28.3.09

La tela del ragno. Reti organizzate per sfuggire al controllo

di Benedetto Vecchi
Un percorso di lettura dedicato a Internet, a partire dal volume di Ned Rossiter. Nel frattempo, l'Europa invita gli stati nazionali a considerare l'accesso al web come un diritto di cittadinanza, mentre oggi a Roma è «Festa dei Pirati»
Sono bastati pochi anni affinché l'utopia del World Wide Web vissuto come regno della libertà lasciasse il posto alla visione di Internet come ultima frontiera da colonizzare per «fare affari». E altrettanto breve è stato il periodo in cui le imprese operanti nelle Rete sono fallite, lasciando sul campo pochi sopravvissuti. Tra questi i soliti noti - Microsoft, Oracle, Sun, Ibm, Dell -, mentre i nuovi arrivati erano nomi conosciuti solo dagli «addetti ai lavori». Google era infatti solo una piccola impresa conosciuta nei collages o nel caotico mondo dei virtuosi della programmazione. La crisi che aveva sconvolto il World Wide Web tra il 1999 e il 2001 era generalmente letta come un necessario processo di selezione «naturale» in un ambiente fortemente competitivo, dove le risorse cominciavano a scarseggiare. Ciò che gli analisti del settore non potevano immaginare è che dagli angoli meno conosciuti della rete cominciavano appunto a farsi avanti realtà che rivendicavano una sorta di ritorno alle origini di Internet, una tecnologia propedeutica alla condivisione di materiali digitali - testi, immagini, suoni - e alla comunicazione sociale.Il social networking, il peer to peer sono solo due degli esempi di questo radicale mutamento di scenario che ha caratterizzato la Rete dopo la deflagrazione delle dot-com. Il successo planetario di Google e, in misura minore di Yahoo!, era letto come il segnale che il web poteva essere comunque un habitat che favoriva gli affari, a patto però che le imprese fossero saldamente ancorate al social networking. È a queste new entry che è dedicato il volume di Nicholas Carr Il lato oscuro della rete (Rizzoli-Etas, pp. 270, euro 20), saggio utile proprio per comprendere cosa accade nella produzione high-tech, quali sono i modelli produttivi emergenti, quale il rapporto che intercorre tra imprese e cooperazione sociale. E maggiormente significativa è la pubblicazione del libro Reti organizzate di Ned Rossiter (manifestolibri, pp. 255, euro 28), densa analisi dei rapporti sociali dentro e fuori la Rete, con il pregio di prestarsi a ulteriori percorsi di ricerca.Problemi di savoir faireL'autore de Il lato oscuro della Rete, Nicholas Carr, è stato direttore di Harvard Business Review, una specie di vangelo apocrifo del libero mercato in salsa libertaria, in particolare modo per quella centralità data all'homo oeconomicus, figura tanto eterea quanto flessibile nel definire una visione della realtà in cui tanto la società che lo stato dovevano essere considerati sue variabili dipendenti. Il nome di Carr è però legato al provocatorio saggio - Doesi It matter? - dove le tecnologie digitali sono considerati fattori produttivi secondari nella nuova organizzazione dell'impresa. Per l'autore, infatti, l'elemento qualificante di un'economia di libero mercato è la valorizzazione del savoir faire della forza-lavoro, mentre alle tecnologie è delegato il compito di rendere fluido il processo lavorativo. Il potere del management sta nella sua capacità di avere una vision complessiva dei rapporti tra i diversi settori dell'impresa. Una tesi che non piacque molto ai produttori di computer e di software, data la critica che Carr muoveva al determinismo tecnologico che animava gran parte della retorica sulla nuova organizzazione produttiva basata sulle tecnologie digitali, definita di volta in volta: a «rete», «snella», «orizzontale». In questo saggio, Carr non fa certo autocritica. Le tecnologie, qualunque esse siano, sono sempre delle macchine che svolgono determinati compiti. Non hanno nulla delle virtù prometeiche che vengono loro attribuite. Semmai sono equiparate all'elettricità, che può essere venduta a chi ne ha bisogno. È su questa analogia tra tecnologie digitali e elettricità che si snoda il saggio di Carr, individuando nella potenza di calcolo e nello spazio di memoria eccedenti una utility che può essere venduta. In altri termini, una impresa si connette alla rete e può collegarsi a un sito che offre programmi applicativi specifici - dall'elaborazione dei testi, alla gestione degli archivi, dalle paghe alla gestione di cartelle cliniche - oppure può usare lo spazio di memoria che gli serve. Così le tecnologie digitali diventano una utility, proprio come l'elettricità agli inizi del Novecento. Certo, le imprese che vendono servizi destinano all'acquisto di macchine e software ingenti investimenti, ma i profitti si fanno attraverso un sofisticato sistema di tariffe che privilegiano il «mondo degli affari», ma che possono essere allargate anche ai singoli. Il saggio di Carr può essere dunque letto come l'ennesimo pamphlet sulle magnifiche sorti progressive di Internet. E molte potrebbero essere le obiezioni sul «modello di business» avanzato, ma il punto che merita di essere discusso del volume si trova in due capitoli dal titolo «Dai molti ai pochi» e «La tela del ragno» quando l'autore descrive la trasformazione del crowdsourcing in attività economica. Il potere dei moltiIl termine, praticamente intraducibile, crowdsourcing indica proprio quella cooperazione sociale che sviluppa sia programmi informatici innovativi che procedure altrettanto innovative nelle attività di rete. Carr dice espressamente che questa attività dei «molti» favorisce i guadagni per «pochi». Ciò che l'autore descrive non è altro che la classica appropriazione privata di un bene comune - la conoscenza en general -. È in questa politica dell'espropriazione che si gioca la partita della rete, molto più rilevante del grande risiko tra le grandi imprese hig-tech, gioco composto da fusioni, acquisizioni, strategie di marketing e convergenza tecnologica tra telefonia mobile e informatica che appassiona i media. Ma per comprendere il conflitto tra cooperazione sociale nella rete e imprese occorre partire dalle Reti organizzate del giovane ricercatore australiano Ned Rossiter, uno dei saggi più sofisticati nel mettere in relazione la saggistica dedicata a Internet con il pensiero critico sul capitalismo contemporaneo.Il punto di partenza di Rossiter è all'opposto di quello di Carr, perché mette al centro i rapporti di lavoro, i programmi politici finalizzati alla crescita delle cosiddette «industrie creative», le norme tanto nazionali che globali sulla proprietà intellettuale e la crisi della democrazia rappresentativa. Temi letti, tutti, attraverso una griglia analitica che si avvale delle opere di autori tra loro eterogenei, da Theodore W. Adorno a Chantal Mouffe, da Harold A. Innis a Scott Lasch, da Geert Lovink a Paolo Virno. Rossiter respinge in maniera convincente le tesi secondo le quali Internet è l'atteso regno della comunicazione libera, così come rigetta il luogo comune che vede nelle relazioni di lavoro nelle imprese high-tech l'auspicato superamento delle gerarchie e del lavoro salariato. Anzi è proprio a partire da una analisi dei documenti sulle «industrie creative» che l'autore giunge alla conclusione che la trasformazione dei modelli produttivi e le norme della proprietà intellettuale dimostrano chiaramente come i meccanismi di sfruttamento più che superati siano semmai accentuati nel cyberspazio, sebbene presentino caratteristiche diverse dal passato. Da una parte, le materia prime del «lavoro creativo» - espressione che Rossiter utilizza criticamente - è la conoscenza e il sapere sociale. Dunque, ciò che è «comune» diviene proprietà di «pochi» (le imprese) attraverso le leggi della proprietà intellettuale. Allo stesso tempo le gerarchie non scompaiono, ma sono articolate nei rapporti vis-à-vis segnati dalla condivisione di uno stesso progetto lavorativo da svolgere in un'unità di tempo definita. Nell'impresa contemporanea sono quindi vigenti quelle foucaultiane «tecnologie del controllo» dove tutti controllano tutti e che hanno il loro corollario nella precarietà dei rapporti di lavoro.Il saggio di Ned Rossiter acquista maggior rilevanza per il fatto che è stato scritto dopo la crisi dell'economia delle dot-com. Cioè negli anni successivi, quando era svanito il sogno di chi aveva individuato in Internet l'«ambiente» che poteva garantire un ininterrotto sviluppo economico, sostituendo così l'industria automobilistica e quella dell'elettronica di consumo come settori trainanti dell'economia mondiale. La messa a tema della crisi da parte dell'autore può essere usata in questi tempi dove la crisi non ha coinvolto solo il cyberspazio, ma si è diffusa al di fuori dello schermo. La retorica attorno al «lavoro creativo» ha infatti lasciato il posto alla consapevolezza sulla necessità di fare i conti con il regime di accumulazione capitalistico nel suo complesso. Questo non significa che gli elementi di conoscenza e di comprensione del capitalismo contemporaneo derivanti dall'analisi della rete siano da gettare alla critica roditrice dei topi. Più realisticamente è di articolarli maggiormente. A partire dal ruolo svolto dai «molti», il contesto cioè dove maturano le innovazioni. E questo indipendentemente se il lavoro viene svolto in uno sweatshop o in una impresa tradizionale, se esso è manuale o «cognitivo», con buona pace di chi insegue ancora la chimera di un tranquillizante quarto stato. Infatti, tanto dentro che fuori lo schermo, il conflitto investe l'appropriazione privata delle innovazioni in quanto prodotto sociale.Ned Rossiter invita a pensare la rete come una realtà da organizzare in base al rifiuto di questa espropriazione della creatività da parte delle imprese. Dunque organizzare «i molti». Un invito da fare proprio in una situazione dove la crisi va agita, anche come occasione di trasformazione della realtà.
ilmanifesto.it

27.3.09

"Cara sinistra Berlusconi non ha vinto con la tv"

intervista a Mentana: dalla direzione del Tg5 all'addio
"Mai votato per lui, ma dietro c’è un blocco elettorale vero"

FABIO MARTINI

Sostiene Enrico Mentana: «Credo che una persona con la mia storia possa dirlo: la sinistra non ha mai capito il fenomeno Berlusconi. Soprattutto si è dimostrata sbagliatissima l’immagine per cui in questi 15 anni in Italia c’è stato un Grande Fratello tv che ha condizionato le coscienze. Se così fosse stato, non sarebbe accaduto quel che è storia: Berlusconi ha vinto, poi è andato all’opposizione, ha vinto, poi è andato all’opposizione e alla fine ha rivinto». Pochi come Mentana, per molti anni quadro di punta di Mediaset, può raccontare quanto la tv abbia condizionato la politica italiana e quanto la sinistra abbia capito, o frainteso, il fenomeno-Berlusconi. Licenziato dalla sera alla mattina dal Biscione, Mentana dice di sé: «Non ho mai votato per Berlusconi, so che nella fase nascente l’uomo non ha avuto scrupoli nella costruzione di Forza Italia, ma posso testimoniare quanto sbagliata sia l’idea della sinistra di essere sempre stata dalla parte della Storia, mentre gli altri erano i corsari, come se avessero avuto un Moggi. Per la sinistra Berlusconi ha sempre “rubato” la vittoria, ma in realtà loro non hanno mai fatto i conti col blocco elettorale che sostiene il centrodestra».

Partiamo dalla scesa in campo del Cavaliere: nell’entourage stretto chi era favorevole?
«Ricordo la riunione con tutti i direttori: io, Monti di “Panorama”, Briglia di “Epoca”, Gori di Canale 5, Costanzo. E ricordo Letta e Confalonieri che dicevano: Silvio, siamo tutti contrari».

Finché un giorno arriva nelle redazioni di tutti i Tg la famosa cassetta con Berlusconi che annuncia l’ingresso in politica: il Tg5 la trasmise integralmente?
«Ne mandammo in onda meno della metà».

Berlusconi si arrabbiò?
«Pensi che per dimostrare la nostra autonomia, quando Berlusconi presentò il suo primo governo, noi aprimmo il Tg5 delle 20 con un’altra notizia. Allora sbagliai, però questo dimostra che il fenomeno berlusconiano non si capisce con i soliti stereotipi. A proposito, la sera della famosa cassetta, vidi Raiuno...».

Cosa trasmetteva?
«Un grande giornalista come Demetrio Volcic moderò un dibattito nel corso del quale il verde Mauro Paissan disse che Berlusconi era un pallone gonfio di nulla. Era la teoria del partito di plastica, andata avanti per anni. Salvo poi rivalutare la plastica!».

La sinistra e i grandi giornali, dopo la prima Convention di Berlusconi storcevano il naso: in quello snobismo c’è un equivoco durato anni?
«L’illusione della sinistra era che Tangentopoli avesse cancellato l’elettorato moderato: si confondeva il crollo del Palazzo con la scomparsa di un elettorato consolidato che invece era pronto a votare chiunque tranne loro. L’abbaglio contaminò il sistema dei mass media: nessuno vedeva che c’era un’adesione forte e non plastificata. Nel 2001, ben 7 anni dopo la scesa in campo, ricordo un articolo-appello di Umberto Eco, il cui senso era questo: se una persona è perbene, vota a sinistra, se è egoista o fascista, vota a destra. Ma così non si andava lontano».

Nei primi anni la Tv aiutò molto Berlusconi...
«Allora - molto più che in seguito - la tv non ebbe alcun ruolo. Se non quello proprio del mezzo. Allora, da parte del centrodestra, non ci fu la possibilità di strafare».

Per anni la sinistra si è dichiarata per una legge sul conflitto di interessi, ma non è riuscita mai a farla: perché?
«Vogliamo dirla tutta? La sinistra non ha mai fatto la legge perché a loro Berlusconi faceva comodo così! Se ne avessero limitato lo strapotere, non avrebbero potuto più fare campagne sull’antiberlusconismo. Se Berlusconi, scherziamoci, fosse diventato povero, poi come lo attaccavi?».

Difficile negare che i programmi di Mediaset abbiano condizionato il modo di pensare degli italiani...
«La Ruota della fortuna di 15 anni fa e oggi il Grande Fratello non c’entrano niente: ci sono in tutto il mondo. Chiediamocelo: ci sono trasmissioni che hanno cambiato la percezione degli italiani, che hanno fatto decidere che era meglio Berlusconi di Veltroni? Certo, Berlusconi in tv è potentissimo, a Mediaset negli ultimi tempi si stanno chiudendo gli spazi di autonomia, con un’informazione ossequiente o marginalizzata. Ma il vero nemico della sinistra è stato un altro: abbracciare il libero mercato, la globalizzazione e non avere più risposte per l’Italia che cambiava».
lastampa.it

26.3.09

Esplorazioni in forma di loop - Intervista a Edgar Reitz

di Elfi Reiter
Edgar Reitz, ospite al FilmForum di Udine racconta il suo progetto di far rinascere «VariaVision», installazione di cinema sperimentale anni Sessanta
Il progetto annunciato era il restauro dell'opera VariaVision realizzata da Edgar Reitz (il noto autore dei tre cicli di Heimat) nel 1965, ma di fatto quella installazione per 16 proiettori e 120 schermi - totalmente dimenticata perché difficile e supercostosa da realizzare - è andata quasi tutta perduta. Ce lo dice lo stesso Reitz, raggiunto al telefono a Udine dove si sta svolgendo il FilmForum 09 con un convegno e tre serate di proiezioni, (Dalle origini a internet), con film, tra gli altri, di Pedro Costa, Harun Farocki, Danièlle Huillet e Jean-Marie Straub. Un anno fa il museo di arte contemporanea di Monaco, Haus der Kunst, aveva offerto al regista di restaurare l'intero progetto (in collaborazione con l'università di Udine, tramite il laboratorio «La camera ottica» del Dams di Gorizia) ma i negativi dei film collocati in un archivio sono spariti. VariaVision nella sua forma originaria andata in scena nella enorme hall alla fiera di Monaco soltanto quell'anno per cento giorni consecutivi non esisterà più, tranne in tanti documenti d'epoca. Per cui si è deciso di creare una nuova versione intitolata VariaVision 2010, il cui progetto è già pronto sui tavoli delle due istituzioni, con un tema nuovo, eseguito con tecnologie nuove, tutto in digitale. Rimane però da cercare un finanziatore dei vari film da girare. Al centro la ricerca di nuovi valori, permanenti e umani, dato che quelli governati dal denaro finora sono giunti al termine. Sono da trovarsi, dice Reitz, soltanto nelle produzioni artistiche e nell'ambito della cultura, unica prospettiva e di qui il sottotitolo Kino der Horizonte, ossia «cinema degli orizzonti».Quello della versione del 1965 era perpetuum mobile: essa si componeva di tanti corti più o meno astratti che giravano in loop nei proiettori disseminati nell'enorme spazio e associati a un sistema di altoparlanti, di cui alcuni trasmettevano la musica elettronica (composta dal musicista Josef Anton Riedl) e altri il collage di testi scritti appositamente da Alexander Kluge. Con lui, cineasta teorico e scrittore (noto in Italia per aver vinto a Venezia 1968 con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi) Reitz aveva fondato nel 1963 l'Institut für Filmgestaltung di Ulm (la cui denominazione significa «creazione cinematografica», e collegato alla Hochschule für Gestaltung, una accademia delle belle arti, era fucina di molti talenti del mondo delle arti visive tedesco, poi chiusa nel 68). «Nacquero in quel contesto i nostri esperimenti, portati avanti con gli studenti per indagare le basi del cinema». Il tema era il viaggio... «Si riferiva al mio corto Geschwindigkeit, essendo la velocità di cui trattava insita nel viaggiare ma anche uno dei punti di vista centrali nelle arti moderne, anzi è il grande mito del XX secolo, basta pensare al futurismo, o alle nuove tecnologie e ai nuovi media. Il tema del viaggio era riferito alle macchine veloci, al passare veloce nel mondo, per dare un nuovo volto del mondo e tracciare una mappa di impressioni fuggenti». Nello spazio espositivo a Monaco erano previsti spazi comodi per sedersi affinché il pubblico potesse concentrarsi nella visione e nell'ascolto, quasi un suggerire il montaggio in diretta nella propria testa? Reitz si affretta a dire che era «una cineperformance astratta basata sulla libera associazione delle immagini» e sottolinea che senza VariaVision non avrebbe mai fatto Heimat. «È stato propedeutico per rispondere alla domanda: che cos'è il cinema? Per me è un incontro tra pubblico e schermo, e ho voluto sperimentarne il funzionamento specifico, al di là di una storia con un inizio e una fine. VariaVision si poteva guardare per tre minuti o per tre giorni, non era mai uguale, perché i singoli piccoli film erano proiettati ognuno per sé, ripetutamente, e avendo ognuno una durata diversa andavano creandosi sempre nuove combinazioni. Ero curioso di quanto tempo le persone si sarebbero fermate a guardare, per scoprire quanto sarebbero state attente nel caso di un film molto lungo: il fulcro non era l'aspetto narrativo ma la forza di attrazione dell'attimo».Alla domanda rispetto quale clima culturale era nato l'esperimento che sembra allacciarsi a quelli del cinema astratto negli anni venti, Reitz precisa che «si trattava di una fuga dal provincialismo e dalle strettezze a livello politico in cui viveva il popolo tedesco negli anni sessanta», in cui si procedeva a ondate concentrate sulle nuove esperienze da fare: dapprima l'«ondata mangerecca», poi l'«ondata dei mobili», in cui ci si focalizzava sulla propria casa e infine quella «del viaggio» per esplorare il mondo che avrebbe influenzato il nuovo modo di vivere e anche la nuova politica in Germania «molto orientata a ciò che si pensa là fuori nel mondo di noi». Fu il quesito centrale del periodo postnazista, c'era - e c'è tuttora -una gran paura rispetto all'opinione sul piano internazionale. Al contrario dell'Italia, il cui governo attuale criticato in tutto il mondo sembra non tenerne conto, in una situazione simile in Germania il governo sarebbe già caduto da tempo...
ilmanifesto.it

25.3.09

Manganelli canterini

di Marco Travaglio

Il vicequestore Gioacchino Genchi, da 20 anni consulente dei giudici in indagini di mafia e corruzione, è stato sospeso dal servizio. Motivo: ha rilasciato interviste per difendersi dalle calunnie e ha risposto su facebook alle critiche di un giornalista. «Condotta lesiva per il prestigio delle Istituzioni» che rende «la sua permanenza in servizio gravemente nociva per l’immagine della Polizia». Firmato: il capo della Polizia, Antonio Manganelli. Se Genchi avesse massacrato di botte qualche no global al G8 di Genova, sarebbe felicemente al suo posto e avrebbe fatto carriera (Massimo Calandri, «Bolzaneto, la mattanza della democrazia»): Vincenzo Canterini, condannato a 4 anni in primo grado per le violenze alla Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, 2 anni di carcere in tribunale, è al vertice della Direzione Centrale Antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per le sevizie a Bolzaneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria. Le loro condotte non erano «lesive per il prestigio delle Istituzioni» e la loro presenza è tutt’altro che «nociva per l’immagine della Polizia». Ma forse c’è stato un equivoco: Manganelli voleva difendere Genchi e sospendere Canterini, Fournier e Perugini, ma il solito attendente coglione ha capito male. Nel qual caso, dottor Manganelli, ci faccia sapere.
unità.it

22.3.09

Il silenzio che manca in Vaticano

Barbara Spinelli

C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni di Benedetto XVI: comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana, mal aiutato da chi lo circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il pontefice stesso, nella lettera scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli errori di gestione sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle opinioni del vescovo Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli scismatici «non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti altri gesti, e l’errore di gestione non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno fatto abortire una bambina in Brasile, stuprata e minaccta mortalmente perché gravida a 9 anni. La scomunica, che colpisce anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife: il Vaticano l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta sull’aereo che lo portava in Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids - una verità evidente - ma perfino nocivi. C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex premier francese Juppé parla di autismo. Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del metodo in questa follia.

C’è il riaffiorare possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono più vicini al vero coloro che stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo anniversario del suo annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo: l’associazione Il Nostro 58, sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta una prova spirituale. Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica: l’occasione che riesumerà lo spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come in queste settimane che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che mai. Chi legga l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel che successe allora, che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato, e avversato oggi come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica di San Paolo, solo 24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio Vaticano III se il secondo è ai primordi. Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il filosofo Giovanni Reale sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull'Amore). Se in principio non c’è un dogma ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude Reale. Diventa inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in Africa, dove Aids e sovrappopolazione sono flagelli.

In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento». È un annuncio singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a un potere fine a se stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del suo vicario: una tentazione non del Papa forse - che nell’orizzonte nuovo pareva credere - ma di parte della Chiesa. L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un orizzonte vuoto non restano che astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui valori, innanzitutto: «La legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave dello stupro. In un caso la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli elogi del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi.

Né Sobrinho né Re vedono l’uomo: né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta. Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che invece vide Giovanni XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale dell’Anima di Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere, anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della chiesa cattolica. (...) Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». Comprenderlo meglio era «riconoscere i segni dei tempi». O come dice Melloni: indagare l’oggi. Vedere nell’uomo in quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il destinatario del messaggio, o il protagonista di un rifiuto, ovvero - peggio ancora - il mendicante ferito di un “senso” di cui la Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa Giovanni, Einaudi, 2009). Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della Chiesa non pensa come il Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga l’oggi, specie dove l’uomo è pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor Emmanuelle, che a 63 anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno scrisse una lettera a Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine continuamente ingravidate.

Lo narra in un libro scritto prima di morire (J'ai 100 ans et je voudrais vous dire, Plon). Distribuiva profilattici senza teorizzare su di essi. Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte. Ma il silenzio ha un pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu grata: disse che il suo silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il silenzio che pensa, ha sete di sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì, va solo compreso meglio. Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo spirito soffia dove vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8). Soffia come il fato delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della forza. Chi fa silenzio o è solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero. In Africa, il Papa ha accennato al «mito» della sua solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché questo ridere? Come capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione della forza (la forza numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi, impotente, incorre nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i malati che si difendono come possono dall’Aids? Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora paventa gli aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per rifarne una più pura. Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima tradizione. La tradizione del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede nei modi più diversi.
lastampa.it

17.3.09

In Italia l'assegno d'oro scompare dal sito

Società pubblicheIn attesa delle regole sul tetto agli stipendi, I casi Fincantieri e Anas

Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole
Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente


Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l'anno.

C'è solo un dettaglio. Il tetto c'era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all'ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L'emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l'intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l'emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell'Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l'ombra. L'offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l'autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell'Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l'Anas è in attesa dell'apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l'Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d'opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l'anno, compresa la parte variabile dello stipendio.

Sergio Rizzo

corriere.it

16.3.09

Habeas vultus

di Barbara Spinelli

E’ davvero singolare che chi s’indigna per la messa a nudo dei politici attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l’uso che viene fatto dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17 febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto, invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il Tribunale del Riesame abbia invalidato l’accusa dal 10 marzo, e le analisi del Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante, di gogne: questa è gogna di due scagionati.

Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste in molti codici quello che potremmo chiamare l’habeas vultus, l’habeas facies: il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile). L’abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale. Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.

Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.

Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all’habeas corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben scrisse anni fa sulle impronte digitali: «Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto» (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge: «L’esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono poi estese a tutti».

Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero, ricorrendo al verbo o all’occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che s’installa, si banalizza, e l’abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi. Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale («Alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?») quasi parafrasando le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici \. Poi un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all’uomo ma lo copre con sopra-nomi, epiteti che per sempre inchiodano l’individuo a quel che esso ha presumibilmente compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa «faccia da pugile». Isztoika riceve un diminutivo - «biondino» - che s’accosta, feroce, al diminutivo che assillante evoca le vittime (i «Fidanzatini»). Sono predati non solo i volti e i nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato. Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni «sono una schifezza» e rovinano la persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell’interrogatorio in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l’Ansa, che più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché hanno condotto «un’indagine all’antica: decine di interrogatori di persone che corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve» (il corsivo è mio).

Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan. Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e poi scagionato («Il fascismo dell’epoca trovò il capro espiatorio per rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che efficiente e presente»). Ancor oggi, c’è chi associa Girolimoni all’epiteto di mostro. Damiano Damiani nel ’72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma, con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto, Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel ’61, poverissimo. Ai funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro l’accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la reclusione a Regina Coeli e l’internamento per 17 mesi in manicomio criminale. Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.

Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura. La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che l’evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: «Ma da voi non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina» (La Stampa, 3 marzo). Ancora non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati del tutto, le loro sciagure s’estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l’aveva devastato.

La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s’assiepa affamata attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo l’amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli organi dello Stato hanno arrecato.

Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöl-ler: non avendo difeso romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde - politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti («Certo, non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente: i veri colpevoli sono sempre romeni»). Saremo stati falsamente vigili sulla sicurezza: perché vigilare è il contrario dell’indifferenza, del sospetto, e dei pogrom.

lastampa.it

12.3.09

Medici senza frontiere: dieci crisi nascoste dai telegiornali

L a catastrofe umanitaria in Somalia, l’emergenza sanitaria in Myanmar, la guerra civile nel Congo orientale.
Sono solo alcune delle più grandi crisi umanitarie «dimenticate» dai media italiani nel 2008. A stilare la classifica dei dieci drammi più trascurati dai media è Medici senza frontiere (Msf). Secondo i dati presentati ieri a Roma, il “gossip” passa spesso in primo piano. La classifica di Msf si basa su un’analisi condotta dall’Osservatorio di Pavia sullo spazio dedicato alle crisi umanitarie dai principali Tg italiani. «Dall’analisi – ha osservato Mirella Marchese, dell’Osservatorio di Pavia – emerge che le 10 crisi umanitarie più dimenticate sono: i civili uccisi o costretti alla fuga per l’intensificarsi degli scontri avvenuti nel Pakistan nord­occidentale; la critica situazione sanitaria in Myanmar; l’epidemia di colera nello Zimbabwe; la guerra civile nel Congo orientale; la catastrofe umanitaria in Somalia; la malnutrizione dei bambini ad Haiti, Bangladesh e Costa d’Avorio; l’allarmante situazione sanitaria nella regione somala dell’Etiopia; la perpetua situazione di violenza e sofferenza in Sudan; i civili iracheni con urgente bisogno di assistenza e la co-infezione Hiv­Tbc». È su queste basi che si pone l’iniziativa di Msf, con il patrocinio della Federazione Nazionale Stampa Italiana, di lanciare la campagna «Adotta una crisi dimenticata» per chiedere a quotidiani e periodici, trasmissioni radiofoniche e televisive e testate on-line di impegnarsi a parlare di una o più crisi dimenticate durante i prossimi 12 mesi. Una campagna che ha già visto le adesioni di diverse testate giornalistiche e che vedrà coinvolte anche numerose università e scuole di giornalismo.
Tra le testate che si sono impegnate su questo obiettivo, il
Tg2, il Tg4, la Repubblica, Il Giornale Radiorai, Donna Moderna, Il Sole 24 Ore, La Stampa, Internazionale, Il Corriere della Sera online e Adnkronos. ( Avvenire,
che da sempre riserva ampia attenzione alle crisi “dimenticate” – e anche sulle dieci qui in questione non fa mai scendere il silenzio – pur senza un’adesione formale, ribadisce il proprio sforzo continuativo a favore dei Paesi e dei popoli che maggiormente hanno bisogno dell’informazione e della vicinanza internazionale)­L’Osservatorio di Pavia ha notato come, rispetto al 2006, la percentuale di notizie trasmesse dai tg italiani delle reti generaliste su questi temi si sia abbassata notevolmente. Dal 10% del 2006 al 6% del 2008. «Con alcune differenze – sottolinea Marchese – tra Rai e Mediaset. La prima ha un 8% ( Tg1 7,3%, Tg2 6,9%, Tg3
10,5%), mentre la seconda si ferma al 4% ( Tg4 5,4%, Tg5 4,5%, Studio Aperto 2,9%)». Sono invece trattate abbastanza le crisi che riguardano il Medio Oriente (19%), il Caucaso (12%), l’Afghanistan (11%), il Tibet (9%) e l’Iraq (8%). Vengono però privilegiate, ad esempio nel caso dell’Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, le notizie sul dibattito politico in Italia o negli Usa; nel caso del Pakistan, le elezioni e la cronaca degli attentati. Infine, anche per il 2008 viene confermata la tendenza di parlare di contesti di crisi soprattutto se riconducibili a eventi e personaggi italiani o comunque occidentali.
Emblematici in questo senso sono la crisi in Somalia, a cui i tg hanno dedicato 93 notizie (su 178 totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la malnutrizione infantile, di cui si parla principalmente in occasione di vertici della Fao o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento principalmente per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti testimonial famosi. ( R.E.)
Medici senza frontiere: «Sui media maggior spazio al gossip rispetto ai drammi internazionali» Chiesta l’«adozione» delle situazioni calde
MYANMAR
Il 2 maggio 2008 il ciclone Nargis ha riportato Myanmar al centro dell’attenzione, devastando il delta dell’Irrawaddy e causando circa 130mila vittime, tra morti e dispersi. Il ciclone è stato l’ennesimo colpo inferto a una popolazione sotto scacco da parte del regime.
EST DEL CONGO
Dal settembre del 2007, la ripresa dei combattimenti nel Nord Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo, ha causato un massiccio sfollamento della popolazione. Ai profughi manca acqua, cibo e riparo. L’accesso all’assistenza sanitaria è quasi inesistente.
SOMALIA
Nel 2008 la Somalia ha subito una delle più gravi ondate di violenza degli ultimi dieci anni che ha ridotto allo stremo la popolazione. Si stima che una donna su dieci perda la vita durante il parto e oltre un bambino su cinque muoia prima di aver compiuto cinque anni.
ZIMBABWE I primi mesi del 2008 hanno segnato un periodo di ulteriore tracollo economico e di violenza politica nello Zimbabwe.
La situazione è allarmante: inflazione a quota 231 milioni per cento, carenza di beni essenziali, repressione. I morti per il colera sono più di 4mila.
ETIOPIA
Quest’anno le continue violenze e le difficili condizioni climatiche hanno reso estreme le condizioni di vita della popolazione nella regione somala dell’Etiopia. Intrappolata negli scontri tra ribelli e governativi, la gente, prevalentemente nomade, è sempre esclusa dagli aiuti.
MALNUTRIZIONE INFANTILE
Per i bambini malnutriti, alimenti ricchi di nutrienti, vitamine e minerali sono essenziali per la sopravvivenza. Le cifre sono sconvolgenti. Le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità parlano di 178 milioni di bambini affetti da malnutrizione.
SUDAN
Nel 2008, due grandi emergenze umanitarie hanno continuato a colpire il Sudan: la crisi nel Darfur e le conseguenze di decenni di guerra civile nel sud. In Darfur, nonostante gli sforzi umanitari, centinaia di migliaia di persone sono ancora tagliate fuori dagli aiuti.
TBC E AIDS
Ogni anno la tubercolosi (Tbc) uccide circa 1,7 milioni di persone e ne colpisce 9 milioni. La Tbc è in aumento nei Paesi con alti tassi di Hiv, in particolare nell’Africa meridionale. La Tbc è una delle principali cause di morte per le persone affette da Hiv.
PAKISTAN (NORD-OVEST)
Il 2008 ha visto l’intensificarsi degli scontri tra forze governative e ribelli nella provincia nord­occidentale e nelle aree tribali di amministrazione federale del Pakistan. Ad agosto, migliaia di pachistani sono sfollati all’interno del Paese o si sono rifugiati in Afghanistan.
LA GUERRA IN IRAQ
Il conflitto e gli attacchi dei terroristi hanno provocato 4 milioni di sfollati interni ed esterni (tra questi oltre 300mila cristiani). Negli ultimi 18 mesi, la sicurezza in Iraq è leggermente migliorata: i livelli di violenza sono diminuiti ed è emersa una nuova situazione politica.

avvenire.it

11.3.09

Per blog e forum non valgono le stesse garanzie della stampa

Gli interventi dei partecipanti al forum online non possono essere fatti rientrare nell'ambito della nozione di stampa”, ma sono piuttosto equiparabili “ai messaggi che possono essere lasciati in una bacheca”.
Blog, forum di discussione aperti, newsgroup, mailing list e così via, non possono dunque avvalersi “delle guarentigie in tema di sequestro che l'art.21, comma 3, della Costituzione riserva soltanto alla stampa, sia pure intesa in senso ampio, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero
”.

Con questa motivazione, i giudici della terza sezione penale della Corte Suprema di Cassazione hanno confermato la legittimità del sequestro preventivo di alcune pagine web del sito dell'Aduc, disposto a novembre del 2006 dalla Procura della Repubblica di Catania dietro denuncia dell’associazione Meter di Don Fortunato Di Noto per il “fondato pericolo” che la permanenza in rete dei messaggi potesse “aggravare o protrarre le conseguenze del reato stesso dato che chiunque può liberamente continuare ad immettere messaggi dello stesso contenuto”.

L'associazione di don Di Noto aveva accusato Aduc di pubblicare messaggi di “vilipendio della religione” offensivi per gli handicappati e di natura “hard-porno”.
In un fax all’associazione, Meter spiegava di non voler invocare una censura (“ce ne guarderemmo!”) bensì la possibilità di moderare un forum che “nel contesto dell'Aduc non crediamo possa contenere tali messaggi”.
Nel contempo all’Aduc veniva comunicato che era già stata depositata una denuncia.

Aduc aveva quindi fatto ricorso presso il Tribunale del Riesame di Catania che però, pur giudicando illegittimo il sequestro preventivo, aveva disposto il sequestro non già dell'intero forum, ma solo degli interventi incriminati, quelli cioè di tre utenti contro i quali il pubblico ministero ha ritenuto di dover procedere per vilipendio.

“Non ci fermeremo fino a quando il diritto alla libertà di espressione non verrà riconosciuto a tutti”, spiegava Aduc, annunciando il ricorso in Cassazione.

La Cassazione, con sentenza n. 10535, tuttavia, ha confermato la posizione delle autorità giudiziarie catanesi, ritenendo che i commenti di alcuni utenti non offendevano solo la religione cattolica “mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri”, ma superavano “i limiti del buon costume” con accenni espliciti alla pratica della pedofilia da parte dei sacerdoti come mezzo per diffondere “il sacro seme del Cattolicesimo”.

La Suprema Corte non ha accolto quindi le motivazioni dell’Aduc, secondo cui ai nuovi strumenti di comunicazione online dovrebbero essere garantite le stesse garanzie legali della carta stampata, ritenendo anzi che blog, forum, chat, messaggi istantanei et similia “non possono essere qualificati come un prodotto editoriale, come un giornale online o come una testata giornalistica informatica”, soltanto per il “semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum”.
I novi mezzi di espressione del proprio pensiero – nel caso in particolare dei forum online - insomma sono “una semplice area di discussione dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui e' soggetta la stampa o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro”.

Immediato il commento di Aduc, che sottolinea come la sentenza della Cassazione “ha stabilito la legittimità della censura per tutto ciò che non è stampa”.
“Evidentemente – sottolinea l’associazione in una nota - rispetto alle leggi che disciplinano le libertà di espressione dei cittadini, la stampa gode di una sorta di immunità o "via preferenziale". Un esempio: se il giornalista Tizio scrivesse un pensiero contrario al buon costume su un quotidiano non potrebbe essere censurato, contrariamente al comune cittadino Caio che manifestasse lo stesso identico pensiero su un forum in Internet. In altre parole, per la Cassazione esistono le libertà di serie A e quelle di serie B. E quelle legate alla libera manifestazione del pensiero individuale di chi non è giornalista sono di serie B”.

La sentenza non mancherà di far discutere, con il mondo dei blog già in fermento per la forte vena censoria intravista nell’emendamento del Sen. Giacomo D’Alia dell’UDC, contenuto nel pacchetto sicurezza.
Contro l’emendamento si è scatenata una vera e propria offensiva, sostenuta da Libera/Rete, secondo cui la norma è “inutile e dannosa”.
Inutile perché “viene introdotta in nome della lotta contro i reati di istigazione a delinquere via internet quando esistono già numerose misure giuridiche atte a perseguire eventuali abusi e reati commessi tramite internet”.
Dannosa perché la previsione di perseguire chiunque “inviti a disobbedire alla leggi”, spiega Libera/Rete, è così vaga “da consentire di colpire qualunque espressione critica, qualunque informazione che possa “disturbare il manovratore”, qualunque linguaggio non in sintonia con quello del potere dominante e del pensiero unico”.

Speriamo, che “non si formino 'ronde digitali' per segnalare alla magistratura i siti scomodi”, ha auspicato Jacopo Venier (Pdci), annunciando che verrà chiesta a breve un'audizione alla commissione affari costituzionali della Camera, che oggi ad esaminare il pacchetto sicurezza.

key4biz.it

8.3.09

Ma quale Marx

Rossana Rossanda

Breve il terrore seguito al crac della finanza: cielo, torna Marx! E perché? Perché i governi sono corsi in aiuto alle banche, rifinanziandole. L'intervento fatale dello stato, cioè il riaffacciarsi di Marx...

Che sciocchezza. Intanto lo spavento non è durato molto. Stati, o meglio governi, non sembrano chiedere nulla in cambio. Si limitano a dire che non si può lasciar fallire una banca perché questo trascinerebbe nel vortice risparmiatori e imprese. Lasciar fallire Lehman Brothers è stato un errore; salvare una banca è un atto di salute pubblica, come far fronte a una inondazione. Quindi altre imprese chiedono aiuto, per prime le grandi costruttrici di auto, perché quote ingenti dei loro clienti hanno smesso di cambiare la vettura, per cui rischiano il licenziamento centinaia di migliaia di lavoratori, che da disoccupati costano allo stato e producono tensione sociale. Solo in Europa si moltiplicano le cifre di disoccupati a breve, per non parlare dell'est che, gettato spensieratamente nel libero mercato, vi sprofonda più degli altri. Perfino gli oligarchi che avevano ammassato ricchezze nella svendita della proprietà pubblica ne stanno perdendo una parte.

Quindi gli stessi che per venti anni hanno strillato «meno stato più mercato» adesso chiedono l'intervento statale. C'entra Marx? Per niente. Prima di tutto non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione; se mai fu Lenin a pensare che la proprietà statale, ma d'uno stato proletario, fosse l'ultima fase prima della socializzazione della proprietà stessa. Nulla di simile passa per la testa dei governi, né delle opposizioni attuali.

I primi sono reticenti perfino a dichiarare la natura di queste erogazioni. Si tratta d'un prestito, oppure di un acquisto di parte delle banche e imprese, delle quali essi assumerebbero una congrua parte della proprietà? Sarkozy ha recentemente affermato per una operazione del genere che si tratta di un prestito a un buon tasso di interesse, l'8 per cento; insomma sarebbe un investimento un po' azzardato. Se ho capito bene soltanto nel Regno Unito Gordon Brown ha dichiarato che si tratta di una partecipazione al capitale azionario delle banche salvate, e qualcuno ha aggiunto «pro tempore», ma lo stato non vi metterà becco, non voterà a seconda delle azioni che detiene, interviene come cassa d'emergenza e basta.

Gran silenzio sugli interrogativi che si fa il semplice cittadino: i soldi che lo stato eroga come «aiuti» da dove li prende? Dalla finanza pubblica, cioè da noi? Con le tasse? Quali e quando? Solo Obama dichiara che aumenterà le imposte per gli alti redditi, ma ai fini di pagare l'estensione della sanità pubblica a tutti i cittadini. Gli Usa possono stampare moneta, aumentando così un deficit pubblico già cinque volte più elevato del nostro; ma gli stati europei non lo possono fare, lo potrebbe soltanto la Banca Centrale, che non ne manifesta alcuna intenzione. E fino a ieri dichiaravano di essere così a secco da dover tagliare energicamente la spesa pubblica - scuole, ospedali, enti locali. In Francia anche i tribunali.

Per ultimo, come appariranno nei bilanci dello stato le somme erogate per gli aiuti, se appariranno?

Le sinistre, se così si può chiamarle, che rappresenterebbero i lavoratori e i lavoratori medesimi che scendono in piazza gridano: il giocattolo finanza l'hanno rotto i padroni delle banche, paghino loro. Anche l'Onda ha usato lo stesso slogan: non pagheremo noi la vostra crisi. Ma dubito che gli uni e gli altri ci credano. Le sinistre non stanno marciando all'assalto del credito, non reclamano neanche che, salvato, diventi quota di proprietà pubblica - che non sarebbe affatto socialismo ma sì e no una misura keynesiana - e l'utilizzo ne sia discusso pubblicamente nei parlamenti e fra le parti sociali. Fino a poco fa anche esse tuonavano per la privatizzazione di quanto era pubblico. Non abbiamo strillato anche noi, il manifesto, contro la proprietà statale e i boiardi di stato? Non abbiamo scritto che è l'occhio del padrone che ingrassa il cavallo mentre le burocrazie statali sono inerti e corrotte? D'altra parte non avevamo le forze per proporre che la proprietà pubblica passasse in autogestione, anche per il dubbio (inespresso) di come funzionerebbe una autogestione nuda e cruda in un mondo globalizzato. Mancò poco che non giovassimo alle privatizzazioni della sanità e della scuola, cui sono allegramente andati i governi di centrosinistra.

Quindi dalle nostre parti, per dir così, silenzio o richiesta agli stati di salvare le imprese per salvare i dipendenti, in primis dell'auto. Di «nazionalizzazione» si parla a vanvera, come proprietà statale forse transeunte, certo non ammessa al controllo pubblico, a sua volta incontrollato (salvo forse dalla corte dei Conti). Una riflessione autocritica sullo slogan «meno stato più mercato» non la fa nessuno. O mi è sfuggita?

Neppure si domandano condanne per i responsabili della rovina. Nessuno di coloro che hanno lasciato andare in pezzi il proprio istituto, è imputato di nulla. In genere sono confermati nei loro incarichi. Ho, per così dire, sott'occhio l'amministrato delegato della Fortis che è stato sollevato, sì, dalla direzione ma con un paracadute d'oro e con un incarico ben retribuito di consulente speciale della medesima banca. Per configurare una frode bisogna proprio che gente come Madoff o Stanford abbiano visibilmente ingannato il prossimo proponendo per depositi fatti presso banche di loro fiducia, perlopiù nei paradisi fiscali, interessi favolosi pagati con i soldi dei nuovi piccioni via via acchiappati. Ma è frode o no far nascere nuovi titoli l'uno dall'altro, «derivarli» nella speranza che il mercato speculativo li acquisti e rivenda prima che atterrino su un pezzo di quella che chiamano «economia reale»? Una tradizionale bolla in borsa scoppiava quando i titoli emessi da una impresa triplicavano di valore rispetto alla base produttiva su cui li emettevano. Stavolta no. I famosi derivati derivano da altri titoli, sul principio che messo sul mercato il denaro produce da se stesso altro denaro. È una frode oppure va chiamata affettuosamente «ingegneria fiscale», e funziona fin quando la inesigibilità del titolo si rivela clamorosamente?

Al semplice cittadino questo genere di operazioni ricorda la storiella del furbo romano che, vedendo un contadino mirare stupefatto il Colosseo, gliene propone l'acquisto, lo sprovveduto sgancia e il furbo sparisce con i quattrini. Le banche hanno potuto vendere e rivendere un virtuale, un derivato, un future - dice Tremonti che i derivati sono pari a dodici volte e mezza il prodotto industriale lordo di tutto il mondo! - senza che questo configuri un reato. Fu forse reato che gli olandesi, incantati dai tulipani, si contendessero come l'oro il bulbo di quel fiore fino ad allora sconosciuto? È stata la prima speculazione, la racconta Galbraith, e durò fin che di colpo si avvidero che ci si poteva procurare quel rizoma con due centesimi.

La scorsa estate un trader della Société Générale ha lasciato aperto il suo computer un venerdì, un collega ci ha messo l'occhio, ha scorto che stava inanellando spericolatamente acquisti e vendite, ne ha avvisato la direzione; la quale prima di tutto ha rifilato a ogni buon conto ad altre banche i titoli giocati e poi lo ha denunciato. Ma che si riesce a imputargli? Ha operato per amor dell'arte, non ne ha intascato un soldo, nessun superiore è in grado né è tenuto a controllarlo, se il suo percorso non fosse stato interrotto la banca ne avrebbe tratto ingenti guadagni. L'ingegneria finanziaria lavora sul virtuale. Calcola sul desiderio.

Il povero Marx non lo immaginava proprio. Al contrario aveva razionalmente previsto la fine del rentier. Anche le famose righe dei Grundrisse nelle quali afferma che in futuro il lavoro sarebbe diventato una ben misera base per l'aumento della ricchezza mettevano in conto l'enorme mutamento delle tecnologie, non la crescita parassitaria di una speculazione (sempre in qualche misura virtuale), che diventando smisurata sfocia nelle bolle ed esplode in distruzione di ricchezza, come sta avvenendo ora, dopo essersi deposta di passaggio su questo o quel speculatore. Va da sé che anche quel che si chiama ora capitale cognitivo non si identifica nella capacità di George Soros di prevedere i movimenti delle borse.

In realtà chi sproloquia su Marx si dimentica spesso e volentieri che tutta la sua analisi riposa sul fatto, intollerabile per un nipotino della rivoluzione francese, che il modo capitalistico di produzione elude l'uguaglianza in diritti che sarebbe propria di ogni essere umano, perché si fonda al contrario sull'inuguaglianza fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non possiede altro che la propria forza di lavoro, materiale o immateriale. Nella produzione al primo rimangono capitale, macchine (tecnologia), prodotto, il secondo è un accessorio vivente (magari intelligentissimo), della macchina (tecnologia), anche lui merce, magari individualmente preziosa, acquistabile e vendibile sul mercato del lavoro. Nella speculazione questo ingombrante soggetto scompare come tende a sparire, fino alla resa dei conti, l'ingombrante prodotto che dà origine nella quotazione in borsa.

Ugualmente fin che il soggetto lavoratore introduce nel processo una sua relativa autonomia di contrattazione del salario e dei diritti, ne modifica gli equilibri. Di qui la furia distruttiva di ogni traccia della sua organizzazione, anche la più elementare come il sindacato. Sacconi e Marcegaglia sono figure ottocentesche classiche. Su questa introduzione nel processo da parte dei lavoratori si è basato, con non poche semplificazioni ma con la forza di un corposo materiale umano, tutto il movimento operaio. In quello socialista per breve tempo, in quello comunista per dir così sempre - almeno in linea di principio - restò la convinzione che anche il più forte dei sindacati migliorava ma non modificava il rapporto di produzione, la cui inesorabile illibertà sta nell'usare l'uomo come strumento. Di qui la necessità di un passaggio rivoluzionario. Non è andata così, e non è affatto misterioso capirne le ragioni.

Ora il capitale ha vinto non nei rapporti di forza, da sempre inuguali, ma anche nella testa, nella idea di sé di chi lavora, senza più speranza di una propria emancipazione ma solo di salvare il suo posto di lavoro, cioè il salario, identificato con il salvataggio dell'impresa che glielo dà.

Questo ereditiamo dal Novecento. E vale la pena di tenerlo fermo, piuttosto che divagare su straordinarie innovazioni che renderebbero impossibile, anzi inutile, qualsiasi lotta al capitale proprio mentre si dibatte in clamorose contraddizioni interne.

4.3.09

Insegnanti in trincea. Senza futuro. Scuola che naviga a vista

La Provincia Pavese, mercoledì 4 marzo 2009

Qualche giorno fa centosessanta persone si sono ritrovate nell'aula magna dell'università di Pavia ad ascoltare Franco Frabboni, noto pedagogista. Inevitabilmente mi sono ritrovato d'accordo sull'excursus di quarant'anni di buone pratiche pedagogico-didattiche e sugli impietosi attacchi all'attuale politica scolastica governativa. Eppure una certa fiducia nella capacità della scuola a superare, nonostante tutto, anche questa bufera mi lascia perplesso.
Intanto non è così vero che l'istituzione scolastica sia stata, sia e sarà migliore della società che l'esprime. A scuola le «buone pratiche» hanno sempre convissuto con le mediocri e le pessime. Se a un certo punto anche la pedagogia ufficiale si è attestata su posizioni «avanzate» condividendo con la didattica e la psicologia la centralità della persona in un contesto educazionale ricco di stimoli, ciò non significa che questa tendenza (né di destra, né di sinistra, si badi bene) abbia permeato di sé tutta la pratica educativa.
L'assegnare all'istruzione solo una parte strumentale all'interno del più vasto e complesso processo formativo, è stato vanto di molti docenti, in particolare nella scuola primaria, ma non di tutti e forse neppure della maggioranza. Molti hanno perseverato nel «tenere fuori dall'aula» l'alunno con tutti i suoi bisogni continuando a riempirne la testa con nozioni esauste, spesso obsolete, e frustrandosi sempre più man mano che s'imponeva la necessità di un nuovo modo di procedere. Il tempo pieno e la distribuzione delle competenze educative in équipe d'insegnanti paritetici è stato di grande, reciproco aiuto.
Ora si va in controtendenza. Nonostante le proteste e le manifestazioni che hanno coinvolto un vasto fronte di studenti insegnanti e genitori, cifre pubblicate su La Repubblica dicono che «nelle superiori il 72% degli studenti non ha tutte sufficienze e quasi 35mila ragazzi non hanno avuto la sufficienza per il comportamento». Ciò significa non soltanto una passiva accettazione dei docenti del ritorno al passato, ma un uso attivo di strumenti la cui efficacia didattico-pedagogica è stata smentita dalla stragrande maggioranza degli studiosi in materia.
È ben vero che nelle iscrizioni alle elementari l'80% sceglie le 30 o 40 ore bocciando così il vecchio maestro unico delle 24 ore, ma non so fino a che punto questa sia una scelta pedagogicamente consapevole e non risponda piuttosto alla necessità di avere un luogo fisico accudito dove lasciare il più a lungo possibile i figli in questa fascia d'età. Inoltre nessuno sa come si potrà far fronte a queste richieste nel totale marasma di indicazioni e controindicazioni. Si naviga a vista e quella che sarà la scuola primaria dei prossimi anni è un mistero anche per chi vi opera giornalmente.
La sensazione a pelle è che la situazione peggiorerà vistosamente non potendo fare affidamento all'infinito sulla disponibilità degli insegnanti a coprire le falle sempre più larghe aperte dalla insufficienza del personale a disposizione per orari prolungati oltre le 24 ore. Inoltre l'aver ribadito comunque l'unicità di un solo maestro su tutte le materie principali - eliminando anche ogni compresenza - non può che ridurre al minimo l'offerta formativa. Perché un insegnante dovrebbe farsi carico di tutte le materie con lezioni da preparare e quaderni da correggere mentre un altro si limiterebbe ad assistere quegli scolari parcheggiati al pomeriggio (tra l'altro neppure sempre gli stessi)?
Ha un bel indicare Frabboni i Freinet e i Ciari pilastri dell'educazione. Mi è capitato nel corso di troppi anni di citarli a docenti che mi guardavano con lo sguardo assente di chi non ne ha mai sentito parlare. Anche Don Milani è conosciuto più per sentito dire che per diretta frequentazione dei suoi scritti. Abbiamo asili nido e scuole materne comunali d'eccellenza, grazie a passati investimenti in aggiornamenti con Loris Malaguzzi e i suoi discepoli, ma nei dintorni non mancano asili dove si assegnano giornalmente stelline di merito da consegnare ai genitori. Rossa a chi e stato «cattivo», verde a chi è stato «bravo», in perfetto stile gelminiano.

2.3.09

Esportare la democrazia

di Eric J. Hobsbawm

L’ultimo capitolo di Imperialismi, a proposito di un vizio dal quale il mondo nordatlantico sembra non riuscire a liberarsi né nei pensieri né nelle azioni. Forse non vuole

[Spreading Democracy. The Word’s Most Dangerous Idea è stato pubblicato in internet nel settembre/ottobre 2004. E’ inserito, con alcuni altri scritti dell’autore de Il secolo breve, nel libro Imperialismi, trad. it di Daniele Didero, Rizzoli, Milano 2007]

Siamo attualmente impegnati in ciò che dovrebbe essere un riordino pianificato del mondo a opera degli Stati più potenti. Le guerre in Iraq e in Afghanistan costituiscono solo una parte di un tentativo universale di creare un ordine mondiale attraverso l'«esportazione della democrazia». Ora, una simile idea non è soltanto donchisciottesca: è profondamente pericolosa. La retorica che circonda questa crociata sostiene che il sistema democratico è applicabile in una forma standardizzata (quella occidentale), che può essere introdotto ovunque con successo, che può offrire una risposta ai dilemmi internazionali del giorno d'oggi e che può portare la pace (anziché seminare ulteriore disordine). Male cose non stanno così.

La democrazia gode giustamente del favore popolare. Nel 1647, i Livellatori inglesi diffusero la potente idea secondo cui «il governo risiede interamente nel libero consenso del popolo». Con ciò intendevano riferirsi al diritto di voto esteso a tutti. Naturalmente, il suffragio universale non garantisce nessun particolare risultato politico, e le elezioni (come la Repubblica di Weimar ci insegna) non possono nemmeno garantire il loro stesso ripetersi. È anche improbabile che la democrazia elettorale produca risultati convenienti per le potenze imperialistiche o egemoniche. (Se la guerra in Iraq fosse dipesa dal consenso liberamente espresso della «comunità internazionale», non avrebbe mai avuto luogo.) Queste incertezze, comunque, non diminuiscono l'attrattiva della democrazia elettorale.

Oltre alla sua popolarità, ci sono diversi altri fattori che contribuiscono a spiegare l'illusoria e pericolosa convinzione secondo la quale sarebbe di fatto possibile diffondere la democrazia attraverso l'intervento di eserciti stranieri. La globalizzazione sembra suggerire che l'umanità si stia evolvendo verso l'adozione di modelli universali. Se i distributori di benzina, gli iPod e gli esperti di computer sono uguali in tutto il mondo, perché ciò non dovrebbe valere anche per le istituzioni politiche? Questo modo di vedere le cose tende tuttavia a sottovalutare la complessità del mondo. Anche la ricaduta nell'anarchia e negli spargimenti di sangue a cui abbiamo chiaramente assistito in molte parti del mondo ha accresciuto il fascino dell'i-dea di diffondere un nuovo ordine. Il caso dei Balcani è parso mostrare che le aree di disordine e di catastrofe umanitaria richiedono l'intervento - militare, se necessario - di Stati forti e stabili. Nell'assenza di un governo internazionale in grado di prendere effettivi provvedimenti, alcuni umanitaristi sono già pronti ad appoggiare un ordine mondiale imposto dalla potenza americana. Tuttavia, quando le potenze milîtari sconfiggono e occupano Stati più deboli affermando che stanno facendo un favore alle loro vittime e al mondo intero, dovremmo come minimo nutrire sempre qualche sospetto.

Tuttavia, c'è anche un altro fattore, che potrebbe essere quello più importante: gli Stati Uniti sono stati pronti a intervenire can la necessaria combinazione di megalomania e messianismo, derivata dalle loro origini rivoluzionarie.- Oggi gli Usa non hanno rivali in grado di sfidare la loro supremazia tecnologico-militare, sono convinti della superiorità del loro sistema sociale e, dal 1989, hanno smesso di ricordare (come invece avevano sempre fatto tutti i più grandi imperi conquistatori del passato) che il loro potere materiale ha dei limiti. Come il presidente Woodrow Wilson (che, ai suoi giorni, andò incontro a un fallimento internazionale spettacolare), gli ideologi di oggi vedono una società modello già attuata negli Stati Uniti: una combinazione di legge, liberalismo, competizione fra le imprese private e regolari sfide elettorali il cui esito viene deciso con il suffragio universale. Tutto ciò che resta da fare è rimodellare il mondo a immagine di questa «società libera».

Questa idea è un modo pericoloso di autoconvincersi. Anche nei casi in cui (intervento di una grande potenza potrebbe avere conseguenze moralmente o politicamente desiderabili, appoggiare questo tipo di azioni è rischioso, perché la logica e il modo di procedere degli Stati non sono quelli dei diritti universali. Ogni singola nazione mette al primo posto i propri interessi. Se ne hanno il potere, e se ritengono che il fine sia sufficientemente importante, gli Stati giustificano i mezzi necessari per raggiungerlo (anche se raramente lo fanno in pubblico), in particolare quando pensano che Dio sia dalla loro parte. Tanto gli imperi «buoni» quanto quelli «cattivi» hanno prodotto la barbarizzazione della nostra epoca, alla quale la «guerra contro il terrore» ha dato ora il proprio contributo.

Finché di fatto minaccerà l'integrità di valori universali, la campagna per diffondere la democrazia non avrà successo. Il XX secolo ci ha dimostrato che gli Stati non sono assolutamente in grado di rimodellare il mondo o di accelerare artificialmente le trasformazioni storiche. E non possono neppure ottenere un cambiamento sociale in modo semplicistico, limitandosi a trasferire i modelli di istituzioni da un Paese all'altro. Anche negli Stati-nazione territoriali, per un effettivo governo democratico sono necessarie condizioni non così frequenti o scontate: le strutture dello Stato devono godere di legittimità e consenso, e avere la capacità di mediare i conflitti fra i diversi gruppi interni. In mancanza di questi requisiti, non c'è un singolo popolo sovrano e, pertanto, non c'è legittimità per le maggioranze numeriche. Quando il consenso - che sia religioso, etnico o entrambe le cose - è assente, la democrazia viene a essere sospesa (come nel caso delle istituzioni democratiche nell'Irlanda del Nord), lo Stato si divide (come in Cecoslovacchia), o la società sprofonda in una permanente guerra civile (come in Sri Lanka). La scelta di «esportare la democrazia» ha aggravato i conflitti etnici e ha prodotto la disgregazione di Stati in regioni multinazionali e multicomunitarie sia dopo il 1918, sia dopo il 1989; si tratta, insomma, di una tetra prospettiva.

Oltre alle sue scarse probabilità di successo, lo sforzo di diffondere la democrazia nella sua versione standardizzata occidentale soffre anche di un radicale paradosso. In larga misura esso è considerato come una soluzione dei pericolosi problemi tra nazioni del mondo d'oggi. Attualmente, una parte sempre più grande della vita umana viene decisa al di là dell'influenza degli elettori, da entità sovranazionali pubbliche e private che non hanno elettorati (o, perlomeno, in cui non si svolgono elezioni democratiche). E la democrazia elettorale non può di fatto funzionare al di fuori di unità politiche come gli Stati-nazione. Gli Stati più forti stanno quindi cercando di diffondere un sistema che essi stessi ritengono inadeguato per affrontare le sfide del mondo d'oggi.

Questo punto è ben esemplificato dalla situazione europea. Un'entità come l'Unione Europea ha potuto svilupparsi in una struttura autorevole ed efficiente proprio perché non ha un elettorato (al di fuori di un piccolo numero - per quanto crescente - di governi membri). L'Ue non sarebbe andata da nessuna parte senza il suo «deficit democratico», e non può esserci futuro per il suo Parlamento per il semplice motivo che non esiste un «popolo europeo», bensì una mera collezione di «popoli membri» (più della metà del presunto «popolo» non si è preso neppure la briga di andare a votare per eleggere il Parlamento di Bruxelles nel 2004). L'«Europa» è oggi un'entità funzionante, ma a differenza dei suoi singoli Stati membri non gode di legittimità popolare o di autorità elettorale. Non ci sorprende quindi che, appena l'Ue si spinge oltre le negoziazioni fra i governi e diventa il soggetto di una campagna democratica negli Stati membri, iniziano a sorgere dei problemi.

Lo sforzo volto a esportare la democrazia è pericoloso anche per un motivo più indiretto: esso trasmette a coloro che non godono di questa forma di governo l'illusione che nei Paesi che ne godono la democrazia sia effettiva. Male cose stanno davvero così? Oggi noi conosciamo qualcosa su come sono state di fatto prese le decisioni di andare in guerra in Iraq in almeno due nazioni di indubitabile tradizione democratica: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A parte sollevare a posteriori complessi problemi di inganni e occultamenti di verità, la democrazia elettorale e le assemblee rappresentative hanno avuto poco a che vedere con quel processo. Le decisioni sono state prese in privato da piccoli gruppi di persone, in modo non molto diverso da quanto sarebbe accaduto in Paesi non democratici. Fortunatamente, nel Regno Unito non è facile aggirare ed eludere l'indipendenza dei media. Ma la democrazia elettorale da sola certo non basta ad assicurare l'effettiva libertà di stampa, né i diritti dei cittadini o l'indipendenza del potere giudiziario.

eddyburg.it

1.3.09

Scrutini, pioggia di 5 in condotta e aumentano le insufficienze

Nelle superiori il 72% degli studenti non ha tutte sufficienze
Quasi 35mila ragazzi non hanno avuto la sufficienza per il comportamento
Nelle iscrizioni alle elementari l'80% sceglie le 30 o 40 ore


Pioggia di 5 in condotta agli scrutini intermedi, mentre le lingue sorpassano la matematica nelle insufficienze dei ragazzi. Dai dati del ministero dell'Istruzione al termine degli scrutini del primo quadrimestre nella scuola secondaria di secondo grado risulta che il 72% degli studenti ha riportato almeno una insufficienza (lo scorso anno erano il 70,3%).
Maggiori carenze si registrano negli Istituti professionali (con l'80% dei ragazzi che ha riportato insufficienze) e nelle regioni del Centro Sud. Sud che ha anche il record dei 5 in condotta.

Nell'elenco delle pagelle con insufficienze seguono gli istituti tecnici con il 78,1%, i licei artistici e gli istituti d'arte, gli ex istituti magistrali, i licei scientifici e i classici. Gli studenti "più bravi" sono stati i ragazzi del Liceo Linguistico, in cui il 40,1% è arrivato agli scrutini intermedi senza insufficienze. Le carenze si riscontrano in modo abbastanza uniforme tra le diverse zone del paese (Nord 70,1%, Centro 74,0%, Sud ed Isole 74,4%). Ma le insufficienze al sud crescono. Tra le discipline, le lingue straniere superano la matematica e diventano la materia che registra il maggior numero di insufficienze, con il 63,3% (il 62,2% lo scorso anno)

Per quanto riguarda i 5 in condotta, sono stati 34.311, dei quali 8.151 con la sola insufficienza in comportamento. I più indisciplinati agli istituti professionali, seguono i tecnici.
Nella scuola media i ragazzi con almeno una insufficienza sono stati il 46%, ma a differenza delle scuole superiori le carenze si distribuiscono in modo abbastanza omogeneo tra le principali discipline

Iscrizioni alle scuole elementari. Il ministero ha diffuso anche un campione statisticamente significativo delle rischieste di iscrizione alle scuole elementari. Un sostanziale "bocciatura" del modello del maestro unico: sei famiglie su dieci hanno scelto l'orario scolastico delle 30 ore, mentre il 34% chiede la 40 ore. Analizzando le iscrizioni per l'anno scolastico 2009/2010 di un campione di circa 900 scuole rappresentative e distribuite tra tutto il territorio nazionale risulta dunque che il 3% abbia scelto le 24 ore, il 7% le 27 ore, il 56% le 30 ore, il 34% le 40.
Dati rispetto ai quali il ministro Gelmini precisa che tutti i modelli orari prevedono il maestro unico di riferimento e non solo quello a 24 ore come qualcuno sostiene in maniera imprecisa. Il maestro unico di riferimento sarà una figura indispensabile per la formazione del bambino così come accade in tutti i paesi europei".
repubblica.it