12.6.08

Un tanto al chilo

Ammalati di miliardi
SALUTE Una ricerca conferma che il «modello lombardo» privilegia i posti letto delle cliniche privateLa vicenda della clinica Santa Rita di Milano è un caso esemplare di truffa omicida e chiama in causa tutto un sistema ormai compromesso che paga la malattia invece di promuovere la salute. E' soprattutto in Lombardia che la sanità privata continua ad aumentare la propria sfera di influenza, come dimostrano le cifre di uno studio su costi e prestazioni
Luca Fazio
MILANO
La clinica Santa Rita è davvero la clinica degli orrori? Oppure, anche se è difficile trovare medici disposti ad ammetterlo, in un sistema che paga la malattia ormai è inevitabile che strutture private e pubbliche cerchino di aumentare il numero delle prestazioni inutili infierendo sui corpi dei cittadini? Fulvio Aurora, vicepresidente di Medicina Democratica, parla apertamente di «truffa omicida in un contesto truffaldino». E' questa la sua definizione del cosiddetto «modello lombardo di sanità», un vanto ancora oggi per il presidente Roberto Formigoni, che continua a ritenerlo il migliore tra quelli possibili, nella presunzione che altrove sia sicuramente peggio. Può darsi. Ma non basta.Ma quello che Formigoni non può far finta di non sapere è che la giunta regionale lombarda, accreditando indiscriminatamente tutta l'offerta ospedaliera privata, ha attirato investitori e scatenato la concorrenza tra le strutture sanitarie per accaparrarsi miliardi di euro di denaro pubblico, con ogni mezzo necessario. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aumento vertiginoso dei volumi di affari della sanità privata e decine e decine di episodi di comportamenti illeciti riscontrati dalla magistratura (sono 35 le cliniche lombarde già finite sotto inchiesta, e proprio in queste ore sono in corso accertamenti di carattere economico in altre dieci strutture). Fenomeni criminosi che chiamano in causa il finanziamento del Sistema sanitario nazionale che si basa sulla remunerazione per prestazione (Drg): una struttura viene rimborsata in base al valore delle prestazioni erogate. Più sono i falsi tumori maligni operati, come ha detto il professor Umberto Veronesi, più sono i soldi incassati dalla struttura. E non è un caso se il privato in Lombardia continua ad aumentare la sua sfera di influenza, pur costando mediamente più del pubblico per «peso» dei Drg dichiarati e per numero delle prestazioni registrare. Roberto Formigoni si ostina a dire il contrario, ma ci sono dati che al di là della cronaca (nel 2003 la Regione ha concesso 95 nuovi posti letto proprio alla Santa Rita nonostante le contestazioni) parlano chiaro sul rapporto distorto tra pubblico e privato in Lombardia.Lo studio è stato curato da Giuseppe Landonio, ex oncologo e consigliere comunale milanese di Sinistra democratica. Le strutture di ricovero pubbliche iscritte al registro regionale sono passate da 117 a 112 nel periodo 2002-2006; nello stesso periodo, invece, le strutture private accreditate sono passate da 79 a 104. Ancora più consistente il divario tra ambulatori pubblici (da 176 sono scesi a 159) e privati (da 233 sono passati a 324). Mediamente si tratta di un aumento uniforme su tutto il territorio lombardo del 30% delle cliniche private, con alcune anomale eccezioni: a Bergamo sono passate addirittura da 24 a 45 mentre le pubbliche sono rimaste 24, a Cremona da 12 a 29 contro le 9 pubbliche, a Lodi da 3 a 10 contro le 5 pubbliche. Nella provincia di Milano ci sono 290 centri privati e 392 pubblici.Un altro dato interessante riguarda il tasso di ospedalizzazione per Asl. Il dato medio sui ricoveri dei lombardi negli anni si è attestato attorno ai 150 per 1.000 abitanti, eppure si assiste a una progressiva diminuzione dei ricoveri. Tutta salute? Non proprio, secondo la letture di Fulvio Aurora, di Medicina Democratica. «Questa diminuzione - spiega - viene recuperata dalle strutture residenziali per anziani, gli ospedali cercano di dimettere il paziente il più velocemente possibile e non a caso sono state aperte molte residenze per anziani: in Lombardia abbiamo 53 mila posti letto, anche quelli sono luoghi dove vengono curati, ma questa volta a pagamento». Viceversa, il tasso di «day hospital» ha superato di molto la media indicata come ottimale, per cui sembra evidente che questo tipo di ricovero potrebbe essere sostituito con semplici prestazioni ambulatoriali. Questi ricoveri fino a un giorno, inoltre, sono molto più numerosi nelle cliniche private (26% del totale) che nel pubblico (14%).Moltissimi lombardi, nonostante la sanità sia gratuita e mediamente di buon livello, scelgono di pagare il ricovero di tasca propria, sia nel pubblico che nel privato: per abbattere i tempi di attesa, per essere trattati meglio durante la degenza e per avere un rapporto privilegiato con un medico (39.397 pazienti nel 2006).Delicata, considerate le notizie degli ultimi giorni, è l'analisi del dato sui decessi in ospedale (2,44% la media lombarda, nel pubblico 2,73% e nel privato 1,79%). Perché questa differenza? Significa che le patologie più gravi di solito vengono curate nel pubblico, e che quindi il privato ha costi di gestione inferiori, per le strutture e la capacità di intervento.Il business della riabilitazione ormai è appannaggio esclusivo della sanità privata: nel pubblico ci sono 2.458 posti letto, nel privato 7.347 (33,46% contro 66,54), e l'Istituto don Gnocchi, di proprietà della Compagnia delle Opere amica dello splendido Formigoni, fa la parte del leone.Se il «cliente» del modello lombardo non è tenuto a conoscere dati e statistiche, certo non può essere indifferente ai tempi di attesa per i ricoveri. Sono lunghi, troppo lunghi, anche per le neoplasie. Mediamente tre mesi per una cataratta, sedici giorni per una neoplasia mammaria, più di tre mesi per una protesi all'anca...Tra le tante cifre che mettono a confronto la spesa per la sanità pubblica e privata in Lombardia, una in particolare interessa i «clienti» più poveri: le cure odontoiatriche. Nelle casse dei 6.440 studi dentistici registrati, ogni anno i cittadini riversano 3 miliardi e 200 milioni di euro, e zero euro (0) nelle casse della sanità pubblica. «Questo - commenta Aurora - è uno dei motivi di impoverimento della popolazione anziana».Insomma, il modello non funziona, e non solo quello lombardo. Tutti (quasi tutti) a gran voce oggi dicono basta, «bisogna abbandonare il mercato e tornare alla cura per premiare la promozione, della salute e non la malattia» (Cgil Lombardia). In ballo, solo in Lombardia, ci sono 25 miliardi e 262 milioni di euro all'anno: 15.842 destinati al pubblico, 9.420 alle strutture private. Politici, medici, sindacalisti, operatori della sanità, chi se la sente di abbandonare questo mercato?
ilmanifesto.it

11.6.08

Bassa macelleria

di Adriano Sofri
Ci sono modi di dire che hanno perduto il legame con il loro significato originario. Noi diciamo: «Non ci posso credere!», e vuol dire che ci crediamo senz’altro, tutt’al più troviamo la cosa un po’ singolare. Ora di colpo diciamo: «Non ci posso credere!», e vuol dire che davvero non ci possiamo credere, e non vogliamo crederci.Si dice che in una clinica (una sola?) di Milano (di Milano!) non un singolo medico pazzo o farabutto, ma un intero manipolo di medici di ogni ordine e grado, per denaro, contro ogni giustificazione terapeutica, resecava mammelle, squartava toraci, asportava polmoni, reimpiegava chiodi infetti, moltiplicava interventi senza speranza, faceva scempio di persone umane ridotte a corpi, e di corpi ridotti a organi - per denaro. «E per fare 15 polmoni... auguri... e no, dico, poi se sei fortunato che in un mese ti arrivano quattro politraumi e non so dieci fratture costali, ma cosa fai ti metti ad operare dieci fratture costali perché non hai pazienti?». Se sei fortunato. Persone sofferenti si mettevano nelle loro mani, e le loro mani, in solido, le storpiavano fino alla morte per amore del denaro.E quando ne parlavano, ne parlavano come se fosse un compito seccante cui non potevano sottrarsi. «Cioè, o tu fai 15 polmoni, o altrimenti non puoi pagare un’équipe...». Farò di voi pescatori di uomini - vi ricordate questa promessa. Ecco la versione dei professionisti della Santa Rita: Merlano: «Cioè tu pescavi dall’Oltre Po pavese?». Brega Massone: «Ma io pescavo dappertutto, da Lodi, dove tiravo fuori le mammelle, poi ho cominciato a pescare anche i polmoni...». Non bastasse il sacrificio di tutte quelle operazioni indebite, per aggiungere un paio di zeri al salario mensile, a volte la sfortuna si accaniva su di loro. Come quando per un disguido nella spedizione si trovano in mano «un tibiale destro al posto di un rotuleo sinistro», e a quel punto, chi se ne frega, infilano il rotuleo sinistro nella gamba destra, e per colmo di sfortuna il paziente è un collega, un medico anche lui: Galasso: «.. sì una roba no noi abbiamo messo ad un collega un tibiale destro al posto di un rotuleo sinistro, mi vengono già le coliche ma non importa». Sembra M.A.S.H., nel centro di Milano. Sembra la Gita a Tindari. Diceva il boss mafioso all’antica: «Noi sapevamo quale era la linea che separava l’uomo dalla bestia». La linea non fa che retrocedere. Viene da dire che almeno a Tindari, o nella Cina delle esecuzioni capitali, o nel mondo dei bambini rapiti, la ferocia ha un suo fine imprenditoriale: trafficare organi. Nel centro di Milano gli organi andavano a fondo perduto, solo per compilare moduli del Drg, il rimborso a tariffe. Il seno di una ragazza, il polmone di un poveretto. La malasanità, a guardarla da qui sembra umana. L’aggravante della crudeltà, che le titolari della pubblica accusa milanese hanno elevato, è una mera adesione al tariffario: «Investire su qualcuno che ha principalmente una patologia oncologica». Investire. Su qualcuno che ha il cancro - o attribuirglielo.Mettiamo che siate quel qualcuno. Quella qualcuna. O un suo caro, una sua cara. Che siate magari uno del paio di centinaia ancora ricoverati nella clinica, e non siate ancora scappati in sottoveste e a piedi nudi, se ve ne restavano le forze. C’è un problema sicurezza, in Italia: fare da sé? Una ronda, in corsia? E ci scandalizziamo delle morti bianche: carni rosse, morti rosse. Sono dei dilettanti, i boss della Thyssen, rispetto a questi luminari. Nella caserma di Bolzaneto, Genova 2001, un medico capo penitenziario e suoi colleghi e sottoposti si divertirono a torturare e umiliare degli inermi: ma almeno erano gonfi di fanatismo, di spirito di corpo, di sadismo. Questi della Santa Rita, come li restituiscono le carte dell’accusa e le registrazioni delle telefonate, non sono né buoni né cattivi, né esaltati né depressi: sono solo fedeli al tariffario. (A proposito. C’è una sola cosa peggiore dell’abuso delle intercettazioni telefoniche: il loro divieto).Manca, per il momento, il ministero della Salute. In compenso, nel campo della sanità, in particolare in Lombardia, la privatizzazione ha fatto passi da gigante. Pare che ci fossero già state condanne di fior di primari per interventi chirurgici non giustificati: cardiochirurgia, affari di cuore. Bisognerà ammettere che privatizzazione e amore (privato) per il denaro (pubblico) vanno ancora assieme, a meraviglia. In un paese ordinato la sanità dev’essere pubblica, e si deve tenere una sobrietà, quanto al denaro. Naturalmente, l’amore per il denaro, la passione del denaro, non è destinata inevitabilmente a travolgere il rispetto peri polmoni e i reni e i seni altrui. Infatti, quando succede, diciamo: Non ci posso credere. C’è però una complicazione. Se avete un amico medico, o un vostro medico di fiducia - di fiducia, sul serio - provate a dirgli come siete esterrefatti e costernati per la notizia milanese. Scuoterà la testa. Di tutte le categorie, la meno incredula rispetto alla macelleria burocratica della Santa Rita, quella che ci può credere, senza neanche tanta fatica, è la categoria dei medici. Qualcuno, esagerando per l’amarezza, arriverà a dirvi: «E tutto così». Non è vero. Ma che cosa sarà di un popolo costretto a dubitare che i propri medici siano così?
repubblica.it

6.6.08

L'Italia e gli zingari

“E a proposito di rom”: nell’organizzazione favolistica che i telegiornali
danno al succedersi delle notizie (se così possono chiamarsi)
negli ultimi giorni almeno tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso specifico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono dificilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geograia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondesserono tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso speciico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono difficilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geografia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondessero
con le popolazioni già insediate fino in buona parte a dissolversi
in esse lentamente e lasciando tracce soltanto nella varietà
delle parlate. Quest’è l’Italia, un melting pot storico millenario,
che potrebbe, che dovrebbe avere la fierezza di questa sua diversità
interna, costitutiva. E invece non ce l’ha.
Le mezzecalzette intellettuali non risparmiano silenzi e
ostilità per la diversità linguistica. La povera gente, ma anche
parte dei ceti benestanti, le segue, da Udine a Livorno, da Napoli
a Milano. Nel paese delle reali diversità storiche
e linguistiche l’ostilità soffia verso tutto ciò
che appare diverso: perfino le varietà d’uso dell’italiano,
perfino i dialetti nazionali ne vengono
colpiti e, poi, a crescere, le minoranze linguistiche
di antico insediamento, le minoranze di nuova
immigrazione e, su tutti e più di tutti, gli zingari.
Ai molti di loro che, come i loro fratelli, cercano
una residenza stabile e si sedentarizzano, dal Piemonte
al Molise, non si perdona di non essere più
nomadi e a chi di loro è ancora vagante non si perdona
il nomadismo. Privi di uno standard scritto
unitario, le loro parlate sono molteplici e mal afferrabili.
Orrore, orrore nel paese degli analfabeti. Li teniamo
ai margini e però rimproveriamo loro di essere marginali.
In romanì, cioè nelle parlate zingare, porajmos “devastazione”
designa per eccellenza il tentativo nazista di sterminare nei
lager gli zingari già perseguitati da tempo (perseguitati anche
dal nostro patrio fascismo, come hanno mostrato gli studi di
Mirella Karpati, Giovanna Boursier e altri). È l’equivalente di
shoah. Si calcola che mezzo milione di zingari d’ogni paese ne
siano stati vittima. La tentazione del porajmos è tra noi, non
sottovalutiamola. Rimbalza in internet in questi giorni una
vecchia poesia attribuita da alcuni a Bertolt Brecht, ma che in
realtà è del pastore Martin Niemöller, morto pochi anni fa. Anche
il testo circola con delle varianti, ma il senso comunque è
chiaro. Ritraducendo dal tedesco: “Quando presero gli ebrei,
non dissi niente; non ero in effetti un ebreo./ Quando presero
gli zingari, non dissi niente: non ero in effetti uno zingaro./
Quando presero i comunisti, non dissi niente, mica ero comunista./
Quando presero gli omosessuali, non dissi niente: mica
ero un omosessuale./ Quando presero i socialisti, non dissi nulla:
non ero un socialista./ Quando presero me, non c’era più
nessuno che avrebbe potuto dire qualcosa”
internazionale.it

4.6.08

Mafia, potenza economica

di Elio Veltri
Luigi Giuliano, già capo assoluto della Nuova Famiglia della camorra, alleata con «l'Alleanza di Secondigliano», nel 2003, quando si pente, comincia a raccontare gli affari, e dice che la «Cupola» incassava decine di miliardi di vecchie lire al mese. In Sicilia i magistrati ascoltando una intercettazione ambientale, si convincono che i veri padroni della SISA che gestisce 100 supermercati in provincia di Palermo e fattura 300 miliardi all'anno di vecchie lire, sono Provenzano e Palazzolo.
Dal porto di Gioia Tauro la 'ndrangheta mandava in Cina containers pieni di rifiuti che ritornavano in Europa trasformati in plastica. Ecco, queste sono solo tessere della mafia Spa, multinazionale, presente in molti paesi del mondo, a suo agio nell'economia globalizzata, senza segreti per la finanza e per i paradisi fiscali. Rappresentata da tecnici di valore, incensurati, capaci di portare all'estero decine di società, con una triangolazione fulminea Milano- Lussemburgo- Lugano e di riportarle in Italia ripulite e pronte ad operare in borsa.
La Mafia ha capito prima degli imprenditori onesti la globalizzazione, la caduta delle frontiere e, soprattutto, l'uso di Internet e li ha usati a proprio vantaggio. Subito dopo la caduta del muro di Berlino, in un'intercettazione telefonica diventata famosa, si ascolta l'inviato che chiede al capo cosa deve comprare e si sente rispondere: «vai a Berlino est e compra tutto». A Berlino est per due ragioni: la domanda di capitali era elevata e di democrazia ce n'era poca, per cui le regole potevano essere aggirate.
L'economia del paese segna il passo e la crescita è zero; la produzione industriale è in caduta libera perché gli italiani hanno le tasche vuote e non comprano, ma mafia Spa è florida e in espansione, in tutto il mondo. In Italia, con un fatturato calcolato 90 miliardi di Euro dal rapporto di SOS impresa della Confesercenti per la parte commerciale, si conferma la più importante multinazionale del paese e una delle più grandi d'Europa, tale da competere con le Corporations che hanno bilanci superiori a quelli degli Stati. Se poi aggiungiamo traffico di droga, di armi e di esseri umani, allora il fatturato tocca i 140-150 miliardi all'anno. Certo, la mafia non deposita bilanci e non si sottopone al controllo della Consob.
Ma le stime sono attendibili e anche sottodimensionate. Ad esempio Piero Grasso valuta circa 50 miliardi di euro il traffico di droga e John Kerry, senatore democratico, presidente di una Commissione del Senato che si occupa di criminalità organizzata, il traffico di droga della mafia italiana lo valuta 110 miliardi di dollari all'anno e cioè più del doppio.
In un rapporto al Senato degli Stati Uniti sulle cinque mafie più potenti del mondo, il Senatore democratico scrive che si può affermare con sicurezza che la mafia italiana gode di protezioni ad alti livelli politici e nell'apparato dello Stato. Il rapporto naturalmente non è stato tradotto. Forse vale la pena ricordarne il titolo: «La nuova guerra». E cioè la guerra per la democrazia e la civiltà nel terzo millennio è quella contro la mafia. E non la pensa diversamente Louise I. Shelley, direttore del Transnational Crime and Corruption Center dell'Università di Washington il quale scrive: «la criminalità transnazionale sarà per i legislatori il problema dominante del ventunesimo secolo, come lo fu la guerra fredda per il ventesimo secolo e il colonialismo per il diciannovesimo».
È una esagerazione? Non credo, perché anche l'ONU e L'Unione Europea la pensano allo stesso modo. Ad esempio, se esaminiamo uno dei settori più «produttivi» che è quello della contraffazione( abiti griffati, giocattoli, computer, profumi ecc) nel quale lavorano a due euro all'ora, nelle cantine e nei sottoscala, e non solo della Campania, decine di migliaia di persone, «l'Union des fabricants pour la protection International de la propriété industrielle et artistique», che ha organizzato il Forum di Parigi del 2003, ne valuta i profitti in 250 miliardi di euro all'anno pari al 5-7% del commercio mondiale. L'organizzazione Mondiale delle Dogane poi, ne stima il fatturato in 450 miliardi di euro anno. L'Italia, per la contraffazione, è ai primi posti al mondo. Ed è solo un comparto delle innumerevoli produzioni oramai in mano alla criminalità organizzata, che fa concorrenza all'economia sana, conquista i mercati con la violenza, non ha bisogno di accendere prestiti bancari perché paga cash. Per dare ancora un'idea si calcola che i posti di lavoro persi ogni anno dalle aziende regolari che subiscono la concorrenza sono 100 mila e l'evasione fiscale è di 2,4 miliardi di dollari. Il nero si mescola col criminale sia nella finanza che nell'economia.
Poi, nei paradisi fiscali, che negli ultimi anni sono raddoppiati, dove si contano più banche che cittadini, si sposano.
In un convegno nell'Università di Firenze, Ottobre del 2007, Piero Grasso ricordava che Falcone aveva capito tutto e l'aveva spiegato nel 1991 ai deputati del Bundestag, ma ricordava anche che oggi solo i «fondi per le piccole spese vengono confiscati» e un po' sconsolato si chiedeva: «ma la politica vuole davvero combattere la mafia?».
La domanda è d'obbligo per due ragioni: la politica ha delegato alla magistratura e alle forze dell'ordine il problema economico e sociale più drammatico del paese. La politica non si cura di conoscerlo per intervenire e quindi ne ignora o ne sottovaluta la dimensione. Eppure, i patrimoni mafiosi valgono 1000 miliardi di euro(oltre 2 milioni di miliardi di vecchie lire) e gli affiliati, secondo la DIA, sono un milione e ottocentomila. Gli affiliati non sono i «pungiuti». Sono quelli che con le organizzazioni mafiose hanno rapporti sociali e di affari a causa di un'espansione gigantesca e incontrollabile della finanza e dell'economia criminale.
Le leggi che i magistrati hanno in mano sono strumenti che non funzionano: né quella sulla confisca dei beni, né quella sul riciclaggio, se solo pensiamo che non più del 6-7% dei beni vengono confiscati e i processi in corso, di qualche peso, per riciclaggio sono 4-5. L'anagrafe dei conti e dei depositi introdotta con legge nel 1991 non è operativa. Proposte all'Europa per cominciare a chiudere i paradisi fiscali sui territori europei per poi concordare nelle sedi internazionali interventi negli altri continenti, non ce ne sono. Embarghi finanziari non ne vengono proposti. Eppure, ne sono stati attuati persino sui farmaci e sul cibo. Ma per le sacre finanze sporche No.
L'Italia, inoltre, ha la sua buona dose di banche e società finanziarie nei paradisi fiscali col placet della Banca d'Italia: 220 banche; 117 società controllate da banche di cui 40 in Lussemburgo.
Sono giorni di dibattito acceso sugli immigrati clandestini e sull'immigrazione in generale. Com'è stato sottolineato su questo giornale anche da Livia Turco, la clandestinità è figlia innanzitutto dell'economia sommersa(nera e mafiosa), che costituisce il più grande serbatoio europeo di italiani precari e sfruttati e di immigrati clandestini e non, ma sempre sfruttati. Con scie di morti da guerra civile, quella mafiosa, che si contano in migliaia e che sembra non interessino più di tanto.
Quindi, o si interviene sulle cause oppure la cancrena rimane. Eppure, questa sì, che sarebbe materia di una grande alleanza trasversale e nazionale.
unità.it