18.11.07

Esistenze informi tradotte in geometrie romanzesche

Quando è la scrittura stessa di un'opera letteraria a sollecitare l'indagine sulla biografia dell'autore, la critica sembra riattualizzare la lezione della antropologia settecentesca, che per la prima volta stabilì un nesso tra due domande antiche: «che cos'è l'uomo?» e «che uomo sono io?» Le strategie della finzione osservate dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista indagata dalla prospettiva che fornisce l'opera
Roberto Gilodi

Che cos'è l'uomo? Che uomo sono io? Sono le due domande centrali dell'antropologia del Settecento. Singolarmente prese non sono domande nuove, ma hanno segnato storicamente lo spartiacque che separa due concezioni radicalmente differenti: alla prima domanda si sono applicate la metafisica e le filosofie sistematiche; alla seconda hanno dato risposte - talora incerte, in altri casi prevedibili - un variegato insieme di scritture, mosse da un bisogno o di natura religiosa, di sincerarsi di se stessi in relazione a Dio, oppure di perpetuarsi nella memoria dei posteri, attraverso i codici retorici dell'esemplarità, collaudati da una lunga tradizione di matrice classica o anch'essa religiosa.
Un fatto è certo: le due domande hanno seguito fin dall'antichità percorsi diversi, le risposte che di volta in volta sono state date non si sono quasi mai incontrate, la vita del singolo uomo aveva rilevanza solo a condizione di funzionare da exemplum per dimostrare le tesi che riguardavano la definizione dell'uomo all'interno delle partiture generali dei sistemi filosofici.
Al centro i dati biografici
Il cammino intrapreso dall'antropologia filosofica del Settecento, che si qualificò come nuova disciplina dell'uomo in relazione oppositiva alle metafisiche tradizionali, stabilì per la prima volta una connessione significativa tra le due domande: solo se scopro esattamente che uomo sono io, posso forse azzardare una risposta alla prima domanda: che cos'è l'uomo? Il momento centrale di questo rovesciamento di prospettiva è quello che il filosofo tedesco Odo Marquardt, con un prestito husserliano, ha chiamato la «Zuwendung zur Lebenswelt», ossia l'esplorazione della vita concretamente vissuta, la vita quindi del singolo individuo. Come tale essa si confronta con «l'uomo nella sua totalità», vale a dire come un insieme dotato di «corpo e anima».
Quanto questa nuova gnoseologia della soggettività individuale abbia avuto effetti sulla scrittura letteraria della modernità, in particolar modo sulla letteratura dell'Ottocento e, contestualmente, sulla critica letteraria, lo dimostra un saggio dello studioso Wolfgang Matz, titolato 1857... Flaubert, Baudelaire, Stifter, recentemente uscito in Germania da Fischer Verlag. Provocatoriamente minimalista nel titolo - quasi da voce di enciclopedia - il saggio rivela un'ambizione che può apparire a tutta prima anacronistica: fornire della modernità letteraria l'immagine di un processo graduale, in cui l'autocoscienza del fare artistico è intrecciata strettamente con le trasformazioni, che un tempo si chiamavano «storico-oggettive». Enunciato così, il progetto del libro corre tuttavia il rischio di dare un'impressione di deja vu, di ripresa di schemi interpretativi che non hanno retto al disincanto storiografico, portato con sé dalla fine delle ideologie.
La vita si fa stile
La novità del libro di Matz sta invece nella tessitura di un discorso critico, che pone al centro il dato biografico-esistenziale, la vita dell'autore e la sua trama di relazioni sociali, ma le osserva dalla specola delle sue realizzazioni letterarie. Non interessa la vita in sé, né la storia in quanto tale ma la «trasformazione della vita in letteratura». Di qui la centralità della relazione tra autobiografia e scrittura, a condizione però di tenere fermo un principio, spesso trascurato, secondo il quale «autobiografico è il procedimento letterario stesso» e non i dati oggettivi di una vita.
Questo orientamento ricorda da vicino un'idea di critica genetica che, come diceva Peter Szondi, tende a vedere non l'opera nella storia ma la storia nell'opera. Storia dunque, e in primo luogo storia di una vita nella sua relazione conflittuale con il mondo, vita che si fa stile, trasformando l'informe materia esistenziale nella geometria di un accadere compiuto.
Nella prima parte del saggio, dedicata a Flaubert, Matz segue con paziente acribia filologica lo sforzo quasi disperato dell'autore dell'Educazione sentimentale di fissare i contorni di quella che già Friedrich Schlegel auspicava come una mitologia della modernità. Seguendo le tappe del suo epistolario - e Matz le ripercorre tutte, a cominciare da quelle infantili in cui l'«idiota della famiglia» comincia a rendersi conto del fatto che solo attraverso la scrittura letteraria potrà dare al suo disagio una fisionomia riconoscibile - osserviamo l'evolversi dagli iniziali «esercizi di stile di un invasato» fino alla scommessa titanica di dare forma alla banalità di un male di vivere non più traducibile nei linguaggi consueti della scrittura letteraria.
Scrivere, per Flaubert, è innanzitutto inventare se stesso come scrittore e le sue creazioni letterarie sono esperienze vissute non in quanto trovano un corrispettivo nella realtà ma in quanto è lo scrivere stesso la sua realtà.
Ricostruire la genesi delle opere attraverso le testimonianze epistolari, intrecciare confession e invenzione letteraria è dunque per Matz un modo, anzi il solo modo di fissare i contorni di una poetica. C'è un esempio di questo procedimento singolare di antropologia letteraria che merita di essere citato. Matz ricorda l'«entusiasmo» provato da Flaubert leggendo la Femme de trente ans di Balzac - «Riportare alla luce nuovi tesori ... in ciò che era stato gettato via come inutile, scoprire nell'universo dell'amore un nuovo continente... non è forse geniale e sublime?» - e osserva come ad entusiasmare Flaubert non sia stato il romanzo in sé, che notoriamente non era gran cosa, ma la capacità di Balzac di unire psicologia e fisiologia. «Se Balzac definisce la sua eroina esclusivamente mediante l'età... un'età, che secondo le convenzioni e la psicologia di quel tempo si trovava già abbondantemente al di là della passione erotica, per tacere di quella sessuale, ciò significa che egli ha offerto alla letteratura una figura tipica fino ad allora sconosciuta, più vera dell'immagine femminile tradizionale.»
Il nuovo universo letterario, che si disegna con Madame Bovary, dimostra come la lezione di Balzac abbia affinato in Flaubert la capacità di cogliere nella fisiologia dei sentimenti, nella 'malattia dell'anima', negli scarti sentimentali, nei margini inespressi dell'odiata borghesia le nuove figurazioni letterarie, di cui le Lettere a Colet, registreranno in presa diretta le tappe più significative. Quanto alla storia, alle rivoluzioni, in particolare quella del '48, l'atteggiamento di Flaubert - ci spiega Matz - non è quello dell'analista politico ma quello di un «fenomenologo della nuova società»: le sue scienze antropologiche sono anzitutto la fisiognomica e l'estetica, quest'ultima intesa nel suo senso originario quale sapere della percezione sensibile.
E così, quando finalmente è di scena Madame Bovary, conta davvero non ciò che accade o ciò che essa fa ma i gesti dell'inazione, come quello celebre della punta del coltello con cui Emma disegnava distrattamente delle righe sulla tovaglia incerata mentre Charles «était long a manger» (ci metteva troppo a mangiare). Questa scena, già magistralmente analizzata da Auerbach in Mimesis, esprime sì la noia, la malinconia, Auerbach dice la «disperazione» di Emma ma è resa possibile perché il romanzo - come dichiara il suo autore a Louise Colet - è «opera della critica anzi dell'anatomia». E aggiunge: «Il lettore non si accorgerà (come spero) di tutto il lavoro psicologico nascosto sotto la forma ma ne avvertirà gli effetti».
La fredda anatomia delle passioni è per Flaubert uno strumento della critica, in cui è implicita, secondo Matz un'attitudine kantiana: il romanzo moderno, se aspira a cogliere la verità, deve, al pari della ragione, conoscere i suoi limiti e le sue possibilità. Se non lo fa, rimane schiavo di un dogmatismo poetico che vanifica le sue intenzioni. La domanda intorno al proprio fare letteratura accompagna come un'ombra ogni gesto poetico di Flaubert e inaugura una svolta nella coscienza moderna del romanzo europeo.
La lezione di Madame Bovary è dunque questa (per chi vorrà raccoglierla): l'autoriflessione critica del narratore non può più affidarsi ingenuamente alle interpolazioni saggistiche (che Flaubert detestava); se vorrà davvero essere efficace dovrà farsi opera essa stessa, trasformarsi in scrittura. «In questo senso un abisso epocale - sostiene giustamente Matz - separa Balzac da Flaubert, la Femme de trente ans da Madame Bovary.»
«Il martire della poesia» è il titolo della parte dedicata a Baudelaire. Il fil rouge è ancora lo stesso: da un lato la bancarotta storica delle grandi illusioni rivoluzionarie e la noia come sentimento dominante di una borghesia che si appresta a conquistare il mondo, dall'altra il desiderio di dare voce agli umori del mondo contemporaneo in tutte le forme disponibili: saggio, critica, traduzione, teatro, arte, musica e naturalmente poesia.
«Baudelaire vive da poeta già prima di esserlo», dichiara Matz, e a suffragio della sua tesi dipana un reticolo di testimonianze autobiografiche descrittive di un apprendistato poetico che è insieme apprendistato alla negatività della vita. Sarah, la prostituta conosciuta nel settembre del 1839, a cui è dedicata una delle prime poesie de Les Fleurs du Mal, contiene quella miscela di elementi che sarà tipica della sua poesia successiva: «lo splendore del brutto, l'erotismo della perversione, il dettaglio esplicitamente realistico, il tentativo di trascenderne il significato figurale, la povertà, la libidine, la provocazione e il blasfemo, l'impulso a salvare il reietto.» Anche qui vita e arte sono intrecciate non per dare voce a un generico disagio ma per distillare un lessico poetico che sappia cogliere, come dice Baudelaire nel Salon del 1846, «il lato epico della vita odierna».
Prospettive moltiplicate
Con Stifter il «disagio della civiltà» assume i connotati utopici di un cammino di formazione etica, che si sottrae e si contrappone provocatoriamente alle costrizioni della razionalità strumentale della società borghese. «L'ideale della libertà è per lungo tempo distrutto» scrive l'autore in una lettera datata 6 marzo 1849. Anche in questo caso la traccia biografica e l'evoluzione letteraria si richiamano in un complesso gioco di dissimulazioni incrociate e alla fine di questo tormentato percorso si distende una sorta di pessimistica liquidazione, tanto degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza, progresso, quanto delle mitologie dello stato di natura. E la compiutezza etica di Heinrich, l'eroe protagonista, della Tarda estate), la Bildung a cui aspira con docile sottomissione ha una valenza palesemente antistoricistica. Forse era questo tratto del romanzo che Nietzsche amava e di cui dirà, nel secondo volume di Umano troppo umano, che è fra le poche opere tedesche in prosa che «meritano di essere lette e rilette».
«La letteratura non è fatta di carta, non è una piramide, non è un giacimento immenso di libri, non è una biblioteca di Babilonia circondata di mura. Biblioteca sì ma con finestre e molteplici entrate e uscite attraverso le quali transitano svariate persone». Le parole conclusive dell'imponente lavoro di Wolfgang Matz, che si legge a tratti come un romanzo di romanzi, sono emblematiche di un metodo di cui si è persa la memoria: la critica, quando è vera critica, non è mai solo esercizio anatomico ma moltiplicazione di prospettive e potenziamento creativo delle opere a cui si applica. Perciò è difficile dare un nome a questo tipo di indagine, che unisce l'ermeneutica dell'indizio all'antropologia della scrittura, che osserva le strategie della finzione dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista dalla prospettiva dell'opera, in un continuo movimento di entrata e uscita che non approda a certezze apodittiche ma assume equilibrio e contraddizione come essenza ultima del fare letteratura.
La lezione che se ne può trarre è che l'indagine biografica non solo non pregiudica l' intelligenza del testo ma ne è al contrario la condizione indispensabile quando a sollecitarla è la scrittura stessa.

15.11.07

La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami

Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d'agosto», un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parla Nakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi
Tommaso Pincio

Per troppo tempo il lettore italiano ha conosciuto uno dei più grandi romanzi del Ventesimo secolo in una traduzione che, seppure d'autore, non gli rende giustizia. Per errori, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luce d'agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confini dello scempio letterario. Finalmente, grazie alla cura di un fine conoscitore come Mario Materassi, questo capolavoro è stato ora restituito al suo originale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23). William Faulkner lo portò a compimento poco dopo essere diventato una celebrità. Fin dall'inizio della carriera si era guadagnato discrete e talvolta ottime recensioni, ma fu soltanto nell'autunno del 1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscitato davvero molta sensazione» scrisse alla moglie rimasta in Mississippi riferendosi al clamore per Santuario, uscito una decina di mesi prima. «Adesso sono la più importante figura letteraria in America. Mi aspetta un grande futuro».
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L'urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l'immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d'agosto rappresenta, almeno in parte, un'eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d'estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c'è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l'appunto dall'immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall'Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l'uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all'omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest'ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l'aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l'idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità - prima ancora del delitto di cui si macchia - a farne un paria. D'altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d'agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell'antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d'agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell'immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un'entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto. L'influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste - o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 - uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l'umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell'impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l'etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell'Ottocento, con l'apertura del paese all'Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all'apparenza l'identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d'America, nonché all'opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l'impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell'universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l'uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell'incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l'immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un'intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l'autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l'occupazione americana fu istituita l'istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all'Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l'appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un'opera tanto brutale ed esplicita all'intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.

3.11.07

Andirivieni di Hilary Putnam

I contributi del grande epistemologo americano alle concezioni della mente, in due prossimi incontri: sabato 3 novembre al Festival della scienza di Genova e martedì 6 all'Università Roma Tre, dove si svolgerà un convegno titolato «Il futuro della filosofia»
Francesco Ferretti

Ecco un problema semplice, almeno in apparenza. Prendete una tavola con due fori, uno quadrato col lato di due centimetri, e uno circolare col diametro di due centimetri. Ora prendete un piolo a base quadrata col lato di poco inferiore a due centimetri e provate a inserirlo nei fori. Entrerà in quello quadrato, ma non nel foro circolare. Perché? A sollevare il quesito è Hilary Putnam, filosofo di Harvard, senza dubbio il più grande epistemologo vivente, nei prossimi giorni in Italia per partecipare a due incontri: il Festival della scienza di Genova in cui terrà una lectio magistralis sabato 3 novembre (ore 18.00, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio) e il convegno internazionale organizzato il 6 novembre dall'Università Roma Tre con il titolo «Il futuro della filosofia» (ore 9.30, Rettorato dell'Università Roma Tre, Via Ostiense 159).
Il quesito posto da Putnam apre una questione decisiva rispetto al tema dei rapporti tra filosofia e scienza: la questione del riduzionismo - l'idea secondo cui le leggi delle scienze di «livello superiore» devono essere ridotte alle leggi delle scienze di «livello inferiore». Per un riduzionista i fatti sociali, ad esempio, devono essere analizzati in riferimento alla psicologia degli individui, quelli psichici in riferimento alla neuroscienza o alla biologia. La tesi di Putnam è che il riduzionismo non è adeguato sul piano esplicativo: per dar conto del perché il piolo entri soltanto nel foro quadrato, non è alla struttura atomica dei due oggetti che dobbiamo riferirci. Che il piolo e la tavola consistano di atomi organizzati in un certo modo fornisce senz'altro delle spiegazioni di alcuni fenomeni, ma non dà le informazioni richieste per rispondere alla domanda. Per risolvere il quesito, in effetti, l'informazione pertinente è quella che fa riferimento a proprietà (di macrolivello) quali la rigidità degli oggetti o la loro configurazione geometrica.
Passando a casi più concreti, l'idea di Putnam è che quando si affrontano questioni del tipo «le leggi della società capitalistica» o il concetto di «persona» l'analisi riduzionista conduce a esiti del tutto insoddisfacenti. Non è possibile descrivere le leggi del capitalismo deducendole dalle leggi della fisica o dallo studio del funzionamento del cervello umano. Ovviamente, gli esseri umani sono sistemi fisici: come tali, alcuni fenomeni che li riguardano possono essere descritti utilizzando le leggi della fisica. Da ciò, tuttavia, non deriva che tutti i fenomeni che li riguardano possano essere descritti in questo modo: le leggi del capitalismo si situano a un livello di descrizione che è autonomo da quello fornito dalla fisica, dalle neuroscienze o dalla biologia. Quando si trascura la possibilità di incontrare descrizioni della realtà che coinvolgono diversi livelli di analisi si incorre in quello che può essere considerato l'errore comune a tutte le forme di riduzionismo: trascurare i livelli alti di spiegazione, comportandosi di fatto come se questi non esistessero.
Ora, poiché lo stesso Putnam è stato in passato un fervente riduzionista, è ovvio che questa revisione di prospettiva (una delle tante che caratterizzano il suo percorso di ricerca) ha implicazioni anche in altri aspetti del suo sistema teorico: quella principale riguarda il ripudio del funzionalismo nella filosofia della mente.
Il funzionalismo - di cui Putnam è stato tra i padri fondatori - è l'idea secondo cui gli stati mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale: ovvero, per il tipo di relazioni che intrattengono con gli input ambientali, gli output comportamentali e i legami causali che connettono gli stati mentali tra loro. Dal fatto che gli stati mentali siano concepiti in questo modo dipende un'altra importante caratteristica del funzionalismo: l'idea secondo cui la mente è in larga parte indipendente dal sostrato fisico che la realizza.
La possibilità di ipotizzare menti artificiali si regge, ovviamente, su questa importante caratteristica del funzionalismo: se la mente dipendesse in modo esclusivo dalla «materia cerebrale», infatti, verrebbe meno ogni pretesa di costruire sistemi artificiali pensanti.
Per quanto, negli anni '60 del '900, Putnam sia diventato famoso sostenendo che la macchina di Turing era un buon modello per spiegare ciò che avviene nella mente, oggi egli considera questa ipotesi viziata da un forte riduzionismo. Dal suo punto di vista attuale, infatti, deve essere totalmente rivista la convinzione per cui ciò che di più rilevante riguarda la mente avviene all'interno della testa degli individui. La critica a questa concezione «internista» è stata sferrata da Putnam tramite il cosidetto esperimento mentale «della Terra Gemella»: oltre alla Terra in cui viviamo, esisterebbe nell'universo una Terra Gemella. Le due terre - sostiene l'esperimento - sono identiche sino alla struttura atomica degli individui e degli oggetti che la popolano; allo stesso modo sono identici anche gli eventi che vi accadono: in questo momento, ad esempio, mentre voi state leggendo questo articolo, anche il vostro gemello su Terra Gemella, sta leggendo lo stesso articolo, il che implica stati mentali e cerebrali identici ai vostri. Solo una proprietà rende diverse la Terra e la Terra Gemella: la struttura chimica dell'acqua. Pur avendo la stessa apparenza, lo stesso sapore e la stessa funzione del liquido con cui noi tutti ci dissetiamo, la struttura chimica dell'acqua gemella è XYZ, non H2O.
Questa piccola diversità ha una portata decisiva nello studio della natura del contenuto mentale e del significato. Quando i due gemelli proferiscono un enunciato del tipo: «c'è dell'acqua nel bicchiere di fronte a me» quello che accade è che pur trovandosi (per definizione) nello stesso stato cerebrale e nello stesso stato mentale, si riferiscono a due entità diverse: ciò che avviene all'interno della scatola cranica non è dunque sufficiente a determinare il riferimento delle espressioni linguistiche - il significato, in altri termini, non sta nella testa dei parlanti. È una critica che ha avuto profonde ripercussioni nella filosofia della mente più vicina alla scienza cognitiva. Jerry Fodor, ad esempio, ha cercato di far fronte alle critiche di Putnam distinguendo il contenuto nella testa degli individui (narrow content) da quello che tiene conto delle relazioni causali col mondo esterno (broad content). Andy Clark, per citare solo un altro caso, ha sostenuto che la mente si deve intendere come estesa fuori della scatola cranica a inglobare l'ambiente esterno, considerato come una «impalcatura» su cui il cervello fa leva per rendere più efficaci i suoi processi di elaborazione.
Entrambe le argomentazioni, insieme a altre analoghe, invitano dunque a considerare il ruolo del mondo esterno - quello sociale e quello fisico - nella vita mentale degli individui, e la scienza cognitiva deve tenerne conto se vuole definire correttamente alcuni degli assunti centrali che la caratterizzano, con il risultato di approdare a un nuovo proficuo ripensamento dei rapporti tra filosofia e scienza.
ilmanifesto.it 02 novembre 2007

1.11.07

Copiare è un'arte

Una band in crisi di ispirazione. Che trova il successo grazie a un'idea rubata. Nel nuovo romanzo di Lethem. In guerra con il copyright
intervista a Jonathan Lethem

di Enrico Pedemonte

Tutti gli artisti copiano, dice Jonathan Lethem che a febbraio ha scritto un lungo saggio sulla rivista 'Harper's', difendendo la libertà artistica di 'appropriarsi' delle idee degli altri. Lethem compie una lunga requisitoria contro quella che lui definisce "la tirannia del copyright". Per sostenere la sua tesi Lethem ammette che quasi ogni riga scritta nel corso della sua prolifica vita di scrittore è stata copiata da qualche parte, e poi modificata, reinterpretata, reimpastata.

Anche la band protagonista del suo ultimo romanzo ('Non mi ami ancora', in uscita in Italia per i tipi del Saggiatore) non esita a copiare pur di raggiungere il successo. Si tratta di un quartetto di musicisti squinternati che non riescono a trovare né l'ispirazione artistica, né un nome per la band. Mattew, il cantante, lavora allo zoo di Los Angeles, rapisce un canguro e lo nasconde nel bagno di casa. Bedwin, il chitarrista, guarda ossessivamente un vecchio video di Fritz Lang. Denise, la batterista, vende giochi erotici. E Lucinda, la bassista che non ha inibizioni né con l'alcol né con il sesso, passa ore a rispondere al telefono di uno sportello reclami - che in realtà è un'installazione artistica - dove chiunque può sfogarsi raccontando le proprie delusioni, dalle fregature al ristorante ai rancori esistenziali. La storia ha una svolta quando Lucinda si imbatte nella creatività di un 'reclamante' che nel corso di alcune telefonate sconce le offre lo spunto per la prima canzone di successo della band. A questo punto la trama si concentra intorno a un interrogativo: a chi appartengono le idee? Il 'reclamante' ha diritto di pretendere la sua parte di successo?

Lethem pensa di no. Nel corso del romanzo non si dilunga in noiose dissertazioni sul plagio, ma negli ultimi mesi l'argomento è al centro della sua attenzione. La sua è insieme una battaglia culturale e una sperimentazione editoriale. A novembre sul suo sito Internet ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui', dove mette decine di sue opere a disposizione di altri artisti. Chi vuole utilizzarle, modificandole a piacere, deve versare un dollaro e firmare un contratto in cui si impegna a lasciar usare lo stesso materiale a chiunque altro. A 43 anni, dopo il successo ottenuto con 'La fortezza della solitudine' (Tropea editore), Lethem non è solo considerato uno dei più dotati scrittori della sua generazione, ma anche un intellettuale e un saggista di prim'ordine. Lo scrittore divide la sua vita tra Brooklyn, dove è nato, e Blue Hill, nel Maine, dove lo abbiamo intervistato, durante una lunga conversazione più volte interrotta dalle urla del suo bimbo di due mesi e mezzo.

Lei sostiene che gli artisti creano imitando e copiando.
"Non posso immaginare un altro modo possibile. L'imitazione era normale anche nelle botteghe rinascimentali, dove gli artisti creavano capolavori grazie a un processo di assimilazione e di appropriazione del lavoro di altri. Un artista ha l'istinto di un bambino che impara a parlare: prende a modello tutto quello che sente intorno a lui e di tutto fa imitazioni, parodie, collage... L'individualità può essere costruita solo a partire dalla cacofonia di voci che risuonano intorno a noi".

Nabokov prese in prestito Lolita da Heinz von Lichberg, mentre Bob Dylan ha saccheggiato Shakespeare e Scott Fitzgerald. E lei?
"Io ho preso molto da Nabokov e Bob Dylan, e poi da Philip Dick e Jack Kirby e John Cassavetes e molti altri. In particolare ho imparato a scrivere romanzi studiando Graham Greene e Kafka, ma il mio lavoro è chiaramente influenzato dal dibattito sull'arte pop. Alcune di queste influenze sono ovvie leggendo i miei libri, altre sono visibili solo a me".

Qual è il confine tra appropriazione e plagio?
"Si tratta di valutazioni istintive. Quando uso un riferimento, un elemento riconoscibile di un'altra opera, mi domando subito se - inserito in un nuovo contesto - quell'elemento sia sufficientemente trasformato, inaspettato ed emozionante. Poi mi chiedo se sia necessario riconoscere il mio debito. Ogni artista spera che chiunque si appropri di un elemento della sua opera lo riconosca, e non sorvoli sull'appropriazione".

Lei se la prende con Walt Disney...
"Le storie di Disney sono tratte dalle opere dei fratelli Grimm, dalle 'Mille e una notte' e altro ancora. Ma nonostante siano abituati a trovare altrove l'ispirazione, quelli della Disney impediscono a chiunque di usare le loro creazioni e di trasformarle. Io penso che la possibilità di appropriarsi di un'opera d'arte dev'essere libera. Per questo non solo ho scritto il saggio su 'Harper's', ma ho cercato di introdurre alcuni gradi di libertà nell'utilizzare le mie opere".

Infatti lei ha reso diverse sue opere disponibili gratis su Internet. Una scelta etica o un modello di business?
"Non credo che la mia strategia possa diventare un modello per altri. È più un gioco e una provocazione. È una soluzione personale che non raccomando a nessun altro".

Ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui' sul sito mentre scriveva il suo ultimo romanzo. Qualche riferimento alla promiscuità sessuale della protagonista Lucinda?
"Direi di sì, anche se mentre scrivevo il romanzo non ne ero conscio. C'è una compenetrazione tra la promiscuità dei corpi e quella del lavoro artistico".

Nel romanzo c'è uno sportello telefonico per i reclami che in realtà è una installazione...
"Non ho mai avuto problemi a pensare che un artista possa dichiarare artistico qualcosa di inaspettato mettendoci una cornice intorno. Nell'era dell'arte concettuale molte cose che non sembravano arte potevano essere definite artistiche anche se non erano tali".

Da dove nasce l'idea?
"Negli anni Settanta a New York c'era un tale che si faceva chiamare Mister Apology e aveva una linea telefonica che chiunque poteva chiamare per scusarsi di qualunque cosa avesse fatto. Mister Apology colpì la mia immaginazione, mi sembrava che meritasse un racconto. Ne ho approfittato per esplorare il mondo della realtà virtuale, che in questo caso è la cultura telefonica. Amo descrivere come si comporta la gente quando si incontra in questi spazi virtuali".

Perché i protagonisti del suo romanzo non sono neanche capaci di dare un nome alla loro band?
"Sono affascinato dal potere dei nomi. Nella 'Fortezza della solitudine' ogni personaggio ha diversi nomi. Dylan è soprannominato 'Dillinger' e 'D-man', alla fine assume le sembianze di un super-eroe, 'L'uomo freccia', e firma 'Dos' i suoi graffiti. C'era un eccesso di nomi, perché ogni cosa aveva diversi significati. Al contrario le vite dei personaggi del nuovo libro sono per certi versi così stupide, libere e arbitrarie, che c'è la difficoltà a trovarne anche un solo nome. Questo per me rappresenta la qualità senza forma delle loro esistenze".

Nei suoi romanzi compaiono spesso i canguri. Un simbolo o un gioco?
"Sono strani, mi affascinano. Vent'anni fa, quando ho scritto di canguri per la prima volta in 'Gun, With Occasional Music', non pensavo che lo avrei fatto ancora. Poi è diventato un gioco".

Perché ha ambientato il romanzo a Los Angeles?
"Volevo rompere con l'abitudine di scrivere su Brooklyn. La California è l'altro posto dove ho vissuto per parte della mia vita. Ma in realtà ho scelto Los Angeles, che per molti versi è per me un luogo ignoto e misterioso, perché si tratta di una città che mi genera curiosità e confusione. Volevo esplorare la stranezza della città".

Lei descrive un mondo senza scopo, senza significato...
"Non userei questa parola. Il significato delle cose è un fatto individuale e soggettivo. Certo le vite che descrivo sono proiettate in un universo assurdo".

È un universo senza utopie, dove tutto sembra accadere per caso... È questa la sua filosofia?
"Non ho una filosofia. Credo di avere fede solo nelle strutture concettuali costruite dall'uomo: la famiglie, le subculture. Sono luoghi che offrono opportunità e salvezza al di fuori del vuoto dell'universo".

Ha avuto esperienze negative vendendo alcune delle sue storie a Hollywood.
"Non è stata un'esperienza soddisfacente nel senso che i film non sono ancora stati prodotti. Ma è stata molto positiva perché i soldi garantiti da questi contratti mi hanno permesso di scrivere liberamente per parecchio tempo. E questo è esattamente quello di cui uno scrittore ha bisogno: la libertà di scrivere. Hollywood mi ha aiutato regalandomi questo tempo".

Ora due registi stanno girando film tratti da racconti da lei offerti liberamente su Internet. Uno a Chicago, un altro in Germania.
"Sono curioso di vedere il risultato finale. Molti hanno la tendenza a non mettere in discussione il modo in cui tradizionalmente si accordano autori e registi. Ma in realtà non c'è alcuna norma etica che dica di fare in quel modo. In fondo, come dice lei, si tratta solo di 'modelli di business'. Perché allora non guardarsi intorno e non creare accordi di altro tipo?".
(L'Espresso 31 ottobre 2007)

L'esordio crudele di Sam Taylor

Un finale drammatico e imprevisto spezza l'idillio di quattro adolescenti, il cui esperimento di convivenza nella foresta dei Pirenei ricalca l'esempio del «Contratto» di Rousseau. Dalle parole dello stesso Taylor, gli indizi per risalire alla sua necessità di affogare nel sangue «La repubblica degli alberi», da poco uscito per Neri Pozza Bloom
Tommaso Pincio

Non è ancora un fenomeno di massa, tuttavia capita sempre più spesso di sentire di persone che emigrano lontano per la mera voglia di allontanarsi, tagliare i ponti con il mondo nel quale sono nate e vissute. Di gran lunga maggiore, ovviamente, è il numero di coloro che, pur non potendo passare a vie di fatto tanto radicali, vagheggiano comunque di mollare tutto. Auden diceva che «l'uomo ha bisogno di evadere, così come ha bisogno di cibo e sonno profondo». Lo diceva però in senso letterario, per spiegare quanto rinfrancante e indispensabile sia, per lo spirito, intrattenersi con storie immaginarie. Se però romanzi e film non bastano più la faccenda si complica. Decidere di vendere i propri beni e usare il ricavato per trasferirsi in qualche omologo della famosa «isola deserta» è il sintomo di una crisi. Significa che un ingrediente essenziale della società inizia a scarseggiare in misura preoccupante: il senso di vivere in una comunità.
Quando si giunge a un simile punto di rottura si dovrebbe allora smettere di parlare di fuga, per chiamare il problema con un termine più appropriato: rifiuto. Perché questo è il male insidioso che serpeggia da qualche tempo in Europa e che si manifesta in maniere varie e ambigue, a cominciare dalla cosiddetta antipolitica. Il rifiuto è diverso dall'evasione in quanto è più definitivo. Allo scontento e alla rabbia per lo stato di cose, il rifiuto somma una forte mancanza di fiducia, l'idea che la società sia a tal punto marcia da escludere la possibilità di un cambiamento in positivo. Storia vecchia, se vogliamo.
Due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau mosse critiche morali a una società che ai suoi occhi appariva come il regno della falsità e della corruzione, un avvilente concentrato di vanità e sopraffazione. Era tuttavia convinto che certi mali non fossero il prodotto diretto della natura umana, bensì il risultato della disuguaglianza economica.
Propose anche un modello di convivenza alternativo nel quale gli individui potessero riacquistare la fiducia. E proprio al famoso contratto sociale di Rousseau si ispira la fuga dalla civiltà narrata nell'incantato quanto inquietante romanzo d'esordio dell'inglese Sam Taylor, La repubblica degli alberi (Neri Pozza Bloom, traduzione di Chiara Brovelli, pp. 283, euro 16).
All'alba di un giorno di giugno, poco prima dell'inizio delle vacanze, quattro adolescenti lasciano le case dove vivono, montano in sella a una bicicletta e puntano verso la foresta, decisi a impiantare una loro piccola utopia in mezzo agli alberi. Il tutto si svolge nei Pirenei perché - esattamente come l'autore - i personaggi del libro sono espatriati in Francia. I quattro si accampano in una casa diroccata e cintano il territorio circostante proclamandone l'indipendenza. Alex e Louis vanno a caccia di cibo. Isobel, sorella di Alex, prepara il caffé e si prende cura della dimora. Michael, il più giovane del gruppo nonché voce narrante, si arrampica sugli alberi come una scimmia perché è ancora un ragazzino per il quale parole come succhiotto, puttana e hashish sono suoni dal significato misterioso e bizzarro. Micheal attraversa però anche quella fase della vita in cui la consapevolezza del proprio corpo si arricchisce di nuove sensazioni. Mostra a Isobel un lago che ha appena scoperto e lei lo ricambia con un bacio. Massaggia innocentemente per ore la morbida pelle di Isobel e riceve in cambio altri favori. In breve, questa estate tra i boschi diventa sempre più calda per via della tensione sessuale. Contemporaneamente i ragazzi cominciano a giocare alla Rivoluzione francese, costruiscono una ghigliottina di fortuna con la quale giustiziano papere innocenti. Com'è facile immaginare, sarà proprio il sesso a trasformare la finzione in tremenda realtà. A rompere il fragile equilibrio della repubblica tra i boschi sarà l'irruzione nel gruppo di un quinto elemento, una ragazza che a dispetto del suo nome, Joy, porterà gelosia e sete di vendetta facendo annegare l'utopia in un bagno di sangue. Il tutto ricorda naturalmente Il signore delle mosche di William Golding ma regala comunque pagine di rinfrescante bellezza. Qualche problema si presenta nel momento fatidico della catarsi che, seppure in parte prevedibile, coglie il lettore un po' impreparato per il modo brusco e sfilacciato nel quale si dispiega, rischiando di togliere credibilità a una storia che finora aveva galleggiato mirabilmente in un limbo da favola.
A tale proposito, viene in soccorso lo stesso autore. In un lungo articolo comparso su un quotidiano inglese, Sam Taylor ha ripercorso in lungo e in largo la travagliata genesi del romanzo, rivelando di avere sempre vissuto con la testa tra le nuvole e che il suo sogno di ragazzo era quello di trasferirsi in un paese straniero e scrivere un romanzo. A venticinque anni si ritrovò invece padre di famiglia rassegnandosi a una grigia esistenza da pendolare. Finché un giorno il cartello di un'agenzia immobiliare gli offrì su un piatto d'argento la soluzione per mollare il lavoro e una città che gli piacevano sempre meno: poteva vendere la casa nello squallido sobborgo in cui era relegato e trasferirsi con la famiglia in una remota zona rurale della Francia meridionale, nei pressi dei Pirenei. Lì i suoi avrebbero tirato avanti arrangiandosi, mentre lui si sarebbe dedicato al sogno di sempre. La stesura del romanzo non fu un letto di rose. Nei momenti più difficili gli veniva però in soccorso l'impossibilità di tornare indietro.
Lunga e tormentata fu anche la strada per trovare un editore. Ma per venire al terrificante finale che si abbatte quasi senza ragione sull'atmosfera idillica del libro, Taylor lo spiega così: in un bel giorno d'estate il più piccolo dei suoi figli rischiò di annegare in una piscina. «Quella terrificante immagine della testa che spunta come un'isola di capelli biondi nel blu placido dell'acqua è marchiata a fuoco nella mia mente» - racconta. «È come un monito continuo, un simbolo...l'orrore che si nasconde dietro ogni attimo di felicità e lo intensifica».

ilmanifesto.it del 31 ottobre 2007