23.4.14

I “patrioti con le ali” sono riusciti a perdere 500 euro al minuto

Giorgio Meletti (Il Fatto Quotidiano)

IN NOME DELL’ITALIANITÀ BERLUSCONI FECE SALTARE L’AFFARE COI FRANCESI. ECCO I RISULTATI DEI “CAPITANI CORAGGIOSI”.

Rieccoci al capolinea. Pare che l’Alitalia sia in crisi nera. Il fatto è che lo è almeno da un quarto di secolo, da quella calda estate del 1988 in cui il presidente dell’Iri Romano Prodi cacciò Umberto Nor-dio, storico padre-padrone della compagnia di bandiera, accusandolo di pigrizia nella ricerca di alleanze internazionali. In questi 25 anni l’unico settore del trasporto aereo che ha potuto razionalizzare e ottimizzare è quello della stampa specializzata, in grado di ripubblicare sempre lo stesso articolo, scritto chissà quando e da chi, senza rischiare l’errore grossolano.



IL MONDO è cambiato, l’Alitalia no. Il trasporto aereo ha avuto un boom che rimarrà nei libri di storia, l’Alitalia è sempre più piccola. Gli italiani volano low cost, i piloti italiani pilotano low cost, e la politica italiana continua a coccolarsi l’immortale fabbrica di debiti come se fosse un tesoro irrinunciabile. Come se i cugini francesi fossero sempre in agguato per strapparci questa gioia chiamata, con retorica novecentesca, “compagnia di bandiera”. E così la storia si ripete. Nella primavera del 2008 l’Air France se la stava prendendo con debiti e tutto, imponendo 2.000 esuberi. Apriti cielo. I sindacati, storici complici nella gestione allegra a base di assunzioni clientelari, si misero di traverso. Silvio Berlusconi ne approfittò per issare la bandiera elettorale della “italianità” da difendere. Il capo di Air France, Jean Ciryl Spinetta, disse al premier Prodi (ancora lui) che non si fidava di firmare un contratto che il suo prevedibile successore a Palazzo Chigi avrebbe fatto saltare. Il salvataggio orchestrato per B. dal numero uno di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, è un capolavoro da studiare in tutte le facoltà di economia.

Gli esuberi sono passati da 2.000 a 3.200 ufficiali, in realtà molto di più perché quanti fossero veramente i lavoratori Alitalia non si è mai capito di preciso, tanti erano i precari e gli stagionali. Fondendo l’Alitalia con l’Air One sono stati imbarcati circa 14 mila dipendenti, non più di due terzi dei lavoratori effettivi. Sono stati lasciati a terra 850 piloti, un terzo del totale, professionalità che erano costate a tutti i contribuenti anni di addestramento. Il debito di circa 4 miliardi, che Spinetta era pronto ad accollarsi, è rimasto sul groppone dello Stato, affidato al liquidatore Augusto Fantozzi, oggi alle prese con i successori che resistono alla corresponsione degli augusti onorari pretesi. Migliaia di dipendenti Alitalia sono andati in cassa integrazione, allungata con apposita legge fino a sette anni, a spese di Pantalone.

Gli unici che ci hanno guadagnato sono i cosiddetti “patrioti”, che hanno risposto all’appello di Passera e hanno messo insieme 850 milioni per far ripartire la nuova Alitalia sull’onda del mitico “piano Fenice”. La crema dell’imprenditoria italiana, capitanata da Roberto Colaninno, lo scalatore di Telecom Italia. Alcuni sono finiti male prima della nuova Alitalia, come Salvatore Ligresti e Emilio Riva, arrestati. E questi due, come tutti gli altri, hanno buttato i loro soldi sapendo che la gratitudine del capo del governo non avrebbe mancato di manifestarsi. Qualche esempio? La famiglia Benetton poteva farsi riconoscere sontuosi aumenti nelle tariffe autostradali di Atlantia; l’allora presidente di Confindustria Emma Marcegaglia pochi mesi dopo avrebbe portato a casa a canone vile le strutture turistiche della Maddalena realizzate per il G8; lo stesso Riva aveva in ballo una complicata Autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, andata a buon fine.

È FINITA come doveva. Guardate chi sono oggi i principali azionisti dell’Alitalia moribonda che si sta consegnando senza condizioni agli emiri di Etihad. Al primo posto c’è, con il 20,59 per cento, Intesa Sanpaolo. Al secondo posto ci sono le Poste Italiane, con il 19,48 per cento: il numero uno Massimo Sarmi si è precipitato a buttare 75 milioni pubblici per fare la respirazione bocca a bocca al carrozzone dei patrioti, sperando di guadagnarsi meriti governativi in vista delle nomine di primavera, e senza calcolare che l’Alitalia non porta bene, e no lo ha fatto né a lui né al governo che ha cercato di toglierla alle grinfie francesi per “trattare da posizioni di forza” (di cui riferisce Daniele Martini nella pagina a fianco).

AL TERZO POSTO c’è Unicredit, con il 13 per cento: anche la seconda banca italiana ha finanziato i patrioti, e c’è rimasta impigliata. Il capo di Unicredit, Federico Ghizzoni, potrà ringraziare Passera, che nel 2008 versò lieto il suo obolo di 100 milioni in conto capitale, perché allora si teorizzava la “banca paese”, una specie di dépendance del governo Berlusconi. Passera ci credeva: “Abbiamo investito 100 milioni di euro in Alitalia, contribuendo a salvare 14 mila posti di lavoro. Era un’azienda praticamente fallita e noi pensavamo che, com’è avvenuto, potesse essere ristrutturata”.

Ecco come l’hanno ristrutturata. Anno 2009, 326 milioni di perdita; 2010, 160 milioni di rosso; 2011, 69 milioni in fumo. Rocco Sabelli, ex braccio destro di Colaninno prima alla Tim poi alla Piaggio, ripeteva più o meno tutte le settimane che il pareggio dei conti era in vista, bastava aspettare. A un certo punto se n’è andato, senza mai dire perché. Al suo posto fu pescato un certo Andrea Ragnetti, manager di esperienza internazionale, proveniente dalla Philips dove si era messo in luce proponendo all’austera multinazionale olandese il lancio del vibratore di marca. Ragnetti ha fatto danni nel solo 2012, chiuso con una perdita di 280 milioni per la quale è stato accompagnato alla porta con una buonuscita di un milione di euro. Niente in confronto al trattamento dei manager dell’era pubblica, come Giancarlo Cimoli e Francesco Mengozzi, oggi a processo per “bancarotta per dissipazione”, che se non altro rende l’idea.

Al posto di Ragnetti è arrivato Gabriele Del Torchio, che continua a parlare di imminente rilancio , come se niente fosse. Intanto nel 2013 ha incassato una perdita vicina ai 500 milioni. Fatte le somme dei numeri qui elencati, l’Alitalia dei Patrioti – con flotta e mercato quasi regalati, senza un euro di debiti e con il personale ben alleggerito – ha prodotto in cinque anni 1,3 miliardi di perdite, pari a 700 mila euro al giorno, pari a 30 mila euro l’ora, pari a poco meno di 500 euro al minuto. I vecchi boiardi della Partecipazioni statali in confronto erano geniali e onesti.

18.4.14

I 10 PUNTI DI FORZA DELLA LISTA ALTRA EUROPA CON TSIPRAS

di Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (L'Altra Europa)

«Siamo radicali perché la realtà è radicale» (Alexis Tsipras)

Quando diciamo che siamo per un’Altra Europa, la vogliamo davvero e non solo a parole. Abbiamo in mente un ordine politico nuovo, perché il vecchio è in frantumi. Non può essere rammendato alla meno peggio.



In realtà il nostro è l’unico progetto che non si limita a invocare a parole un’altra Europa, ma si propone di cambiarla con politiche che riuniscano quel che è stato disunito e disfatto. Gli altri partiti sono tutti, in realtà, conservatori dello status quo.

Sono conservatori Matteo Renzi e il governo, che parlano di cambiamento e tuttavia hanno costruito quest’Unione che umilia e impoverisce i popoli, favorendo banche e speculatori.

Sono conservatori i leghisti, che denunciano l’Unione ma come via d’uscita prospettano il nazionalismo e la xenofobia.

Nei fatti è conservatore il Movimento 5 Stelle, che si fa portavoce di un disagio reale, ma senza sbocchi chiari.

Tutta diversa la Lista Tsipras. Il progetto è di cambiare radicalmente le istituzioni europee, di dare all’Unione una Costituzione scritta dai popoli, di dotarla di una politica estera non bisognosa delle stampelle statunitensi. Tutta diversa la prospettiva della Lista Tsipras. La nostra non è né una promessa fittizia, come quella di Renzi, né una protesta che rinuncia alla battaglia prima di farla. Metteremo duramente in discussione il Fiscal compact, e in particolare contesteremo – anche con referendum abrogativo – le norme applicative che il Parlamento dovrà introdurre per dare attuazione all'obbligo del pareggio di bilancio che purtroppo è stato inserito ormai nell'articolo 81 della Costituzione, senza che l'Europa ce l'abbia mai chiesto. In ogni caso, faremo in modo che non abbiano più a ripetersi calcoli così palesemente errati e nefasti, nati da una cultura neoliberista che ha impedito all’Europa di divenire l’istanza superiore in grado di custodire sovranità che sono andate evaporando, proteggendoli al tempo stesso dai mercati incontrollabili, dall’erosione delle democrazie e dalla prevaricazione di superpotenze che usano il nostro spazio come estensione dei loro mercati e della loro potenza geopolitica.

Ecco le 10 vie alternative che intendiamo percorrere:

1 - Siamo la sola forza alternativa perché non crediamo sia possibile pensare l’economia e l’Europa democraticamente unita «in successione»: prima si mettono a posto i conti e si fanno le riforme strutturali, poi ci si batte per un’Europa più solidale e diversa. Le due cose vanno insieme. Operare «in successione» riproduce ad infinitum il vizio mortale dell’Euro: prima si fa la moneta, poi per forza di cose verrà l’Europa politica solidale. È dimostrato che questa “forza delle cose” non c’è. Status quo significa che s’impone lo Stato più forte.

2 - Siamo la sola forza alternativa perché crediamo che solo un’Europa federale sia la via aurea, nella globalizzazione. Se l’edificheremo, Grecia o Italia diverranno simili a quello che è la California per gli Usa. Nessuno parlerebbe di uscita della California dal dollaro: le strutture federali e un comune bilancio tengono gli Stati insieme e non colpevolizzano i più deboli. In un’Europa federata, quindi multietnica, l’isola di Lampedusa è una porta, non una ghigliottina.

3 - Siamo la sola forza alternativa perché non pensiamo che prioritaria ed esclusiva sia la difesa dell’«interesse nazionale»: si tratta di individuare quale sia l’interesse di tutti i cittadini europei. Se salta un anello, tutta la catena salta.

4 - Siamo la sola forza alternativa perché non siamo un movimento minoritario di protesta, ma avanziamo proposte precise, rapide. Proponiamo una Conferenza sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 sulla Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra. L’accordo cui si potrebbe giungere è l’europeizzazione della parte dei debiti che eccede il fisiologico 60 per cento del pil. E proponiamo un piano Marshall per l’Europa, che avvii una riconversione produttiva, ecologicamente sostenibile e ad alto impatto sull’occupazione, finanziato dalle tasse sulle transazioni finanziarie e l’emissione di anidride carbonica, oltre che da project bond e eurobond.

5 - Siamo la sola forza alternativa perché esigiamo non soltanto l’abbandono delle politiche di austerità, ma la modifica dei trattati che le hanno rese possibili. Tra i primi: l’abolizione e la ridiscussione a fondo del Fiscal Compact, che promette al nostro e ad altri Paesi una o due generazioni di intollerabile povertà, e la distruzione dello Stato sociale. Promuoviamo un’Iniziativa Cittadina (art. 11 del Trattato sull’Unione europea) con l’obbiettivo di una sua radicale messa in discussione. Chiederemo inoltre al Parlamento Europeo un’indagine conoscitiva e giuridica sulle responsabilità della Commissione, della Bce e del Fmi nell’imporre un’austerità che ha gravemente danneggiato milioni di cittadini europei.

6 – Siamo la sola forza alternativa perché non ci limitiamo a condannare gli scandali della disoccupazione e del precariato, ma proponiamo un Piano Europeo per l’Occupazione (PEO) il quale stanzi almeno 100 miliardi l’anno per 10 anni per dare occupazione ad almeno 5-6 milioni di disoccupati o inoccupati (1 milione in Italia): tanti quanti hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi. Il PEO dovrà dare la priorità a interventi che non siano in contrasto con gli equilibri ambientali come le molte Grandi Opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, ad esempio il TAV Torino-Lione e le trivellazioni nel Mediterraneo e nelle aree protette. Dovrà agevolare la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili; la creazione di un’agricoltura biologica; il riassetto idrogeologico dei territori; la valorizzazione non speculativa del nostro patrimonio artistico; il potenziamento dell’istruzione e della ricerca.

7 – Siamo la sola forza alternativa perché riteniamo un pericolo l’impegno del governo di concludere presto l’accordo sul Partenariato Transatlantico per il Commercio e l'Investimento (Ttip). Condotto segretamente, senza controlli democratici, il negoziato è in mano alle multinazionali, il cui scopo è far prevalere i propri interessi su quelli collettivi dei cittadini. Il welfare è sotto attacco. Acqua, elettricità, educazione, salute saranno esposte alla libera concorrenza, in barba ai referendum cittadini e a tante lotte sui “beni comuni”. La battaglia contro la produzione degli OGM, quella che penalizza le imprese inquinanti o impone l’etichettatura dei cibi, la tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica sono minacciate. La nostra lotta contro la corruzione e le mafie è ingrediente essenziale di questa resistenza alla commistione mondializzata fra libero commercio, violazione delle regole, abolizione dei controlli democratici sui territori.

8 - Siamo la sola forza alternativa perché vogliamo cambiare non solo gli equilibri fra istituzioni europee ma la loro natura. I vertici dei capi di Stato o di governo sono un cancro dell’Unione, e proponiamo che il Parlamento europeo diventi un’istituzione davvero democratica: che legiferi, che nomini la Commissione e il suo Presidente, e imponga tasse europee in sostituzione di quelle nazionali. Vogliamo un Parlamento costituente, capace di dare ai cittadini dell’Unione una Carta che cominci, come la Costituzione statunitense, con le parole «We, the people....». Non con la firma di 28 re azzoppati e prepotenti, che addossano alla burocrazia di Bruxelles colpe di cui sono i primi responsabili.

9 - Siamo la sola forza alternativa a proposito dell’euro. Pur essendo critici radicali della sua gestione, e degli scarsi poteri di una Banca centrale cui viene proibito di essere prestatrice di ultima istanza, siamo contrari all’uscita dall’euro e non la riteniamo indolore. Uscire dall’euro è pericoloso economicamente (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà), e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe. Una moneta «senza Stato» è un controsenso politico, prima che economico.

10 – Siamo la sola forza alternativa perché la nostra è l’Europa della Resistenza: contro il ritorno dei nazionalismi, le Costituzioni calpestate, i Parlamenti svuotati, i capi plebiscitati da popoli visti come massa amorfa, non come cittadini consapevoli. Dicono che la pace in Europa è oggi un fatto acquisito. Non è vero. Le politiche di austerità hanno diviso non solo gli Stati ma anche i popoli, e quella che viviamo è una sorta di guerra civile dentro un’Unione che secerne di nuovo partiti fascistoidi come Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria, Fronte Nazionale in Francia, Lega in Italia. All’esterno, poi, siamo impegnati in guerre decise dalla potenza Usa: guerre di cui gli Stati dell’Unione non discutono mai perché vi partecipano servilmente, senz’alcun progetto di disarmo, refrattari a ogni politica estera e di difesa comune (il costo della non-Europa in campo militare ammonta a 120 miliardi di euro annui). Perfino ai confini orientali dell’Unione sono gli Stati Uniti a decidere quale ordine debba regnare.

L’Europa che abbiamo in mente è quella del Manifesto di Ventotene, e chi lo scrisse non pensava ai compiti che ciascuno doveva fare a casa, ma a un comune compito rivoluzionario. Noi oggi facciamo rivivere quella presa di coscienza: per questo al Parlamento europeo saremo con Tsipras, non con i socialisti che già pensano a Grandi Intese con i conservatori dello status quo. Siamo così fatti perché non abbiamo perduto la memoria del Novecento. L’Europa delle nazioni portò ai razzismi, e allo sterminio degli ebrei, dei Rom, dei malati mentali. L’Europa della recessione sfociò nella presa del potere di Hitler.

17.4.14

Cos’è il Fiscal Compact, spiegato bene

il Post

Guida minima a uno dei temi ricorrenti nel dibattito politico degli ultimi anni: davvero tra poco l'Italia sarà costretta a tagliare 50 miliardi di euro all'anno?

Nelle ultime settimane, in vista delle prossime elezioni europee del 25 maggio, molti critici dell’euro e più in generale delle politiche economiche in Europa hanno sostenuto di nuovo la necessità per l’Italia di uscire dal cosiddetto “Fiscal Compact”, cioè il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012. Il Fiscal Compact è stato un tema ricorrente del dibattito politico negli ultimi anni e probabilmente lo sarà ancora a lungo: formalmente si tratta di un accordo europeo che prevede una serie di norme comuni e vincoli di natura economica che hanno come obbiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun paese; sostanzialmente è diventato sinonimo dell’austerità.
A distanza di due anni, alcuni importanti esponenti dei partiti che nel 2012 ne approvarono l’entrata in vigore in Italia hanno detto che aderire al Fiscal Compact fu uno sbaglio, alimentando il dibattito. Stefano Fassina, ex viceministro all’Economia e responsabile economico del Partito Democratico nel momento in cui il PD votava sì al Fiscal Compact, ha detto che si trattò di «un errore»; l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, sempre del PD, ha detto pochi giorni fa che «così com’è sarebbe terribile per l’Italia». Silvio Berlusconi, all’epoca leader del PdL, che voto sì al Fiscal Compact, recentemente ha detto che l’accordo «esprime in sé tutte le idee di una politica imposta all’Europa da una Germania egemone».
Da dove arriva, chi l’ha firmato
Bisogna ricordare innanzitutto che i mesi precedenti alla firma del trattato erano stati tra i più complicati nella storia dell’euro e dell’Unione Europea: le economie di molti paesi, soprattutto quelli mediterranei, erano state messe in grande difficoltà dalla crisi. Costretti a indebitarsi per fare fronte alle loro spese nonostante le ridotte entrate fiscali, questi paesi non potevano fare altro che offrire interessi sempre più alti agli investitori per ottenere denaro in prestito. La crescita verticale degli interessi unita alla crisi di produttività e ricchezza aveva portato esperti e analisti persino a dubitare, in alcuni casi, che quei debiti potessero essere mai ripagati. La Grecia effettivamente fu costretta a fare un parziale default, rinegoziando le condizioni del suo debito, e senza due prestiti internazionali da centinaia di miliardi di euro avrebbe dichiarato bancarotta; anche la Spagna, il Portogallo e Cipro ebbero bisogno dei soldi della comunità internazionale per tenersi in piedi.
I problemi di ogni paese dell’euro determinavano una “reazione a catena” sugli altri: una giornata particolarmente negativa in Grecia o in Spagna, per esempio, costringeva anche l’Italia a offrire un tasso di interesse più alto agli investitori. Proprio in Italia la pericolante situazione economica aveva portato il governo Berlusconi a perdere la sua maggioranza in Parlamento e a essere sostituito da un governo tecnico guidato da Mario Monti, col compito dichiarato di far uscire quantomeno l’Italia dall’emergenza. Economisti anche molto stimati prevedevano che l’euro sarebbe scomparso entro pochi mesi.
Una delle iniziative prese dai paesi dell’Unione Europea in quel periodo – non l’unica, ma certamente la più controversa – fu il Fiscal Compact, un trattato per stabilire norme e vincoli validi per tutti i paesi firmatari e intervenire in particolare sulla politica fiscale dei singoli paesi. Sia simbolicamente sia materialmente, comportò la cessione di una fetta della propria sovranità economica di ogni paese a un ente sovranazionale, l’Unione Europea. Il Fiscal Compact in questo senso non fu una novità assoluta, anzi: i sui predecessori più importanti furono il Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’1 novembre 1993, e il Patto di stabilità e crescita, sottoscritto nel 1997. Nel Trattato di Maastricht, fra le altre cose, erano contenuti i cinque criteri che ciascun paese avrebbe dovuto soddisfare per adottare l’euro, fra cui un rapporto fra deficit (cioè il disavanzo annuale di uno stato) e il prodotto interno lordo (PIL) non superiore al 3 per cento e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60 per cento. Nel Patto del 1997 l’Unione si dotò invece degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti nel 1993.
Il Fiscal Compact è stato firmato da tutti i 17 paesi che all’epoca facevano parte dell’eurozona (dall’1 gennaio 2014 si è aggiunta la Lettonia, che lo aveva già firmato), che cioè dispongono dell’euro come moneta corrente, cioè Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. È stato anche firmato da 7 altri membri dell’Unione Europea non appartenenti all’eurozona, cioè Bulgaria, Danimarca, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia. Non è stato firmato da Gran Bretagna e Repubblica Ceca.
Cosa prevede
Fra le molte cose contenute nel trattato, le più importanti sono quattro:
– l’inserimento del pareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) di ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale» (in Italia è stato inserito nella Costituzione con una modifica all’articolo 81 approvata nell’aprile del 2012);
– il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale” – quindi non legato a emergenze – rispetto al PIL;
– l’obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e PIL, già previsto da Maastricht;
– per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60 per cento previsto da Maastricht, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60 per cento. In Italia il debito pubblico ha sforato i 2000 miliardi di euro, intorno al 134 per cento del PIL. Per i paesi che sono appena rientrati sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL, come l’Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016.
Le critiche
Una delle norme più criticate è stata il vincolo del 3 per cento, ritenuto da alcuni troppo basso per permettere allo Stato di indebitarsi per tagliare le tasse o finanziare investimenti e attività in favore della crescita. Fra gli altri l’economista Emiliano Brancaccio, collaboratore del Manifesto e del Sole 24 Ore e noto critico delle misure di cosiddetta “austerità”, ha detto che ridiscutere il vincolo «è il minimo che si possa fare», e lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi l’ha definito«oggettivamente anacronistico», nonostante abbia garantito che il governo italiano lo rispetterà.
Ma la norma più contestata in assoluto è quella che prevede la riduzione del rapporto fra debito e PIL di 1/20esimo all’anno. Beppe Grillo, in un post del suo blog del 9 marzo 2014, ha scritto che il Movimento 5 Stelle «cancellerà» il Fiscal Compact, che «in mancanza di una fortissima crescita taglierebbe la spesa pubblica dai 40 ai 50 miliardi all’anno per vent’anni». Moltissimi hanno detto la stessa cosa, negli ultimi mesi: costringendo i paesi a ridurre il rapporto tra debito e PIL di almeno 1/20esimo all’anno, l’Italia sarebbe costretta a fare ogni anno dolorosissime manovre di tagli da 40 o 50 miliardi di euro ogni volta. Anche altri partiti di destra, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, si sono detti decisamente contrari al trattato.
In realtà, come spiegato bene da esperti e analisti, il Fiscal Compact non “impone” nessun taglio della spesa pubblica né obbliga l’Italia a fare tagli anche solo vicini ai 50 miliardi all’anno. Per prima cosa, come spiega bene Davide Maria De Luca nel suo libro, «quello che le regole del fiscal compact ci impongono di ridurre è il rapporto tra il debito pubblico e il PIL. Se ripaghiamo il debito, agiamo sul numeratore, diminuendolo. Per ridurre il rapporto si può però percorrere anche un’altra strada: alzare il denominatore», cioè aumentare il PIL.
Nel conto del rapporto fra debito e PIL, inoltre, il riferimento non è il PIL reale, bensì quello “nominale”: cioè, in sostanza, il PIL reale più l’inflazione. Secondo quanto riportato da Giuseppe Pisauro su La Voce, le cifre di cui si sta parlando «in tempi normali sono valori bassi: con un debito al 120 per cento del PIL e il pareggio di bilancio è sufficiente che il PIL nominale cresca del 2,5 per cento». Tenendo conto del fatto che la BCE si sta spendendo molto per tenere l’inflazione al 2 per cento (e facendo quindi in modo di aumentare il valore del PIL nominale di ciascun paese del 2 per cento). L’ISTAT prevede che nel 2014 il PIL aumenterà di circa lo 0,75 per cento, al netto dell’inflazione: potrebbe quindi non essere necessario agire sul numeratore, cioè tagliare per ripagare il debito pubblico, e risolvere il problema lavorando all’incremento del PIL attraverso misure rivolte alla crescita (cioè sul denominatore).
Il problema, semmai, è che l’inflazione va piuttosto a rilento: potrebbe non aumentare fino al 2 per cento ogni anno, la quota ritenuta “sana”, e c’è addirittura chi teme si entri in una fase di deflazione; e poi c’è il rischio che le stime sulla crescita dell’ISTAT si rivelino troppo ottimistiche. In quel caso l’Italia potrebbe essere sollecitata a rispettare gli accordi previsti dal Fiscal Compact o ricevere degli avvertimenti (il rischio di sanzioni, nonostante siano previste in modo semiautomatico, è improbabile: per approvarle serve il voto favorevole di una larga maggioranza degli Stati, e ce ne sono molti che hanno a loro volta problemi nel rispettare i parametri del Fiscal Compact). Questografico interattivo di Reuters mostra bene come in ogni caso il raggiungimento del rapporto fra debito e PIL sotto al 60 per cento dipenderà da molti fattori: cambiando i valori, si modificano le stime.
La stima dei “50 miliardi da tagliare per vent’anni” citata da Grillo, infine, è frutto di un calcolo “a spanne” che non ha senso nemmeno se decidessimo di agire soltanto sulla riduzione del debito e non sulla crescita del PIL: riducendo il debito pubblico il numeratore del rapporto con il PIL si abbasserebbe, rendendo comunque necessario abbassare la cifra da tagliare ogni anno per ridurre il rapporto.

16.4.14

Russia: in Italia l’intellettuale di riferimento è Lilin. E non stiamo messi bene

Antonio Armano (ilfattoquotidiano)

Mette una certa tristezza che l’intellettuale russo di riferimento che abbiamo in Italia attualmente sia Lilin, l’autore del bestseller Educazione siberiana, dove si spaccia il mito del criminale onesto e una serie di falsi storici pacchiani per una vicenda autobiografica. Giovedì sera era a Servizio pubblico e, interrogato sullo schieramento di truppe russe al confine con l’Ucraina, ha commentato che 100mila soldati non sono molti visto che in “Cecenia eravamo 500mila”. Niente di cui preoccuparsi? Del resto Putin “non è uno stupido”, non farà colpi di testa.

Ora se consideriamo che la Cecenia ha una popolazione di 1200mila abitanti (negli anni precedenti meno), appare chiaro che la cifra sparata da Lilin è assurda. Vorrebbe dire che in Cecenia, territorio montagnoso e impervio, una persona su tre era un soldato russo! Che bisogno c’era dunque di combattere? Bastava il corpo a corpo, le manette, il judo, anzi: la lotta greco-romana. Al contrario l’impiego di truppe è progressivamente diminuito nel corso delle due guerre cecene perché più soldati hai sul territorio più rischi perdite, attacchi della guerriglia, aggressioni di ogni tipo come sanno tutti, con vittime e problemi di contestazione interna, le madri in piazza e così via. Si è dunque intensificata nella seconda guerra cecena l’azione di bombardamento dell’artiglieria e dell’aviazione fino a radere praticamente al suolo il Paese e le truppe russe presenti sul territorio ceceno sono diminuite da 70mila a 60mila unità. Anche se si tratta di stime approssimative siamo lontani anni luce da quelle sparate da Lilin. Contano i carrarmati e gli elicotteri, non i fantolini.

Nonostante un costoso programma di ammodernamento per portare l‘esercito russo al livello tecnologico di quelli occidentali più avanzati, che comunque richiede tempo (la conclusione del programma è prevista per il 2020), le forze armate della Federazione sono di gran lunga le più forti dell’area ex sovietica ma hanno molti limiti. Soprattutto è urgente il passaggio a un esercito professionista e non di leva con i problemi connessi allo scarso addestramento.

Tornando al punto da cui siamo partiti, ci può stare che le fantasie romanzesche di Lilin, spacciate per vissuto personale, incontrino successo andando incontro ai gusti di un pubblico credulone e di bocca buona in cerca di un esotismo slavo da fogliettone criminale. Anche se lo scrittore russo Zachar Prilepin, che in Cecenia ha combattuto davvero, ed è membro del partito Nazional bolscevico (quello di Limonov), nonché autore di bellissimi libri editi da Voland come San’ka, si è dichiarato esterrefatto che in Italia e altrove ci sorbiamo le panzane raccontate da Lilin.

In un articolo intitolato La Russia artefatta che piace all’Occidente è sbottato su Educazione siberiana: “Ma siamo impazziti? La Russia sarà pure un Paese selvaggio, ma da noi è impossibile immaginare il romanzo di uno scrittore contemporaneo tedesco che racconti di come, nei boschi presso Berlino, si nasconda un reparto di ex SS, che insieme ai figli e ai nipoti, sulle note di Wagner e battendo il tamburo, rapinano i treni in transito. Ed è altrettanto impossibile immaginare che i lettori russi ci caschino e gli editori scrivano in copertina: “Ecco i figli del lupo della steppa, è più forte del Faust di Goethe“. Oppure proviamo a immaginare che in Russia arrivi uno scrittore francese di 22 anni e cominci a raccontare di essere stato tiratore scelto in Algeria o guastatore in Iraq, dove è riuscito a catturare uno dei figli di Saddam, e adesso scrive un libro in cui i commandos francesi mangiano rane e compiono prodezze straordinarie. E che gli pubblichino le sue storie dicendo “Finalmente un autore degno di Dumas e di Saint-Exupéry’. Impossibile!”

In Italia non solo è possibile, ma scatta pure l’invito televisivo a discettare di geopolitica. Insomma: non mi sembra il caso di tornare su Educazione siberiana, che purtroppo Salvatores ha trasformato in un film, e racconta una serie di cose inverosimili e cioè che Lilin discende da una tribù siberiana deportata in Moldavia ai tempi di Stalin che in Siberia viveva di rapine e in Moldavia ha continuato a sguazzare nel crimine ma secondo un codice di regole “oneste”, segretamente racchiuse in un codice di onore non scritto se non sulla pelle, vale a dire impresso nei tatuaggi. Già molti, in Italia e all’estero, tra cui Anna Zafesova della Stampa, hanno scritto quello che doveva essere scritto per ridicolizzare la verosimiglianza di quanto veniva spacciato non solo per realistico, ma addirittura per reale. Non solo per verosimile, ma pure per vero. Quello che più colpisce è che ci siano ancora dei giornalisti, delle trasmissioni televisive, che diano credito a Lilin, che lo prendano sul serio, quando non andrebbe preso più sul serio di un personaggio da bar di provincia che dice di avere un cugino che conosce uno che sa fare un colpo mortale e segreto e illegale di arti marziali.

Fino a qualche tempo fa l’expat di riferimento esperto di cose dell’Est in televisione almeno era un Predrag Matvejevic, discendente da una famiglia russa fuggita in nave da Odessa ai tempi della rivoluzione. Come siamo caduti in basso. Non un moldavo che si spaccia per discendente di una inesistente etnia criminale siberiana. Non a caso in Russia non lo traducono neanche. Ma quale censura putiniana! Si metterebbero a ridere. Qui lo si invita a pontificare in tivù.

12.4.14

Tetto stipendi: nessuno pensa ai giudici della Corte Costituzionale?

Giuseppe Valditara - Professore ordinario di Diritto Pubblico Romano (ilfattoquotidiano)

Il governo intende giustamente mettere il limite di 238.000 euro per gli stipendi dei dirigenti della Pubblica Amministrazione e dei manager delle società pubbliche o partecipate dallo Stato. Dirigenti apicali e manager pubblici hanno beneficiato finora di trattamenti economici esagerati in virtù della loro contiguità con il potere politico. Si propone adesso di commisurare le loro retribuzioni massime a quella del Presidente della Repubblica.

Vi è tuttavia una curiosa dimenticanza in tutto ciò: nessun limite viene stabilito infatti per i giudici della Corte Costituzionale. Matteo Renzi si è limitato ad auspicare che i poteri dotati di autonomia provvedano anche loro. Auspicio destinato chiaramente a non avere conseguenza alcuna posto che la retribuzione dei giudici della Corte Costituzionale è fissata da una legge costituzionale, la 87 del 1953, modificata in senso più favorevole da una legge voluta dal governo Berlusconi, la 289 del 2002. Il trattamento dei giudici costituzionali è dunque oggi commisurato alla retribuzione del primo Presidente della Corte di Cassazione, vale a dire 311.000 euro lordi annui, aumentato della metà.

L’indennità del Presidente della Corte è incrementato di un ulteriore 20%. A queste cifre, già molte elevate (467.000 euro circa per un giudice ordinario, 550.000 per il Presidente) si sommano una indennità giornaliera, pari ad un trentesimo della retribuzione mensile di un magistrato ordinario, ed un beneficio fiscale: l’imponibile è pari solo al 70% della retribuzione. Solo per fare qualche paragone, i giudici della Corte suprema del Regno Unito ricevono un appannaggio di 235.000 euro, gli omologhi canadesi percepiscono 216.000 euro, il Presidente della Corte suprema Usa prende 173.000 euro. La Corte costituzionale costa 61,5 milioni di euro all’anno – circa quattro volte quella britannica – e, in proporzione al numero dei membri, due volte e mezzo il Senato. Contrariamente a quanto ha lasciato intendere Renzi, il trattamento dei giudici costituzionali può essere modificato solo con una legge costituzionale e dunque, di fatto, solo con una iniziativa del governo.

Si potrebbe così tornare alla disciplina originaria prevista dalla legge del 1953, che si limitava a commisurare la loro retribuzione a quella del primo presidente della Corte di Cassazione, eliminando inoltre la diaria ed il beneficio fiscale. Se poi si volesse togliere solo l’aumento concesso nel 2002 basterebbe una legge ordinaria, posto che si tratta di disposizioni inserite nella legge Finanziaria. Si avrebbe così un risparmio non trascurabile, ma soprattutto una dimostrazione di coraggio da parte del premier. Se non altro sgombrerebbe il campo dalle insinuazioni malevole secondo cui la cautela di Renzi sarebbe dovuta alla volontà di blandire la Corte in vista di probabili ricorsi contro le sue riforme. Insomma la stessa critica che si fece a Berlusconi quando 12 anni fa aumentò le indennità dei giudici costituzionali.

Per un ulteriore approfondimento sulle nostre iniziative e le nostre proposte, vi invito a visitare la nostra pagina www.facebook.com/groups/crescitaliberta

11.4.14

Sanità, il soccorso diventa business 'L'obiettivo non è salvare, ma incassare'

In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia
di Michele Sasso

Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona. Il paziente è nelle mani dell’abilità del guidatore a destreggiarsi nel traffico, della capacità del personale nel massaggio cardiaco e nella rianimazione. Adesso invece anche il soccorso d’emergenza sta diventando un ricco business: in Italia si spende un miliardo e mezzo di euro per garantire gli interventi. Oggi si punta al profitto, tagliando sulla qualità, risparmiando sui mezzi e imbarcando soggetti senza qualifica. Una torta che attrae interessi spregiudicati e lottizzazioni politiche, un serbatoio di soldi facili e posti assicurati. Perché il settore di fatto è stato investito da una deregulation, che rischia di creare un Far West a sirene spiegate.

Il ministero della Salute ha ceduto i controlli alle Regioni, che preferiscono affidarsi ai privati. Dalla Lombardia alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia è scattato l’assalto all’ambulanza. Nunzia De Girolamo ha perso la poltrona di ministro proprio per uno scandalo sugli appalti del 118. Ovunque sono segnalati disservizi e a Sud nella mangiatoia si è infilata persino la criminalità. Questo ai danni di oltre 150 mila volontari, che vengono scacciati per fare spazio a organizzazioni spregiudicate. «Ci sono finti volontari che ricevono lo stipendio in nero mascherato da rimborso», spiega Mario, soccorritore di Torino. Il metodo è uguale da Milano a Napoli: le associazioni di pubblica assistenza, le cosiddette “Croci”, si iscrivono all’albo regionale e sgomitano per accaparrarsi le corse. L’obiettivo non è più salvare, ma incassare. «Abbiamo scoperto persino casi di autisti alcolizzati e soccorritori zoppi», racconta Mirella Triozzi, responsabile del settore per il sindacato medici italiani: «Con l’arrivo dei privati il soccorso è diventato un colossale affare, dimenticando che in ballo c’è la sopravvivenza di migliaia di persone».

SOCCORSO A MANO ARMATA In Puglia le 141 basi delle ambulanze costano 68 milioni di euro l’anno. La pioggia di denaro pubblico ha scatenato la concorrenza tra decine di onlus, che sgomitano per conquistare le postazione delle ambulanze: averne tre (il massimo consentito) significa fare bingo e incassare 120mila euro ogni mese. «Ai presidenti delle associazioni rimangono in tasca 6 mila euro al mese», riconosce Marco De Giosa, responsabile del 118 della Asl di Bari. C’è più di un sospetto su come siano stati assegnati gli incarichi: la procura del capoluogo sta indagando su un sistema di tangenti che sarebbero state smistate ai funzionari arbitri degli appalti. Stando alle inchieste, i controlli fanno acqua da tutte le parti. Nessuno ha mai chiesto la fedina penale a Marcello Langianese, ex presidente dell’Oer, Operatori emergenza radio, un ente morale con 50 ambulanze e decine di dipendenti. Langianese era il manager del soccorso che gestiva diverse postazioni tra Bari e Modugno. Mentre veniva stipendiato per salvare i pazienti, è accusato di avere architettato una rapina clamorosa. Secondo i carabinieri ha avuto un ruolo chiave nell’attacco contro un furgone portavalori nel centro di Ortona: un colpo che ha fruttato quasi due milioni e mezzo di euro. Nella regione per il business delle ambulanze si combatte persino con le bombe incendiarie, che hanno distrutto i mezzi di alcune onlus a Bari, Trani, Barletta e Foggia. A Turi, sempre nel Barese, hanno bruciato un’autolettiga nuova di zecca. L’ipotesi investigativa è che si tratti di avvertimenti criminali. Per evitare che le associazione di volontari possano spezzare il monopolio di un cartello che invece agisce solo a scopo di lucro.

COSCHE E SIRENE L’intercettazione è esplicita: «Quando ti chiamano e abbiamo bisogno a quell’orario di un’autoambulanza, mi fotto 1500 euro». È agli atti dell’inchiesta sui Lo Bianco, la cosca di Vibo Valentia che dominava la Asl locale, e spiega come ogni uscita a sirene spiegate si trasforma in denaro contante. Guadagni sicuri, costi ridottissimi: per entrare nel settore non sono richieste competenze particolari. L’imprenditore mette il capitale, acquista o noleggia i mezzi e cerca gli autisti. Va bene chiunque. Uno degli indagati è stato registrato mentre ingaggia il personale: «La guideresti l’ambulanza? La patente è quella della macchina, sono 800 euro puliti». Non è l’unico caso. Nello scorso luglio è emersa la vicenda della Croce Blu San Benedetto di Cetraro nel Cosentino. I magistrati sostengono che a gestirla fosse Antonio Pignataro detto “Totò Cecchitella”, seppur privo di incarichi ufficiali. Pignataro non è una pedina qualunque: è stato arrestato per i legami con il boss Franco Muto, “Il re del pesce”.

APPALTI LOTTIZZATI Quanti interessi si muovano dietro i 118 “liberalizzati” lo ha fatto capire la vicenda che ha travolto Nunzia De Girolamo. Le registrazioni dei colloqui tra l’esponente del centrodestra e i vertici della sanità sannita mostrano l’opacità del settore. Sono riuniti nel giardino di famiglia e Nunzia chiede: «In tutto questo si deve fare la gara?». La discussione verte su come “bypassare la gara pubblica” e favorire un’impresa amica. In quel luglio 2012 l’atmosfera attorno alle ambulanze di Benevento è incandescente, con i lavoratori che protestano per il mancato stipendio. Il servizio è nelle mani di due imprese: la Modisan e la Sanit che lo gestiscono in proroga intascando oltre quattro milioni di euro l’anno. La prima è molto vicina alla regina del Sannio, tanto da aver contribuito finanziariamente al congresso del suo partito. L’altra ditta, invece, non è allineata: «Quelli non li voglio», dice Michele Rossi, l’uomo messo dall’ex ministro alla guida dell’Asl. La lottizzazione riguarda pure la rete dell’assistenza, sfavorendo la copertura nei comuni guidati da giunte non allineate. Come racconta Zaccaria Spina, sindaco di Ginestra degli Schiavoni a 40 chilometri dal capoluogo:«Per venire da noi l’ambulanza ci mette un’ora. I cittadini ormai si sono rassegnati e se c’è un’emergenza si mettono in auto e scappano. Scoprire cosa c’era dietro quelle scelte dà molta amarezza».

ANIMATORI DA VACANZE Nel Lazio uno strano appalto agita i sonni dell’agenzia regionale che gestisce migliaia di ambulanze. La cronica mancanza di risorse ha portato l’ex governatrice Renata Polverini a concedere ai privati quaranta basi, le postazioni dalle quali partono gli equipaggi che coprono la provincia di Roma. Un affare da dieci milioni l’anno, senza gara: vengono assegnate per affidamento diretto alla Croce rossa italiana. Un’istituzione storica seppur piena di debiti, che decide di “girare” l’attività operativa a una srl di Milano, la Cfs costruzioni e servizi: una società specializzata in pulizia e manutenzione di immobili, che applica la logica del ribasso. Così al personale assunto per la missione capitolina viene offerto un contratto singolare: quello da animatore turistico. Soccorritori trattati come se lavorassero in un villaggio vacanze. Perché? Semplice: con questo contratto si risparmia un terzo della paga. Solo dopo un esposto del sindacato è scoppiato il caso. «In questo settore c’è il divieto di dare subappalti, eppure è quanto ha fatto la Croce rossa con l’aggravante di aver avallato condizioni di lavoro ridicole», accusa Gianni Nigro della Cgil Lazio.

PAGATI PER STARE A CASA In Sicilia anche le ambulanze sono diventate uno stipendificio: un pronto soccorso per favorire assunzioni di massa. Nel 2002 grazie a un corso per formare i guidatori-soccorritori con prove di guida banali e surreali test di comunicazione, ben 1600 persone vennero imbarcate in una società creata da Regione e Croce Rossa per garantire il salvataggio nell’isola. Un colosso con un totale di 3300 dipendenti. Che secondo la Corte dei Conti ha prodotto uno spreco di denaro pubblico. L’allora presidente Totò Cuffaro è stato condannato a pagare un danno erariale da 12 milioni per quell’infornata di autisti e soccorritori. Troppi. E troppo costosi. In Sicilia si spende per un’autolettiga 440 mila euro l’anno, contro 100 mila della Toscana. La ragione? Molte macchine sono praticamente ferme o escono solo per tre interventi al mese. L’ultima truffa da venti milioni di euro l’ha scovata l’assessore alla Salute Lucia Borsellino: negli ultimi due anni 160 dipendenti sarebbero stati regolarmente stipendiati mentre in realtà rimanevano a casa. Oltre 600 mila ore non lavorate ma retribuite. Nonostante lo sperpero di denaro, l’assistenza non soddisfa. E la giunta Crocetta ora vuole schierare la cavalleria dell’aria: sei elicotteri, con un costo per il noleggio di 178 milioni in sette anni.

SISTEMA MILANO Non è una questione solo meridionale. Dietro le sirene si scoprono ovunque storie di sfruttamento e drammatici disservizi. In Lombardia ogni anno il Pirellone stanzia 315 milioni per dare assistenza rapida: ogni intervento è una fattura e inserirsi nelle metropoli permette di moltiplicare i guadagni. Ma a Milano un incidente stradale ha scoperchiato un sistema marcio: l’ambulanza ha bruciato un semaforo e si è andata a schiantare. Si è scoperto che l’autista non dormiva da tre giorni. Da lì sono partite le indagini che hanno svelato quanto sia pericolosa la trasformazione del soccorso in business: precari a bordo pagati a cottimo e obbligati a turni massacranti, mezzi fuori norma, corsi d’addestramento fantasma. Tre inchieste parallele della Finanza in corso dal 2010 stanno svelando lo stesso meccanismo di truffe e peculato. Con risultati raccapriccianti: i responsabili di tre onlus - Croce la Samaritana, Ambrosiana e San Carlo - usavano il denaro pubblico destinato alle emergenze e alla formazione per le loro vacanze, per l’asilo dei figli, scommesse ai videopoker, le auto personali e perfino l’acquisto di una casa. Spese senza freno e i rischi scaricati su migliaia di feriti. Loro stessi ne erano consapevoli e dicevano cinicamente: «Se stai male non chiamare le nostre ambulanze sennò muori».

hanno collaborato Antonio Loconte, Piero Messina, Claudio Pappaianni e Giovanni Tizian