottolineato il virgolettato). Dica, dica, non pensi a me.
S. Ci penso per forza, ci penso. Comunque, sì, io associavo la sua immagine alle figure più alte che avevo incontrato nella mia povera vita, e mi sentivo attratto verso di lei da un impulso infrenabile, e tuttavia accompagnato da una strana angoscia. La sua presenza mi pareva che dovesse sollevarmi tutto, in alto, sopra me stesso, sublimarmi, quasi. Per me, guardi, era come un padre, il Freud.
F. Eh, ho capito bene?
S. Capito che cosa?
F. Ha detto: come un padre?
S. Sì, e non saprei come dire diversamente.
F. Ahi, ahi, ahi.
S. Che cosa significa, questo lamento?
F. Significa, purtroppo, che il suo caso deve fermarsi qui. Perché significa, signore mio, che siamo già alle solite, al padre, cioè all´Edipo, cioè al triangolo, e a tutto. E quando siamo lì, a tutto, allora si chiude, e basta. Oh, poveretto lei, ma che caso semplice che è, che caso trasparente! Così, se lei vuole che il nostro incontro abbia un minimo di sviluppo, anche uno sviluppino soltanto, qui si deve fare marcia indietro, prima che ci arrivi anche la Giocasta, egregio dottore, e non ci sia più rimedio, per noi. Dunque, torniamo di corsa al sogno, e vediamo se ci troviamo una qualche scappatoia. Mi racconti, per filo e per segno, quello che si vedeva nel suo sogno, avanti.
S. Io sognavo così. Che mi vedevo davanti il Freud, cioè lei, di colpo, che mi diceva subito: «Venga, venga avanti, la prego». E mi faceva segno che venivo avanti. E mi faceva coraggio, e diceva: «Non deve mica sentirsi a disagio». E mi spiegava che i clienti, lui, se li riceveva quando voleva, ormai. E mi raccontava che ci aveva una targhetta d´ottone, sull´uscio suo, là nell´oltremondo, che diceva una cosa come questa, mi sembra: «consultazione perpetua, giorno e notte». E poi mi diceva se l´avevo vista, la targhetta. E io dicevo che l´avevo vista. Ma gli spiegavo, però, che non ero mica un paziente, io. Allora lui diceva che tutti dicevano così, che non erano pazienti e che invece erano tutti pazienti, da vivi e da morti, nell´oltremondo come nel mondo. E allora si metteva che voleva farmi delle domande, a me, che mi diceva che disturbi ci avevo. E io dicevo che non erano disturbi, ma che volevo fargli delle domande, io, e lo dicevo in un modo tutto gentile...
F. Mi scusi, caro Zeta, ma veniamo, la prego, così di un salto, di colpo, alla fine del sogno.
S. È che non l´ho mai vista, professor Freud, la fine. Mi sono svegliato, sempre, prima.
F. E allora, attento. È tutto secondo le regole, vedrà. Adesso lei solleva lentamente la sua testa, su, dal lettino, e poi il busto, su fino a portarsi in posizione seduta. Poi lei si volge indietro, e mi guarda. E io, come avviene di norma, per tutte le ombre dell´oltremondo, diventerò trasparente come l´acqua, e svanirò sereno, nel puro niente. E allora, dottor Zeta, lei alzerà un grido, terribile, di pianto, ma un grido sommesso, un po´ strozzato, e quasi livido, diafano, così, che farà come si sentirà, poi, come le verrà più spontaneo, e più naturale, come le sgorga proprio adesso, su dal profondo, guardi, attento, adesso che si gira, che mi cerca qui con gli occhi, ecco.
S. Papà, papà, papà, papà.

unità.it

Stiglitz a Grillo

Dal blog beppegrillo.it

Il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz mi ha inviato questa analisi sul mercato del lavoro in Italia .
Belin, un premio Nobel che scrive a un comico!

“Caro Beppe,
dall'Italia mi giungono notizie allarmanti: la legge sul primo impiego viene ritirata in Francia dopo poche settimane di mobilitazione studentesca e da voi la legge 30 resiste senza opponenti dopo anni. Permettimi allora una breve riflessione Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità di avere un lavoro. Politiche volte all'aumento della flessibilità del lavoro, un tema che ha dominato il dibattito economico negli ultimi anni, hanno spesso portato a livelli salariali più bassi e ad una minore sicurezza dell'impiego. Tuttavia, esse non hanno mantenuto la promessa di garantire una crescita più alta e più bassi tassi di disoccupazione. Infatti, tali politiche hanno spesso conseguenze perverse sulla performance dell'economia, ad esempio una minor domanda di beni, sia a causa di più bassi livelli di reddito e maggiore incertezza, sia a causa di un aumento dell'indebitamento delle famiglie.

Una più bassa domanda aggregata a sua volta si tramuta in più bassi livelli occupazionali. Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell'Italia: la sua gente.
Sebbene negli ultimi 75 anni, la scienza economica ci ha detto come gestire meglio l'economia, in modo che le risorse fossero utilizzate appieno, e che le recessioni fossero meno frequenti e profonde, molte delle politiche realizzate non sono state all'altezza di tali aspirazioni. L'Italia necessita di migliori politiche volte a sostenere la domanda aggregata; ma ha anche bisogno di politiche strutturali che vadano oltre - e non facciano esclusivo affidamento sulla flessibilità del lavoro. Queste ultime includono interventi sui programmi di sviluppo dell'istruzione e della conoscenza, ed azioni dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.
Condividiamo l'idea per cui le rigidità che ostacolano la crescita di un'economia debbano essere ridotte. Tuttavia riteniamo anche che ogni riforma che comporti un aumento dell'insicurezza dei lavoratori debba essere accompagnata da un aumento delle misure di protezione sociale.

Senza queste la flessibilità si traduce in precarietà.

Tali misure sono ovviamente costose. La legislazione non può prevede che la flessibilità del lavoro si accompagni a salari più bassi; paradossalmente, maggiore la probabilità di essere licenziati, minori i salari, quando dovrebbe essere l'opposto. Perfino l'economia liberista insegna che se proprio volete comprare un bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio di trasformazione in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti.

I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e che fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.
Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?
Grazie per l'ospitalità.”
Joseph E. Stiglitz

12.4.06

L'Italia profonda

ROSSANA ROSSANDA
La coalizione di centrosinistra non ce l'ha fatta. Prodi non ha vinto, Berlusconi non ha vinto, si va verso un pareggio, aggravato dal pessimo meccanismo della legge elettorale. Si apre uno scenario incerto, ma sicuramente politicamente negativo. Siamo davanti a un voto molto partecipato e riflettuto sul quale ha pesato l'aggressività di Berlusconi, giocando sulle viscere più torbide del paese, e spuntandola per meno di poco quando pareva aver già perduto. Non stavano più con lui infatti né la grande stampa né la Confindustria, né le banche. Stava con lui soltanto la chiesa di Ratzinger. E stava il portafoglio di una proprietà diffusa, alta media e bassa che egli aveva sfacciatamente protetto e che si è difesa a denti stretti. Il pareggio non è solo nei numeri: all'interno delle coalizioni non è avvenuto nessun grande spostamento. Berlusconi resta di gran lunga il leader più forte del centrodestra. L'agitazione dei Follini e Casini non gli ha recato gran danno, anzi, in conclusione lo ha favorito. Nella coalizione di centrosinistra il solo successo evidente è quello di Rifondazione, ma in un quadro generale che non ne moltiplica la valenza. La Rosa nel pugno, anche se puntava su un'affermazione maggiore, dimostra - ed è meglio che niente - che neppure in Italia si può andare oltre un certo limite nell'ossequio al Vaticano. E questo è tutto. Il problema più grave, e del quale sarebbe folle tenere poco conto, è che a differenza di solo venti anni fa, su cento italiani che incontri per strada, in autobus e in treno, quarantotto votano una destra illimitata che non si da confini neanche nei confronti del fascismo. Questo non accade in nessun altro paese dell'occidente europeo. Questa destra si è radicata nella cosiddetta società civile. Anche per la flebilissima condanna che ha incontrato nelle istituzioni, a cominciare dal Quirinale che non ha difeso con forza quei principi fondanti della Repubblica dei quali doveva essere garante. Neanche l'opposizione ha capito che cosa era in gioco quando ha scelto la bonarietà: che Berlusconi andasse oltre ogni limite di decenza non comportava che non si dovesse condannarne in termini più secchi l'oltranzismo e il disprezzo per qualsiasi principio di una democrazia non formale. C'è in ogni paese, come in ciascuno di noi, un fondo di impaurito e pauroso egoismo che non va accettato - una democrazia non è tenuta a rappresentare qualsiasi cosa, la Costituzione non è un optional. E anche chi ha seminato, supponendosi più a sinistra, l'antipolitica, oggi ci deve riflettere. Non è detto che ci sia molto tempo. Un paese che è profondamente diviso non, come si è andati cianciando, dalle ideologie, ma da contraddizioni sociali di fondo, non può darsi una maggioranza che abbia, non dico un abbastanza ampio consenso, ma consenta uno spazio di mediazione. Nel nostro paese è così ogni volta che la destra si consolida: essa porta in sé un connotato eversivo. Quale che sia il risultato che ci aspetta nelle prossimo ore - stiamo scrivendo ancora sull'orlo dell'incertezza - l'Italia è ammalata. Faremo di tutto perché non lo si dimentichi.
ilmanifesto.it

4.4.06

I lager britannici durante la Guerra Fredda

Lo scoop è del quotidiano The Guardian

L'inchiesta svela ciò che era rimasto nascosto per 60 anni: anche gli inglesi usarono campi concentramento contro i nemici


Uno dei prigionieri torturati nei lager britannici durante la Guerra Fredda (www.guardian.co.uk)
Uno dei prigionieri torturati nei lager britannici durante la Guerra Fredda (www.guardian.co.uk)
LONDRA -
Fino ad oggi eravamo abituati a sentir parlare di lager e di gulag, rispettivamente i campi di concentramento nazisti e comunisti. Ma all'indomani della Seconda guerra mondiale, all'inizio della guerra fredda, la Gran Bretagna, patria dell'habeas corpus e del liberalismo creò in Germania campi di concentramento nei quali vennero rinchiusi non solo nazisti o ex Ss, ma anche «presunti comunisti». Le foto pubblicate dal quotidiano inglese Guardian mostrano persone denutrite e torturarate che appaiono per la prima volta dopo sessant'anni.

PROGRAMMA - Il programma di torture era portato avanti dal «War Office» nella Germania del Dopoguerra e probabilmente interessò gli anni tra il 1945 e 1948. Molte di queste persone morirono a causa delle privazioni di cui furono vittime nei campi di concentramento e tanti dei metodi di tortura furono «copiati» dai nazisti che fino a qualche anno prima era stati combattuti dalla Gran Bretagna in nome della libertà. Secondo il quotidiano inglese, queste persone furono rinchiuse e torturate perchè «sospettate di essere comuniste e perchè erano considerate futuri sostenitori dell'Unione Sovietica». Tra le persone torturate non c'erano solo uomini. Dozzine di donne furono imprigionate e torturate perchè sospettate di essere agenti segreti sovietici. Solo nel campo di concentramento di Bad Nenndorf furono rinchiusi 372 uomini e 44 donne.

(www.guardian.co.uk)
(www.guardian.co.uk)
POLEMICHE -
Il giornale inglese ha deciso di pubblicare solo queste tre foto perchè dichiara che molte di quelle di cui è in possesso sono troppo scioccanti per essere viste. Naturalmente la notizia ha scatenato numerose polemiche. Nick Harvey, portavoce dei Liberal Democratici ha affermato: «E' troppo tardi per sentirsi responsabili, ma non è tardi per conoscere la verità». Shermann Caroll, dell'associazione «Medical Foundation for the Care of Victim of Torture» sottolinea: «La suggestione che gli Inglesi non abbiano usato la tortura durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni immediatamente successivi è una mitologia che è stata propagandata per decenni. Adesso le immagini parlano chiaro».

DOMANDE - Il ministero della Difesa non ha voluto rispondere alle domande del Guardian e ha risposta che questi quesiti devono essere rivolti al Ministero degli Esteri. Le foto sono state tenute segrete per 60 anni. Poi quattro mesi fa esse sono state trasferite grazie ad un'inchiesta della polizia sui maltrattamenti di prigionieri in alcuni centri, vicino ad Hannover, e sono arrivati al Guardian che si è avvalso della legge «Freedom of Information Act». Ciò che è certo è che le immagini risalgono al febbraio del 1947 e furono scattate da ufficiali della «Royal Navy» ai quali fu ordinato di portare a termine il programma di tortura. Altre foto, dichiara il giornale sono ancora in possesso del Ministero degli Esteri. Non si sa che fine abbiano fatto tutte le persone fotografate e quando le torture nei lager britannici siano terminate.
Francesco Tortora
corriere.it

14.3.06

La lotteria della vergogna

di Chiara Saraceno

Questa notte migliaia di immigrati in tutt'Italia si sono messi in coda nella speranza di essere tra i primi a consegnare la domanda di permesso di lavoro. Alcuni anzi sono già in coda da giorni, facendo turni, per non perdere il posto in fila. Solo una frazione ce la farà, perché le quote assegnate dal decreto sui flussi sono largamente inferiori non solo agli immigrati che hanno ritirato il kit (con altre code), ma a quelli che effettivamente stanno già lavorando in Italia e che sperano in questo modo di mettersi in regola. Così come lo sperano molti datori di lavoro: piccoli imprenditori che hanno bisogno di manodopera stagionale o anche a più lungo termine, famiglie che hanno bisogno di lavoratrici di cura.

Qualche giorno fa il presidente Ciampi ha voluto riconoscere il prezioso contributo degli immigrati al benessere delle famiglie e della società italiane consegnando l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica ad una badante romena (oltre a quella di commendatore ad una architetta araba e ad una avvocata africana). Ma le migliaia di immigrati che staranno in fila per ore ricevono solo un messaggio di umiliazione e disprezzo.

Dietro queste code, alla vergognosa lotteria di cui sono strumento (perché non c'è altro criterio che quello di chi prima arriva) ci sono due problemi, due inefficienze distinte del nostro modo di affrontare l'immigrazione. Il primo riguarda lo scarto tra numero di permessi ed effettivi posti di lavoro disponibili, spesso di fatto già occupati, ancorché in modo non regolarizzato. Questo scarto costringe sia i datori di lavoro che i lavoratori immigrati in un continuo stato di illegalità, e di ricatto reciproco, pur in situazioni di potere asimmetrico. Alimenta anche comportamenti più gravemente illegali, di intermediazione dei permessi più o meno criminosa. Proprio il razionamento dei permessi e la loro messa all'asta della velocità e della resistenza può favorire, infatti, i ricatti e le prepotenze.

Il secondo problema riguarda l'incapacità della nostra amministrazione, dopo anni di esperienza, di trovare meccanismi insieme più trasparenti e meno irrispettosi della dignità di ciascuno di questa lotteria insieme tragica e grottesca. Certo, non sorprende in un Paese in cui anche i cittadini italiani sono spesso trattati dai servizi pubblici come sudditi che devono accontentarsi di ciò che passa il sovrano. Gli immigrati in cerca di lavoro e di regolarizzazione sono meno che sudditi: sono mendicanti da lasciare fuori al freddo, cui gettare ogni tanto qualche cosa lasciando che si azzuffino tra loro. Salvo commentare negativamente - dall'alto della nostra superiorità occidentale (e perché no, cristiana) - sia la loro rassegnata accettazione che la loro occasionale ribellione.
lastampa.it

8.3.06

Cormac McCarthy, paura della vita

A distanza di sette anni dal suo ultimo libro, Città della pianura, con cui si concludeva una grandiosa trilogia, Cormac McCarthy è tornato a farsi vivo: Non è un paese per vecchi esce oggi da Einaudi. Per certi versi, lo si potrebbe definire una rivisitazione in chiave pulp di Meridiano di sangue un po' alla Tarantino
Sullo scrittore americano piovono leggende a misura della sua reticenza. Si dice abbia vissuto per anni senza casa, spostandosi per il Texas da un motel all'altro, mangiando nelle tavole calde, portando i suoi panni sporchi nelle lavanderie a gettone, facendo il bagno nei fiumi

TOMMASO PINCIO
«Nel West non ci sono eroi. C'è solo gente che ha paura della vita. Per questo spara, ammazza, rapina» ha dichiarato una volta Sam Peckinpah in un'intervista. Il regista del Mucchio selvaggio parlava certamente con cognizione di causa. Se ne intendeva parecchio, di western, e la sua affermazione merita quindi di essere ponderata. Qual è la vita di cui ha paura la gente del West? È la vita che anche noialtri conosciamo? E se lo è, per quale ragione non la temiamo con la stessa brutale intensità, vale a dire sparando, ammazzando e rapinando? In effetti, la questione è molto più sottile. Ciò che davvero teme la gente del West non è tanto la vita in sé, quanto il fatto di vivere in un mondo ai limiti del barbarico, dove i codici morali della civiltà contano poco o nulla. Il tipo dell'antieroe western è solitamente un nomade che passa gran parte del proprio tempo lontano dagli insediamenti urbani, vivendo a contatto diretto con una natura pressoché incontaminata e non di rado ostile. Costui sembra non possedere altro se non gli abiti che indossa e un cavallo. La sola cosa che lo distingue da un selvaggio è la pistola, che peraltro usa con animalesca noncuranza. Per lui sparare ha la semplicità di un istinto. Preme il grilletto ogni qual volta si sente minacciato o ha bisogno di procurarsi qualcosa. Leggi amisura disumana Se a noialtri esseri civilizzati capitasse di trovarci nel West saremmo certamente più terrorizzati di questa gente avvezza a sparare, ammazzare e rapinare. Ci sbaglieremmo però di grosso se individuassimo la fonte del nostro terrore nell'alto tasso di violenza e criminalità. Nel nostro mondo esistono luoghi che non hanno molto da invidiare al West, eppure non proviamo la paura di cui parla Peckinpah. Nel nostro mondo possiamo infatti trarre un discreto conforto dalle leggi che puniscono determinate violenze e da chi ha l'incarico di far sì che queste leggi vengano rispettate. Simili garanzie esistono anche nel West. Soltanto sulla carta, però. Nei fatti, mostrano tutta la loro vanità al cospetto delle leggi imposte dalla natura, leggi che hanno la meglio non in quanto più giuste, ma soltanto perché premiano sempre e comunque il più forte. È il dominio assoluto delle leggi di natura ciò di cui ha davvero paura la gente del West, leggi che non sono state scritte per l'uomo e che, proprio per questa ragione, siamo poco disposti ad accettare e comprendere. La rappresentazione definitiva di cosa sia il panico terrore del West è opera di Cormac McCarthy e si intitola Meridiano di sangue. Malgrado la sua prima pubblicazione risalga a poco più di un quarto di secolo fa, questo romanzo è ormai entrato nel sublime limbo dei libri senza tempo. Harold Bloom lo ha definito «il vero romanzo apocalittico americano », ponendolo un gradino sopra a quanto di meglio hanno scritto maestri quali Don DeLillo, Philip Roth e Thomas Pynchon. Follie sanguinarie senza un perché Ciò nonostante, Meridiano di sangue rimane un capolavoro per addetti alla scrittura. Spesso la sua scarsa presa sul grande pubblico è spiegata con la lingua ostica e barocca di Mc- Carthy. La letteratura abbonda però di testi ben più complessi che sono comunque diventati best seller o quasi. La vera ragione va dunque cercata altrove, probabilmente in ciò che ha indotto qualcuno a considerare Meridiano di sangue il libro più cruento e raccapricciante dopo l'Iliade. In teoria, nemmeno questo dovrebbe costituire un problema, visto che l'uso gratuito della violenza è ormai una costante nelle produzioni cinematografiche e letterarie più commerciali. Per giunta, il romanzo di Mc- Carthy ricalca i tipici motivi del genere western. Riducendolo all'osso, in esso si raccontano le truculenti peripezie di un ragazzo che diventa adulto al seguito di una banda di feroci cacciatori di scalpi. A sconcertare il lettore non è che i personaggi si scannino in continuazione, bensì che la loro prepotente ineluttabile follia sanguinaria non abbia alcun perché. Comunque lo si voglia intendere, il West di Meridiano di sangue è il caos allo stato brado. Ma forse «caos» non è la parola adatta. Forse è più giusto parlare dell'ira di un ordine che trascende l'umana comprensione, un ordine così superiore da schiacciarci con la più assoluta e insensata indifferenza. Con quella che a noi nostri occhi sembra assoluta e insensata indifferenza. McCarthy non offre la minima consolazione. Una mattanza perenne, la guerra sempiterna: così è, se vi pare. E quand'anche non vi paresse sarebbe lo stesso. L'unica parvenza di ordine umano è incarnata dal personaggio del giudice Holden, la cui spietatezza è pari a quella del Male in persona, una sorta di angelo demoniaco sceso tra noi per annunciarci la sinistra novella: il mondo in cui viviamo è un errore cosmico. Una mano anarchica tiene in pugno il nostro destino, ed è proprio questa mano che ci ha divisi in due sessi, che ci ha creato per agire come animali da combattimento. La guerra «è la forma più autentica di divinazione» dice il giudice Holden. Non meno inquietante per il lettore è che McCarthy non sembra prendere alcuna posizione al riguardo. Il suo silenzio instilla inevitabilmente il sospetto che egli sia d'accordo con il malefico giudice. Cosa pensi davvero McCarthy non ci è dato sapere. Come scrittore si limita a descrivere, come persona vive un eremitaggio impenetrabile senza concedere interviste. Su di lui si raccontano molte cose. Si dice che abbia vissuto per anni senza casa, spostandosi per il Texas da un motel all'altro, mangiando nelle tavole calde, portando i suoi panni sporchi nelle lavanderie a gettone, facendo il bagno nei fiumi. Difficile resistere alla tentazione di pensare che abbia modellato su di sé il personaggio del giudice Holden. Speculazioni comunque prive di senso. Meridiano di sangue è il tipico capolavoro che vive di vita propria, un romanzo di tale sinistra bellezza da sembrare il parto di uno scrittore fantasma e soprattutto ineguagliabile. Lo stesso McCarthy - pur riprendendo gli stessi temi, pur continuando ad ambientare le sue storie indietro nel tempo e nei selvaggi paesaggi del Sud Ovest, in quegli sterminati territori dove il confine tra Messico e Texas è solo una linea arbitraria tracciata sulle carte geografiche - non ha più cercato di scrivere qualcosa di simile. Non fino ad adesso, perlomeno. A distanza di sette anni dal suo ultimo libro, Città della pianura, atto conclusivo di una grandiosa trilogia, Cormac McCarthy è tornato a farsi vivo con Non è un paese per vecchi (Einaudi, limpida traduzione di Martina Testa, pp. 254, Euro 17). Con una facile battuta, si potrebbe dire che nemmeno questo è un libro per tutti. La verità è pero un'altra: questo è sicuramente il libro più accessibile che egli mai abbia scritto. Per certi versi, lo si potrebbe definire una rivisitazione in chiave pulp e vagamente tarantinesca di Meridiano di sangue. Unamossa premeditatamente sbagliata McCarthy non si è soltanto lasciato alle spalle la lingua elaborata dei romanzi precedenti, ha anche scelto un'ambientazione per lui insolita. I luoghi sono sempre gli stessi, Texas e dintorni messicani, ma niente più natura incontaminata, niente più cavalli selvaggi, niente più lupi della prateria che ululano alla luna. L'azione si svolge perlopiù in anonimi motel e strade interstatali, in quanto Mc- Carthy ha deciso di raccontare una storia molto più vicina ai giorni nostri, una storia del 1980 per l'esattezza. L'inizio del romanzo descrive una tipica situazione alla McCarthy: un uomo a caccia di antilopi nel deserto. Tutto cambia quando l'uomo si imbatte in un paio di fuoristrada, un bel po' di cadaveri e una cartella contenente due milioni e mezzo di dollari. Non ci mette molto a stabilire che si tratta di un traffico di eroina andato storto. È inoltre abbastanza sveglio da capire che sarebbe meglio lasciare la cartella dov'è. Prenderla significherebbe fare la fine dell'antilope, poiché gente poco incline al dialogo metterebbe sulle sue tracce con due soli pensieri in testa: riempirlo di pallottole e recuperare il denaro. Spesso, però, la mossa più furba è anche quella meno stuzzicante, per cui l'uomo raccoglie la cartella e fa ritorno alla roulotte dove vive insieme alla moglie, un'insipida ragazzetta diciannovenne. Costui ha praticamente il doppio degli anni di lei. Si chiama Moss ed è un veterano del Vietnam. Forse è proprio per questo che commette consapevolmente lo sbaglio più grosso della sua vita: perché vuole mettersi alla prova, perché nell'intimo confida di essere ancora un buon soldato. Moss ha però fatto male i suoi conti. Oltre ai trafficanti di droga, dovrà infatti vedersela anche con un killer psicopatico di nome Anton Chigurgh che ingaggia con Moss un confronto all'ultimo sangue il cui esito finale è segnato in partenza. Chigurgh è una evidente reminescenza del terribile giudice Holden. Ma la disumana spietatezza che in Meridiano di sangue corrispondeva a una visione del mondo credibile, per quanto angosciante e apocalittica, qui diventa una trasposizione letteraria di Terminator che non di rado rasenta il ridicolo. Chigurgh se va ne in giro con una bombola di ossigeno e una pistola ad aria compressa con cui elimina le sue prede. Agisce come un automa. Non sembra spinto da alcuna motivazione reale se non quella di uccidere chiunque incroci il suo cammino. In sostanza, un personaggio affatto inverosimile, ma probabilmente l'intenzione di McCarthy è proprio questa. Chigurgh in inglese si pronuncia come sugar, «zucchero». È chiaro che dietro un nome simile si nasconde un avvertenza dell'autore: non prendetemi alla lettera. Malgrado l'apparente linearità della trama, i personaggi di Non è un paese per vecchi si comportano spesso in modo scarsamente plausibile. Per non parlare di certe stranezze, la più macroscopica delle quali è l'uso del cellulare in un anno in cui la telefonia mobile non esisteva ancora. McCarthy descrive gli eventi fissando con precisione estrema dettagli incongrui. Il suo è un falso realismo che cozza volutamente contro una lunga serie di palesi anacronismi. Laddove Meridiano di sangue si poneva come una mitografia revisionista del genere western, Non è un paese per vecchi cerca di trasferire l'incerta dimensione temporale di quella epopea sul piano della contemporaneità o comunque di un passato molto recente. La premeditata sfasatura del romanzo è incarnata dallo sceriffo Bell, altro nome dai forti echi simbolici. Anche Bell è un veterano, ma di una guerra più antica del Vietnam, la seconda guerra mondiale, ed proprio per via di una colpa di cui si è macchiato in quel conflitto che ha deciso di fare lo sceriffo. Ma quantunque animato da nobili intenzioni, egli conclude ben poco. Non riesce a impedire che Moss e molti altri vengano brutalmente assassinati né a catturare il terribile Chigurgh. Per dirla tutta, non arresta nessuno e non cerca nemmeno di salvare dalla pena di morte un uomo che egli reputa innocente. Uno sceriffo di vedute ristrette L'incidenza di questo sceriffo sul corso degli eventi è nulla. In pratica non fa che assistere alla mattanza. È un puro spettatore, un testimone. Mentre il sangue scorre, tra un capitolo e l'altro, Bell offre saggi della sua visione del mondo attraverso brevi monologhi. Non è così in là con gli anni, è appena cinquantenne, ma parla come un vecchio fatto e finito, blaterando la ben nota solfa delle cose che non sono più quelle di una volta: «Stupri, incendi, assassini. Droga. Suicidi. Io ci penso a queste cose. Perché il più delle volte, quando dico che il mondo sta andando in malora, e alla svelta, la gente mi fa un mezzo sorriso e mi dice che sono io che sto invecchiando». Bell è uno sceriffo capace solo di lamentarsi e rimpiangere. In quanto rappresentante della legge, l'unico risultato che sembra in grado di raggiungere è dimostrare che l'ordine costituito dall'uomo nulla può contro il caos supremo della Natura e le violenze che ne derivano. Un momento illuminante è quando Bell dice la sua sull'aborto: «Mi sono ritrovato seduto vicino a una signora, la moglie di non so chi. E continuava a parlare della destra che aveva fatto questo e della destra che aveva fatto quest'altro. Non sono nemmeno sicuro di aver capito qual era il punto... Alla fine mi ha detto: Non mi piace la direzione in cui sta andando questo paese. Voglio che mia nipote sia libera di abortire. E io le ho risposto guardi signora, secondo me non si deve preoccupare della direzione in cui va il paese. Per come la vedo io, non c'è il minimo dubbio che sua nipote potrà abortire, ma sarà libera anche di mandare lei al Creatore. E in pratica il discorso è finito lì». Triste fatalismo seminato in un romanzo gelido Uno sceriffo di vedute alquanto ristrette, dunque. Un uomo che non ci penserebbe due volte a votare per Bush. Il classico repubblicano per cui la parola «progresso» è soltanto sinonimo di degenerazione. Dalle sue parole traspare però una strana e toccante forma di compassione per un'umanità condannata a scannarsi in base a una legge di natura. Il triste fatalismo di Bell è, alla resa dei conti, la nota più calda di un romanzo altrimenti gelido e senza speranza. E sebbene sia del tutto inadeguato per l'ingrato compito di riportare nel mondo un po' di ordine e giustizia, questo sceriffo è comunque uno spettatore con un'anima. Magari non salverà nessuno né capirà granché del mondo, ma guarderà le disgrazie della gente e ne soffrirà. Una magra consolazione, è vero. Del resto, i romanzi di Cormac McCarthy sono scritti essenzialmente per chi è disposto a sapere cosa significa avere paura della vita.
ilmanifesto.it

21.2.06

Tra le riforme anche l’onestà

di Carlo Bastasin

Evitare il declino dell’Italia è il tema dell’azione del prossimo governo. Piano piano anche i protagonisti di questa terribile campagna elettorale ne stanno prendendo atto. Cominciano a emergere proposte coraggiose di intervento come quella del centrosinistra sul costo del lavoro, assorbita poi anche dall’attuale coalizione di governo. I programmi, con dettaglio molto diverso, non trascurano più l’emergenza del declino competitivo e soprattutto del numero relativamente basso di individui che lavorano. Eppure, proprio mentre i politici aprono gli occhi sull'economia, gli economisti li aprono sulla politica, come se il vero problema dell’Italia fossero gli italiani!

Fino a pochi anni fa, si pensava che le differenze strutturali nel mercato del lavoro incidessero molto sulla distribuzione dei redditi, ma poco sull’efficienza di un’economia. Destra e sinistra potevano fingere che il proprio modello fosse quello più adatto al proprio elettorato, capitalisti o sindacalisti, senza che ciò cambiasse il tasso di crescita dell’economia. Ma l’emergere del modello danese, la cosiddetta flexicurity, ha modificato questa falsa convinzione. I danesi, diventati un riferimento esemplare per l’economia europea, hanno ottenuto uno straordinario successo abbattendo le protezioni al lavoro, rendendo cioè facile licenziare, ma accrescendo i sussidi per i disoccupati: facendo cioè il contrario di quanto avviene in Italia dove è difficile licenziare, ma non esiste un sistema di sostegno per chi perde il lavoro. Oggi tutti, salvo i disegnatori di vignette satiriche, vorrebbero essere danesi.

Un recente studio pubblicato da Algan e Cahuc per il Cepr, osserva però che il formidabile sistema danese può funzionare solo in Paesi in cui è forte lo spirito di fiducia civica, in cui cioè attribuire dei sussidi di disoccupazione non scatena imbrogli ai danni delle casse pubbliche da parte sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro. In Paesi, per esempio, con un’economia nera pari a oltre un terzo del pil e con regioni in cui la disoccupazione giovanile è un fenomeno generalizzato (in Paesi cioè a forma di stivale...) il sistema danese fallirebbe, il «nero» non si sbiondirebbe affatto. Quel che è peggio è che introdurre un buon sistema, come la flexicurity, non rende buoni gli individui, nemmeno col tempo. Al contrario li rende più esposti alle cattive tentazioni.

Quello che vale per le riforme del lavoro, vale per le politiche di spesa pubblica o per quelle di tassazione. Se non mi fido della moralità dei miei concittadini o di chi li governa, sono più tentato dall’evadere io stesso le tasse, sentendo debole il legame civico di solidarietà o anche solo dubitando del sostegno da parte degli altri, in particolare se pesa la retorica delle diversità regionali o etniche. Proprio comportamenti e preferenze tanto disomogenee nei Paesi europei, rendono difficile uniformare le politiche nell’Unione europea e quindi ne spiegano gli intoppi attuali, per esempio nella liberalizzazione dei servizi. Forse per disperazione, il filone «culturale» degli economisti sta così diventando corposo. Ottimi ricercatori - non a caso spesso italiani, come Tabellini, Guiso e altri - si interrogano sul peso delle tradizioni culturali e sui livelli storici di istruzione nell’esecuzione delle politiche economiche in un Paese. Ne emerge che la cultura è rilevante. Quindi la politica è decisiva e in particolare, allora, lo è l'esempio dei politici.

E qui veniamo a una campagna elettorale che all’inizio definivamo «terribile». A ben vedere, il fatto che sia ruotata attorno al caso Unipol o, adesso, attorno alle vicende della All Iberian, ha una sua coerenza in un sistema in cui il confine tra furbetti e istituzioni, tra Fiorani e Fazio, è permeabile. E’ anche la serietà e la onestà personale dei politici che deve essere accertata, prima di riuscire ad attuare riforme che per avere successo dovrebbero convivere con controlli di onestà «scandinavi» sui cittadini. Oppure ci si può rassegnare a un disonesto declino.

lastampa.it

17.2.06

Telepolitica il peccato capitale della democrazia

di GUSTAVO ZAGREBELSKY
Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.
In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?
Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.
Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.
Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.
L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).
Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.
La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.
L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.
La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.
L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.
Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?

La Repubblica (ripreso da eddyburg.it)