30.3.05

All'ombra della Sirenetta

In occasione del secondo centenario della nascita di Hans Christian Andersen, che ricorrerà il 2 aprile, escono per Iperborea e Fazi «Peer il fortunato» e «Il violinista», due romanzi per adulti in cui lo scrittore danese adombra - così come in molte delle celeberrime fiabe - la propria vicenda umana, dall'infanzia di povertà e sofferenza, all'omosessualità negata, alla celebrità tenacemente perseguita

FRANCESCA LAZZARATO

Qualche mese fa, sul quotidiano francese Libération, Edouard Launet ha scritto che ogni nuovo anno ci propone un lotto sempre più imponente di defunti illustri da commemorare, che i media e gli editori «fanno saltar fuori dal sepolcro come misirizzi». E certo non si può dire che il 2005 sia avaro di anniversari: da Sartre a Nizan, da Koestler a Verne, da Einstein a Mazzini, da Louise Michel a Malcom X, un'armata di spettri marcia sulle nostre librerie, quasi a volerle trasformare, sia pure per un istante, da supermercati in mausolei. Sappiamo già che soccomberanno, perché a evocarli è più l'effimera «attualità» garantita da un anniversario spesso trasformato in business, che le pur sostanziose ragioni della memoria. E tuttavia che occasione, per l'avido lettore «forte», di rifornire la propria biblioteca con traduzioni recenti di testi divenuti rari o con inediti preziosi, cui la celebrazione in corso consente di riaffiorare dal passato! È il caso, per esempio, del bicentenario della nascita di Hans Christian Andersen, che offre la possibilità di avvicinarsi ad alcuni suoi libri per adulti quasi sconosciuti ai lettori italiani, tradotti per la prima volta come Peer il fortunato (pp. 128, euro 9,50), proposto da Iperborea nell'eccellente versione di José Maria Ferrer e corredato da una nota di Bruno Berni, il massimo esperto italiano di Andersern, oppure rimessi a nuovo dopo un lungo sonno, come nel caso di Il violinista (pp. 362, euro 16,50), la cui prima, parziale e quasi illeggibile traduzione italiana edita da Treves risale al 1879, e che è stato riportato alla luce e attentamente curato da Lucio Angelini per Fazi. Entrambi fanno parte del cospicuo numero di opere anderseniane (romanzi, libri di viaggi, poesie, testi teatrali, un'autobiografia) che esulano dal corpus delle famosissime eppure mal conosciute Fiabe, capolavoro erroneamente esiliato nella stanza dei bambini e maltrattato da infiniti adattamenti. Ed entrambi sono densi - così come il precedente romanzo L'improvvisatore (1835) - di riferimenti alle vicende dell'autore. Se infatti L'improvvisatore (primo successo di Andersen, più volte edito in Italia nel corso degli ultimi sessant'anni in traduzioni diverse proposte da Vallecchi, Bompiani e Guida) racconta l'ascesa del poeta Antonio, giovane povero e ambizioso che vive in un'Italia romantica e inventata, anche Il violinista e Peer il fortunato hanno un protagonista di umili origini che ha avuto in sorte un talento senza eguali ma deve lottare contro il destino avverso. Chi conosce la vicenda biografica di Andersen può facilmente rendersi conto di quante affinità vi siano fra questi personaggi e il loro creatore. Nato a Odense il 2 aprile del 1805, lo scrittore ebbe infatti un'infanzia segnata non solo dalla più desolata miseria (suo padre era un ciabattino sognatore che percorse l'Europa con le truppe di Napoleone e tornò a casa solo per morire precocemente, sua madre una lavandaia alcolizzata) ma anche dalla certezza di essere un genio al quale il mondo avrebbe prima o poi dovuto inchinarsi. Fu questa certezza che lo spinse, quattordicenne, a raggiungere Copenaghen: un ragazzo altissimo, goffo, ingenuo e invadente all'inverosimile, che nonostante i limiti fisici e l'assoluta ignoranza vuole a tutti i costi la celebrità, pensa e pretende di poter fare il ballerino, il cantante, l'autore di teatro, e solo nel 1822 trova in Jonas Collin, direttore del Teatro reale, un protettore abbastanza lungimirante da mandarlo ad «affinarsi» nel collegio del rettore Meisling, dove però, narrano i biografi, rimase traumatizzato dalla durezza dell'insegnante e dalle avances della padrona di casa e di una domestica.

Nessuno avrebbe mai detto che quell'incolto provinciale, considerato una macchietta della vita culturale danese, avrebbe raggiunto la gloria grazie alle Fiabe, forma letteraria nella quale raggiunse la perfezione, maturando uno stile inimitabile e introducendo l'uso della lingua parlata (cosa che fece scandalo nei circoli dell'accademia, ma che conferisce ai suoi scritti un fascino «impressionista», come nota Knud Ferlov). Come il brutto anatroccolo, eroe di una delle sue fiabe più famose e parente stretto dei protagonisti dei suoi romanzi, anche Andersen diventò un cigno amato dal pubblico, riverito dai potenti, consacrato da una fama che lo vide tornare da trionfatore nella città dove aveva trascorso un'infanzia miserabile. Quando morì, il suo mito era ormai solidissimo: un mito che lui per primo aveva contribuito a costruire, elaborando la propria storia personale sino a trasformarla, per gli altri come per sé, in un'autentica fiaba (non per nulla la sua autobiografia, pubblicata nel 1855 e tradotta in italiano da Mario Carpitella per le Edizioni Paoline nel 1959, è intitolata La favola della mia vita).

Anche Il violinista e Peer il fortunato sono mattoni della costruzione di questo mito e, se rispetto alle Fiabe appaiono opere minori e largamente imperfette, rivestono comunque un grande interesse per il lettore adulto di Andersen. Tra i due, Il violinista (1837) è senz'altro il più goffo dal punto di vista dello stile e della costruzione della trama, inquinata da tutte le convenzioni di un tardivo romanticismo, ma è anche il più denso di suggestioni sulla doppia natura dell'autore, che per tutta la vita si impegnò in una colossale idealizzazione di sé stesso, deciso com'era ad assimilarsi alla società aristocratica e borghese della quale sognava l'omaggio. Impossibile negare, per esempio, che i due personaggi principali (Christian, provvisto di uno straordinario genio musicale, ma destinato a morire povero e oscuro, e la sua amica d'infanzia Noemi, figlia naturale di una ragazza ebrea e di un avventuriero) siano entrambi fatti di una sostanza autobiografica che apparve chiara a Kierkegaard, feroce stroncatore del romanzo al quale dedicò la sua opera prima, ovvero Dalle carte di uno ancora in vita, edite contro il suo volere da Soren Kierkegaard (edizione italiana a cura di Dario Borso, Morcelliana 1999). Irritato dall'equazione tra genio e patimento, Kiekegaard scriveva che non c'era distinzione tra Andersen e Christian, e che l'autore faceva di sé e delle proprie sofferenze un oggetto di poesia sul quale piagnucolare, per soddisfare una robusta vanità. Non si sbagliava se non nell'individuare il «doppio» di Andersen solo nel lagnoso protagonista maschile, mentre è forse la protagonista femminile a risultare rivelatrice. Ha infatti ragione il germanista Hans Mayer quando, nel suo saggio I diversi (Garzanti 1977), afferma che «Andersen ha accumulato in lei i fenotipi della diversità sociale, senza troppo riguardo per la verosimiglianza. Che egli si identifichi eroticamente con Noemi, un lettore attuale lo riconoscerà facilmente». Travestita da uomo, in fuga con lo zingaro che ama e infine sposa infelice di un ricco marchese, Noemi è l'incarnazione femminile di Andersen, omosessuale negato che per tutta la vita celò le proprie inclinazioni dietro presunti amori per donne irraggiungibili, lasciando tuttavia filtrare nella propria opera una serie di elementi la cui lettura appare inequivocabile.

Con ben differente esito letterario, sarà ne La Sirenetta che Andersen racconterà in forma di fiaba ciò che tenacemente nascondeva agli occhi del mondo: il suo amore per gli uomini e in particolare quello infelice per Edvar Collin, figlio del suo benefattore (la stesura della fiaba coincide con il matrimonio di Edvar, che per lo scrittore fu un duro colpo), del quale scriveva: «Era l'antagonista della mia natura quasi di fanciulla». Se nelle sue opere parla apertamente di se stesso come di un outsider che alla fine trionfa, Andersen trova quindi il modo di confessare metaforicamente l'inconfessabile, alludendo al segreto che temeva gli venisse prima o poi rinfacciato come nella fiaba I vestiti nuovi dell'Imperatore, letta in genere come una satira del potere (anche se nella realtà lo scrittore fu indifferente ai tumultuosi eventi sociali e politici del suo tempo), ma nata più probabilmente dalla paranoia di chi identifica la verità con la perdita improvvisa di quanto ha conquistato.

Mayer ipotizza che dietro i ventinove viaggi all'estero di Andersen ci fosse proprio la difficoltà di sostenere la completa cancellazione dell'identità sessuale imposta dalla finzione quotidiana: come Platen, Thorwaldsen, Winckelmann e molti altri, anche lui si sarebbe concesso di vivere, altrove e con misurata prudenza, un'altra vita. Ma le biografie dello scrittore accennano appena a questo aspetto (del quale lo scorso novembre si è parlato durante il festival bolognese Gender Bender), quasi a confermare un altro successo di Andersen in quanto autore di una solidissima reinvenzione di se stesso. Presentatosi ne Il violinista come genio cui la sventura impedisce di essere riconosciuto, in Peer il fortunato(1870) Andersen disegna una vicenda speculare a quella di Christian, perché Peer, nonostante provenga da una famiglia poverissima e debba affrontare mille difficoltà, diverrà un famoso cantante e morirà in scena nell'attimo del successo supremo, sommerso dai fiori e dagli applausi e forse amato da una baronessina sedicenne. La trama ripercorre la vita di Andersen, senza celarne le asprezze ma levigandole accuratamente (i dolorosi anni del liceo presso il rettore Meisling, per esempio, diventano una pausa quasi idilliaca, mentre Madame Meisling assume le sembianze di una madre affettuosa) e intrecciando la storia di Peer a quella di Felix, il bambino ricco in cui non è difficile riconoscere l'amatissimo Edvar Collin, colui che dalla vita ha avuto tutto per diritto di nascita. È come se, cinque anni prima della morte, ormai anziano e onorato in tutto il mondo, Andersen sentisse il bisogno di cristallizzare la propria vicenda in un exemplum luminoso, depurato dalle angosce e dall'autocommiserazione (ma anche dalla forza del desiderio che traspare dal personaggio di Noemi) presenti nel romanzo scritto in gioventù, e che tanto irritarono Kierkegaard. Anche stavolta è la morte a concludere il romanzo, ma si tratta di una fine sublime, unico suggello possibile a un destino eccezionale.

Stilisticamente più maturo di Il violinista, Peer il fortunato è una lettura ancora oggi piacevole, che rimanda alla splendida scrittura delle Fiabe, ma anche al loro contenuto. Quanti le conoscono, vi ritroveranno infatti numerosi frammenti di narrazioni amate, da La Campana a Il brutto anatroccolo, così come ne Il violinista riaffiorano motivi comuni a La regina delle nevi, Cuore affranto, e a molte altre fiabe. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che proprio nelle centocinquantasei fiabe e storie oggi riunite nella edizione critica in sette volumi a cura di Dal, Nielsen e Hovmann (1963-1990) e indirizzate ai grandi come ai bambini - ma certo più ai primi che ai secondi -, Andersen riuscì a trasformare in grande letteratura la sua infanzia dolorosa, il suo coraggio, i suoi difetti, perfino la sua oggettiva sgradevolezza che spinse Dickens, suo buon conoscente e ospite, a ritrarlo nelle vesti poco lusinghiere di Uriah Heep, uno dei «cattivi» di David Copperfield. Perché è attraverso la fiaba che ancora oggi Andersen ci parla, raccontando a un pubblico mai stanco la storia di un bambino che testardamente riuscì a fare dei suoi sogni una realtà accettata dal mondo intero.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/29-Marzo-2005/art82.html

SCHEDA
Fiabe catartiche senza un lieto fine

Le principali edizioni delle Fiabe di Andersen in italiano sono due: quella curata da Ada Manghi e Marcella Rinaldi per Einaudi nel 1954 (magnifica la traduzione), che comprende centosette racconti ed è tuttora in commercio nella collana I Millenni, e quella a cura di Bruno Berni, uscita nel 2001 per Donzelli, l'unica che comprenda l'intero corpus dei racconti, delle novelle e delle fiabe di Andersen in versione integrale. I volumi sono rispettivamente illustrati da disegni di bambini di tutto il mondo, e dalle incisioni ottocentesche di Vilhelm Pedersen e Lorenz Frolich. Da Bruno Berni sono tradotte anche le dieci fiabe proposte in L'ombra e altri racconti, a cura di Hamelin, (pp.128, euro 15) che l'editore Orecchio Acerbo manda a giorni in libreria, illustrate con le bellissime tavole a due colori di famosi illustratori e fumettisti italiani e stranieri, come David B., Blutch, Anke Feuchtenberger, Francesca Ghermandi, Markus Huber, Franco Matticchio, Lorenzo Mattotti, Fabian Negrin, Javier Olivares, Stefano Ricci. Le tavole, che verranno esposte in Sala Borsa a Bologna a partire dal 13 aprile, offrono una lettura modernissima dell'opera di Andersen, sottolineandone i tratti più inquietanti (non a caso è L'ombra, racconto tenebroso acutamente analizzato da Ursula K. Le Guin nel breve saggio del 1974 The Child and The Shadow, a dare il titolo alla raccolta) e mettendone in evidenza i temi fondamentali, da quello della diversità al contrasto tra povertà e miseria, dal richiamo alla fiaba folklorica all'umorismo, dal vivace ritratto del mondo popolare all'ammirata soggezione per quello aristocratico, dalla memoria dell'infanzia all'attenzione per oggetti e animali. Buona parte delle fiabe scelte (come, del resto, molte di quelle scritte da Andersen) ignorano il lieto fine: l'usignolo muore per salvare il suo signore, i piedi danzanti che calzano le scarpette rosse vengono mozzati dalla scure del boia, la sirenetta si scioglie in schiuma per un amore infelice... Ogni morte, ogni apparente sconfitta, è però l'espressione di una catarsi liberatoria, o addirittura, come nel caso della Sirenetta, di un malinconico trionfo. Come Peer il fortunato, anche gli eroi di certe fiabe anderseniane non possono trovare che nella morte la loro apoteosi .

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/29-Marzo-2005/art81.html

INFINE UNA FIABA

I vestiti nuovi dell'imperatore

Molti anni fa viveva un imperatore che amava tanto avere sempre bellissimi vestiti nuovi da usare tutti i suoi soldi per vestirsi elegantemente. Non si curava dei suoi soldati né di andare a teatro o di passeggiare nel bosco, se non per sfoggiare i vestiti nuovi. Possedeva un vestito per ogni ora del giorno e come di solito si dice che un re è al consiglio, così di lui si diceva sempre: «È nello spogliatoio!». Nella grande città in cui abitava ci si divertiva molto; ogni giorno giungevano molti stranieri e una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all'altezza della loro carica e a quelli molto stupidi. “Sono proprio dei bei vestiti!” pensò l'imperatore. “Con questi potrei scoprire chi nel mio regno non è all'altezza dell'incarico che ha, e riconoscere gli stupidi dagli intelligenti. Sì, questa stoffa dev'essere immediatamente tessuta per me!” e diede ai due truffatori molti soldi, affinché potessero cominciare a lavorare.
Questi montarono due telai e fecero finta di lavorare, ma non avevano proprio nulla sul telaio. Senza scrupoli chiesero la seta più bella e l'oro più prezioso, ne riempirono le borse e lavorarono con i telai vuoti fino a notte tarda. “Mi piacerebbe sapere come proseguono i lavori per la stoffa” pensò l'imperatore, ma in verità si sentiva un po' agitato al pensiero che gli stupidi o chi non era adatto al suo incarico non potessero vedere la stoffa. Naturalmente non temeva per se stesso; tuttavia preferì mandare prima un altro a vedere come le cose proseguivano. Tutti in città sapevano che straordinario potere avesse quella stoffa e tutti erano ansiosi di scoprire quanto stupido o incompetente fosse il loro vicino. “Manderò il mio vecchio bravo ministro dai tessitori” pensò l'imperatore “lui potrà certo vedere meglio degli altri come sta venendo la stoffa, dato che ha buon senso e non c'è nessuno migliore di lui nel fare il suo lavoro.” Il vecchio ministro entrò nel salone dove i due truffatori stavano lavorando con i due telai vuoti. “Dio mi protegga!” pensò, e spalancò gli occhi “non riesco a vedere niente!” Ma non lo disse. Entrambi i truffatori lo pregarono di avvicinarsi di più e chiesero se i colori e il disegno non erano belli. Intanto indicavano i telai vuoti e il povero ministro continuò a sgranare gli occhi, ma non poté dir nulla, perché non c'era nulla. “Signore!” pensò “forse sono stupido? Non l'ho mai pensato ma non si sa mai. Forse non sono adatto al mio incarico? Non posso raccontare che non riesco a vedere la stoffa!” «Ebbene, lei non dice nulla!» esclamò uno dei tessitori. «È splendida! Bellissima!» disse il vecchio ministro guardando attraverso gli occhiali.
«Che disegni e che colori! Sì, sì, dirò all'imperatore che mi piacciono moltissimo!» «Ne siamo molto felici!» dissero i due tessitori, e cominciarono a nominare i vari colori e lo splendido disegno. Il vecchio ministro ascoltò attentamente per poter dire lo stesso una volta tornato dall'imperatore, e così infatti fece. Gli imbroglioni richiesero altri soldi, seta e oro, necessari per tessere. Ma si misero tutto in tasca; sul telaio non giunse mai nulla, e loro continuarono a tessere sui telai vuoti. L'imperatore inviò poco dopo un altro onesto funzionario per vedere come proseguivano i lavori, e quanto mancava prima che il tessuto fosse pronto. A lui successe quello che era capitato al ministro; guardò con attenzione, ma non c'era nulla da vedere se non i telai vuoti, e difatti non vide nulla. «Non è una bella stoffa?» chiesero i due truffatori, spiegando e mostrando il bel disegno che non c'era affatto. “Stupido non sono” pensò il funzionario “è dunque la carica che ho che non è adatta a me? Mi sembra strano! Comunque nessuno deve accorgersene!” e così lodò la stoffa che non vedeva e li rassicurò sulla gioia che i colori e il magnifico disegno gli procuravano. «Sì, è proprio magnifica» riferì poi all'imperatore. Tutti in città parlavano di quella magnifica stoffa. L'imperatore volle vederla personalmente mentre ancora era sul telaio. Con un gruppo di uomini scelti, tra cui anche i due funzionari che già erano stati a vederla, si recò dai furbi truffatori che stavano tessendo con grande impegno, ma senza filo. «Non è magnifique?» esclamarono i due bravi funzionari. «Sua Maestà guardi che disegno, che colori!» e indicarono il telaio vuoto, pensando che gli altri potessero vedere la stoffa. “Come sarebbe!” pensò l'imperatore. “Io non vedo nulla! È terribile! sono forse stupido? o non sono degno di essere imperatore? È la cosa più terribile che mi possa capitare”. «Oh, è bellissima!» esclamò «ha la mia piena approvazione!» e ammirava, osservandolo soddisfatto, il telaio vuoto; non voleva dire che non ci vedeva niente. Tutto il suo seguito guardò con attenzione, e non scoprì nulla di più; tutti dissero ugualmente all'imperatore: «È bellissima» e gli consigliarono di farsi un vestito con quella nuova meravigliosa stoffa e di indossarlo per la prima volta al corteo che doveva avvenire tra breve. «È magnifique, bellissima, excellente» esclamarono l'uno con l'altro, e si rallegrarono molto delle loro parole. L'imperatore consegnò ai truffatori la Croce di Cavaliere da appendere all'occhiello, e il titolo di Nobili Tessitori. Tutta la notte che precedette il corteo i truffatori restarono alzati con sedici candele accese. Così la gente poteva vedere che avevano da fare per preparare il nuovo vestito dell'imperatore. Finsero di togliere la stoffa dal telaio, tagliarono l'aria con grosse forbici e cucirono con ago senza filo, infine annunciarono: «Ora il vestito è pronto». Giunse l'imperatore in persona con i suoi illustri cavalieri, e i due imbroglioni sollevarono un braccio come se tenessero qualcosa e dissero: «Questi sono i calzoni; e poi la giacca – e infine il mantello!» e così via. «La stoffa è leggera come una tela di ragno! si potrebbe quasi credere di non aver niente addosso, ma e proprio questo il suo pregio!». «Sì» confermarono tutti i cavalieri, anche se non potevano vedere nulla, dato che non c'era nulla.
«Vuole Sua Maestà Imperiale degnarsi ora di spogliarsi?» dissero i truffatori «così le metteremo i nuovi abiti proprio qui davanti allo specchio.» L'imperatore si svestì e i truffatori finsero di porgergli le varie parti del nuovo vestito, che stavano terminando di cucire; lo presero per la vita come se gli dovessero legare qualcosa ben stretto, era lo strascico, e l'imperatore si rigirava davanti allo specchio. «Come le sta bene! come le dona!» dissero tutti. «Che disegno! che colori! È un abito preziosissimo!» «Qui fuori sono arrivati i portatori del baldacchino che dovrà essere tenuto sopra Sua Maestà durante il corteo!» annunciò il Gran Maestro del Cerimoniale. «Sì, anch'io sono pronto» rispose l'imperatore. «Mi sta proprio bene, vero?» E si rigirò ancora una volta davanti allo specchio, come se contemplasse la sua tenuta. I ciambellani che dovevano reggere lo strascico finsero di afferrarlo da terra e si avviarono tenendo l'aria, dato che non potevano far capire che non vedevano niente. E così l'imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: «Che meraviglia i nuovi vestiti dell'imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!». Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all'altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti dell'imperatore aveva mai avuto una tale successo. «Ma non ha niente addosso!» disse un bambino. «Signore sentite la voce dell'innocenza!» replicò il padre, e ognuno sussurrava all'altro quel che il bambino aveva detto.
«Non ha niente addosso! C'è un bambino che dice che non ha niente addosso!» «Non ha proprio niente addosso!» gridava alla fine tutta la gente. E l'imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: “Ormai devo restare fino alla fine”. E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c'era.

Hans Christian Andersen

29.3.05

Il robot è incinto

RICERCHE / IL PROGETTO LIFE LIKE

Automi viventi. Con Dna artificiale. In grado di evolversi, interagire tra loro e riprodursi... Ecco chi li progetta e come: colloquio con Dario Floreano

di Francesca Tarissi

Dario Floreano, professore quarantenne dell'Autonomous System Lab dell'Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna, è uno dei pochi ricercatori al mondo a occuparsi di Robotica evolutiva, un settore di studi che, per i non addetti ai lavori, può sembrare quasi fantascientifico: automi che si evolvono da soli, che interagiscono tra loro, che imparano dall'esperienza. Insomma, qualcosa di più di 'normali' robot. Originario di San Daniele del Friuli, Floreano vive da anni in Svizzera dove, insieme alla sua équipe di collaboratori, sta lavorando a un progetto molto ambizioso: creare una nuova specie di macchine 'viventi' attarversando il confine sempre più tenue tra robotica e biologia. 'L'espresso' l'ha incontrato per farsi spiegare in cosa consistano le sue ricerche.

Professor Floreano, qual è lo scopo della robotica evolutiva?

"Si tratta di una scienza che mette insieme gli sforzi di ingegneri, biologici e cognitivisti al fine di creare forme di vita artificiali intelligenti, in grado di svilupparsi e adattarsi autonomamente all'ambiente in cui si trovano. Mi spiego: quando si parla di sistemi biologici, ci si riferisce a sistemi che, cambiando nel tempo, diventano sempre più abili nell'interagire con il mondo esterno. Per ottenere dei robot di questo tipo esistono solo due modi: ispirarsi alla biologia, copiando fedelmente i sistemi degli esseri viventi, come gli animali per esempio, oppure lasciare che i robot si evolvano e si organizzino da soli, esattamente come è accaduto dalla notte dei tempi per qualunque altra forma di vita sulla Terra".

E come funziona in pratica la Robotica evolutiva?

"Immaginiamo di avere un robot grande come una zolletta di zucchero. Gli si installa un Dna artificiale e un sistema di controllo neurale anch'esso artificiale. Dopodichè si collegano alcuni dei neuroni a dei sensori, e poi questi all'energia. Il robot comincerà a muoversi e a reagire alle informazioni che riceve dai suoi sensori. Ora, se lo si lascia solo, poniamo in una stanza, i neuroni e il suo Dna artificiali, grazie anche ai sensori, cominceranno a evolversi. Così, dopo qualche giorno, tornando nella stanza a controllare, si noterà che il piccolo automa ha appreso a spostarsi, andare alla ricerca di una fonte di energia elettrica, ricaricarsi e fare tutta una serie di cose che gli permettono di restare, per così dire, in vita".

Dna artificiale, reti neurali: che cosa sono?

"ll Dna artificiale non è niente di cui avere paura. In sostanza è il codice che racchiude la descrizione dell'organismo robotico, esattamente come il nostro Dna racchiude una descrizione delle caratteristiche del nostro corpo. Può essere di due tipi: software e hardware. Il primo consiste in una lunga catena di '0' e di '1', ossia il classico sistema binario. Il Dna hardware, invece, consiste in spazi di memoria su un chip con dei transistor, che possono avere uno stato on-off . A seconda che siano on oppure off, i transistor corrispondono a dei geni attivi o inattivi. Nel caso i geni siano attivi, danno luogo a determinate reazioni sul circuito elettronico e quindi a delle funzionalità del robot".

Quanto conta ai fini dell'evoluzione del comportamento del singolo automa l'interazione con un gruppo di robot suoi simili?

"Direi che è fondamentale. L'evoluzione infatti funziona solo se hai una popolazione di robot, ciascuno dotato di un Dna differente. Questo perché in un gruppo solo i migliori si evolvono e sopravvivono. Ma mentre in natura semplicemente accade che alcuni esseri muoiono mentre altri si riproducono, in un sistema artificiale è l'ingegnere che detta il criterio di sopravvivenza e poi decide quali sono i Dna che meritano di essere riprodotti, quindi immessi in altre macchine, e quali invece cancellati e sostituiti. I Dna migliori, infatti, sono quelli che si adeguano. Di solito io cerco d'imporre dei criteri molto vari: i robot che per esempio urtano meno gli ostacoli, a mio giudizio hanno più probabilità di riprodurre i propri geni e di 'accoppiarsi' col Dna di un altro robot e riprodursi. Nell'Ants Project abbiamo studiato la cooperazione tra i robot. Esattamente come accade tra le comunità di formiche biologiche, anche tra i robot possono esistere gruppi che collaborano al raggiungimento di uno scopo come la ricerca del cibo, ed altri che, al contrario, mantengono un comportamento individualista. Così abbiamo sviluppato dei microrobot, dotati di minicamera e di una sorta di mandibola per afferrare del cibo finto. Ognuno di questi robot ha una batteria che dura dieci ore e si può autoricaricare. In tal modo abbiamo osservato quali elementi hanno collaborato al fine di portare il cibo nel proprio nido e quali no, studiando in sostanza i principi di differenza genetica tra i tanti robottini".

Vi siete ispirati alla Robotica evolutiva anche nel caso del POEtic Project?

"Esattamente. Il POEtic Project è un progetto europeo che riguarda la creazione di un circuito elettronico multicellulare capace di autoripararsi sulla base della ridondanza cellulare. L'idea è di fare un tessuto artificiale self-repair, che può evolvere, apprendere e modificare la sua funzionalità. Stiamo parlando di transistor, circuiti elettronici che sfruttano una tecnologia inventata di recente in cui l'hardware stesso, la fisica del circuito, può cambiare. Per esempio ci sono dei transistor che improvvisamente si connettono tra di loro e altri che al contrario si sconnettono. La materia cambia, ovviamente entro certi limiti. Però a differenza di un computer dotato di unità centrale, in cui se si rompe un componente si ferma tutto il sistema, il tessuto è in grado di continuare a funzionare anche in presenza di guasti. Questo perché le cellule funzionano in parallelo e se una cellula si danneggia, è la cellula stessa che smette di funzionare, evitando di espandere il danno, mentre le altre collegate assolvono la sua funzione o la attribuiscono ad altre cellule inerti. Al momento si tratta solo di transistor su un piano composto da tantissime cellule uniformi. Ma un domani queste stesse cellule controlleranno un robot o magari un'automobile. Come nei robot della robotica evolutiva, ogni cellula ha un suo Dna che viene letto e trasformato in una funzionalità. Abbiamo già fatto un tessuto che fa le veci di una tastiera elettronica: tocchi alcune cellule e produci una musica. In Giappone, invece, il tessuto è stato sperimentato come rivestimento interno degli arti artificiali. I chip, infatti, permettono che la protesi si autoadatti al comportamento della persona che, come si sa, varia da individuo a individuo".

Tornando ai micro-robot, cosa dovrebbe essere in grado di fare questa nuova genia di macchine intelligenti?

"Francamente non lo so. Per me lo scopo finale è che si riproduca e continui a evolversi. Fra 300 anni ci saranno dei robot che avranno forme e funzioni completamente differenti di quelle che avevano cent'anni prima o all'epoca della loro progettazione. Li immagino come dei 'robot life-like' composti da tanti piccoli blocchetti, che vivono e si modificano nell'acqua. I 'building bloc', collegandosi tra loro, daranno vita a nuove forme che si muoveranno grazie a muscoli artificiali. Quando il loro Dna avrà accumulato troppi errori, potranno rilasciarsi nell'ambiente fluido, tornare a essere singole cellule e riaggregarsi in un secondo momento".

Insomma, lei punta alla creazione di una specie artificiale in grado non solo di evolversi, ma anche di riprodursi. Che tipo di risposta offre a chi pone interrogativi di carattere etico a queste evoluzioni della robotica?

"Quello che posso dire è che la fallacia della robotica evolutiva riguarda semmai il lato emozionale. Queste macchine, al contrario di uno scooter o una lavatrice, hanno dei comportamenti che non conosci e che ti sorprendono e l'essere umano tende sempre ad attribuire un'esistenza a tutto quello che non comprende. Personalmente ho un sogno: prima della fine della mia vita vorrei proprio creare questa nuova specie di robot 'viventi'".
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=t&idCategory=4801&idContent=799307

Copyright? No, copyleft

Abolire il divieto di copiare. Per liberare le opere dell'ingegno. E diffondere ovunque le idee e il sapere. E' questa la nuova sfida etica lanciata dalla Rete

di Alessandro Gilioli

Tanto tempo fa, nella società pre tecnologica, il diritto d'autore era una questione che riguardava una minoranza insignificante di persone: di solito chi scriveva un libro o componeva un'opera musicale. A tutti gli altri non importava nulla. è stato così per più di 250 anni: dalla prima legge sul copyright (1710, Inghilterra) fino agli anni '70 del secolo scorso, quando si sono diffuse le fotocopiatrici e gli studenti universitari hanno cominciato a riprodurre pezzi di libri di cui avevano bisogno: le prime copie-pirata.

Poi è arrivata la rivoluzione digitale, che mettendo in comunicazione tra loro milioni di persone, di libri, di dischi, di idee, di scoperte, di articoli, di foto, di video, ha amplificato all'infinito il concetto di riproducibilità tecnica, trascinando la questione della proprietà intellettuale nella vita quotidiana di chiunque abbia un collegamento a Internet e può quindi riprodurre con un paio di clic ciò che in teoria è ancora coperto da divieto di copia.

"Negli ultimi vent'anni attorno al copyright è cambiato tutto, tranne le norme che lo regolano", dice Lawrence Lessig, uno dei massimi studiosi della questione. Già, perché le leggi in merito sono rimaste legate al modello di società in cui sono nate, cioè quello industriale e pretecnologico. E queste prevedono, in sostanza, che le opere dell'ingegno, un libro, una canzone, una foto, ma anche una barzelletta, non possano essere in alcun modo riprodotte né utilizzate e men che meno alterate da nessuno.

Con la Rete e il pc, i limiti tecnici alla diffusione e alla condivisione delle informazioni si sono azzerati. E la prassi è andata nella direzione opposta rispetto alla legge: milioni di copiature e di remix su milioni di siti, di blog, di telefonini. A fronte di questo scarto tra norme obsolete e crescente condivisione illegale di opere dell'ingegno, la società (imprese, intellettuali, consumatori, politici) ha reagito in modi diversi. Da un lato ci sono i conservatori puri dell'esistente, il cui capofila è Bill Gates. Secondo lui quello attuale americano "è il miglior sistema di proprietà intellettuale" possibile. Uomo di certezze, il fondatore di Microsoft aggiunge che nella sua mente "non c'è alcun dubbio in proposito". La posizione di Gates è viziata da un palese conflitto d'interessi: avendo creato software che nell'attuale sistema gli permettono di essere l'uomo più ricco del mondo, non sente alcun bisogno di modifiche in senso libertario. Tuttavia dalla parte di Gates ci sono anche delle ragioni e sono quelle tipiche dell'economia liberal-capitalista, secondo le quali senza l'incentivo dell'arricchimento personale garantito da copyright e brevetti nessuno sarebbe stimolato a inventare e a competere con le invenzioni altrui.

Dalla parte opposta ci sono i cultori del copyleft, termine scaturito da un ricco gioco di parole ('left', sinistra, è il contrario di 'right', che in inglese vuol dire diritto ma anche destra; e 'left' è anche il participio passato di 'leave', lasciare: sicché copyleft evoca il 'rinunciare alla proprietà', il 'lasciare che si copi liberamente').

I vessilliferi del copyleft - una moltitudine battagliera in Rete - detestano Gates e il concetto di 'software proprietario'. Sostengono che qualsiasi opera dell'ingegno è il frutto di un confronto sociale e quindi deve essere messa a disposizione di tutti, perché tutti possano usufruirne ed eventualmente migliorarla. Si occupano particolarmente di brevetti informatici, ma sono convinti che il concetto di copyleft sia estensibile anche agli altri campi della creatività, come i libri e i dischi. Le loro parole d'ordine sono 'condivisione' e 'libera circolazione del sapere'. Secondo Bill Gates, si tratta di "comunisti di nuovo tipo che vorrebbero eliminare gli incentivi per chi produce musica, film o programmi informatici" .

A parte qualche frangia, i teorici del copyleft non negano l'esistenza di diritti dell'autore sulla sua opera: l'obiettivo del loro impegno è invece "conciliare l'esigenza di un giusto compenso per il lavoro svolto da un autore con la tutela della riproducibilità di un'opera e del suo uso sociale", come scrivono quelli del Collettivo Wu Ming, che da anni teorizzano e applicano il copyleft. Sono convinti che un'opera diffusa su Internet non danneggi economicamente il suo autore, ma al contrario gli convenga, perché ne fa circolare nome e idee, gli dà fama, e sul lungo termine, attraverso il cosiddetto marketing virale, gli fa vendere di più sul mercato tradizionale (librerie e negozi). Pensano che proteggere un'opera per 70 anni dopo la morte dell'autore non abbia nulla a che fare con l'incentivazione, ma sia solo un modo per garantire profitti alle corporation che acquistano i diritti.

In un ampio territorio intermedio tra il pragmatismo di chi difende il copyright e l'idealismo di chi sogna lo sharing totale c'è il gruppo di studiosi e giuristi che ruota attorno al progetto Creative Commons. Da un punto di vista teorico, si tratta di pensatori più vicini al copyleft che al copyright, perché il loro movimento nasce in opposizione all'avidità delle major (Walt Disney, Sony, Time Warner) che fanno profitti con le royalties. Il loro capofila è un docente di Stanford, il citato Lawrence Lessig, che da anni combatte le pretese delle corporation e scrive libri sulla proprietà intellettuale (l'ultimo, 'Cultura libera' esce in Italia a fine febbraio per Apogeo).

Lessig e il suo gruppo di lavoro non si limitano a teorizzare e a polemizzare, hanno anche elaborato nuove forme di diritti d'autore per provare ad affrontare più flessibilmente il rapporto tra autori e società digitale, riducendo la forbice tra norme vecchie di secoli e realtà internettiana esplosa negli ultimi dieci anni. Così è nato il progetto Creative Commons, che cerca di definire le sfumature esistenti tra la classica frase 'Tutti i diritti riservati' e il suo contrario assoluto: 'Nessun diritto garantito'. L'idea di base è che un'opera (dal libro al disco, dall'articolo di giornale al blog) possa avere vari e duttili gradi di tutela dell'ingegno: ad esempio, un autore decide che la sua creazione può essere copiata, ma non a fini di lucro; o stabilisce che può essere riprodotta, ma soltanto con citazione della fonte; ancora, che può essere copiata, ma solo integralmente e senza tagli; che è sotto pieno copyright, ma solo fino alla morte del suo autore e non per i 70 anni successivi. E così via, in uno sforzo di flessibilizzazione delle norme che contempla tanto i due estremi (copyright totale e nessun copyright) quanto i vari livelli intermedi, in modo da coprire tutte le aree esistenti di produzione di contenuti: dagli autori professionisti a chi scrive per passatempo, dai fotografi ai blogger. Non è detto infatti che l'unico incentivo di un autore sia quello finanziario: un docente universitario non si illude di diventare ricco con i suoi saggi, ma a essi affida la costruzione della sua carriera e preferisce che circolino molto, anche gratis.

In Italia le licenze di Creative Commons sono state lanciate meno di due mesi fa, grazie a un gruppo di studio promosso da Marco Ricolfi, docente di Scienze giuridiche a Torino. Alla fine di gennaio a Roma si è tenuta la prima Settimana delle libertà digitali con incontri e conferenze per promuovere il progetto nel nostro paese. L'obiettivo di massima è quello di riformare le rigide leggi attuali sul copyright, ma è anche e soprattutto creare una consapevolezza diffusa e una cultura prevalente in cui la condivisione delle conoscenze (quindi la scelta da parte di un autore e/o di un editore di avvalersi dei propri diritti nel modo più aperto possibile) venga vissuta da tutti come un valore positivo, con un feed back di simpatia e ammirazione (e quindi maggiore propensione all'acquisto) nei confronti di chi non chiude a chiave la propria opera.

Del resto, seppur in fasce ancora di nicchia, qualcosa di simile sta già avvenendo nel mondo del software, dove Bill Gates è costretto a crescenti sforzi e a spese milionarie per controbattere l'antipatia planetaria nei confronti dei suoi eccessi proprietari, che inducono sempre più individui, enti pubblici e aziende ad avvalersi, quando possibile, di software alternativi e aperti. Le grandi campagne d'opinione contro chi, a fini di profitto, impedisce ogni condivisione della propria invenzione hanno lo scopo di modificare la percezione sociale del problema al punto in cui un giorno chi chiuderà nella cassaforte del copyright la sua creazione subirà danni d'immagine superiori ai benefici economici immediati.

In prospettiva uno degli aspetti più interessanti di tutta la vicenda sta nel fatto che la stessa ondata ha ormai tracimato anche su aziende che operano in altri campi, come quelle agricole, zootecniche, farmaceutiche, biotech, genetiche e così via.

Di recente sono sorte organizzazioni indipendenti come Bios (Biological Innovation for Open Society) e Science Commons che applicano ai temi del biotech e della genomica i principi del Creative Commons. Anche loro comunisti, come direbbe Gates? Difficile pensarlo: il progetto Bios, per esempio, è nato con la sovvenzione di un milione di dollari della Fondazione Rockefeller. La distribuzione di tecnologie agricole aperte e di nuove medicine nel Terzo Mondo dipende in gran parte dal successo di queste iniziative. E per successo s'intende la capacità di trovare percorsi intelligenti per conciliare l'economia globalizzata (e quindi la ricerca incentivata dalla sete di profitti) con il bisogno etico di condividere conoscenze per il bene di più persone possibile. Anche per questo al Social Forum mondiale di Porto Alegre, a fine gennaio, il problema del copyright è stato tra i più discussi e lo stesso Lessig era tra i relatori. Come si vede, la questione dello scontro o dell'accordo tra i diritti dell'ingegno e i diritti del pubblico dominio nel XXI secolo riguarda proprio tutti. Anche chi non lo sa.
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=t&idCategory=4801&idContent=807351

Gli aiuti mai arrivati

di Alberto Negri

Quale titolo di prima pagina scelgono oggi i giornali? La tragedia del giorno, quella più globale, resta lo tsunami, l'ondata che il 26 dicembre spazzando l'Oceano indiano ha ucciso 300mila persone e lasciato milioni di disperati senza tetto. Il maremoto ieri ha sollevato di nuovo l'Oceano ma questa volta, a differenza che nel Natale scorso, l'allarme è precipitato sull'esodo di Pasquetta con un temporale mediatico di notizie.
Eppure, tre mesi dopo la tragedia, l'ondata della compassione mondiale, già affievolita nel giro qualche settimana, si è quasi del tutto spenta. Facciamo il callo a tutto, agli attentati a Baghdad, agli emigranti che affogano nel mare nostrum e quindi anche allo tsunami. Ma non vogliamo, giustamente, farci cogliere di sorpresa dalle disgrazie emeno che mai da un'altra ondata.
Eppure, anche se non ci sarà un'altra vendetta oceanica, i motivi per riparlare dello tsunami non mancano. L'attenzione l'ha riportata in Italia la scorsa settimana l'Alto commissariato dei profughi, agenzia dell'Onu, che a Milano ha organizzato un megaconcerto per ricordare che ben poco è arrivato dei 5 miliardi di dollari di aiuti promessi per la ricostruzione delle zone disastrate. Le ragioni sono molteplici ma una sovrasta le altre, anche se sussurrata a mezza voce dalle organizzazioni umanitarie: l'ostacolo più difficile da sormontare è la burocrazia dei Paesi asiatici che rende complicati gli interventi. Il problema si era avvertito sin dal primo momento della tragedia e non sembra essere superato. I motivi sono anche politici: la guerriglia dei tamil in Sri Lanka e quella in Indonesia rendono ipersensibili e diffidenti le autorità di Colombo e Giakarta agli aiuti internazionali, soprattutto quando arrivano insieme ai contingenti militari.
La seconda notizia è che lo tsunami in Indonesia ha ucciso più donne che uomini, fino all' 80% della popolazione femminile in alcuni villaggi. Perché? Il rapporto dell'inglese Oxfam suggerisce diversi motivi: sono le donne che hanno soccorso in bambini più piccoli rimanendo poi travolte dall'ondata, le donne poi sono quelle meno abili a nuotare e meno veloci a correre. Ma anche quando si sono salvate sono rimaste vittime una seconda volta della tragedia: molestie sessuali, stupri, rapimenti, sono all'ordine del giorno nella vita quotidiana dei campi profughi.
Si è scoperto intanto uno « tsunami dimenticato » , l'ondata che ha colpito la Somalia dove gli aiuti sono arrivati due mesi dopo il 26 dicembre. Un'intera città costiera, Hafun, è stata spazzata via e nella regione del Puntland ci sono 60mila profughi.
La Somalia, la nostra ex colonia del Corno d'Africa, è già un Paese dimenticato, salito alla ribalta negli anni 90 con la guerra civile, milioni di morti e la carestia.
Dopo il fallimentare intervento internazionale concluso ingloriosamente nel ' 94, ci sono stati quattro anni di siccità, terminata nel 2004, poi le inondazioni e infine lo tsunami. Ma ormai per la Somalia non si muove più nessuno perché è precipitata in un'anarchia feroce che ha travolto e ucciso qualche tempo fa anche un'eroina della solidarietà come Annalena Tonelli.
Ma ecco, infine, una buona notizia, per non funestare troppo la festa di Pasquetta. In alcuni Paesi colpiti dallo tsunami come Thailandia e Sri Lanka sono tornati i turisti. Portano quattrini, quindi sono i benvenuti. Non fa niente se la maggior parte dei soldi rimane, come dimostrano le statistiche, nelle tasche degli operatori internazionali. Pesca e turismo costituiscono meno del 5% del Pil dello Sri Lanka.
L'importante comunque è credere che stiamo sempre facendo del bene agli altri: se l'ondata della compassione si spegne, la voglia di andare in vacanza rimane più forte che mai.

http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&codid=20.0.1073580758

27.3.05

Ritalin di nuovo in commercio

Allarme: la «pillola dell’obbedienza» torna in farmacia
di Marina Piccone

Tra pochi giorni, il Ritalin, un farmaco a base di metilfenidato, un’anfetamina, sarà di nuovo in commercio su decreto del Ministero della Salute. Servirà a curare il cosiddetto «Disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività» (Adhd: Attention Deficit Hyperactivity Disorder), una sindrome che colpisce bambini in età scolare e prescolare, caratterizzata da irrequietezza, difficoltà di concentrazione, sbadataggine, impulsività, svogliatezza, poca disponibilità all’ascolto. Il metilfenidato, il principio attivo del Ritalin, è stato scoperto da un ricercatore italiano nel 1955. Brevettato dalla Novartis Pharma, una multinazionale svizzera, il Ritalin veniva utilizzato per pazienti psichiatrici depressi e nei casi di epilessia. Nel 1989 è stato messo fuori commercio, perché utilizzato come dimagrante e come psicostimolante da studenti. Fino al marzo dello scorso anno, compariva nella sottotabella I della Tabella n. 7 della Farmacopea, insieme alla cocaina, agli oppiacei, all’eroina e all’Lsd. Da quella data, è passato, per decreto ministeriale, nella sottotabella IV, dove sono presenti le benzodiozepine, gli psicofarmaci per intenderci.

All’interrogazione parlamentare con la quale Tiziana Valpiana di Rifondazione Comunista chiedeva lumi al ministro Sirchia su questa promozione, il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi ha risposto che mantenere il Ritalin nel posto originario «avrebbe significato porre un ostacolo all’accesso del farmaco da parte dei giovani pazienti affetti da Adhd». E per qunto riguarda i pericolosi effetti che uno stupefacente può avere su un organismo in età evolutiva, Guidi ha assicurato che il farmaco si potrà ottenere solo con una ricetta speciale.

In America e in Inghilterra si fa largo uso di questo medicinale da vari anni. In particolare, negli Stati Uniti dai quattro ai sei milioni di bambini «iperattivi», dai tre anni di età, vengono trattati con il Ritalin, che è stato soprannominato la cocaina dei bimbi o anche «la pillola dell’obbedienza». Tuttavia, solo qualche giorno fa la Food and Drug Administration, l’ente americano che si occupa dei farmaci, ha rilasciato un parere allarmante secondo cui i bambini depressi trattati con farmaci antidepressivi presentano comportamenti autolesionisti. Anche nella scheda tecnica del Ritalin si legge che «un uso abusivo può indurre una marcata assuefazione e dipendenza psichica con vari gradi di comportamento anormale». È così? «Si tratta di uno psicofarmaco e, come tale, può dare simili effetti» risponde un medico della Novartis, che preferisce rimanere anonimo. Nella scheda c’è scritto anche: «Si richiede un’attenta sorveglianza anche dopo la sospensione del prodotto poiché si possono rilevare grave depressione e iperattività cronica».

In pratica il farmaco provocherebbe gli stessi effetti che dovrebbe curare. «È una cosa che avviene per molti farmaci», continua il medico. Quello che conta, aggiunge, è che il Ritalin «ha un’incredibile efficacia nella patologia dell’Adhd, come dimostra un’impressionante mole di dati scientifici».

Ma che dire degli effetti collaterali? La «Guida all’uso dei farmaci per i bambini», distribuita dal Ministero della Salute, Direzione generale dei farmaci, parla di: «cambiamenti di pressione sanguigna, angina pectoris, perdita di peso, psicosi tossica, possibilità di suicidio durante la fase di astinenza». Non è un po’ preoccupante? «I farmaci fanno male, è una cosa risaputa» chiarisce Stefano Vella, direttore del Dipartimento del Farmaco dell’Istituto Superiore di Sanità. «Anche l’aspirina ha provocato decessi. E, però, quando le medicine servono, vanno somministrate. Il cervello si ammala come tutti gli altri organi, e, come negli altri casi, va curato. Il Ritalin funziona, se somministrato correttamente e al bambino giusto. L’importante è non abusarne». E, per evitare abusi, il Ministero della Salute ha istituito il Registro Italiano dell’Adhd, che servirà a controllare la correttezza delle prescrizioni, che saranno fatte esclusivamente da Centri d’eccellenza istituiti nelle diverse Regioni, e a valutare gli effetti.

L’Adhd, dunque. Ma di cosa si tratta esattamente? Per ammissione degli psichiatri stessi, fino ad oggi non c’è unanimità sulla diagnosi. «Ci sono molti dubbi che la cosiddetta sindrome dell’Adhd esista - afferma Enrico Nonnis, neuropsichiatra infantile della Asl Rm E - Ammesso e non concesso, coinvolge, comunque, un numero di soggetti molto inferiore a quanto si vuol far credere. È una patologia non chiara anche perché chi soffre di iperattività presenta altre categorie diagnostiche sintomatologiche come la depressione, i disturbi ossessivo-compulsivi, i disturbi dell’apprendimento e del linguaggio, ansia e disordini dell’umore. Tutti sintomi per i quali il Ritalin non sarebbe indicato».

Vella bolla di oscurantismo chi mette in dubbio l’esistenza di questa malattia. «L’Adhd esiste, eccome. Ci sono famiglie distrutte da questo problema. Certo gli americani usano una griglia un po’ troppo larga per la valutazione, ma da qui a dire che la patologia non esiste ce ne corre». E quanti sono i bambini malati in Italia? «Non lo sappiamo» risponde Vella. «Il Registro è nato anche per verificare questo».

Una ricerca di tipo epidemiologico volta ad individuare l’incidenza di disturbi mentali nei ragazzi dagli 11 ai 14 anni, partita nel novembre del 2002 e appena conclusa, ha evidenziato che meno del 2 per cento della popolazione preadolescente soffre di Adhd. «Il problema è molto meno frequente di quanto si ipotizzasse» ammettono i ricercatori dell’Istituto di Neuropsichiatria infantile Eugenio Medea di Lecco, uno dei futuri Centri d’eccellenza, che ha promosso la ricerca autorizzata dall’Istituto superiore della Sanità e finanziata dal Ministero della Salute.

E allora? «Attenzione - avverte Nonnis -. Il Ritalin si sta rivelando un cavallo di Troia. Il neonato Registro Italiano dell’Adhd ha avallato l’esistenza di questa patologia che deve essere curata necessariamente con farmaci. Si tratta di un’operazione un po’ commerciale e un po’ politica. Si perpetua una cultura e si mantiene un’abitudine che è quella di ricorrere al farmaco come unica possibilità di cura, una specie di deus ex-machina. Dal Ministero mi aspetto lo stesso zelo e la stessa attenzione nel predisporre servizi per l’infanzia e nel creare una cultura della salute. La risposta ad un bambino iperattivo o comunque ad un bambino che manifesta un disagio psicologico, non può essere prevalentemente farmacologica; deve essere soprattutto di tipo sociale, psicoterapeutico, di collaborazione con la famiglia e con altre istituzioni come la scuola».

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=SALU&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=38065

Vedere anche un vecchio articolo del 2001
http://www.paviaquarto.it/onair/ritalin.htm

23.3.05

IL DOLORE E L’IPOCRISIA

di CLAUDIO MAGRIS

I casi estremi, come quello di Terri Schiavo, rendono più difficile ogni discorso sui princìpi morali e sui valori cui si ispirano le diverse prese di posizione, perché, oltre un certo limite, ogni comandamento o divieto, ogni imperativo categorico rischia di apparire grottesco e assurdo, quasi la caricatura di se stesso. D’altronde, se si comincia a transigere su una norma etica, non si sa dove si va a finire o meglio lo si sa benissimo: si approda a un supermarket morale in cui ogni comportamento è «optional» e ciascuno sceglie quello che gli pare o gli fa comodo. Decidere la sorte di Terri Schiavo implica l’accettazione o il rifiuto dell’eutanasia, spesso scorrettamente abbinata all’aborto, che costituisce un problema radicalmente diverso. In primo luogo c’è un momento preciso in cui inizia la vita di un individuo, mentre è spesso difficilissimo o impossibile tracciare la frontiera tra doverosa lotta alla malattia e inutile o crudele accanimento terapeutico. Ma soprattutto nell’eutanasia ci si propone di porre fine all’esistenza di un individuo nel suo interesse, per risparmiargli sofferenze o condizioni giudicate incurabili, irreversibili e intollerabili, mentre nell’aborto - almeno in quello non terapeutico - si sopprime un individuo nell’interesse di altri.
Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l’eutanasia può divenire facilmente obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale, l’arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si arroga il diritto di stabilire quale sia tale livello che autorizzi ad eliminare chi non lo possiede o non lo raggiunge. I milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono nel mondo non hanno certo tale qualità di vita - nemmeno intellettuale e spirituale, perché se si è sfiniti dalla fame, dalla sete e dalla malattia si è lesi pure nel pensiero e nella affettività - ma non è una buona ragione per eliminarli.
Il caso di Terri Schiavo - reso ancor più complicato dai conflitti fra i parenti e dai vari ordini e contrordini di staccare e riattaccare la spina - non sembra avere a che fare con questo supponente igienismo etico-sociale così frequente nei fautori dell’eutanasia. Il disaccordo fra genitori e marito dimostra quanto sia discutibile affidare la sorte di qualcuno ad altri, solo perché legati da rapporti familiari; non si può disporre della vita di un altro perché lo si è messo al mondo o si è fatto l’amore con lui o con lei. Inoltre è oltraggioso per la vita che a presentarsi quale suo difensore sia il presidente Bush, il quale vorrebbe la pena di morte per i minorenni.
Comunque, se è difficile staccare quella spina, è altrettanto difficile non farlo ed è falso e ipocrita credere che basti lasciarla attaccata per risolvere il problema e tornarsene a casa soddisfatti, abbandonando Terri Schiavo al suo destino e dimenticandola subito, come succede. Su questa vicenda le parole più giuste, acute ed umane le ha dette Ferdinando Camon, in un suo articolo che non si può far altro che riportare e parafrasare, come sto facendo io in queste righe. Camon esprime un profondo e ragionato rispetto per chi ritiene la vita umana inviolabile in ogni sua fase, pure la più spenta, anche perché non si può mai sapere cosa accada nel profondo di quell’esistenza; egli esprime un rispetto, altrettanto logicamente e umanamente motivato, anche per chi sente il dovere di porre fine alla condizione disperata di un altro. Ma in questo caso, egli dice, non basta staccare la spina ossia lasciar morire Terri Schiavo infliggendole alcuni giorni di vita in cui, egli scrive, l’organismo prova comunque delle sofferenze, pur senza averne presumibilmente coscienza, patisce in qualche modo la disidratazione e così via, tanto è vero, egli aggiunge, che in questi casi vengono spesso somministrati dei sedativi. È una pura ipocrisia e viltà, egli conclude, non praticare una iniezione che ponga subito fine a quelle probabili residue sofferenze e comunque ad una condizione che si giudica intollerabile. Non c’è differenza morale fra un’iniezione letale o una spina staccata, perché entrambe danno con certezza la morte; se, in un caso estremo, è giusto - o meno ingiusto - darla, è doveroso farlo nel modo più alleviante per il morituro e senza imbrogliare se stessi dandosi ad intendere di non aver fatto nulla e di aver lasciato fare alla cosiddetta natura.

http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=PRIMA_PAGINA&doc=MAGRIS

22.3.05

È nel video il futuro del Web

Internet

Ballmer: «È nel video il futuro del Web»
Il numero uno di Microsoft scommette sul matrimonio tra Tv e Grande Rete. Il gigante di Redmond annuncia in anteprima un sistema per la paid search, la pubblicità legata ai risultati del nuovo motore di ricerca di Msn

M.Cia.

«Msn ha voltato pagina: da business in perdita ora è diventata un’attività profittevole. E con un grande potenziale. Questo sarà l’anno di una grande accelerazione, anche in termini del nostro approccio e dei nostri sforzi con gli inserzionisti». Con queste parole Steve Ballmer, il numero uno di Microsoft ha illustrato, in occasione della sesta edizione del forum “ Strategic account summit”, le linee guida dell’evoluzione di Msn, cioè la divisione delle attività Internet della casa di Redmond.
«Sono cambiati i tempi - ha detto nel discorso di inaugurazione l'amministratore delegato di Microsoft. Non serve più continuare a provare che il media Internet è importante. Lo è e basta: ormai è un fatto consolidato è completamente accettato dagli inserzionisti anche perché Internet continua a cambiare, a evolversi arricchendosi con video e con nuovi formati. E sta mutando anche la percezione della privacy e dell’intrusività della pubblicità online da parte degli utenti. E di fronte a queste trasformazioni è fondamentale mutare approccio. Bisogna rimodellare Internet come media pubblicitario: è finita l’epoca dei messaggi “sparati” sugli occhi degli utenti. Ora bisogna stabilire il ritmo degli spot, il loro contesto e comprendere in che modo l’utente può accettare la pubblicità instaurando un dialogo effettivo con le aziende inserzioniste. Se ci proiettiamo nel prossimo futuro, entro i prossimi cinque anni, possiamo immaginare una Internet profondamente diversa, così come muteranno i dispositivi e le modalità di accesso».
E in questa trasformazione il video è un elemento chiave. Secondo Steve Ballmer la tv tradizionale continuerà a “muoversi” verso internet e anche la stampa seguirà questo percorso. Il cambiamento del Web porrà anche a una trasformazione dei media tradizionali, quelli che noi ora chiamiamo media offline. «credetemi – dice – Ballmer entro dieci anni. Il video non sarà più un rozzo elemento aggiuntivo di una pagina Web ma diverrà una naturale intuitiva e logica estensione di tutti i siti Internet, di tutte le applicazioni sulla rete e non più un mero hyperlink».
Sono dieci anni che Microsoft sta investendo nel matrimonio tra Web e televisione, in quella che è stato battezzato IpTv (televisione su protocollo Ip), cioè Internet television. Nel 1996 Microsoft acquisì una compagnia chiamata WebTv. Fu un sostanziale fallimento, ma ora le cose sono cambiate e i tempi, anche tecnologicamente, sono maturi. La convergenza digitale tra media è una realtà così come lo sono le reti a banda larga. Dieci anni fa portare il video sul Web era impresa ardua, adesso con la diffusione di linee aDsl abbastanza veloci è possibile distribuire contenuti audiovisivi di qualità accettabile, anche se nella stragrande maggioranza dei casi la resa è molto inferiore a quella di un Dvd. Si è ancora lontani dalla vera tv ma la strada è tracciata.
Secondo Ballmer il "futuro è ora". «La distribuzione dei contenuti video si sta spostando su Internet, trasformando i modelli di business dei vecchi cabloperatori e i broadcaster. Il video è ormai pronto a diventare una componente vitale dei contenuti su Internet. Ai tempi di WebTv eravamo troppo ottimisti, ma fortunatamente non abbiamo mollato».

Microsoft dunque torna a scommettere sul video come elemento fondamentale dell’evoluzione della Grande Rete e come collettore di pubblicità all’interno di uno scenario di mercato che vede sorgere competizione tra attori diversi: emittenti tradizionali e operatori telefonici sono in rotta di collisione.

«Tutti i carrier - ha detto Ballmer - vogliono distribuire video. Da Sbc a Verizon, da Bell South a Deutsche Telecom fino a France Telecom. Il mondo è cambiato e ciascuno di questi attori sostiene di essere pronto per il business del video interattivo e a richiesta, per distribuire film e programmi.
Ma questo non vuol dire che le famiglie si riuniranno davanti a un pc per guardare la tv. Utilizzeranno ancora un televisore, ma avranno un apparecchio, un set-top-box, in grado di collegarsi alla rete, per visualizzare la guida ai programmi e per garantire l’interattività, o permettere di acquistare un determinato film o programma. Il tutto si baserà su tecnologia Internet e permetterà di usare le medesime piattaforme per la pubblicità usate sul Web per distribuire, in un modo impossibile con i metodi tradizionali, spot mirati a utenti che stanno guardando la tv.
Uno scenario, questo, che apre molti interrogativi. Se la tv si fonde con Internet diventa possibile inviare messaggi mirati. Agganciare la messaggistica istantanea alla televisione creare un ambiente del tutto nuovo nel quale la privacy è un elemento chiave, mentre per i fornitori di tecnologia la convergenza tra i media porta a ripensare completamente la distinzione di ruoli tra gli spot tv classici e quelli sul Web sotto il comune denominatore del messaggio video e per immagini.

In questo ambito la scommessa è la costruzione di piattaforme innovative tecnologiche per la pubblicità. La partita infatti si gioca su questo. Non a caso a poco più di un mese dal lancio di Msn Search (il motore di ricerca Web targato Microsoft) il gigante di Redmond rilancia la sfida a Google e a Yahoo!. La casa di Bill Gates ha infatti presentato, proprio al forum Msn Strategic account summit, una versione preliminare di un nuovo sistema per la pubblicità online. Il software si chiama adCenter (contrazione di advertising center) e permette di "agganciare" i risultati delle ricerche su Internet con contributi pubblicitari, ovvero realizza quello che in gergo informatico viene chiamato paid search (ricerca pagata, sponsorizzata). Gli introiti di questa formula di reclame in rete, battezzata anche come keyword advertising (pubblicità sulle parole chiave), rappresentano per Microsoft un tassello fondamentale nella sua strategia per trasformare il motore di ricerca Msn Search in un vero, profittevole, business. La nuova piattaforma pubblicitaria dedicata al Web punta a garantire agli inserzionisti un maggiore ritorno sugli investimenti, in virtù della possibilità di realizzare messaggi mirati in funzione dell’audience.
Msn adCenter sarà sperimentato in Francia e a Singapore. Successivamente in base ai risultati raggiunti la sperimentazione sarà estesa in vista di un’adozione generalizzata.

17 marzo 2005
http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&artId=633615&chId=30&artType=Articolo&back=0

13.3.05

Dov'è il luogo delle nostre intenzioni

Un nuovo capitolo nella critica al congnitivismo, già annunciato nel titolo dell'ultimo libro di Felice Cimatti, Il senso della mente, appena uscito da Bollati Boringhieri

MARIO DE CARO

«La scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono». Parafrasando il motto di Protagora, Wilfrid Sellars compendiava brillantemente, alcuni anni fa, una concezione filosofica divenuta poi molto comune, soprattutto nei paesi anglosassoni: il naturalismo scientifico. Questa prospettiva - condivisa, sia pure con accenti diversi, da Quine e Dennett, Nozick e Fodor, Chomsky e Kim - si regge su tre assunzioni fondamentali: che non esistono entità e proprietà soprannaturali, che la filosofia non è una forma privilegiata di sapere in grado di fondare tutte le altre (inclusa la scienza) e che l'indagine filosofica va pensata in continuità con quella scientifica. Naturalmente, questi punti generali sono stati variamente argomentati. Né si può dire che il naturalismo scientifico sia unanimente accettato dai filosofi di orientamento analitico o post-analitico: Davidson, McDowell e Putnam, ad esempio, hanno proposto forme di naturalismo moderato che, pur rispettose della conoscenza scientifica, non negano affatto la legittimità, e anzi l'indispensabilità, delle altre forme di comprensione della realtà. Sulla questione del naturalismo è dunque in corso da decenni uno dei più importanti dibattiti filosofici contemporanei. Non in Italia, però, o almeno non sino a tempi molto recenti. A lungo, infatti, il duplice retaggio di irrazionalismi di vario genere e di uno storicismo teoreticamente rinunciatario ha inibito da noi ogni seria discussione sul naturalismo e, più in generale, sulla relazione tra filosofia e scienza. Se, infatti, tradizionalmente la maggior parte dei filosofi italiani si è arroccata su posizioni di retriva antiscientificità, in genere chi ha difeso il naturalismo ne ha, per reazione, accettato acriticamente le tesi, senza preoccuparsi di articolarle e di irrobustirle. A lungo, dunque, la filosofia italiana si è mossa all'interno della mesta alternativa tra un antinaturalismo irrazionalistico e un acritico scientismo.

Ora però le cose stanno cambiando e sul naturalismo si è ormai avviato un serio dibattito, nel quadro del quale si inserisce il nuovo volume di Felice Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, appena uscito da Bollati Boringhieri. Cimatti propone una via intermedia tra l'anti-naturalismo degli ermeneuti - e, a fortiori, degli spiritualisti - e il naturalismo scientistico (o «riduzionismo», come egli preferisce dire) di molti filosofi contemporanei, in particolare di quelli influenzati dal cognitivismo - il programma di ricerca che ponendosi all'incrocio di psicologia, filosofia della mente, linguistica e intelligenza artificiale intende spiegare i processi cognitivi in termini di meccanismi di computazione dell'informazione. Al di là delle differenze, per Cimatti antinaturalismo e riduzionismo condividono l'incapacità di articolare un discorso sensato sulla mente umana: «una descrizione scientifica della mente umana non può essere né riduzionistica, perché in questo modo quel che si spiega non è la mente, né ... antinaturalistica [perché così] si salva l'autonomia della mente solo al prezzo di trasformarla in una entità misteriosamente separata dal mondo naturale: la mente è naturale ma non è una cosa».

Cimatti accenna a un altro possibile modo di studiare la mente umana, per mezzo di «una biologia inseparabile dalla più tipica delle caratteristiche della specie umana, il suo linguaggio». Resta il fatto, però, che Il senso della mente è soprattutto una serrata critica del cognitivismo: molti tra i suoi seguaci presuppongono il funzionalismo - ossia la tesi per cui gli stati mentali non sono individuati dalle loro proprietà intrinseche, ma dalle relazioni causali in cui figurano. Per il funzionalismo, il pensiero è una proprietà astratta; ma questo, secondo Cimatti, significa che se la mente «vuole essere qualcosa di reale deve diventare concreta, deve cioè diventare una cosa»; dunque, «la mente esiste, in questo modo di studiarla, solo come non mente, come cervello ad esempio, ossia come una cosa». Per Cimatti, dunque, il cognitivismo «ha molto da dirci sul cervello, ma nulla sulla mente», perché - ed è questo uno degli argomenti del libro - in primo luogo non è in grado di spiegare la costitutiva normatività del mentale ovvero il fatto che i pensieri, oltre ad essere cause delle nostre azioni, possono fungere anche da ragioni che le giustificano. In effetti, questo è un punto nevralgico del cognitivismo, come peraltro riconoscono alcuni dei suoi fautori e influenti critici come McDowell e soprattutto Putnam, che pure del cognitivismo fu uno dei fondatori. Per Cimatti, da ciò segue che «le pratiche umane che si occupano della materia non possono vantare alcuna supremazia ontologica rispetto alle pratiche che cercano di dare conto dei fenomeni mediante un perché diverso, non quello causale, bensì quello delle ragioni». Un diverso argomento è accennato fin dalla prima pagina del Senso della mente. Secondo Cimatti, sostenere che il pensiero è una parte del mondo fisico, come fa il cognitivismo, implica chiedersi «dove sta, perché soltanto le cose stanno da qualche parte - allora è sensato interrogarsi anche sul suo colore, o il suo peso, o addirittura il suo odore». Tale domanda è ovviamente assurda ma per Cimatti il cognitivismo la renderebbe lecita: e questa è una vera e propria reductio ad absurdum di tale concezione.

A questo argomento i naturalisti più riduzionisti - quelli che ammettono solo entità e proprietà fisiche - risponderebbero concendendo a Cimatti che i pensieri non hanno colori o odori; ma ciò solo in quanto nulla ha veramente colore o odore: colori e odori sono infatti proprietà secondarie ossia mere apparenze (che, notava Galileo, «rimosso lo animale sieno levate e annichilite»). La maggior parte dei cognitivisti, però, negherebbe la tesi che Cimatti attribuisce loro, ovvero che il pensiero sia materiale, che sia una cosa - e che per questo debba avere peso e colore. Affermerebbero, invece, che il pensiero è e rimane astratto, anche se ha bisogno di una base materiale per essere implementato (con la classica metafora del computer: il pensiero è il software e, come tale, ha bisogno di un hardware materiale; ma ciò non significa che il software diventi hardware).

Infine i cognitivisti più avvertiti, come Fodor, Block e Kim, accetterebbero un'altra critica di Cimatti, secondo la quale il cognitivismo non può spiegare l'aspetto fenomenico dei pensieri ovvero il modo in cui, ad esempio, si prova dolore o si esperisce piacere. Il carattere fenomenico, tuttavia, non è l'unico aspetto del pensiero: c'è anche il carattere intenzionale. E la maggiore ambizione del cognitivismo è proprio quella di spiegare quest'ultimo aspetto del mentale. È controverso, naturalmente, se tale ambizione sia ben riposta: secondo Cimatti, e gli altri naturalisti moderati, non lo è affatto.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/12-Marzo-2005/art90.html

11.3.05

La verità di Giuliana

«Hanno visto cosa avevano fatto, hanno imprecato»

«Nessuna luce, solo buio e spari. Ma i soldati dopo erano turbati»

Giuliana Sgrena racconta cosa accadde veramente quella sera, minuto per minuto «Nicola telefonava in italiano»

ROMA - Questo ricorda. E forse, questo sa. Giuliana Sgrena sta meglio. Il viso non è più martoriato. E’ seduta su una poltrona nella sua stanza d’ospedale. «Cerco di ricostruire ogni singolo momento di quello che è successo, perché mai avrei immaginato di doverlo fare». Lei è stata ostaggio, ma adesso è una testimone.
Si aspettava di essere liberata quel giorno?
«No. Sapevo che era venerdì. Da quando mi hanno presa, mi ero fatta un mio calendario. Le novità, da loro, arrivavano sempre al sabato, il giorno in cui mi hanno fatto girare i video, e mi avevano fatto scrivere la lettera come prova in vita. Però avevo notato che i due "addetti" alla mia sorveglianza, gli unici che ho sempre visto a volto scoperto, scherzavano tra loro. E la cosa mi aveva colpita. Dopo pranzo, intorno alle 15 chiedo a uno il perché di questa allegria: "E’ perché resto o perché parto?" Da giorni mi dicevano che me ne andavo. Lui svicola, l’altro mi fa capire di mettermi il cuore in pace, non è per oggi».
Poi cosa succede?
«A pomeriggio inoltrato rientrano nuovamente nella mia stanza. Noto che per la prima volta sono vestiti all’occidentale, camicia e pantaloni di flanella. Sono tesi: "Complimenti, te ne vai a Roma, vestiti in fretta"».
Quand’è che le dicono le frasi che a lei sembrano minacciose?
«In casa. Uno di loro, mentre mi fa mettere occhiali scuri imbottiti di garza, mi fa: "Sei sicura di te, non sei nervosa? Sarà una cosa difficile. Se qualcosa va storto ci rimettiamo tutti. Se ci fermano, non devi sembrare americana". Chiedo perché non mi hanno dato un vestito da donna araba, come ricordavo era stato fatto per le due Simone. Loro praticamente non mi rispondono, dicono solo "no"».
A quel punto uscite.
«Non ancora. Prima mi ridanno la mia borsa. C’è quasi tutto. Mancano 200 dei mille dollari che avevo, qualche block notes, ma ci sono i documenti, compreso il passaporto. Ci sono anche i tre accrediti per le elezioni, uno dei quali era stato rilasciato dagli americani. Si tengono soltanto il mio telefono satellitare la macchina fotografica digitale. Quando usciamo, ho la percezione che sia già buio».
Quanti sono?
«Sono certa che ci siano i miei due carcerieri abituali, e un’altra persona, al volante. E’ a lui che squilla in continuazione il cellulare. Lo sento parlare, concitato. Sono convinta che si rivolgesse a un’auto che ci precedeva».
Quanto dura il viaggio?
«Al massimo 20 minuti. Sento lo "splash" di una pozzanghera, e l’auto si ferma. Loro mi dicono di non muovermi, e se ne vanno. Sento il rumore di auto che passano, intuisco i loro fari, capisco che siamo su una via trafficata. Sopra di me volteggia un elicottero. Ricordo di aver pensato a Mogadiscio, quando stavo intervistando uno dei signori della guerra somali, ed avevamo sopra di noi un elicottero Usa. "Speriamo che non ci prendano neanche stavolta", penso. Ci sono macchine che si fermano vicino alla mia, e poi ripartono. L’attesa non dura più di mezz’ora».
Arriva Nicola Calipari.
«No. Si apre la porta sul mio lato, ma è uno dei miei carcerieri. "Dieci minuti", mi dice. Se ne va. Mi sono messa a contare, da uno a 60, e poi ricominciavo. Dopo una decina di volte, la porta del lato opposto al mio si apre. Era Nicola Calipari».
Cosa le dice?
«"Non aver paura, sei salva". Gira intorno alla macchina, apre la porta e mi tira fuori. "Abbandonati a me, seguimi". Mi guida per pochi passi. "Mi siedo vicino a te", mi dice. Partiamo. Poco dopo mi dice di togliermi le bende dagli occhi. Davanti c’è solo un’altra persona, al volante».
Eravate da soli, o c’era un’altra auto?
«Io ho pensato che fossimo da soli. Ma non posso escludere che ci fosse, un’altra macchina».
La velocità?
«Mai troppo elevata. Sui 70-80 chilometri all’ora».
Si ricorda la sequenza delle telefonate fatte dall’auto?
«La prima telefonata la fa l’autista. Chiama un numero, e ho la sensazione che stia parlando con qualcuno a Bagdad. "Stiamo arrivando, siamo in tre", lo ripete più volte».
E Calipari?
«Cerca il suo telefono ma non lo trova, non aveva con sé gli occhiali. L’autista allora accende la luce nell’abitacolo».
Rimarrà sempre accesa?
«Fino alla fine. Hanno dei cellulari e anche un satellitare. Ad un certo punto Calipari si arrabbia perché uno dei telefoni non funziona, ma non ricordo quale fosse. Fanno diverse telefonate, tutte in italiano».
Su questo s’è discusso molto.
«Io non ho mai detto di aver sentito parlare in inglese. Perché ne sono certa, hanno parlato sempre in italiano».
Lei riesce a capire dove si trova?
«Sì, perché riconosco la strada. E’ la via alternativa all’aeroporto, quella che secondo me passa attraverso la green zone controllata dagli americani, ed esclude le zone abitate. E’ una strada che ho già fatto più volte».
Incontrate posti di blocco?
«Nessuno. Non ci hanno mai fermato. Certo, io ero euforica, e non posso dire se c’erano soldati ai lati della strada. Ma un posto di blocco me lo ricorderei».
Ormai siete vicini all’aeroporto.
«Ad un certo punto l’autista dice a Nicola: "Sono 700 metri, siamo quasi in aeroporto, ce l’abbiamo fatta". Ricordo di aver pensato che allora la nostra sicurezza era relativa. Perché dire "ce l’abbiamo fatta?"».
Una versione del Pentagono afferma che superavate le 100 miglia, 160 all’ora.
«Assurdo. Poco dopo quella frase, l’autista frena, perché c’è una curva a gomito sulla destra. Decelera notevolmente, e non stavamo certo correndo. Mentre sta finendo le curva, gli spari. Da destra e da dietro. Raffiche e colpi singoli. Non è vero che hanno sparato al motore, da davanti».
Gli americani affermano di aver sparato in aria dopo avervi puntato un fascio di luce.
«No. I vetri della macchina esplodono all’unisono. Sono sicura anche di questo, non c’è stata nessuna scarica in aria. Ho sentito gli spari e i finestrini sono andati in mille pezzi. Nessun fascio di luce, nessuna piccola luce. Era buio, e io mi stavo guardando intorno».
A quel punto cosa succede?
«"Ci stanno attaccando, ci stanno attaccando" dice l’autista che sta armeggiando con il cellulare. E intanto ferma l’auto. Calipari non lo sento più. Ho come la sensazione che si metta addosso a me. Sono certa che mi ha salvato la vita. Gli parlo. Sento solo un rantolo. Ho capito che stava morendo».
Cosa vede dall’auto?
«Un blindato fermo, che spunta fuori dalla strada, sulla destra. E da lì, dall’alto che solo a quel momento veniamo investiti da un fascio di luce. Un soldato apre la porta dal lato destro. Quando ci vede, ho la netta sensazione che rimanga male. Impreca. Mi sembra che abbia detto "oh, shit". Anche quando arrivano gli altri, 7-8 da dietro il blindato, ho la sensazione di un loro scoramento».
Lei ha parlato di «pioggia di fuoco» e proiettili raccolti a manciate». Sembra che non sia così.
«Io i proiettili li ho visti. Non so se fossero 3-400, ma l’abitacolo era pieno di proiettili. E ricordo di aver pensato come facevo ad essere ancora viva, con tutti quei proiettili intorno a me».
E l’autista?
«Da terra, lo sento che sta parlando al telefono. Sento che urla: "Nicola e morto, lei è lontana da me ma vedo che ha gli occhi aperti"». In ospedale sanno già chi è lei? «Mi hanno chiesto subito le generalità, ma non ho notato reazioni particolari. Solo molto dopo, mi si è avvicinato un americano, dietro alla barella su cui sono stesa, e mi ha chiesto "Tu sei la giornalista italiana che è stata sequestrata, vero?"».
C’è il mistero del collier che le hanno regalato i sequestratori. Dove è finito?
«L’avevo indosso. Me l’ha tolto una infermiera, dicendomi che poi me l’avrebbe ridata. Il mattino dopo, ho chiesto se me la cercavano. Mi dicono che l’hanno trovata, invece non c’è. Poi siamo partiti».
Marco Imarisio
11 marzo 2005
http://www.corriere.it/
Primo_Piano/Cronache/2005/03_Marzo/11/sgrena.shtml

8.3.05

Lo scientista e il selvaggio

di Barbara Spinelli

Nell’universo nefasto descritto da Aldous Huxley nel 1932, gli uomini hanno fabbricato il mondo migliore cui anelano da tempi immemorabili: l’umanità è rifatta, selezionando in provetta l’embrione vincente e quello che sarà sottomesso senza per questo diventare infelice. Prima ancora di venire al mondo, i nascituri di Brave New World saranno trattati medicalmente in modo da trovarsi poi assegnati alla casta degli eccelsi, dei meno eccelsi, o degli infimi. Gli eccelsi appartengono alla classe alpha, e via via discendendo fino alla classe ipsilon, cui appartengono coloro che in fase pre-natale hanno ricevuto meno ossigeno. Gli ipsilon sono deliberatamente creati disabili: capaci di compiere le mansioni più misere, non conoscono tuttavia la fuga nel lamento. Naturalmente non manca qualche ombra d’intranquillità: in quei momenti è consentito consumare un oppiaceo - il soma - che non acuisce la coscienza ma dà un senso d’estasi imbecille. In lontane riserve vive un uomo chiamato Selvaggio, che avversa tutta quest’utopia: ciò per cui si batte è il diritto a mescolare la gioia con l’infelicità, il sesso con l’amore, l’estasi imbecille con la malinconia.

È un libro che può essere di grande aiuto, per ragionare sulla straordinaria rivoluzione scientifica e tecnologica con cui l’umanità s’appresta non solo a modificare la natura circostante, come avvenne nella prima rivoluzione, ma a rettificare e addomesticare la propria stessa natura e il proprio divenire uomo. Su queste cose si è cominciato in Italia a legiferare, e su di esse saremo chiamati a pronunciarci come cittadini, nel referendum che accoglierà o muterà radicalmente la legge n. 40 sulla procreazione assistita, promulgata nel febbraio 2004. Agitate da frantumazioni interne, destra e sinistra hanno preso atto che un compromesso parlamentare è per loro troppo difficile, e su spinta dei radicali sperano ora che la risposta a interrogativi esistenzialmente così drammatici venga data dalla società civile in prima persona. L’intervento ripetuto e sempre più insistente degli uomini di Chiesa è il risultato di questo passaggio da una politica che vuol dare a se stessa le proprie norme a una politica condivisa con la società e in parte affidata ad essa. Un passaggio che la classe politica ha accelerato, nel momento in cui al suo interno si è formato un vasto fronte di cattolici costantemente timorosi d’indisporre i vescovi - a destra come a sinistra - e paralizzati dal biasimo che essi immaginano possa venire dal Vaticano (biasimo di un eventuale accordo con i radicali, biasimo d’un pensiero autonomo su etica e scienza).

Ma adesso che il referendum si fa non ha più molto senso lamentare l’ingerenza delle gerarchie cattoliche. Ora che la parola passa a noi cittadini (elettori, professionisti, giornalisti) è naturale che anche i cattolici dicano le loro opinioni, dentro la Chiesa e fuori. La società civile non è sinonimo di classe politica, e davvero deleteria sarebbe una fusione fra le due istanze, con l’insieme dei cittadini che si mette a scimmiottare l’asfissiante e strumentale bipolarismo etico dei politici. Sarebbe bipolarismo etico concentrare tutti gli strali contro una Chiesa ritenuta oscurantista, o contro una laicità considerata a-morale. Sarebbe un bipolarismo che dilata ancor più la tendenza dei vescovi a invadere la politica, e la tendenza della politica a farsi immobilizzare dai vescovi. I laici a volte neppure se ne accorgono: il loro battersi perché le gerarchie cattoliche cambino opinione sulla vita e la morte - adottando in questo i tempi dei politici - immettono queste ultime ancor più nella politica. In fin dei conti tradiscono se stessi: pretendendo speciali sforzi dalla Chiesa, ignorano la separatezza che la contraddistingue e la trasformano in un partito di governo.

L’unica cosa che ha senso è domandarsi quale sia la via eticamente meno dannosa, per far fronte alla rivoluzione scientifica che l’uomo sta inaugurando. Ha senso domandarsi se la legge n. 40 permetta d’imboccare questa via, o piuttosto l’intralci. Se vi siano cose comunque importanti, in quel che dice la Chiesa o che dicono i laici e cattolici favorevoli a fecondazione artificiale o libertà di ricerca. E per giungere al punto centrale: quel che soprattutto ha senso è domandarsi se gli embrioni sui quali si agisce siano già vita umana oppure qualcosa che ancora non è umano; se la loro produzione in sovrannumero avvenga per aiutare le persone bisognose (in tal caso la legge è stupidamente punitiva: permette la produzione di embrioni in sovrannumero, ma non sufficienti per garantire la riuscita dell’impianto) oppure se il sovrannumero sia favorito all’unico fine di dedicarsi agli esperimenti o all’industria genetica, senza più vincoli di sorta.

Il punto è centrale perché ora tocca a ciascuno di noi, interrogarci sull’origine e l’essenza del nostro esistere, dunque sull’ontologia dell’embrione. Interrogarsi vuol dire cercare di sapere se esso vada rispettato come persona, dotata di diritti paragonabili a quelli dei già nati, e quali siano i casi in cui questo suo diritto si scontra contro il diritto di chi sceglie di far germogliare in sé una vita se possibile non menomata (l’indagine pre-impianto è solo consentita a scopo osservazionale nella legge, obbligando le coppie ad accettare qualsiasi embrione, anche malato). Inoltre, vuol dire domandarsi se alcune obiezioni all’impianto selezionato dell’embrione non nascano da ipocrisia. Chi è contrario a una legge che faciliti le indagini preventive dice di battersi contro la violenza eugenetica, ben sapendo che poi la coppia ricorrerà all’aborto, legalmente consentito.

Ma proviamo a vedere quel che v’è di giusto e di debole nel pensiero degli uomini di Chiesa. Penso a opinioni come quella di Monsignor Elio Sgreccia e anche a quella di cattolici laici come Evandro Agazzi, che hanno scritto rispettivamente sul Corriere della Sera e su Il Sole-24 Ore. La loro opinione sull’embrione non è così discordante, e su di essa sarà utile meditare. Ambedue parlano dell’essenza del divenire umano, e coltivano un’arte del dubbio e dello sgomento di fronte agli abissi della scienza che i laici non sembrano possedere. L’embrione è una persona, per l’uno come per l’altro. Nel momento in cui il seme maschile feconda l’ovulo femminile dà vita a un ente che non appartiene né alla madre, né al padre, né tanto meno al potere scientifico. Dà vita a un Terzo, che non è proprietà di nessuno e ha dunque già un attributo della soggettività giuridica: l’inalienabilità.

Il Terzo Venuto non è ancora uomo, dicono alcuni: o perché non ha autoconsapevolezza (tesi di Giovanni Sartori) o perché non ha né autonomia né un sistema nervoso centrale. Altri, come il filosofo Severino, affermano che l’uomo in potenza di Aristotele ha in sé anche la potenza di non divenire uomo. Ma il Terzo Venuto ha una sua radicale alterità, e questo suo venire resta un mistero che impone il rispetto, così come si esige il rispetto del neonato o del malato mentale privi d’autoconsapevolezza. Il Terzo Venuto è talmente un mistero, a giudicare da quel che la scienza stessa ammette, che perfino il primo articolo del codice civile appare obsoleto («La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita»). La domanda su come comportarsi eticamente di fronte al mistero esula dalla biologia e dalla scienza, ma non dall’individuale coscienza di cittadini e politici, ai quali vien chiesto di pronunciarsi non solo sull’essere ma anche sul dover essere.


Quando si parla di oscurantismo conviene dunque sempre avere in mente Brave New World. Il Selvaggio che scardina l’orrenda utopia di Huxley è in apparenza un medievale, un retrogrado. È anche il più umano, con i suoi dubbi attorno al migliore dei mondi e all’estirpabilità definitiva del male. Il selvaggio Sgreccia, pieno di dubbi come dice di essere proprio per aver esaminato le più recenti scoperte scientifiche, appare infinitamente meno dogmatico di tanti laici che hanno una fede ottimista nella rivoluzione antropologica suscitata dalla scienza. Non so se l’embrione abbia l’anima ma di certo gli scienziati sospettano l’esistenza d’una persona potenziale, dice Sgreccia. In questo dubbio viviamo, e aggirarlo non ci è permesso. «Nel dubbio» meglio considerare l’embrione come se fosse una persona e non ucciderlo. Difficile esser contrari: fra 50 anni sapremo forse che il dubbio aveva ragion d’essere e si proverà rimorso o dolore, per la facilità con cui si son fatti esperimenti e manipolazioni.

Con questo non si vuol dire che monsignor Sgreccia indichi una via interamente praticabile: indica una tensione e un timore etico che ci devono tuttavia abitare, e che a mio parere aiutano a pensare e deliberare. Agazzi stesso, cattolico, ricorda che la Chiesa sceglie spesso fra due mali (quando accetta a certe condizioni la guerra, la legittima difesa, la pena di morte) e che una legge non punitiva è essenziale in materia di procreazione assistita perché sia trovata una via di mezzo tra imperativi egualmente validi. Qui è la forza della Chiesa e delle domande non necessariamente dogmatiche che essa pone.

Le debolezze della Chiesa sono di altra natura, a mio avviso. Sono in certe chiusure a una società in enorme mutazione. Una società che invecchia e si spopola, con donne che figliano sempre più tardi e dunque con sempre maggiori difficoltà. Una società che vede la famiglia spezzettata e che sta inventando nuove forme di convivenza, per far fronte alla solitudine individualista. La Chiesa è afasica di fronte a tali fenomeni, non mostra la flessibilità che ebbe nel Medio Evo, quando assorbì il diritto romano e le fedi pagane. A ciò si aggiunga la leggerezza politica e soprattutto filosofica di parte della Conferenza episcopale. La consegna dell’astensione che viene dal cardinale Ruini, e la pressione sul governo perché il referendum si svolga nel vuoto mentale delle vacanze estive, non sono propriamente decorose e coerenti: se la questione è di sì primaria importanza, se in gioco è l’essenza della vita e dell’uomo, non si capisce come mai la società dovrebbe restare indifferente e non pensare e non votare.

Forse solo il pensiero tragico può soccorrere chi si sforza di riflettere, ma di questo pensiero pochi laici e cristiani sono oggi capaci. Se è vero che l’embrione è in potenza già una persona (e c’è l’assai fondato sospetto che lo sia), la scelta della procreazione assistita può imbattersi in dilemmi di natura tragica, mettendo appunto uno di fronte all’altro, come nell’aporia della tragedia, due valori egualmente validi e inderogabili. Si può decidere di creare embrioni in sovrannumero per facilitare una procreazione, ma poi ci si trova alle prese con migliaia di embrioni da congelare e poi gettare. Possiamo indagare sulle malattie dell’embrione prima dell’impianto (si eviterà l’aborto) ma dobbiamo esser consapevoli che stiamo facendo cadere il tabù dell’eugenetica, della selezione dell’uomo migliore (la classe alpha di Huxley).

La seconda rivoluzione scientifica pone dilemmi che possono incutere spavento, e tutto sta sa a sapere che sono dilemmi, che si fa violenza, che non tutto quel che è lecito edifica, e che nella scienza il bene che si fa a se stessi o al nascituro è molto spesso, troppo spesso, mescolato al male. Tutto sta a migliorare ancora il nostro sapere scientifico, a non abbandonare il sapere aude di Orazio, nella speranza che alcuni dilemmi possano esser superati. Osare sapere è chiave preziosa. Vale la pena sapere che nella nostra cultura la morte dell’uomo è stata anticipata alla morte cerebrale (con il consenso della Chiesa) al solo scopo di facilitare gli espianti. E che una cosa simile può accadere con la nascita della vita.

Vale la pena sapere quali tecniche saranno necessarie in futuro (il congelamento dell’ovulo ad esempio, oggi difficile), per evitare la produzione di embrioni in sovrannumero. Paradossalmente, la parte del cardinale Bellarmino che si rifiutava di guardare dentro il cannocchiale di Galileo caratterizza più spesso i laici, oggi, che i cattolici.

Tutto sta a non vivere inchiodati nell’oggi, ma a tendere verso un futuro che attenui i mali senza pretendere d’estirparli per sempre. Dice Giuliano Amato che le domande «stravaganti» sull’inizio della vita non interessano solo chi parte da premesse religiose, e anche quest’affermazione d’un laico è una promessa. Non abbiamo in mano che espedienti e pensieri stravaganti, ma non è poca cosa: è la saggezza con cui John il Selvaggio mette in causa l’orribile Bel Mondo Nuovo, nel romanzo di Huxley.
http://www.lastampa.it/redazione/editoriali/ngeditoriale5.asp

7.3.05

Omicidio preventivo

ROSSANA ROSSANDA

Non ho mai creduto ai servizi di sicurezza per il troppo potere che hanno e le immunità di cui godono: il dubbio sulla loro stessa utilità era la sola opinione che abbia condiviso con Indro Montanelli. Ma la realtà è più complessa delle supposizioni. Ci sono uomini integri in istituzioni dubbie e viceversa, e devo scusarmi di avere sospettato e scritto, durante il sequestro di Giuliana Sgrena, che i nostri servizi nulla sapevano e stavano facendo. Invece anche nel governo era prevalsa, e per la seconda volta, la scelta della trattativa; che sia avvenuto per un'etica dei doveri o per opportunità politica, l'importante è che sia prevalsa. A un pugno di uomini dei servizi e a chi li dirigeva dobbiamo Giuliana viva e libera. Viva malgrado la tempesta di fuoco che da un blindato americano ha colpito inaspettatamente l'auto dei servizi che la trasportava all'aeroporto. E colpiva per uccidere. Dei tre agenti uno, il dottor Calipari, è perito gettandosi sulla nostra compagna per proteggerla, due sono feriti, Giuliana stessa è stata colpita di striscio. Non è un incidente. Nelle ore concitate che sono seguite, c'è stato il goffo tentativo di Raiuno di passare tutto sotto silenzio, finché il premier non ha parlato; e poi in vari giornali si sono sprecate le giustificazioni: tragico errore, errore accidentale, equivoco, financo «disguido». E il finiano «scherzo atroce del destino». No, il destino non c'entra niente. Siamo di fronte a un episodio che non doveva avvenire, a un «effetto collaterale» imperdonabile, a un assassinio che finirà per passare come preterintenzionale, anche se la procura di Roma ha aperto ieri un fascicolo per omicidio volontario. Giuliana non è stata così vicina alla morte durante il sequestro quanto sotto la sparatoria americana.

Sulla quale molti interrogativi restano. Tutto si può pensare salvo che un agente accorto del Sismi, come il dottor Calipari, si inoltrasse in una zona di stretto controllo militare, come la via dell'aeroporto, senza segnalare la sua identità. Non sarebbe potuto neanche entrarvi.
Tantopiù se usava per prudenza una macchina qualsiasi, perché disponeva di tecnologie di comunicazione anche a distanze assai sofisticate. Ed è spaventevole, a parer mio, ipotizzare che qualche comando, per convinto che sia che non si debba trattare, come gli statunitensi e gli inglesi, abbia ordinato a dei subordinati: quando passano quegli italiani, liquidateli. Certo non si può escludere nessuna ipotesi ed è da dubitare che riusciremo a sapere davvero come è andata. Può anche darsi che le cose siano semplici e feroci: i soldati del blindato hanno trascurato, per sconsideratezza o paura o troppo whisky, di attenersi all'informazione che avevano certamente ricevuto e hanno applicato la massima nazionale: prima spari e poi vai a vedere. Se il loro governo teorizza la guerra preventiva e la fa, perché le truppe non dovrebbero praticare lo stesso sistema? L'informazione primordiale che hanno introiettato è che gli Stati uniti sono al di sopra delle regole. Per questo hanno lasciato a lungo Giuliana e gli altri feriti in macchina prima che avessero deciso se e come darne notizia. E tenere per sé le immagini, sicuramente prese.

Non è una filosofia diversa da quella che ha permesso gli abusi di Abu Ghraib. Anche là i soldati, maschi e femmine, si sono sentiti autorizzati a esercitare il loro sadismo sui sottouomini iracheni. Quelli dell'altra sera sui blindati erano giovanissimi, come è stato testimoniato, avevano appena sostituito un reparto più esperto, e hanno avuto con naturalezza il riflesso di sparare preventivamente su vite ignote, ma sicuramente meno importanti di quelle americane. Sono armati dalla testa ai piedi, vivono solo fra loro, separati da un infelice paese al quale si sentono invisi. Ma anche l'arroganza americana ha dei limiti. Rivelati stavolta dal non aver colpito gente irachena (questo conto non esiste), ma un funzionario del governo italiano e, per così dire, in diretta, mentre parlava con la presidenza del consiglio a Roma. Bush ha dovuto rammaricarsi e l'ambasciatore, convocato per la prima volta a Palazzo Chigi, ha dovuto assicurare che i responsabili pagheranno. Lo ha chiesto perfino Berlusconi, il più mite degli alleati, che si sente in seria difficoltà. In questa guerra insensata l'Italia ha perduto ormai non pochi uomini. E stavolta per un evitabilissimo «fuoco amico». Il governo sente quanto poco di esso tenga conto l'esercito dell'amico Bush. Un ragionamento su profitti e perdite del mantenimento delle nostre truppe in Iraq a un manager così sperimentato dovrebbe imporsi.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Marzo-2005/art4.html

La mia verità

di Giuliana Sgrena

«La nostra auto andava piano, gli americani hanno sparato senza motivo, Calipari è morto fra le mie braccia». Giuliana Sgrena torna in Italia e racconta il suo rapimento e la sua sanguinosa liberazione. Gli Usa insistono: solo un incidente. Ma la versione americana è smentita dai testimoni Il governo italiano tace, solo Ciampi insiste: «Mi aspetto spiegazioni». I pm indagano per omicidio volontario DA PAGINA 2 A PAGINA 9
GIULIANA SGRENA
Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdì la giornata più drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo così ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi «legati ai trasferimenti». Avevo imparato a capire che aria tirava dall'atteggiamento delle mie due «sentinelle», i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perché me ne andavo oppure perché restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto «so solo che te ne andrai, ma non so quando». A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: «Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma». Per Roma, hanno detto proprio così.

Ho provato una strana sensazione. Perché quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento più difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era «certo» ora si apriva un baratro di incertezze, una più pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: «Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire». Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Già mi abituavo ad una momentanea cecità. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista più i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. «Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare...tra dieci minuti ti verranno a cercare». Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano così.

Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato...che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un'altra condizione, quella della libertà? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera».

Dalla prigione al fuoco

In macchina Nicola Calipari parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione calorosa che avevo dimenticato. Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero infuriata. Uno dei miei rapitori mi ha raccontato della maglietta di Totti. Era esterrefatto, diceva di essere tifoso della Roma. Mi hanno fatto vedere un telegiornale, la Jihad annunciava la mia prossima esecuzione. Ero terrorizzata. Mi hanno detto: «non siamo noi»
GIULIANA SGRENA
Mi ha fatto togliere la «benda» di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo «Nicola». Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si è seduto al mio fianco. L'autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto...quando...Io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.

L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, «siamo italiani, siamo italiani...», Nicola Calipari si è buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perché. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente è andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta «perché ci sono gli americani che non vogliono che tu torni». Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della più amara delle verità.

Il resto non lo posso ancora raccontare.

Questo è stato il giorno più drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. «Chiedi aiuto a tuo marito», dicevano. E l'ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è cambiata. Me lo raccontava l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due Simone, «la mia vita non è più la stessa», diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perché ho provato tutta la durezza della verità, la sua difficile proponibilità. E la fragilità di chi la tenta.

Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: «Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!». E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. «Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura». E io ribattevo, quasi a provocarli: «E' facile rapire una donna debole come me, perché non provate con i militari americani?». Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore «politico» non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra.

E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei «provocatori». Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: «Dimmi la verità, mi volete uccidere». Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. «Vieni a vedere un film in tv», mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.

I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdì, al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni mattina si alzava alla 5 per pregare, mi ha fatto le sue «congratulazioni» incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo «se ti comporti bene parti subito». Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta «Liberate Giuliana» sulla sua maglietta.

Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?». L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.

Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto?

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Marzo-2005/art3.html