17.7.17

Italia, a che punto è la notte

 Marco Revelli (il Manifesto)

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slide tombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire la precedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella sua nota annuale sulla Povertà, ci dice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nel suo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) le cose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) e la domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dalla torre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazione della povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali: i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze di per sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili», essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i due insiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente, addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli operai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o più figli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasi dieci punti.
Schizzando al 26,8%. Nel Mezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati», poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentuale più del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinner operaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sono i working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto di lavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi non può permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa, alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesa mensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parte consistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste», quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» la propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria miseria.
Se poi si considera il quadro nell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non solo il numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assoluta risulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione è stata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti» sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli «operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta, drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi è ritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dove si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno alla gioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbe sembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invece dall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e società hanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramenti dell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significano affatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante della condizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzo delle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono in effetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà e delle condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di un paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto alla finanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui il Pil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini sociali).
Forse nel 2019 (forse!) ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo un po’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questo circolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitiva fine della notte.

15.7.17

Luigi Ferrajoli: «Contro le diseguaglianze ci vuole il reddito universale»

Rapporto Istat sulla povertà 2016. Intervista al filosofo e giurista Luigi Ferrajoli: «La povertà dilagante è uno degli effetti delle diseguaglianze create da politiche che hanno soppresso i vincoli del mercato». «240 miliardi di euro trasferiti dal lavoro al capitale, ora è giunto il momento di restituire il maltolto».

Roberto Ciccarelli

Luigi Ferrajoli, in dieci anni la povertà in Italia è raddoppiata. Quali sono state le politiche che hanno generato questo fenomeno?
Nasce da politiche che hanno soppresso i vincoli ai poteri del mercato che sono diventati poteri assoluti e selvaggi, hanno provocato in tutto il mondo, e non solo in Italia, un trasferimento di quote di Pil dal lavoro al capitale, dai poveri ai ricchi. Luciano Gallino calcolò nel suo ultimo libro che negli ultimi anni 240 miliardi di euro, il 15% del pil, sono stati trasferiti al capitale. È un fenomeno gigantesco, sintomo di un ribaltamento del rapporto tra politica e economia. Non è più la politica che governa la economia, ma è l’economia che detta regole alla politica. La politica ha favorito questo processo liberalizzando i capitali e abbattendo le garanzie del lavoro e i salari, cancellando i diritti.

Di recente è stata approvata una prima misura contro la povertà assoluta. La ritiene adeguata?
La forma più in accordo con il costituzionalismo, l’universalità dei diritti fondamentali e la dignità della persona è il reddito universale. Di fronte a disuguaglianze che concentrano nelle otto persone più ricche del pianeta la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, una politica degna di questo nome dovrebbe redistribuire le ricchezze sterminate esistenti. Questa concentrazione è l’effetto di un ‘iniqua redistribuzione del reddito da parte del mercato. Per cambiare direzione occorrerebbe perlomeno la garanzia di un’equa retribuzione minima per chi lavora, stabilita dall’articolo 36 della Costituzione, e un reddito minimo garantito per chi non lavora previsto dall’articolo 38. Occorrerebbe insomma restituire il maltolto, non favorire una crescita delle diseguaglianze.

La nostra Costituzione afferma che la dignità della persona si afferma anche nel lavoro. Anche 
le statistiche Istat dimostrano che anche quando si lavora si continua a essere poveri. E la «trappola della precarietà» colpisce i nuclei familiari più giovani. Come si può rispettare questo principio?
Il lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, è il fondamento della Repubblica. Perciò, non è una merce, ma ha un valore. Sopprimere la stabilità del lavoro con la precarietà significa sopprimere questo fondamento della nostra democrazia. C’è una massima di Kant che andrebbe ricordata ai nostri governanti: «Ciò che ha prezzo non ha dignità, ciò che ha dignità non prezzo». Se ha valore, non ha un prezzo, e perciò non si può licenziare una persona in cambio di una manciata di mensilità come ha fatto il Jobs Act cancellando l’articolo 18. Così si distrugge la dignità della persona. Questa riforma ha eliminato la garanzia su cui si regge il nostro assetto costituzionale: l’intrinseca dignità del lavoro, trasformato in merce.

I populisti usano la povertà degli italiani contro quella degli stranieri, al punto da negare i loro diritti fondamentali. Come ribaltare questo discorso?
È la strategia di tutti i populismi, a cominciare da Trump: mettere i penultimi contro gli ultimi, i poveri contro i migranti. Si ribalta la direzione della lotta di classe: non più il basso contro l’alto, ma il basso contro chi sta ancora più in basso. Così si fomenta la lotta tra i poveri e la guerra contro i poverissimi: i migranti, ad esempio. Vorrei ricordare che il diritto di migrare è il più antico diritto naturale teorizzato nel 500 da Francisco de Vitoria per giustificare la colonizzazione spagnola e lo sfruttamento dei popoli. Da allora è rimasto una norma del diritto internazionale che ha giustificato le rapine che l’Occidente ha fatto in tutto il mondo. Il diritto di migrare è stato un diritto universale riconosciuto a tutti, ma asimmetrico. Nel senso che solo gli europei potevano di fatto esercitarlo e non certo i popoli colonizzati. Oggi che il flusso migratorio si è ribaltato e sono gli altri popoli a migrare, questo antico diritto è stato rimosso e il suo esercizio è stato convertito nel suo opposto, in un reato. Le leggi odierne sull’immigrazione esibiscono questa eredità razzista.

I tagli e le politiche di austerità hanno aggredito un altro diritto fondamentale: la sanità. Dobbiamo rassegnarci alla dismissione del pubblico e alla sua gestione privatistica?
Assolutamente no. Questa azione insensata non può cancellare il diritto alla salute, che è un diritto costituzionale, base dell’uguaglianza, e perciò universale e gratuito. Una politica come quella dei ticket, insieme alla precarizzazione del lavoro e delle tutele, hanno spinto 11 milioni di persone a rinunciare alle cure anche fondamentali perché non hanno le risorse finanziare. Senza contare che la somma ricavata dai ticket è ridicola: 4 miliardi su 110 di fondo nazionale.

Nel Lazio esiste una vertenza esemplare della situazione che descrive. Dopo anni di lotte, ai lavoratori esternalizzati della Sanità regionale è stato riconosciuto il lavoro di anni. Avranno un punteggio che potranno utilizzare nei prossimi concorsi. Il governo ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la legge regionale. Che ne pensa?
È una decisione giuridicamente infondata perché la legge regionale non è subordinata alla legge statale. Tra l’altro la legge statale permette questi riconoscimenti a chi lavora presso le Asl e non solo a chi lavora alle loro dirette dipendenze. La legge in questione estende le tutele del lavoro sulla base del riconoscimento di titoli professionali. È insensato sanzionare una legge regionale a causa di una modestissima norma che dà un punteggio preferenziale a chi già lavora da anni nel settore e ha una professionalità attestata dalle stesse istituzioni. Gli unici a essere danneggiati saranno i lavoratori precari ed è inaccettabile.

Cosa dovrebbe fare la Regione Lazio?
Mi auguro che difenda la sua legge davanti alla corte costituzionale sperando che dia torto al governo, sulla base di argomenti anche soltanto formali; se non altro a difesa dell’autonomia e della potestà legislativa della Regione.

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Luigi Ferrajoli è uno dei massimi teorici del diritto. Negli anni Sessanta ha partecipato alla fondazione di Magistratura Democratica, è stato magistrato presso la pretura di Prato fino al 1975 . Dal 2014 è professore emerito di filosofia del diritto a Roma Tre. È autore di più di 30 libri tradotti in tutto il mondo. Ha scritto capolavori come « Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale» (1989) e «Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia» (3 voll.) (2007)