30.3.12

L'innovazione sale in cattedra così la creatività batte la crisi

Dalle elementari alle medie, l'istruzione pubblica prova a reinventarsi. Con progetti che puntano sull'innovazione: c'è chi si autoproduce i libri, chi offre coach ai professori e chi alfabetizza anche i genitori. Ecco gli istituti divenuti d'eccellenza grazie alle idee
di MARIA NOVELLA DE LUCA

Il movimento è sotterraneo, carsico, indipendente, refrattario alla burocrazia e spesso anche alle luci troppo forti. È fatto di professori, maestri, ragazzi, presidi, genitori. Batte nel cuore profondo della scuola, quella che resiste, quella che prova a ritrovarsi, come se arrivati all'anno zero (zero fondi, zero prospettive, zero motivazione), da una rete diffusa di realtà piccole e grandi, primarie, secondarie, licei, istituti tecnici, stesse emergendo una reazione dinamica, vitale, magari imperfetta ma autentica.

Scuola-villaggio, scuola-agorà, scuola-comunità, 2.0, senza zaino, web-school, "book in progress": bisogna andare dalla Puglia alla Toscana, dalla Lombardia al Lazio, spesso in provincia, tra paesi e borghi che si consorziano in comunità di saperi, per capire e scoprire germogli e fermenti del nuovo.

Come in questo Liceo Scientifico Tecnologico alla periferia Brindisi, brutta edilizia in una regione al terzo posto in Italia per dispersione scolastica, 23,4% i giovani che ogni anno disertano gli studi, un tasso di abbandoni altissimo in un'area flagellata dalla crisi, e dove il Petrolchimico fino a pochi anni fa dava lavoro a 12mila famiglie oggi invece ridotte a 700. Eppure qui, all'Itis "Ettore Majorana" è nato tre anni fa il progetto "Book in progress" una scommessa vinta ed esportata in tutto il Paese e già adottata in 70 scuole.

Perché c'è chi si autoproduce i libri di testo (book in progress) e chi rivoluziona la didattica dei bambini, ritrovando Maria Montessori e magari Rudolf Steiner. Chi punta sulla tecnologia, chi sullo studio senza libri, chi si propone come diga al disagio delle famiglie, chi alfabetizza, insieme agli studenti, anche i loro genitori. Ci sono scuole che offrono ai prof dei coach che li ri-motivano al piacere dell'insegnare, e docenti che, gratuitamente, si mettono a scrivere libri di testo.

"Parliamo mentre stampo un libro", chiede il preside del Liceo Scientifico Tecnologico Ettore Majorana, Salvatore Giuliano, 45 anni, da tre alla guida di questo istituto che oggi fa parte della rete delle 15 scuole italiane certificate 2.0, ossia con alta dotazione tecnologica. Risultati ai test Invalsi di 10 punti superiori alla media, e una visita del ministro dell'Istruzione Profumo nel dicembre del 2011.

"Ricordo che era il 2007, eravamo alle prese con la scelta dei libri di testo, ogni anno più cari e spesso fatti male, poco comprensibili... L'idea fu immediata, semplice: perché non proviamo a scrivere e stampare da soli i nostri manuali, con la competenza di tanti anni di insegnamento, in modo da far risparmiare drasticamente le famiglie e aiutare i ragazzi? ".

Il progetto passa, i libri vengono elaborati dai docenti, stampati e venduti a pochi euro, il semplice recupero delle spese di tipografia. Genitori entusiasti, ragazzi anche. Ma a quel punto il (vulcanico) preside Salvatore Giuliano rilancia: "Ho convocato le famiglie, e ho chiesto loro di comprare un Pc ai propri figli con i soldi risparmiati dai libri di testo... Del resto per i manuali avevano speso soltanto 35 euro contro i 350 che ci vogliono di solito all'inizio di un ciclo secondario. L'adesione è stata totale, ed è iniziata la rivoluzione tecnologica della scuola".

Dal risparmio all'investimento, economia di base. Arrivano le Lim, le lavagne interattive, si crea la rete, si possono seguire da casa le lezioni, le aule diventano connesse tra di loro, lo spazio da fisico si trasforma in virtuale. Il progetto "Book in progress" valica i confini del Majorana e comincia ad interessare sempre più scuole, che via via adottano il sistema. "È tutto lavoro gratuito. Scrivere, stampare, impaginare, spesso di domenica, d'estate, ad agosto - raccontano Maria Rosaria Serio e Gioacchino Margarito, docenti di Chimica - ma mettere a disposizione degli studenti il proprio sapere affinato in tanti anni, invece di far comprare loro un qualunque libro di testo, magari approssimativo e superficiale, è davvero una bella soddisfazione. È stato come ritrovare passione nel lavoro".

E se "Book in progress" sta diventando una realtà così capillare che costringerà gli editori di libri scolastici a rivedere, probabilmente, prezzi e qualità dei testi, è risalendo verso il Lazio e la Toscana che si incontra l'esperienza di "Senza zaino", definizione riduttiva per una nuova didattica che sta cambiando il volto della scuola primaria, già sperimentata dal 2002 in 35 realtà. Perché al di là delle classifiche, che vedono Biella al top delle scuole migliori d'Italia (all'avanguardia per alcuni istituti tecnici specializzati nel tessile, ponte verso le aziende), e il Sud (Reggio Calabria) agli ultimi posti, innovazioni e cambiamento si trovano a macchia di leopardo, nascosti magari in territori meno noti, più depressi, in affanno.

Da tre anni all'istituto comprensivo "eSpazia", a Monterotondo, venticinque chilometri da Roma, paese meta di migrazioni della middle class dalla Capitale ma anche di molta immigrazione, si sperimenta una didattica particolare basata sul concetto di comunità. Un polo d'istruzione dove le parole d'ordine sono accoglienza e integrazione, i percorsi sono differenziati per ogni allievo e le lezioni frontali, cioè una per tutti, un ricordo del passato. E i prof sembrano entusiasti del loro lavoro.

"Le nostre classi vanno dalle sezioni Primavera alla terza media, dai 2 ai 14 anni, con una idea di approccio globale all'insegnamento, e di cooperative learning, chi è più veloce aiuta gli altri, pur nel rispetto e nell'incentivo delle eccellenze", spiega Caterina Manco, dirigente scolastica dell'"eSpazia" dal 1993, anima e motore di questa scuola dove sempre più docenti chiedono di poter lavorare. L'architettura dei corridoi è scarna ma ingentilita da disegni e murales, l'odore della mensa è buono, e basta entrare nelle classi che adottano il metodo "Senza zaino" per trovarsi in aule luminose, senza cattedre, ricche di materiali di ogni tipo, perché nulla si porta a casa ma tutto resta a scuola, in comune.

C'è l'angolo dell'agorà (di discussione), l'angolo dell'autocorrezione dei compiti... E poi laboratori, classi aperte, lezioni "lunghe" per i ragazzi delle medie, 90 minuti invece dei soliti 60 per non frammentare il tempo dell'apprendimento, che però avviene in modo creativo, attraverso, anche, teatro, fotografia, grafica, musica, e naturalmente classi 2.0, classi Mac. "Per arrivare al contenuto ogni ragazzo sceglie il medium cioè lo strumento che preferisce, ma attraverso questa flessibilità impara ad imparare".

Ma la caratteristica di questo istituto comprensivo, in prima linea nell'accoglienza agli immigrati, ai bambini e ragazzi con handicap, nel riconoscimento dei disturbi dell'apprendimento, è il "tutoraggio" dei professori. Aggiunge con orgoglio Caterina Manco: "Chi arriva in questa scuola viene preso in carico da docenti già esperti nel metodo, e seguito giorno dopo giorno. Questo si traduce spesso in una sorta di ri-motivazione verso l'insegnamento, anche se qui si fanno più ore, viene richiesto più impegno, si passano a scuola intere giornate. E infatti c'è chi dopo qualche settimana chiede il trasferimento, e chi invece fa di tutto per lavorare con noi".

Ricorda Marco Barozzi, educatore e fotografo: "Appena arrivato qui mi hanno chiesto di occuparmi di tre ragazzi difficili, anzi difficilissimi... Del mio laboratorio di fotografia non gli importava davvero nulla, erano arrabbiati con il mondo e con la vita, violenti, ma attraverso quel laboratorio si è creato un contatto, una confidenza, che a poco a poco ha vinto le loro diffidenze e sgretolato quel muro. Oggi siamo amici e loro sono ragazzi sereni".

27.3.12

I martiri del Tibet sfidano la Cina

i Martiri Del Tibet Sfidano La Cina (Zucconi Vittorio)

16.3.12

Il mondo di Chomsky

intervista di Gea Scancarello (Lettera43)

Non c’è un libro nella stanza, e nemmeno un computer. Né, a dire il vero, penne, carta o appunti. Lo spazio è pressoché interamente occupato da piante – qualche felce, un oleandro, un ficus – cresciute così alte e rigogliose da aver rotto i vasi in cui erano contenute.
Nello studio-salotto fuori dal quale studenti, cronisti e politici in cerca di benedizioni fanno anticamera da mezzo secolo, il verde diffuso è l’unica indicazione dei pensieri che di questi tempi affollano la mente di Noam Chomsky.
Lo scienziato che ha rivoluzionato la teoria del linguaggio, inventore della grammatica generativa, pensatore difficile e spesso fastidioso, fustigatore della politica internazionale, ma apprezzato da tutti perché osteggiarlo può essere compromettente, è seraficamente quieto e imperscrutabile.
50 ANNI AL MIT. Definirlo esuberante, d’altra parte, sarebbe stato eccessivo anche quando nel 1955, a 26 anni, per la prima volta, varcò la porta del Massachusetts Institute of technology (Mit) con una cattedra provvisoria.
Da allora nel campus tutto è cambiato, tranne lui. Per mezzo secolo, Chomsky ha mescolato scienza, critica sociale e attivismo. Diventò un guru della sinistra pacifista condannando «l'aggressione americana in Vietnam», ai tempi in cui ancora scendere in piazza era tabù. Creò il terzomondismo con le campagne a favore della libertà in Sud America. E, di recente, ha rifiutato il concetto di «Asse del male» del presidente George W. Bush, ponendo seri dubbi sulla lotta al terrorismo internazionale.
IL PENSATORE SENZA ETICHETTE. Il tempo ha ristretto Chomsky in una versione ricurva del se stesso appeso alle pareti in decine di foto e riconoscimenti ufficiali, al fianco dei palestinesi – nonostante le origini ebraiche – e nei discorsi contro la guerra. Ma a 83 anni la lucidità spietata delle sue analisi non è variata. E identiche sono le abitudini.
Ottenere un appuntamento per trovarsi faccia a faccia con il mostro sacro è un’impresa lunga di quelle adatte solo per chi ha molta pazienza.
È lui stesso, d’altra parte, a mettere in guardia. Chomsky risponde personalmente alle email che gli arrivano – da qualche parte deve avere un pc nascosto – per spiegare: «Odio essere burocratico, ma se proprio vuoi parlarmi devi superare il vaglio della mia assistente».
Mesi dopo, in un pomeriggio piovoso di marzo, davanti a una tazza di caffè fumante, immerso nella quiete dell’ufficio fuori Boston che ricorda una serra, il professore scardina però ogni formalità e gerarchia.
Scandisce le parole con lentezza, per essere certo che l’interlocutore capisca sul serio. E si diverte ad anticipare le domande della cronista. «Scommetto che siamo qui a discutere di crisi», esordisce invitandoci a sedere.
DOMANDA. Può essere un buon punto di partenza.
Risposta. Dipende da quale crisi ha in mente.
D. Quante ne esistono?
R. In Europa siete molto preoccupati per quella economica.
D. Facciamo male?
R. No, ma la soluzione per quella c’è già.
D. Cioè?
R. L’hanno offerta Draghi e Trichet: mettere la parola fine al welfare state. E ripensare il lavoro, minandone le sicurezze. Ovviamente, non lo hanno detto con queste parole, ma il senso è chiarissimo.
D. La definirebbe una soluzione?
R. Dal loro punto di vista sì. Da una prospettiva economica non ha senso, perché decine di studi condotti dallo stesso Fondo monetario internazionale, hanno rivelato che l’austerità porta solo alla contrazione.
D. Ma il problema è veramente la crescita?
R. Dipende. Se un’economia cresce in modo sostenibile, con l’obiettivo di dare ai suoi cittadini condizioni di vita decenti, è giusto crescere.
D. Chi stabilisce il livello della decenza?
R. Non è decente sfruttare le risorse con il solo obiettivo di produrre beni e indurre consumi crescenti.
D. Il modello occidentale non è decente, dunque.
R. Non è detto che le nazioni in via di sviluppo siano meglio. La Cina, nonostante il Prodotto interno lordo che aumenta in modo spettacolare da anni, è un Paese estremamente povero con problemi ambientali e demografici gravissimi. L’India è sommersa dalla miseria. Per non dire che in tutta l’Asia centrale l’acqua sta diventando un problema economico.
D. Perché?
R. Il Pakistan è a rischio desertificazione per metà della sua estensione. Riesce a immaginare cosa significa per l’agricoltura? Quali saranno le conseguenze sui cittadini e le migrazioni?
D. A fatica.
D. Ecco, significa che ci sono cose molto più gravi alle quali pensare rispetto alla crisi fiscale ed economica. Scenari che non riusciamo nemmeno a figurarci.
«L'ambiente ci si rivolterà contro. E annienterà intere generazioni»
Noam Chomsky in visita in Sud America.
(© Ap images) Noam Chomsky in visita in Sud America.

D. In concreto?
R. La crisi ambientale. Magari è più lontana, non è dietro l’angolo, non sappiamo quando esploderà, ma ogni giorno in cui evitiamo di pensarci la minaccia cresce.
D. Cosa teme?
R. Questo è il tipo di crisi che potrebbe annientare le generazioni future. Ed è qualcosa che non sappiamo come trattare.
D. Anche le armi nucleari rischiano di azzerare il futuro. E sono tornate in voga.
R. La soluzione però in quel caso esiste: per non rischiare una guerra atomica basta farle sparire.
D. Pare facile?
R. No. Ma per la crisi ambientale è peggio.
D. Perché?
R. Non solo non c’è una soluzione futura, ma non sappiamo nemmeno quali sono in questo momento le conseguenze di quanto fatto nel passato. E perseveriamo negli stessi errori.
D. I Paesi in via di sviluppo vogliono quello che abbiamo noi.
R. Il cambiamento di passo dovrebbe arrivare dalle nazioni più ricche, quelle che hanno maggiori opzioni. Dagli Usa, che sono ancora il Paese più potente al mondo.
D. Gli Stati Uniti non hanno mai firmato il protocollo di Kyoto.
R. Infatti. La cosa interessante è che in questo momento il faro guida sull’ambiente sono i più poveri dei poveri del Sud America: la Bolivia e l’Ecuador.
D. Indios socialisti.
R. La cultura degli indios è legata al rispetto della natura, alla sua preservazione. I cittadini del mondo sviluppato, chiamiamolo così, considerano invece l’ambiente come qualcosa da sfruttare.
D. Popoli diversi hanno bisogni diversi.
R. No. Semplicemente, gli occidentali hanno bisogni costruiti.
D. Cioè?
R. Innaturali, indotti.
D. Sta parlando di crisi ambientale o di crisi del capitalismo?
R. Lo sa qual è il settore aziendale più potente al mondo?
D. Quale?
R. Le pubbliche relazioni. La pubblicità. Il marketing. Negli Stati Uniti fatturano il 6% della ricchezza nazionale.
D. Il business del consumo.
R. Si chiama fabbricare desideri. Sedurre all’acquisto. È ovvio che un’attività di questo tipo ha un impatto sulla società. Ne contamina la mentalità, ne indebolisce il carattere.
D. Come?
R. L’industria spende quantità stratosferiche di denaro per indurre i bambini a convincere i propri genitori a comprare giocattoli che butteranno dopo cinque minuti: così si debilita la cultura di un Paese.
D. Perché?
R. Perché si abbassa la soglia di consapevolezza individuale e collettiva. Con conseguenze pericolose.
D. Quali?
R. Economiche, psicologiche, ecologiche.
D. Come si evitano?
R. Cambiando. Riprendendo il controllo. Nessuno ci obbliga a comportarci come gli altri.
D. Già, ma come si cambia?
R. Qualcuno deve iniziare. C’è sempre qualcuno che inizia: mezzo secolo fa, quando sono arrivato in questo campus, non si vedevano donne in giro per i corridoi.
D. E poi?
R. Poi qualcuno prende consapevolezza e quella consapevolezza diventa coscienza morale e attecchisce tra le persone. Fino a 30 anni fa, la legge americana considerava le donne più o meno come proprietà dei loro uomini. Non garantiva loro diritti basilari. Ora è diverso.
D. Qualcosa di simile sta succedendo in economia?
R. Fino a 50 anni fa nessuno si preoccupava del luogo da cui arrivava il prodotto che comprava. Ora esiste un movimento concreto, anche se ancora non abbastanza grande, che si occupa dell’ambiente e degli animali. Persone che reagiscono all’aggressione dell’uomo al pianeta e agli altri uomini.
«Un mondo a due potenze? No, la Cina è sopravvalutata»
D. Parla di guerra, di ecologia o di economia?
R. Parlo di idrocarburi. Il petrolio è da mezzo secolo una stupenda risorsa di potere strategico. È il carburante dello sviluppo industriale. Il mondo intero ruota intorno al petrolio.
D. Sono gli idrocarburi a determinare l’ordine globale?
R. Dopo la Seconda guerra mondiale fu siglato un patto implicito: l’America avrebbe controllato tutte le risorse e i centri di commercio che un tempo appartenevano all’Europa. L’Eurasia, l’Indocina e tutto l’Ovest. Inoltre esisteva un piano minuzioso, seguito alla lettera per 50 anni, per espandere questo controllo.
D. Oggi che ne è del piano?
R. Vive ancora, ma la capacità di portarlo a termine è minore, perché il potere si è diversificato. E l’America è in declino.
D. La Cina ne ha preso il posto?
R. Il declino non è cosa recente. L’America ha vissuto solo quattro anni di grandezza completa: dal 1945 al 1949. Nel 1949 Pechino ha dichiarato la propria indipendenza. E sa a Washington come si indica quella data?
D. Come?
R. The loss of China, la perdita della Cina. È implicito che si perde solo qualcosa che si possiede. Per gli Usa ogni movimento di indipendenza è una perdita.
D. Perché?
R. Perché l’indipendenza porta i popoli a usare le risorse che possiedono per il proprio benessere, e non per quello dei super ricchi. Il Sud America è l’esempio più lampante: gli Usa lo chiamavano il cortile di casa. Oggi non abbiamo più una sola base militare laggiù.
D. L’ultima perdita è quella del Medio Oriente.
R. Washington ha sostenuto ogni movimento dittatoriale pur di frenare l’indipendenza dei Paesi. E ha mollato i despoti solo all’ultimo, quando anche gli eserciti si erano rivoltati loro contro. È una prassi standard: lo ha sempre fatto, lo farà sempre.
D. In Cina non ci sono dittatori che si possano controllare.
R. La Cina ha un ruolo importante nello scenario globale, ma non bisogna esagerarlo. È una nazione ancora poverissima che è cresciuta enormemente, ma ha problemi interni almeno altrettanto grandi.
D. Viene definita la locomotiva del pianeta.
R. La forza del Paese è stato un sviluppo demografico tumultuoso che oggi si è arrestato e che finirà con il metterli in ginocchio. Non sopravvalutiamo le cose: al momento la Cina è ancora un Paese di produzione industriale seriale, un’immensa fabbrica.
D. Sì, ma fa concorrenza alle nostre.
R. La Cina è un tassello importante del sistema est asiatico, ma funziona ancora a trazione esterna, soprattutto del Giappone e della Nord Corea.
D. E allora perché gli Usa ricevono con ogni onore il loro futuro presidente?
R. La minaccia è un’altra: la Cina spaventa per il potenziale militare. In questo momento c’è un conflitto sotterraneo sul controllo delle acque cinesi: Washington sta costruendo basi in Giappone, Sud Corea e Australia per mantenere una presenza geografica forte nell’area.
D. C’è una guerra in vista?
R. Supponiamo che Pechino volesse costruire delle basi militari nei Caraibi, l’America glielo lascerebbe fare? Ritorniamo al concetto di perdita e possesso: ogni volta che qualcuno alza la testa, siamo pronti a ricacciarlo indietro.
D. L’Europa ha un ruolo in questo assetto o è un gioco a due?
R. Nel 1945 gli Usa decisero consapevolmente di prendere la guida del mondo e chiesero ai britannici di fare da junior partner. Ora stanno provando a fare lo stesso con il Giappone, che però ha una costituzione pacifista che gli Usa cercano in ogni modo di forzare.
D. E l’Europa?
R. L’Europa nel suo complesso dopo la Seconda guerra mondiale ha smesso di fare guerre. Si limita a seguire alcune iniziative americane laddove è necessario ai propri interessi. Gli europei hanno smesso di combattersi tra loro. Si sono ammazzati per secoli, poi è arrivata la cosiddetta pace democratica.
D. E cioè?
R. Formalmente, si dice che le democrazie non vanno in guerra. In realtà, in Europa hanno capito che se avessero continuato a combattere avrebbero finito con l’annientarsi.
«La strategia di Obama? Una campagna di assassinii mirati»
D. Gli Usa continuano invece. Anche se Obama aveva promesso un approccio diverso.
R. La strategia militare americana con Obama in effetti è cambiata. Nell’era Bush la pratica era: se qualcuno ti ostacola, invadi il Paese, fai dei prigionieri, li deporti e li torturi. Obama ha optato per una strategia di assassinii mirati, una campagna di omicidi internazionali.
D. Questo è meglio o peggio di prima?
R. Costa meno, è più efficiente, è più comodo. Tant’è vero che il dibattito ora ruota intorno alla possibilità di farlo anche con i cittadini americani, e questo risulta più difficile da accettare.
D. Ma Obama doveva essere il presidente del cambiamento.
R. Promesse: la sua immagine fu costruita a tavolino. La campagna per la sua elezione è stata un prodigio delle pubbliche relazioni. Tant’è vero che all’annuale riunione dell’industria pubblicitaria, nel 2009, il premio per la miglior campagna fu assegnata al team del presidente. Arrivò prima della Apple nella capacità di costruire illusioni.
D. Insomma, è uguale a Bush?
R. No, non uguale. Per alcune cose meglio, per altre – poche – peggio.
D. Se nel 2012 alla Casa Bianca arrivasse qualcun altro sarebbe diverso?
R. I repubblicani hanno abbandonato ogni speranza di essere una forza politica normale. La loro è una vocazione religiosa verso gli interessi delle multinazionali e del business. Il catechismo è: niente tasse ai ricchi, oppure sei fuori dal partito.
D. Vale per tutti, Romney come Santorum?
R. Nessun candidato repubblicano può presentarsi di fronte agli elettori e dire onestamente: «Noi lavoriamo per i super ricchi e non ci interessa di voi». Tutti, quindi, hanno bisogno di mobilitare frammenti di popolazione che sono sempre esistiti, ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza.
D. Per esempio?
R. Ultra religiosi, nazionalisti terrorizzati che qualcuno possa minacciarli, fanatici delle armi. Cose di questo genere. E il risultato è che tutti i candidati repubblicani sembrano venire da Marte.
D. Cioè?
R. Dicono cose che in altri Stati semplicemente sarebbero illegali.
D. Per esempio?
R. Prendiamo Santorum, uno che ha detto: «Il potere discende direttamente da Dio». Dove altro si può sentire una cosa del genere? Io credo che nemmeno in Iran si spingano così in là.
D. Ma la gente li sceglie.
R. Non solo: applaude contenta. Questo è quello che succede quando organizzi e fomenti una base elettorale folle soltanto perché non puoi dire la verità.
D. Quindi non è lo stesso avere come presidente Obama o Santorum.
R. No, non è lo stesso. Non amo Obama, ma qualsiasi dei repubblicani sarebbe semplicemente disastroso. E pericoloso. Non tanto per chi sono loro, quanto per la gente che si portano dietro.
D. A proposito di elezioni, nel 2008 lei in Italia appoggiò Sinistra Critica, una formazione di estrema sinistra.
R. Chi?
D. Sinistra critica, il movimento dell’ex senatore Franco Turigliatto.
R. Io? Può essere, ma non mi ricordo…

12.3.12

Occhio al marketing dei bocconiani

Alessandro Robecchi (Il Manifesto)

Gentili utenti. Terrorizzare un’intera popolazione con cose che fino a dieci minuti prima non aveva mai sentito nominare non è stato difficile. Farlo con mostri spaziali ed epidemie son buoni tutti. Ma esserci riusciti con lo Spread indica che la strada è tracciata. Ecco le prossime mosse.
Stunt – E’ il differenziale tra le calorie ingerite da un cittadino della Corea del Nord e  quelle ingerite da un italiano. Lo Stunt ha grandi margini di miglioramento. Titoli e telegiornali convinceranno gli italiani che mangiare ogni due giorni è possibile, anzi sano.
Spritz – Si tratta del differenziale tra il consumo di champagne di Briatore e il salario di un metalmeccanico. Il governo intende operare per mantenerlo altissimo e, se possibile, aumentarlo.
Furto – Con questo strano nome si definisce il differenziale tra i tassi che pagano le banche per i soldi presi in prestito dalla Bce (uno per cento). e i tassi che poi fanno pagare a voi per un mutuo (più del sette per cento). Per una convincente campagna di stampa volta al convincimento della popolazione, magari, meglio cambiargli nome.
Skog – Gli economisti indicano con questa sigla il differenziale tra il potere contrattuale di uno schiavo assiro-babilonese del 1500 a.C. e quello di un precario italiano del 2012. Lo Skog è attualmente in perfetta parità, ma il governo intende aumentarlo sensibilmente.
Sbam – Calcolato con uno speciale algoritmo, è il differenziale tra l’utilità di una grande opera come la Tav e le manganellate distribuite alle popolazioni locali per realizzarla. In questo momento lo Sbam è uno a diecimila, ma potrebbe aumentare.
Lsd – E’ una speciale sostanza psicotropa distribuita ai maggiori esponenti del Pd per convincerli a sostenere il governo Monti.
Grazie per l’attenzione. Il nostro centro studi prosegue le sue ricerche. Nel ricordarvi che l’articolo 18 non è un tabù, vi diamo appuntamento alle prossime puntate.

9.3.12

TAV - Il governo spiega perché farla, domande e risposte sbagliate

Palazzo Chigi spiega perché bisogna fare la linea Torino-Lione con domande e risposte. Peccato che non siano quelle che interessano il largo pubblico.

Guglielmo Ragozzino (il Manifesto)



Palazzo Chigi ha enunciato i 14 punti per spiegare «le ragioni del fare» a proposito della linea Tav Torino-Lione. La forma è quella delle risposte a 14 domande. Senza polemica, vorremmo notare che le domande, pur interessanti, non sono quelle giuste che interessano sul serio il largo pubblico coinvolto nei problemi del Tav, fuori dalla Valle Susa. In Valle, come è noto, si conoscono a menadito le domande appropriate e le relative risposte.
Vorremmo attirare l'attenzione del pubblico su alcuni punti significativi.
Qual è il costo?
Se lo chiede Palazzo Chigi alla domanda numero 2. La risposta butta là delle cifre che non vale la pena di ripetere e poi spiega che «il progetto preliminare è stato approvato dal Cipe (governo)... si prevede di realizzare l'opera per fasi: prima il tunnel di base e gli interventi di adeguamento del nodo di Torino e solo in una seconda fase, qualora le dinamiche del traffico dovessero evidenziarne l'effettiva necessità, la tratta in bassa Valle di Susa (Bussoleno-Avigliana)....». Gli estensori avranno pensato di mostrare tutta la saggezza dell'intervento. Invece essi prefigurano un tunnel scavato e abbandonato, senza neppure i binari, oppure con i binari arrugginiti. Molte costruzioni, recenti e meno recenti, sono i resti delle grandi opere fallite. Il fatto che la seconda fase, nelle parole del governo, è per lo meno incerta, lascia molti dubbi sul buon senso effettivo di un intervento che appare aleatorio e ne sostituisce altri veramente utili.
L'opera è stata concertata con il territorio?
È la domanda 5: Il punto principale della risposta è che «nel giugno 2007 a seguito di specifiche richieste del territorio...» è stato abbandonato il tracciato a sinistra della Dora. Come dire: meno male che la Valle si è opposta, compresi gli scontri del 2005, l'assemblea detta del Grande Cortile e il resto. Il movimento ha evitato gravi errori, forse irrimediabili. Naturalmente d'ora in poi - assicura Palazzo Chigi - abbiamo ragione noi.
Quali saranno i principali vantaggi della Torino Lione una volta realizzata?
Il punto 6 risponde alla domanda delle domande. Da un lato si promette di dimezzare i tempi di percorrenza tra Torino e Chambery da 152 minuti a 73. Niente male, sono 79 minuti. Ma si aggiunge che i tempi di viaggio tra Milano e Parigi passano da 7 a 4 ore. Questo è magnifico, ma incomprensibile. Quale magia trasforma, sulla stessa linea, senza modifiche, un vantaggio di 79 minuti in uno di 180? Dev'essere una questione di gestione dello spread ferroviario che solo pochi eletti capiscono.
C'era davvero bisogno della nuova linea Torino Lione, visto il calo del traffico sulla direttrice storica del Frejus?
Siamo arrivati alla domanda n. 8. «I flussi d'interscambio Italia-Francia nel quadrante ovest (da Ventimiglia al Monte Bianco sono costanti...» fra 38 e 40 milioni di tonnellate. Superano di un 10% quello verso la Svizzera, ma mentre quest'ultimo è per il 63% su rotaia, quello analogo italo-francese arriva soltanto al 7%. L'idea del governo, forse un po' tardiva, è quella di migliorare questo risultato. Se le scelte del governo andassero a segno tutte e senza ritardi, sarebbe verso il 2025 che potrebbe cominciare il cambiamento. Fino a quel momento si potrebbe accettare il traffico attuale dei tir su strada, oppure potenziare la linea esistente, rendendola, con una spesa assai minore, e in tempi assai più brevi, percorribile dal traffico merci, con vantaggi ambientali sicuri e miglioramento forte della percentuale.
Il progetto ha una sostenibilità energetica? Ed una sostenibilità ambientale?
Sono i quesiti 10 e 11. È previsto che «a vita intera» la linea consentirà un risparmio di emissioni di gas serra di 3 milioni di tonnellate equivalenti di CO2. «Con questi dati si può prevedere un bilancio del carbonio positivo già dopo 23 anni dall'inizio dei lavori». E prima dei 23 anni che aggravio di CO2 vi sarà? E nel caso, probabile, di ritardi?
Quali sono gli aspetti geologici più importanti?
La dodicesima è una domanda cruciale. La risposta lascia effettivamente qualche dubbio. «Infine da un approfondimento delle problematiche dell'amianto, risulta che le rocce possono avere una presenza sporadica con una quantità massima stimata intorno al 15%». Seguono vari accorgimenti: monitoraggi del fronte di scavo da parte del geologo e all'interno e all'imbocco della galleria; osservazione in continuo del materiale scavato; una sua compartimentazione e specifiche misure di protezione dei lavoratori. E scusate se è poco per l'amianto sporadico.

8.3.12

La nuova banda dell´Ortica

di CURZIO MALTESE (La Repubblica)

L´immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d´Italia. È l´istantanea dell´ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati.

O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l´ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l´ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d´Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s´era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l´indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent´anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell´ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell´ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l´altra a Malta), non che per aver investito l´anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell´Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l´immaginava? Me l´ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l´Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent´anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un´economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un´economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent´anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell´ex area Falck, nell´ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d´Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l´aeroporto più in crisi d´Europa, perde viaggatori, merci, scali, compagnie, è l´hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l´industria dell´auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell´agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l´ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po´ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.

4.3.12

Pasolini. I 90 anni del poeta corsaro

Giancarlo Liviano D’Arcangelo (l'Unità)

Anche se non c’è più continua a vivere nei suoi «anatemi» che sono diventati il nostro presente con mercificazione della cultura razzismo opportunismo e ignoranza assurti a valori della vita

È canuto e segaligno, aggraziato negli sguardi denudanti e per questo centellinati, intento a muovere con furia nevrotica gli arti affusolati, intricati, pungenti come rovi e duri come la quercia. Nascosto dietro un paio di ombreggianti occhiali da sole di celluloide nera, autoironica concessione al cliché del regista, dell’intellettuale santificato per ansia di disinnesco e relegato al ghetto sepolcrale dell’apparenza. È dura scorgere ciò che accade dietro quegli occhi artificiali dalle lenti ampie e nere di pece, dismessi solo per dormire o per leggere. Eppure Pasolini, prossimo al suo novantesimo compleanno, seppur stanco, depotenziato dalla fatica psichica profusa sulle pagine e ingobbito da quella fisica dissipata sul set, seppur seviziato nei nervi dalla propria ossessione auto-annichilente, è ancora il curculione dal pungiglione avvelenato che, per metà annidato in serra e per metà incalzato da furia insetticida, si nutre e prova a distruggere culture troppo sintetiche per essere trasfigurate in paradisi convincenti. Lampeggia idee. Protesta. Assomiglia al vecchio Hamm beckettiano di Finale di partita, che giunto alla fine della sua esistenza, un’esistenza fin dall’inizio votata alla sconfitta se correlata alla sua ambizione ancestrale, la liberazione dell’uomo, non può che sospendersi e perdersi fino all’eternità in una sorta di estraneazione fondata sulla ciclica e ineluttabile alternanza di mosse e contromosse, guerra spiroidale senza fine tra lui e il mondo esterno, divenuti archetipi. Il giocatore/individuo, ora santo ora demoniaco, in disperata competizione con avversari senza volto: i bari per eccellenza, il caos e «il potere». Vera e propria nemesi per l’outsider e palliativo per l’uomo, utile solo a rinviare ancora un po’ la fine, temuta e al tempo stesso desiderata. In questi anni, tra traduzioni e saggi critici, tra invettive e qualche annuncio apocalittico, Pasolini ha completato Petrolio, golem premiato, glorificato e al contempo demolito, com’è possibile fare in malafe-
de per ogni capolavoro inclassificabile, mastodontico per ambizione e urgenza e fallace per definizione. Ha girato l’opera definitiva su San Paolo, appuntandosi come una medaglia l’ennesima scomunica di una chiesa più che mai carnevalesca, facendo del guerriero di Tarso il primo traditore di Cristo e il primo mistificatore eretico del messaggio evangelico. Ha realizzato con Eduardo de Filippo e Franco Citti Porno-Teo-Kolossal, un film cosmogonico, eroicomico e grottesco, un’opera vagheggiata e organizzata tra mille ostacoli, voluta con prepotenza e imbellettata dal solito amore per il pastiche, in cui accade che una cometa, allegoria babilonese dell'ideologia, trascina dietro a sé un Re Magio interpretato dallo stesso Eduardo, un eroe puro che seguendo quella scia viaggia a lungo maturando esperienza dello scibile intero, del metafisico, del sensoriale e del mistico. L’opera di una vita, insomma. L’unica opera possibile dopo quell’incredibile profezia sulla furia mortuaria della modernità che è stata Salò e le 120 giornate di Sodoma, epigrafe sul potere anarchico dei giorni nostri, messa in evidenza funebre della promiscuità tra carnefici e vittime che s’immolano impotenti, ridotti a corpi-oggetto di sfruttamento, cronaca della perpetrazione fredda e alienante di vita e piacere come routine senza coinvolgimento, affresco dall’estetica cimiteriale tipica del mondo incancrenito dal capitale, che come il sadico non raggiunge mai il grado sublimato del piacere e non gode mai, nemmeno quando ha seviziato e ucciso l’oggetto del proprio godimento, che si tratti del corpo, dell’umanesimo o della natura.
A sorpresa, s’era ridotto all’eremitaggio Pasolini, negli anni 80, quelli in cui molti dei suoi anatemi hanno acquisito forma fenomenica: la vertiginosa mercificazione della cultura ad esempio, o il fascismo insito nel neocapitalismo edonista e consumista, «un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler». Durante gli anni di Drive In insomma. E ancor di più dopo la morte di Moravia nei 90, quelli dell’esplosione delle televisioni commerciali, colpo di grazia tecnologico agli ultimi afflati del mondo originale in cui, prima dell’odierna e placida vecchiaia, Pier Paolo aveva cercato accettazione.
PROFESSIONE BORGHESE
Lui, borghese per professione e paria rifiutato dalla stessa borghesia, immune per coscienza ipertrofica alla borghesia intesa come morbo svelato da una sintomatologia infallibile fatta di razzismo, opportunismo, utilitarismo e ignoranza assorti a valori della vita. Il mondo, quello che batteva, ormai altrettanto corrotto e che l’avrebbe di certo ucciso, se solo Pasolini, già allora ricco e ricattabile oltre che pieno di nemici, nella notte tra il primo e il due novembre si fosse presentato sulla spiaggia dell’Idroscalo con Pelosi e i tre milioni di lire necessari a recuperare le pizze di Salò, anziché ripensarci per miracolo, all’ultimo momento. Già allora, forse, per un uomo che l’amico Carmelo Bene chiamava violento e corruttore in quanto portatore vivente del dubbio e della crisi come ideologia, non c’era più niente da corrompere. E come testimonia il trattato pedagogico Gennariello, volutamente lasciato incompiuto, nemmeno più nulla da insegnare.
Guai a chiamarlo maestro, infatti. Perché mai come oggi, in procinto di compiere novant’anni, Pasolini, come se fosse destinato ad averne per sempre cinquantatré, predicherebbe deciso che i maestri non servono a niente, così come aveva predetto attraverso la voce stridula del corvo di Uccellacci e Uccellini. Vanno superati. E sono fatti, come lui ha sempre dimostrato, «solo per essere mangiati in salsa piccante».

Voi siete qui - Alcuni treni arrivano sempre in anticipo

Alessandro Robecchi (Il Manifesto)

Non so voi, ma a me ‘sto fatto che “il tempo è galantuomo” pare un po’ una truffa per passarla liscia. Voglio dire: non era una decina di anni fa (undici, per la precisione) che prendevamo un sacco di botte in quel di Genova? E, nel prenderne un sacco e una sporta, non eravamo noi (o nostri amigos) quelli che dicevano: perbacco, ci vorrebbe proprio una tassa sulle transazioni finanziarie, tipo Tobin Tax, per dirne una, che ci metta un po’ al riparo da ‘sti squali maledetti della finanza? O anche: ma non sarebbe il caso di ribadire chiaro e forte che certi beni comuni, tipo l’acqua, non debbano essere privatizzati? Mi pare di ricordare che sì, dicevamo proprio queste cose, e nel dirle – e proprio per il fatto che le dicevamo – abbiamo assistito in prima fila alle manganellate sulle suorine e sui boy scout, alle cariche, ai caroselli di blindati, al fumo e ai proiettili vaganti (si, vabbé, vaganti…). Ora, passati dieci anni e più, portati a casa quei bernoccoli, e quelle contusioni, e quelle umiliazioni, sentiamo dire dai potenti del mondo (pure quelli che ai tempi deliravano di “finanza creativa”, ah, ah!) che in effetti una Tobin Tax non sarebbe niente male, e quanto all’acqua pubblica, beh, il popolo bue non era poi tanto bue, come volevasi dimostrare. E ora, tanto per portarci avanti col lavoro, ci prendiamo altre manganellate e rastrellamenti e caroselli di blindati per ‘sta cazzo di ferrovia veloce che tremare il mondo fa. Per poi magari (sicuro) sederci sul divano tra dieci, quindici anni, e vedere certe inchieste in tivù, che so, l’ottimo Iacona, l’eccellente Gabanelli, raccontarci che abbiamo buttato alcuni miliardi, avvelenato un po’ di gente, ammazzato un po’ di ambiente, per un’opera inutile, costosa, dannosa. Pare di sentirli in anticipo, quei reportages: era necessario? Era utile? Quali cricche ci si sono ingrassate? Chi ci ha guadagnato? Ecco, sarà pure galantuomo, ‘sto tempo, ma a dirla tutta pare un po’ stronzo. Dopotutto, a pensarci, non sarebbe la prima volta che ci picchiano, ci sparano e ci rastrellano perché abbiamo ragione.

3.3.12

La sopravvivenza dei meno idonei: perché le peggiore infrastrutture vegono costruite

La sopravvivenza dei meno idonei: perché la peggiore infrastruttura viene costruita - cosa si può fare

Si ringrazia il Blog di Aspo-Italia e Debora Billi per aver scovato il lavoro di Flyvbjerg nelle pieghe della rete.

2.3.12

The great train robbery

High-speed rail lines rarely pay their way. Britain’s government should ditch its plan to build one

AT THE launch of the Liverpool-Manchester railway in 1830, a statesman was killed when he failed to spot an approaching train. That was not the last time a new train line has had unintended consequences. Victorian railways ushered in a golden age of prosperity; these days politicians across the developed world hope new rapid trains, which barrel along at over 250mph (400kph), can do the same. But high-speed rail rarely delivers the widespread economic benefits its boosters predict. The British government—the latest to be beguiled by this vision of modernity—should think again (see article).

High-speed talk is everywhere at the moment. Six countries have put large sums into “bullet” trains: Japan, France, Germany, Spain, and, more recently, Italy and China. Australia, Portugal and Indonesia are all considering new lines. And the British government is pondering plans for a £32 billion ($52 billion) link from London to the north of England. Ventures elsewhere have stumbled: China suspended new projects after a fatal collision of two high-speed trains in July; Brazil delayed plans for a rapid Rio de Janeiro-São Paulo link, after lack of interest from construction firms. Yet governments remain susceptible to the idea that such projects can help to diminish regional inequalities and promote growth.

In fact, in most developed economies high-speed railways fail to bridge regional divides and sometimes exacerbate them. Better connections strengthen the advantages of a rich city at the network’s hub: firms in wealthy regions can reach a bigger area, harming the prospects of poorer places. Even in Japan, home to the most commercially successful line, Tokyo continues to grow faster than Osaka. New Spanish rail lines have swelled Madrid’s business population to Seville’s loss. The trend in France has been for headquarters to move up the line to Paris and for fewer overnight stays elsewhere.

Even if some cities benefit, other places beyond the rail network may suffer: speed is attained partly at the cost of stops, so areas well served by existing services may find new lines bypass them. Parts of Britain, for example, fear that a new zippy railway will create a second tier of cities supplied by fewer and slower trains. High-speed lines, like other regeneration projects, often displace economic activity rather than create it.

The advantages, meanwhile, mostly accrue to business travellers. In China ticket prices are beyond the reach of most people, so new trains yawn with empty seats. Yet because high-speed lines require huge investments, usually by governments, ordinary taxpayers end up paying. So instead of redistributing wealth and opportunities, rich regions and individuals benefit at the expense of poorer ones.

Full steam ahead

Ultra-fast railways will have their day. They are a good way to cut air travel and carbon emissions, particularly where, as in China, they connect dense but distant population clusters. On shorter routes, their advantages dwindle: they can neither transform a region nor replicate the advantages of wider networks. And there is not yet such a thing as a cheap high-speed link: China’s safety failures have shown the perils of skimping in any way. At present, for most places, the marginal benefits of these fantastic feats of engineering, in terms of reduced journey times, are outweighed by the high costs.

And those costs sap funding from humbler but more efficient schemes. Especially in smaller countries, upgrading existing, slower networks often makes more sense. Capacity can be increased with longer trains and extended platforms. Some spacious first-class carriages could be converted to more compressed second-class ones; pricing may ration demand more effectively at busy times. Better signalling can increase the average speed of journeys. Britain’s non-high-speed trains, for example, are already quicker than most other countries’ equivalents. Some trains that currently run at 125mph could go faster if signals were upgraded—even if unveiling a new signal box might appeal less to politicians than inaugurating a futuristic new service.

Britain still has time to ditch this grand infrastructure project—and should. Other countries should also reconsider plans to expand or introduce such lines. A good infrastructure scheme has a long life. But a bad one can derail both the public finances and a country’s development ambitions.