29.5.15

Il male di vivere sulla linea adsl

Guia Soncini (repubblica.it)

A un certo punto c'era Alba Parietti - giuro: Alba Parietti - che diceva che, se scoprisse suo figlio trentatreenne a girare la foto di una sua amante a un amico, lo prenderebbe a schiaffi. La puntata di ieri sera di AnnoUno, che pareva prodotta dalla Rai di Bernabei, non ha fornito risposte a: ma perché una madre dovrebbe controllare cosa diamine manda agli amici un trentatreenne?

Il modo in cui si parla di internet sugli altri mezzi di comunicazione di massa fa sempre molto ridere, ma ieri sera il tono in cui veniva scandita ogni volta la locuzione "su internet" stava tra il modo in cui i nostri genitori dicevano "la droga" e quello in cui i nostri nonni dicevano "i Beatles".

C'era un servizio su ragazzini dediti ai videogiochi in Cina, uno dei quali ha detto all'inviato che aveva abbandonato la scuola per dedicarsi a tempo pieno ai videogiochi. Abbiamo sicuramente perso un potenziale candidato al Nobel per la medicina; in compenso abbiamo conquistato giornalisti che, undici anni dopo il giorno in cui un ragazzino mollò l'università per metter su Facebook, ancora trasecolano perché, signora mia, i giovani d'oggi preferiscono il joystick alla carriera accademica (che, quella sì, garantisce un reddito sicuro).

Tuttavia non è il caso di sottovalutare i gravissimi (!) sintomi "tipici di chi trascorre anche dieci ore al giorno davanti a internet" (!!): ragazzini che perdono il controllo e ne picchiano altri, disturbi ossessivo-compulsivi, e insomma spesso il male di vivere ho incontrato, ed era un adsl. E ora non ditemi che, come un po' chiunque di questi tempi, voi di ore al giorno collegati ne passate anche quindici, altrimenti mando Di Pietro (c'era anche lui, ospite: sono proprio gli anni Novanta) a dirvi che è "una tossicodipendenza".

Con un certo compiacimento, ragazzine in studio raccontavano di suicidi di compagne di classe che, su internet, erano state insultate da coetanei. Nessuno, neanche per sbaglio, ha buttato lì che, se ti ammazzi perché i compagni di classe t'irridono, la soluzione forse è fornirti gli strumenti per imparare a fregartene, sanare la fragilità psichica per cui te ne importa così tanto. La soluzione è fare di te uno con le spalle larghe, che sopravvive anche quando si ritrova, trentatreenne, con una madre con le extension che va in tv a minacciare di prenderti a scapaccioni.
Twitter: @lasoncini

27.5.15

La "nuova classe operaia" non va all'università

Il crollo delle immatricolazioni nasconde un altro dato: in realtà dai licei arrivano più iscritti, mentre da tecnici e professionali sono crollati di quasi il 50% dieci anni. La conferma che la crisi morde impiegati ed operai, e che l'ascensore sociale è ormai bloccato

di Salvo Intravaia

Il calo degli immatricolati all'università colpisce soltanto i figli dei meno abbienti: operai e impiegati, possibilmente meridionali. E, mentre il Parlamento si trova alle prese con l'approvazione della legge di riforma della scuola targata Renzi-Giannini, torna alla ribalta la questione del diritto allo studio. Con le immancabili critiche rivolte al governo delle organizzazioni studentesche. La pubblicazione di qualche giorno fa, da parte del Cineca, degli immatricolati all'università di quest'anno  -  il 2014/2015  -  certifica l'impressionante crollo delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni: meno 20 per cento dal 2004/2005 al 2014/2015. Calo che si accompagna con quello dei laureati che, secondo le richieste dell'Unione europea dovrebbero invece crescere, visto che l'Italia è ultima nel Vecchio Continente dietro la Romania: meno 37mila in appena un anno..

Ma spulciando i dati forniti dal consorzio interunivesitario, che cura una parte della statistica sugli atenei, si scopre che la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi. Famiglie di operai ed impiegati unite nella medesima difficoltà, come ha raccontato su Repubblica Ilvo Diamanti. I dati sugli immatricolati, insomma, svelano l'ennesimo divario che si cresce fra italiani ricchi o benestanti, che possono permettersi di pagare tasse universitarie ormai salate dappertutto, e meno. Perché il grosso degli oltre 66mila immatricolati in meno  -  due terzi dei quali al Sud  - che le segreterie universitarie hanno registrato negli ultimi dieci anni appartiene a ragazzi col diploma dell'istituto tecnico e del professionale. E residente al Sud.

I dati sono impressionanti. In appena un decennio, i giovani immatricolati nelle università della Penisola in possesso di un diploma tecnico o professionale sono crollati del 46 e 41 per cento rispettivamente. In altre parole, in due lustri la presenza tra i banchi universitari di coloro che provengono da famiglie meno abbienti  -  per tradizione in Italia gli istituti tecnici e professionali sono frequentati dai figli degli operai e degli impiegati di profilo basso  -  si è quasi dimezzato. Mentre la presenza dei liceali  -  soprattutto provenienti da classici e scientifici  -  si è addirittura incrementata del 4 per cento. Un dato in controtendenza che potrebbe anche spiegare il boom dei licei certificato dall'ultimo report sulle iscrizioni al superiore nel 2015/2016.

L'ultimo resoconto pubblicato dal ministero dell'Istruzione sulle iscrizioni al secondo grado fa registrare il sorpasso dei licei su tutti gli altri indirizzi scolastici. Con un 51 per cento sul totale dei ragazzini di terza media che lo scorso gennaio hanno espresso una preferenza per il prossimo mese di settembre che non si era mai verificato prima. Ma che potrebbe testimoniare anche la mutazione delle scelte delle famiglie italiane a seguito della crisi che ha fatto schizzare in alto la percentuale di giovani disoccupati  -  di età compresa fra i 15 e i 29 anni  -  negli ultimi anni: dal 17,5 del 2004 al 31,6 per cento del 2014. Accompagnato da un numero sempre crescente (il 26 per cento) di Neet  -  giovani che non studiano né lavorano  -  per i quali proprio oggi l'Ocse ha rifilato l'ennesima bocciatura all'Italia su giovani e occupazione.

Per sfuggire alla disoccupazione la scelta degli italiani potrebbe avere portato più iscritti verso i licei con prosieguo all'università a scapito degli istituti tecnici e professionali che non assicurano più, com'è avvenuto negli anni del boom economico, un lavoro dopo il diploma. Fermo restando che a pagare il conto più salato sono

stati i figli dei nuclei familiari meno fortunati. E che, con la crisi, l'ascensore sociale invocato anche dalla Carta costituzionale si è definitivamente fermato al piano terra. Per questa ragione le organizzazioni studentesche invocano più interventi per il diritto allo studio.

Università, crolla numero laureati. Al Sud -45mila iscritti. Udu: "Atenei stanno morendo"

Corrado Zunino (La Repubblica)

E' la cifra delle ultime tre stagioni: il Sud delle università perde immatricolati, iscritti, laureati. Anche l'analisi dei dati 2014-2015, pubblici con l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari elaborata dal Miur e in via di assestamento, dice che gli atenei meridionali hanno perso in dieci anni 45 mila iscritti e dice anche che il Centro del paese (+1,58% immatricolati, ovvero iscritti al primo anno) e il Nord (+1,25%) sono usciti dalla crisi di richiamo. Dice ancora che alcune università capaci di trasformare il sapere in lavoro registrano una crescita al primo anno notevole. Per esempio, Macerata, Ferrara, Firenze, Verona, ma anche le due romane Sapienza e Tor Vergata.

E' un percorso conosciuto, che sta lasciando solchi nel nostro paese. Visto con gli occhi dell'Unione degli universitari, che questi dati ha iniziato ad analizzare, c'è dell'altro. C'è che il calo dei laureati è di 37.616 unità, il peggiore dalla stagione 2003-04, gli ultimi dieci anni ecco. Vuol dire che molti studenti si perdono per strada, che gli atenei italiani non si riempiono solo di fuoricorso, ma di giovani che abbandonano perché non ce la fanno sul piano economico, perché trovano un lavoro che non richiede il diploma di laurea, perché non credono più nella funzione di acceleratore della propria vita da parte dell'università italiana. In un anno, spiegano i dati in assestamento, si sono persi iscritti pari a 71.784 studenti: è il 4,23 per cento. Gli immatricolati calano di 737 unità, non molti, ma i nuovi iscritti al primo anno sono in discesa da dieci anni e a fronte della ripresa del Centro-Nord, sprofonda il Sud. Per la prima volta, dato significativo, sono in calo anche i laureati: sono 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, il 12,72 per cento. L'Udu parla di riforma Gelmini come spartiacque del rapporto tra diplomati e università. Quel dicembre 2010 - approvazione della riforma universitaria numero 240 - ha comunque coinciso con l'inizio della fase peggiore della peggiore crisi economica del Dopoguerra.

"Le prime rilevazioni su immatricolazioni e iscrizioni per l'anno accademico 2014-15 sono in linea con le nostre paure e previsioni", scrive il coordinatore Udu Gianluca Scuccimarra. "Assistiamo a una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. E il pesante incremento di numeri programmati ha colpito particolarmente gli atenei meridionali". Dal 2010 a oggi gli iscritti totali del sistema universitario sono passati da 1.787.752 a 1.624.208. "Senza interventi immediati e strutturali l'università italiana rischia di morire".

La Crui, la Conferenza dei rettori contraltare degli studenti, conferma preoccupazioni in linea con gli universitari sulla tenuta del sistema. Nell'ultimo documento, approvato il 7 maggio scorso, la conferenza ha rilevato nel 2015 la diminuzione di 87,4 milioni di euro per il Fondo di finanziamento ordinario: partendo dal 2009, il taglio è stato di oltre 800 milioni. Oggi l'Ffo girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42 per cento del Prodotto interno lordo contro lo 0,99 per cento in Francia e lo 0,92 per cento in Germania. "I risparmi progressivi, unitamente al blocco del turnover, hanno determinato la perdita di oltre diecimila docenti e ricercatori".

Il 2015 dovrà essere, nelle intenzioni del governo della "Buona scuola", l'anno rifondante degli atenei italiani. La Crui, ricordando che per il settore universitario "le dinamiche salariali sono ferme da cinque anni", chiede l'incremento del finanziamento complessivo: "L'Ffo deve coprire interamente i costi standard per studente". Gli universitari dell'Udu, certificata la nuova emorragia di laureati e iscritti, dicono dal loro canto: "Gli atenei del nostro paese perdono migliaia di studenti ogni mese. Di fronte a questo massacro pensare a una "Buona università" nata nelle stanze di partito e senza contatto con il mondo universitario sarebbe follia. E' indispensabile affrontare le vere priorità a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale, quindi eliminazione dei numeri programmati per favorire l'iscrizione".

13.5.15

L’ipocrisia dell’Europa si chiama diseguaglianza

di Kenneth Rogoff (ilsole24ore)

L’emergenza dei migranti che sta vivendo l’Europa rivela un vizio di fondo, se non un’enorme ipocrisia, nell’attuale dibattito sulla disuguaglianza economica. Un vero progressista non sosterrebbe l’idea di pari opportunità per tutti gli abitanti del pianeta, anziché soltanto per quelli che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere in Paesi ricchi?

Molti leader di pensiero nelle economie avanzate perorano la mentalità del diritto. Tale diritto, però, si ferma al confine, e anche se una maggiore redistribuzione della ricchezza all’interno dei singoli Paesi viene ritenuta un imperativo assoluto, le persone che vivono in Paesi emergenti o in via di sviluppo sono lasciate fuori.

Se le attuali preoccupazioni circa la disuguaglianza fossero espresse esclusivamente in termini politici, questo ripiegamento su se stessi sarebbe comprensibile; dopotutto, i cittadini dei Paesi poveri non possono votare in quelli ricchi. Invece, la retorica del dibattito sulla diseguaglianza nei Paesi ricchi tradisce una certezza morale che opportunamente ignora i miliardi di persone che in altre parti del mondo vivono in condizioni molto peggiori.

Non bisogna dimenticare che, anche dopo un periodo di stagnazione, la classe media nei Paesi ricchi, vista in una prospettiva globale, resta comunque una classe alta. Soltanto circa il 15% della popolazione mondiale vive in economie sviluppate. Eppure, i Paesi avanzati sono a tutt’oggi responsabili di oltre il 40% dei consumi globali e dell’esaurimento delle risorse. Aumentare le tasse sulla ricchezza è senz’altro un modo per ridurre la disuguaglianza all’interno di un Paese, ma non risolve il problema della povertà profonda nel mondo in via di sviluppo.

E neppure lo risolve appellarsi a una superiorità morale per giustificare il fatto che una persona nata in Occidente usufruisca di così tanti vantaggi. Senza dubbio, delle istituzioni politiche e sociali solide sono il fondamento di una crescita economica sostenuta, anzi rappresentano un ingrediente essenziale per la buona riuscita dello sviluppo.

Tuttavia, la lunga storia di sfruttamento coloniale dell’Europa rende difficile immaginare come sarebbero evolute le istituzioni asiatiche e africane in un universo parallelo in cui gli europei fossero arrivati solo per commerciare, non per conquistare.

Molte questioni politiche appaiono distorte quando si osservano con una lente che mette a fuoco solo la disuguaglianza interna di un Paese e ignora quella globale. L’affermazione marxiana di Thomas Piketty che il capitalismo sta fallendo perché la disuguaglianza nazionale è in aumento in realtà dice il contrario. Quando si dà lo stesso peso a tutti i cittadini del mondo, le cose appaiono sotto una luce diversa. Le stesse forze della globalizzazione che hanno contribuito alla stagnazione dei salari della classe media nei Paesi ricchi, altrove hanno affrancato dalla povertà milioni di persone.

La disuguaglianza globale si è ridotta negli ultimi tre decenni, il che implica che il capitalismo ha avuto un successo straordinario. Potrà aver eroso il livello delle rendite di cui i lavoratori nei Paesi avanzati godono in virtù dell’essere nati lì, ma ha fatto di più per aiutare i lavoratori a reddito medio, concentrati in Asia e nei mercati emergenti.

Consentire una più libera circolazione delle persone attraverso le frontiere bilancerebbe le opportunità in modo più rapido rispetto al commercio, ma un’ipotesi del genere incontra resistenza. I partiti politici anti-immigrazione hanno preso piede in Paesi come Francia e Regno Unito.

Certo, i milioni di disperati che vivono in zone di guerra e in Paesi falliti non hanno molta altra scelta se non chiedere asilo in un paese ricco, a prescindere dai rischi che ciò comporta. Le guerre in Siria, Eritrea, Libia e Mali hanno avuto un ruolo enorme nell’attuale impennata di profughi che cercano di raggiungere l’Europa. E se anche questi Paesi dovessero stabilizzarsi, l’instabilità di altre regioni si imporrebbe al loro posto.

Le pressioni economiche rappresentano un’altra forte spinta alla migrazione. I lavoratori dei Paesi poveri accolgono con favore l’opportunità di lavorare in un Paese avanzato, anche con salari da fame. Purtroppo, il dibattito in corso nei Paesi ricchi verte perlopiù, sia a destra che a sinistra, su come tenere gli altri fuori dai propri confini, una soluzione che potrà essere pratica, ma non è giustificabile da un punto di vista morale.

Inoltre, la pressione migratoria è destinata ad aumentare se il riscaldamento globale evolverà secondo le previsioni dei climatologi. Quando le regioni equatoriali diventeranno troppo calde e aride per sostenere l’agricoltura, nel Nord del mondo l’aumento delle temperature renderà invece l’agricoltura più produttiva. I mutamenti climatici potrebbero, quindi, incrementare la migrazione verso i paesi più ricchi fino a livelli che farebbero impallidire quelli dell’emergenza attuale, soprattutto tenuto conto che i paesi poveri e i mercati emergenti sono perlopiù ubicati in prossimità dell’equatore e in zone climatiche più vulnerabili.

Essendo la capacità di accoglienza e la tolleranza dei paesi ricchi verso l’immigrazione ormai limitate, è difficile immaginare di poter raggiungere in modo pacifico un nuovo equilibrio in termini di distribuzione della popolazione globale. Esiste, quindi, il rischio che il risentimento nei confronti delle economie avanzate, responsabili di una quota fin troppo sproporzionata d'inquinamento e consumo di materie prime globali, possa degenerare.

Mentre il mondo diventa più ricco, la disuguaglianza inevitabilmente si profilerà come un problema molto più vasto rispetto a quello della povertà, un’ipotesi che avevo già avanzato oltre un decennio fa. Purtroppo, però, il dibattito sulla disuguaglianza si è concentrato a tal punto su quella nazionale da oscurare il ben più grande problema della disuguaglianza globale. Questo è un vero peccato perché i paesi ricchi potrebbero fare la differenza in tanti modi, ad esempio fornendo assistenza medica e scolastica gratuita on-line, più aiuti allo sviluppo, una riduzione del debito, l’accesso al mercato e un maggiore contributo alla sicurezza globale. L’arrivo di persone disperate sulle coste dell’Europa a bordo di barconi è un sintomo della loro incapacità in tal senso.

11.5.15

La regola, ovvero giorno dopo giorno la 'ndrangheta in Lombardia

Giuseppe Ceretti

Pare di vederlo l'Ivano Perego, 36 anni, con una cresta di capelli biondo ossigenati e l'aria da bullo che scende dal Suv, moderno bunker a quattro ruote che si compra a metri quadrati e dal quale si scende in ascensore. E' lui il padre padrone della Perego Strade, l'azienda di Cassago Brianza specializzata in costruzioni, movimento terra, servizi all'edilizia, ereditata dal padre Luigi.

Almeno così sembra, anche se tra i dipendenti dell'impresa che si chiamano Galbusera e Redaelli, si insinua il dubbio che qualcosa sia cambiato e non certo al meglio. Che ci fa in ditta quel Salvatore Strangio che si spaccia per geometra e che entra ed esce come fosse il padrone nell'ufficio del “signor Perego”? E chi è mai quell'Andrea Pavone che spunta dal nulla e diventa l'amministratore con stipendio e benefit da capogiro?

Incomincia con questa storia emblematica dell'estate del 2008 il diario dell'attività della 'ndrangheta in Lombardia fino a giorni nostri. Lo scrive con la passione e la meticolosità del cronista di razza, Giampiero Rossi, giornalista del Corriere, con alle spalle tanta, tanta strada percorsa nell'amata e dannata terra di Lombardia, per molti anni all'Unità, quotidiano al quale è approdato dopo la preziosa esperienza nel gruppo di società civile di Nando Dalla Chiesa, oggi responsabile del comitato antimafia del comune di Milano.

Non a caso il racconto che prende le mosse da Perego si conclude con le parole di Dalla Chiesa che meglio riassumono il senso di questa e di altre fatiche: “I mafiosi fanno i mafiosi tutti i giorni, a tempo pieno, dalla mattina alla sera; l'antimafia, invece, è discontinua”. Un rilievo che non ha tuttavia il senso della resa, al contrario esprime l'intensità dell'impegno necessario per combattere un nemico che, come recita l'esemplare titolo del libro, fa del crimine e del malaffare “la regola”, attraverso un impegno quotidiano, senza mai mollare la presa un'istante.

Dall'Ivano Perego, gaglioffo e guascone sì, ma insieme pupo nelle mani della 'ndrangheta, alle intercettazioni sulla grande torta dell'Expò, è un itinerario non già in un universo parallelo, ma nel nostro quotidiano. Non a caso il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giovanni Canzio, all'apertura dell'anno giudiziario in corso, sottolinea come la presenza mafiosa al Nord debba essere letta in termini “non già di mera infiltrazione, quanto piuttosto d'interazione/occupazione”.

Giampiero Rossi ci narra il devastante lavoro di queste metastasi cresciute nella società lombarda, come si conviene a un moderno Caronte: ne sa più di noi, si è letto e riletto centinaia di ordinanze dei coraggiosi giudici che combattono questa guerra quotidiana (citiamo solo il magistrato Giuseppe Gennari, a titolo d'esempio di uomini d'ingegno e di coraggio), ha ascoltato tante persone esperte e alla fine s'è messo a scrivere, spesso nell'angolo di un bar con le mille pagine sparse sul tavolino. Ma racconta, come se fosse la prima volta, l'ingresso nel girone dell'inferno quotidiano. Giorno per giorno, come nel titolo, mossa per mossa, nome per nome.

Il risultato è una storia tragicamente vera, densa, che ci consegna mille sensazioni.
Innanzitutto la vastità del fenomeno. Quando si legge del lavoro capillare dei responsabili della “locale”, nel gergo le organizzazioni di comando territoriale della 'ndrangheta, si rimane colpiti. Nulla viene trascurato. Vincenzo Mandalari, uno dei boss intercettati, parla della gallina dalle uova d'oro dell'Expo e così ammonisce uno dei consiglieri comunali prezzolati: “Se tu sogni tutto l'Expo di Rho.. allora hai sbagliato a sederti con noi. Perché noi non stiamo pensando a questo!.. Stiamo pensando a mettere i chiusini invece.. si punta a centri sportivi... al sociale”.

Attirati sì dalle grandi torte, ma prima ancora attenti a sfruttare ogni tassello, anche minimo, del mosaico territoriale. La grande fetta sono i lavori del movimento terra, per la facilità d'impiego criminale a basso valore aggiunto, ma non mancano le capacità operative nei settori della finanza, frutto di una perfetta simbiosi tra impresa e mafia, come dimostra la mutazione della Perego, alla fine controllata da due fiduciarie che fanno da schermo ai veri proprietari.

Modernità operativa che trova la sua forza nella rigida struttura della 'ndrangheta S.p.A.: i tentativi di qualche incauto affiliato di superare i limiti territoriali delle “locali” sono per lo più perdenti, non solo dei possibili nuovi affari, ma sovente della vita. Esemplare al proposito il capitolo dedicato all'incontro del 31 ottobre 2009 a cena al circolo ARCI intitolato a Falcone e Borsellino (atroce beffa del destino) tra i boss della ''ndrangheta, il cosiddetto summit dei 22 che definisce strategie e limiti d'intervento territoriale di famiglie e locali, “la regola sociale” che di tutto s'occupa, persino delle modalità d'invito ai matrimoni e che fa della 'ndrangheta un organismo unitario a gestire droga, estorsioni, usura, voto di scambio.

Il ricatto, la paura, le minacce, le botte sono elementi indiscutibili di un rapporto impari tra carnefice e vittime. Ma non è solo per mancanza di coraggio che in Lombardia la 'ndrangheta è entrata negli uffici della classe dirigente. Talvolta è complicità, convenienza, si direbbe quasi logica d'impresa: “Sicuramente l'influenza migliore è stata la qualità del servizio, l'immagine- spiega con candore un importante manager dei servizi di trasporto della Tnt chiamato a deporre- Nel giro di un anno abbiamo cambiato sull'area milanese tutti i mezzi, dando un ottimo esempio”.

C'è naturalmente chi della “qualità del servizio” avrebbe ragione di lamentarsi, come la moglie dell'imprenditore pestato a sangue. Ma al telefono con la suocera dice: “Quella gente lì lo sai, oggi è così, domani cambia idea...Eravamo amici, ma come fai a capire, ma se lui vuole i suoi soldi, non siamo più amici”.

Qualità del servizio che piace a taluni esponenti della classe politica, coinvolta da destra a sinistra. Spiega al telefono Francesco Sorrentino, ex consigliere della Lega al Comune di Lecco: “La differenza tra questa gente e il politico è una sola, questa gente ammazza, il politico no. Però fidati, a questo gli dai una stretta di mano e la parola la mantiene”.

La regola è spietata, tuttavia non invincibile. Forse il più importante messaggio è proprio questo: c'è chi nella società non s'arrende, magistrati, politici, imprenditori, anche a rischio della pelle. Insomma la regola si può sovvertire. Parola di Giampiero Rossi che nella dedica “a tutti i calabresi per bene e a quelli che non accettano scorciatoie” offre l'immagine più bella e più vera.

(Giampiero Rossi, La regola.Giorno per giorno la 'ndrangheta in Lombardia - Pagg. 219, euro 18 - GLF Editori Laterza)


3.5.15

Se a sgocciolare è l’Expo

Guido Viale (il Manifesto)

Trickle-down (in ita­liano, sgoc­cio­la­mento) è il nome di una teo­ria eco­no­mica, ma anche di una filo­so­fia, che molti hanno cono­sciuto attra­verso la para­bola di Laz­zaro che si nutriva delle bri­ciole che il ricco Epu­lone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono inver­tite per­ché Laz­zaro è stato ammesso al ban­chetto di Dio, in Para­diso, men­tre Epu­lone è finito all’inferno a sof­frire fame e sete. La teo­ria e la filo­so­fia del Trickle–down in realtà si fer­mano alla prima parte della parabola.

La seconda parte è com­pito nostro rea­liz­zarla; e non in Para­diso, dopo la morte, ma su que­sta Terra, qui e ora.

In ogni caso, secondo la teo­ria, più i ric­chi diven­tano ric­chi, più qual­che cosa della loro ric­chezza “sgoc­cio­lerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ric­chi siano sem­pre più ric­chi con­viene a tutti. Discende da que­sta teo­ria la pro­gres­siva ridu­zione delle tasse sui red­diti mag­giori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, pre­di­cata negli Usa dal par­tito repub­bli­cano e, in Ita­lia, da Mat­teo Sal­vini) che, a par­tire dagli anni Set­tanta, ha inau­gu­rato la cre­scita incon­trol­lata delle dise­gua­glianze. In Ita­lia la pro­gres­siva ridu­zione delle ali­quote mar­gi­nali dell’imposta sui red­diti più ele­vati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giu­sti­fi­cata soste­nendo che ali­quote troppo ele­vate incen­ti­vano l’evasione fiscale, men­tre ali­quote più “ragio­ne­voli” l’avrebbero eli­mi­nata. I risul­tati si vedono. L’altro cavallo di bat­ta­glia della Trickle-down eco­no­mics è che le misure di incen­ti­va­zione eco­no­mica dovreb­bero essere desti­nate esclu­si­va­mente alle imprese, per­ché sono solo le imprese a creare buona occu­pa­zio­nee, quindi, red­dito e benes­sere anche per i lavo­ra­tori. Tutte le altre spese, spe­cie se di carat­tere sociale, sono, in ter­mini eco­no­mici, “spre­chi”. Ma l’evoluzione tec­no­lo­gica rende sem­pre di più job-less, cioè senza occu­pa­zione aggiun­tiva, la cre­scita sia della sin­gola impresa che del sistema nel suo com­plesso. Anzi, molto spesso la ridu­zione dell’occupazione in una impresa viene salu­tata con un dra­stico aumento del suo valore in borsa.

Tra­spo­sta sul piano sociale, la filo­so­fia del Trickle-down ha assunto i con­no­tati del “capi­ta­li­smo com­pas­sio­ne­vole”, che negli Stati uniti costi­tui­sce la dot­trina uffi­ciale dell’ala più rea­zio­na­ria del par­tito repub­bli­cano, e non solo di quella. In base ad essa il wel­fare, come insieme di misure tese a garan­tire in forma uni­ver­sa­li­stica i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino – pen­sione, cure sani­ta­rie, istru­zione, soste­gno al red­dito – va eli­mi­nato per­ché induce chi ne bene­fi­cia all’ozio; e va sosti­tuito con la bene­fi­cienza gestita dalla gene­ro­sità dei ric­chi, nelle forme da loro pre­scelte e indi­riz­zan­dola, ovvia­mente, solo a chi, a loro esclu­sivo giu­di­zio, “se la merita”. Non c’è nega­zione più radi­cale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teo­ria come que­sta. Eppure è una con­ce­zione che sta pro­gres­si­va­mente pren­dendo piede in tutti gli ambiti della cul­tura uffi­ciale, anche là dove gli isti­tuti del Wel­fare State (che let­te­ral­mente signi­fica Stato del benes­sere, e che da tempo viene tra­dotto sem­pre più spesso con l’espressione “Stato assi­sten­ziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.

Non deve stu­pire quindi di ritro­vare i capi­saldi di que­sta con­ce­zione vio­len­te­mente anti­de­mo­cra­tica in quello che viene fin da ora uffi­cial­mente indi­cato come “il lascito imma­te­riale” della peg­giore mani­fe­sta­zione della teo­ria e della prassi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, o “finan­z­ca­pi­ta­li­smo”: la cosid­detta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito imma­te­riale, per­ché quello mate­riale, come è ormai noto, non è che deva­sta­zione del ter­ri­to­rio, asfalto e cemento, cor­ru­zione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, vio­la­zione dei diritti, della dignità e della sicu­rezza del lavoro (l’Expò è stato il labo­ra­to­rio del Job-act), pro­pa­ganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria ali­men­tare tos­si­che e, dul­cis in fundo, un mec­ca­ni­smo di per­pe­tua­zione delle Grandi Opere inu­tili: per­ché, a Expò con­cluso, ci sarà da deci­dere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova cor­ru­zione di quell’area ormai devastata.

Uno dei punti o pro­po­siti qua­li­fi­canti della Carta di Milano è infatti la lotta con­tro lo spreco ali­men­tare attra­verso il recu­pero del cibo che oggi viene but­tato via, desti­nan­dolo ai poveri. Nella carta i rife­ri­menti a que­sto pro­po­sito sono tre: “ che il cibo sia con­su­mato prima che depe­ri­sca, donato qua­lora in eccesso e con­ser­vato in modo tale che non si dete­riori”; “indi­vi­duare e denun­ciare le prin­ci­pali cri­ti­cità nelle varie legi­sla­zioni che disci­pli­nano la dona­zione degli ali­menti inven­duti per poi impe­gnarci atti­va­mente al fine di recu­pe­rare e ridi­stri­buire le ecce­denze”; “creare stru­menti di soste­gno in favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, anche attra­verso il coor­di­na­mento tra gli attori che ope­rano nel set­tore del recu­pero e della distri­bu­zione gra­tuita delle ecce­denze ali­men­tari”. Appa­ren­te­mente si tratta di rac­co­man­da­zioni di buon senso: dare a chi non può per­met­ter­selo il cibo che altri­menti but­te­remmo via. E’ quello che si cerca di fare con isti­tu­zioni e pro­grammi bene­me­riti, come la legge detta del “Buon Sama­ri­tano” o il Last-minute mar­ket pro­mosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro mini­miz­za­zione (in vista del loro azze­ra­mento, pre­vi­sto dal pro­gramma Rifiuti zero, che le ren­de­rebbe super­flue). Tra­spo­ste nell’ambito di un pro­gramma pla­ne­ta­rio per “nutrire il pia­neta” hanno l’effetto di retro­ce­dere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sot­toa­li­men­ta­zione di una parte deci­siva dell’umanità, la cui con­di­zione è invece il pro­dotto delle grandi e cre­scenti dise­gua­glianze mon­diali nella distri­bu­zione dei red­diti, del lavoro e delle risorse.

Per cogliere meglio que­sto punto è neces­sa­rio risa­lire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Pro­to­collo di Milano”: un docu­mento ela­bo­rato dalla fon­da­zione Barilla – ema­na­zione dell’omonima mul­ti­na­zio­nale ali­men­tare – a cui l’Expò ha affi­dato il com­pito di indi­vi­duare i capi­saldi del pro­gramma “nutrire il pia­neta”, che sono poi stati tra­dotti “in pil­lole” nella Carta di Milano; e che ha la pre­tesa di defi­nire un pro­gramma di azione dei pros­simi decenni per tutti i sog­getti del mondo – Governi, imprese, asso­cia­zioni, cit­ta­dini — impe­gnati nella filiera agroa­li­men­tare come pro­dut­tori, distri­bu­tori o consumatori.

Nel Pro­to­collo di Milano il tema dello spreco di ali­menti occupa il primo posto: “Primo para­dosso – spreco di ali­menti: 1,3 miliardi di ton­nel­late di cibo com­me­sti­bile sono spre­cati ogni anno, ovvero un terzo della pro­du­zione glo­bale di ali­menti e quat­tro volte la quan­tità neces­sa­ria a nutrire gli 805 milioni di per­sone denu­trite nel mondo”. Nell’ambito dei pro­grammi per sra­di­care la fame, tra cui “le dispo­si­zioni per­ti­nenti nel qua­dro delle legi­sla­zioni inter­na­zio­nali, regio­nali e nazio­nali per la pro­te­zione e con­ser­va­zione delle risorse e l’adozione di azioni fina­liz­zate allo svi­luppo soste­ni­bile nella Diret­tiva qua­dro euro­pea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa effi­ciente sotto il pro­filo delle risorse, gli Obiet­tivi di Svi­luppo del Mil­len­nio per sra­di­care la povertà estrema e la fame”, il Pro­to­collo di Milano arriva a trat­tare que­sta prima emer­genza pla­ne­ta­ria con le stesse moda­lità con cui, in un qual­siasi Comune d’Italia, si affronta il pro­blema della gestione dei rifiuti: “Le ini­zia­tive per la ridu­zione degli spre­chi devono rispet­tare la seguente gerarchia:

1. Pre­ven­zione; 2. Riu­ti­lizzo per l’alimentazione umana; 3. Ali­men­ta­zione ani­male; 4. Pro­du­zione di ener­gia e com­po­stag­gio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta con­tro la tra­sfor­ma­zione degli ali­menti in rifiuti (e non per una più equa distri­bu­zione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affa­mati del pia­neta non spetti altro che il com­pito di smal­tire ciò di cui i ric­chi si vogliono sba­raz­zare. Cioè sedersi, come Laz­zaro, ai piedi della tavola del ricco Epu­lone. Con il che la Trickle-down eco­no­mics fa il suo ingresso trion­fale nel “lascito” dell’Expò.

2.5.15

Milano, i riot che asfaltano il movimento

MayDay 2015. Trentamila persone in corteo e la città a ferro e fuoco. Il blocco nero prende la piazza, la polizia reagisce con intelligenza ed evita il contatto. Per i No Expo l'esposizione universale è cominciata nel peggiore dei modi

Luca Fazio (il Manifesto)

Le fiamme si sono appena spente, c’è ancora tanto fumo per le strade di Milano. A freddo, una volta dato sfogo al pre­ve­di­bile sde­gno, qual­cuno dovrà pur avere il corag­gio di ammet­tere una cosa piut­to­sto sem­plice, che ovvia­mente non nasconde il pro­blema, anzi, ne pone più di uno: è andata esat­ta­mente come doveva andare. Lo sape­vano tutti, era pre­vi­sto da mesi. Non è stata una festa la May­Day 2015 e forse il peg­gio deve ancora acca­dere. In que­sto momento ci sta pure la reto­rica della “Milano ferita”, però sarebbe più utile cer­care di abboz­zare qual­che ragionamento.
I fatti sono noti, è stata la mani­fe­sta­zione più spiata e foto­gra­fata degli ultimi anni. Una parte del cen­tro sto­rico di Milano, quella intorno a piaz­zale Cadorna — era pre­vi­sto anche quello — è stata attac­cata con una furia che non si era mai vista. Auto­mo­bili date alla fiamme, fine­strini man­dati in fran­tumi con una rab­bia dispe­rata al limite dell’autolesionismo, lanci di bot­ti­glie con­tro la poli­zia, vetrine infrante, accenni di bar­ri­cate, negozi sfa­sciati. Silen­zio assor­dante, rumori di cose che si spac­cano, nuvole di lacri­mo­geni e adre­na­lina che sale quando poli­ziotti e cara­bi­nieri si inner­vo­si­scono e sem­brano dav­vero inten­zio­nati a fare sul serio.
La con­fu­sione è tanta, ci sono stati fermi ma non è chiaro quanti, si dice una decina di ragazzi. Ci sareb­bero undici feriti tra gli agenti.
Lo spet­ta­colo è deso­lante, sem­brano imma­gini di un film girato in un altro paese, e ne sono stati già fatti di ragio­na­menti sulla rab­bia cieca di chi si limita a spac­care tutto per cer­care di resi­stere in qual­che modo in un con­te­sto dove è facile sen­tirsi tagliati fuori. A vent’anni soprattutto.
Sono delin­quenti? Può darsi, poi si sfi­lano l’impermeabile col cap­puc­cio — per terra ce ne sono decine — e hanno facce da ragaz­zini qua­lun­que. Sono vio­lenti? Sicu­ra­mente, vio­lenti che si acca­ni­scono sulle cose e non sulle per­sone. Lo scon­tro con la poli­zia è solo mimato, vir­tuale come un video­gioco: viste le forze in campo gli incap­puc­ciati non potreb­bero nep­pure pen­sare di avvi­ci­narsi. La loro vio­lenza è anche stu­pida e vigliacca. Un’auto inu­til­mente spac­cata, mica tutte Fer­rari, signi­fica una per­sona col­pita alle spalle e con l’aggravante della casua­lità. Anche i “black bloc” hanno una mac­china par­cheg­giata da qual­che parte.
A pro­po­sito. Qual­che com­men­ta­tore poco razio­nale, non l’editorialista di Libero o de il Gior­nale, a caldo ha detto che la poli­zia ha lasciato fare e che dovrà rispon­dere della gestione della piazza.
Molto sem­pli­ce­mente, invece, la poli­zia ha agito con grande fred­dezza e intelligenza.
Non c’è stato alcun con­tatto con i mani­fe­stanti. Non si è fatto male nes­suno. Ci sono decine di auto­mo­bili sfa­sciate e pro­ba­bil­mente un conto salato da pagare per tutti quei gruppi orga­niz­zati che invece sono stati almeno capaci di “por­tare a casa” un cor­teo deter­mi­nato. Molto nume­rosi, almeno tren­ta­mila, a tratti anche felici di esserci. Per nulla spa­ven­tati, tan­to­meno sor­presi, per quello che stava acca­dendo nelle retrovie.
La poli­zia poteva evi­tare lo “sfre­gio alla città”? Forse sì, se il mini­stro degli Interni avesse deciso di rispol­ve­rare il metodo Genova e dare la cac­cia ai ragaz­zini che si sono masche­rati da blocco nero. Adesso che (forse) è tutto finito si può azzar­dare la domanda: sarebbe forse stato meglio se ci fosse scap­pato il morto? Anche quello era pre­vi­sto che non dovesse acca­dere, e meno male.
Ange­lino Alfano, almeno oggi, non si deve dimet­tere, le regole di ingag­gio erano que­ste, la poli­zia non voleva il con­tatto con il blocco nero.
A pro­po­sito. Ana­li­sti e die­tro­logi se ne fac­ciano una ragione. I cosid­detti “black bloc” non ven­gono da Marte, non si sono “infil­trati” nel cor­teo e non sono nem­meno al soldo della spec­tre. Ci sono, sono un pro­blema e biso­gnerà tenerne conto. Erano nel cor­teo, den­tro, nem­meno in fondo. Gli spez­zoni della mani­fe­sta­zione hanno dovuto gio­co­forza tol­le­rarli e cer­care di tute­lare il cor­teo da una rea­zione della poli­zia che a un certo punto sem­brava scontata.
La May­Day era con­tro il blocco nero? Que­sto movi­mento, que­sta piazza, che è pur sem­pre il mas­simo che oggi si possa espri­mere, non ne aveva la forza. Né mili­tare, né poli­tica. Que­sto è un limite.
Ecco per­ché que­sto primo mag­gio è “poli­ti­ca­mente” disastroso.
Un’altra nota, non mar­gi­nale. Quella di ieri, al netto di tutti i dispo­si­tivi di pro­te­zione che il cor­teo stesso ha messo in atto, era una piazza peri­co­losa. Eppure lì den­tro hanno tro­vato posto ragaz­zini e ragaz­zine smar­riti alla prima mani­fe­sta­zione, per­sone asso­lu­ta­mente non vio­lente, decine di bande musi­cali che hanno con­ti­nuato a suo­nare a festa. Si sono viste anche le solite vec­chie volpi con la coda tra le gambe che non par­lano più la stessa lin­gua delle piazze. Ma è come se incon­scia­mente ci si stesse abi­tuando a con­si­de­rare che ormai è nelle cose aspet­tarsi un con­flitto sem­pre più aspro e con accenti dispe­rati, senza obiet­tivi e tan­to­meno prospettive.
Banal­mente: que­sta stessa piazza, dieci anni fa, sareb­bero state due. I cat­tivi die­tro a pren­derle, gli altri davanti con le loro buone ragioni.
Gli “altri”, adesso, devono fare i conti con la realtà.
D’ora in poi, come gover­nare la piazza, ammesso che ci siano altre occa­sioni altret­tanto impor­tanti, diven­terà un pro­blema quasi insor­mon­ta­bile. Per­ché la gior­nata di ieri signi­fica che nes­suno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter deci­dere come si deve stare in un corteo.
Que­sto è un pro­blema poli­tico: a poste­riori, è chiaro che non si può accet­tare con leg­ge­rezza la con­vi­venza con chi ha come uno unico obiet­tivo quello di spac­care tutto e basta.
Quanto al futuro, pos­siamo dire che sull’opportunità di cedere fette di sovra­nità a chi non vive e non lotta in que­sta città (e che certo non ne pagherà le con­se­guenze) è bene aprire un dibat­tito una volta tanto sincero.
I ragazzi e le ragazze del “blocco nero” si sono sfi­lati le felpe e sono a casa che si godono lo spet­ta­colo dell’informazione main­stream, hanno vinto.
Qui a Milano, a lec­carsi le ferite, rimane un movi­mento che rischia di essere asfal­tato per i pros­simi anni a venire. La poli­zia, che oggi è sotto botta, potrebbe anche deci­dere che il limite è stato supe­rato. Que­sta mat­tina le “auto­rità” si guar­de­ranno negli occhi durante una seduta straor­di­na­ria del Comi­tato per l’ordine e la sicurezza.
E qui a Milano è già comin­ciata una cam­pa­gna elet­to­rale che, anche alla luce di quello che è suc­cesso, non pro­mette nulla di buono. L’Expo ha ancora sei mesi di vita, i No Expo hanno comin­ciato nel peg­giore dei modi.