30.10.07

Da Barbara Spinelli a Giulio Anselmi

Ma il Governo non va delegittimato

Caro direttore,
ti scrivo perché la linea editoriale che esprimi non mi trova del tutto consenziente. Non è questione di convinzioni diverse, né di diversa collocazione politica.

Che in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti mi pare non solo normale, ma arricchente. Quel che sento davanti al tuo articolo, e a tanti che somigliano al tuo nei giornali indipendenti, non è dissenso, ma un disagio molto profondo. Ho l’impressione di assistere a una sorta di disfacimento della democrazia rappresentativa, e di perdita di senso del voto espresso alle urne dagli elettori. Dalla primavera dell’anno scorso l’Italia ha un governo, scelto dagli italiani per la durata di cinque anni, che è stato messo in questione quasi fin dal primo giorno: non dagli elettori tuttavia, ma da un capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, che il giudizio delle urne non l’ha mai accettato e che ogni sera da diciotto mesi annuncia a televisioni e giornali la fine di Prodi: prima negando i risultati, poi denunciando brogli, poi intimidendo i senatori a vita, poi appellandosi al cattivo umore della gente, in dispregio costante dei dettami costituzionali. Una strategia di delegittimazione del tutto anomala, ma che molto rapidamente è stata banalizzata e fatta propria da tutti coloro che fanno opinione, essenzialmente giornali e televisioni pubbliche oltre che private.

Adesso questo governo ha circa un anno e mezzo ed è giudicato spacciato, finito, senza che io come elettore abbia in alcun modo concorso a questo sviluppo. In un certo senso mi sento defraudata del mio voto: organismi intermedi si sono insediati tra l’elettore e la rappresentanza da esso scelta, e sono questi organismi che hanno deciso e decidono tutto: i giornali appunto e questa o quella corporazione sindacale, questa o quella lobby, questo o quel personaggio della maggioranza, ansioso di cambiar casacca per ottenere posti che non ha avuto nel presente governo. Sono questi organi intermedi che stanno decretando che questo governo è caduto (che è «una carcassa che si trascina», scrivi con linguaggio che, ti confesso, mi ha scosso per la violenza che contiene). Sono questi organi che per la seconda volta nella storia recente - e in modo ancor più inquietante che nel 1998 - accettano che il crimine contro il ministero Prodi venga compiuto. E lo decretano prima che il tempo costituzionalmente assegnato al governo sia concluso. Prima che gli italiani siano chiamati a votare, allo scadere normale della legislatura. Non sono defraudata solo del voto. Mi vien tolta anche la sacralità del tempo conferito col mandato, così preziosa nelle democrazie: la certezza che il tempo che ho dato al governo eleggendolo non sarà interrotto da forze interessate e sondaggi senza rapporto con le urne.

Tu scrivi che il centro-sinistra deve andare a casa perché mai c’è stato in Italia governo impopolare come questo. Anche qui provo vero disagio, non fosse altro perché non manca giorno in cui i riformisti chiedono ai governanti di «rischiare l’impopolarità». I governi non vanno a casa perché a un certo punto (dopo una settimana o un mese o un anno) si constata che non si vendono troppo bene: nella democrazia rappresentativa un governo non è un sapone, né un’automobile, e neppure un giornale che conquista o non conquista lettori. È qualcosa di radicalmente diverso, costruitosi lungo i secoli, reso sempre più complesso da una storia lunga. Il disagio cresce se penso ai Paesi europei che mi è capitato di conoscere negli ultimi decenni: tutti hanno prima o poi traversato periodi anche assai lunghi di impopolarità (è stato così per i governi Schmidt, Kohl, Schröder; per i primi ministri e Presidenti francesi; per i premier inglesi a cominciare dal governo Thatcher) e mai ho visto all’opera il tumulto che esiste da noi: il gusto apocalittico che si espande, l’inestinguibile sete di andare alle urne prima del tempo, trascinati da sondaggi e da opinioni che prevalgono nei salotti. Mai ho visto un così vasto schieramento di forze distruttive, che quasi hanno timore di costruire e pazientare. Forze che prese una per una sembrano aver dimenticato il proprio mestiere, oltrepassandolo sempre. Che confondono, in maniera inaudita, il criticare anche severo con l’esigere, perentorio, che il governo cada al più presto. Neppure George W. Bush, eletto grazie a una decisione indecorosa della Corte Suprema che ha escluso il vero vincitore delle presidenziali, nel 2000, ha avuto davanti a sé una sì intensa volontà demolitrice. Mai ho visto tanta gente uniformemente invocare la fine d’una legislatura, e volontariamente servire il disegno di chi parla di democrazia ma non ne rispetta la regolamentazione. Tra la strategia di riconquista apprestata da Berlusconi fin dal 10 aprile 2006 e quel che mi dicono oggi giornali e tv non riesco, per quanto ci provi, a scorgere più differenza alcuna.

Il fatto è che queste forze distruttive si comportano come se non sapessero la storia che stanno facendo, e cosa precisamente vanno disfacendo. Hanno anzi l’impressione di essere indipendenti, libere come non lo sono state in passato.

Non mi paiono libere. Tranne alcune eccezioni, ancor più luminose perché rare e solitarie, quasi tutti son sedotti da questo desiderio di dissoluzione, che allarga i cuori e trasforma ogni commentatore critico in governatore dell’universo, oltre che dell’Italia. Commentatori che constatano un disastro che essi stessi, giorno dopo giorno, hanno contribuito a creare. Non è l’idea che mi faccio né della democrazia, né della vocazione di testimone e pensatore affidata alla figura del giornalista.
Un caro saluto.

Cara Barbara, pubblico con piacere la tua lettera, convinto come te dell’opportunità che «in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti», senza entrare nel merito della tua risposta e dell’interpretazione che tu hai dato del mio fondo pubblicato giovedì 25 ottobre. Un caro saluto. [G.A.]

lastampa.it

28.10.07

Naomi Klein - Il mondo alla rovescia del libero mercato

Non c'è stata nessuna rivolta delle élite, ma una vera e propria controrivoluzione. Intervista con l'autrice di «Shock economy», in Italia per presentare il suo libro La privatizzazione dei beni comuni e dei servizi sociali sarà più graduale che in passato, mentre maggiore attenzione sarà dedicata al conflitto di interessi. Ma è consolatorio affermare che stiamo assistendo al declino del neoliberismo
Benedetto Vecchi

L'uscita di Shock economy (Rizzoli, pp. 620, euro 20,50, il manifesto del 15 settembre) ha avuto una critica stizzita del premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, che ha riconosciuto a Naomi Klein il merito di denunciare l'«estremismo» dei neo-con. Allo stesso tempo, però, Stiglitz ha sostenuto, sul «New York Times» del 30 settembre, che quelle dell'attuale amministrazione statunitense sono solo degenerazioni, perché l'economia di mercato è il migliore strumento, se usato bene, per promuovere il benessere collettivo. Dunque, per Stiglitz, il problema non è il modello sociale e economico che il neoliberismo propone, quanto le persone che lo realizzano. «Non credo - afferma Naomi Klein - che il problema siano gli errori umani. Il neoliberismo è stata una vera e propria controrivoluzione. Possono pure cambiare gli uomini, ma gli obiettivi rimangono sempre gli stessi: muovere una guerra di classe contro i lavoratori e privatizzare i servizi sociali».
L'intervista che segue è avvenuta a Roma, lasciando all'intervistatore l'amaro in bocca. Tante le domande da fare, poco il tempo a disposizione.

Nel tuo libro descrivi l'ascesa e l'affermazione del neoliberismo come un prodotto da laboratorio. Da una parte, la scuola di Chicago con Milton Friedman che «dava la linea». Dall'altra alcuni esperimenti pilota per poi applicare quelle dottrine nel Nord America, in Europa...
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milton Friedman era considerato un nostalgico di un'economia di mercato che non esisteva più. Il pensiero economico dominante era di tipo keynesiano. Le tesi della scuola di Chicago erano considerate l'espressione di un estremismo ideologico a favore del libero mercato fuori dalla realtà. L'economia statunitense era prospera grazie all'intervento statale e alla «collaborazione» tra sindacati e imprese. Tutto sembrava andare in un'altra direzione da quello che sosteneva Friedman. Certo la sua apologia del libero mercato era sicuramente più aderente agli interessi delle grandi corporation, ma nessun manager sarebbe intervenuto per sostenerlo. Allo stesso tempo, però, Friedman ha ricevuto ingenti finanziamenti da fondazioni prestigiose, nonché dal governo per continuare le sue ricerche. Le teorie economiche della scuola di Chicago non erano solo espressione di un'ideologia, ma anche di precisi interessi economici, quelli del big business.
Molti studiosi o analisti spesso descrivono il neoliberismo come una rivolta delle élite per sottrarsi al controllo dello stato. Non sono d'accordo, perché la storia della scuola di Chicago può essere considerata la cover story di una controrivoluzione, di una guerra di classe contro i sindacati e i diritti sociali dei lavoratori.

Tu sottolinei che l'insicurezza e i disastri ambientali sono usati come grimaldello per imporre politiche neoliberiste. Non credi, però, che proprio l'insicurezza possa diventare la spinta per un rafforzamento del welfare state? In fondo, lo stato sociale nasce anche per risolvere lo «shock collettivo» che aveva colpito gli Stati Uniti e l'Europa negli anni Trenta e Quaranta?
Gli shock collettivi possono essere usati per introdurre politiche neoliberiste se gli uomini e le donne sono disorientati, soli, se cioè sentono la loro condizione come precaria. In Italia, sono all'opera movimenti sociali che si battono contro la precarietà dei rapporti di lavoro, per i diritti dei migranti, contro la guerra. Il problema è se riescono a dare continuità alla loro azione, perché solo un loro rafforzamento può aiutare nella resistenza alle politiche neoliberiste.
Prendiamo Vicenza: il progetto di ampliare la base militare statunitense ha incontrato l'opposizione di gruppi, associazione, centri sociali. A Vicenza sono state evocate pessime prospettive per il suo sviluppo se i lavori saranno bloccati. Finora, la presenza dei movimenti sociali ha creato le condizioni affinché il ricatto sia stato rifiutato da parte della popolazione. Prendiamo la precarietà dei rapporti di lavoro. Ci sono movimenti che si battono contro di essa e per estendere anche ai precari i diritti del lavoro. Finora sono riusciti ad organizzare una parte del lavoro precario. Il passo successivo è di coinvolgere sempre più uomini e donne, riuscendo a depotenziare il ricatto a cui sono sottoposti molti lavoratori e lavoratrici. Credo, cioè che i movimenti debbano darsi un'organizzazione stabile, meno effimera per rafforzare la loro azione.
Nei miei viaggi di lavoro incontro uomini e donne che sentono moltissimo questa urgenza politica di dare continuità e forza alla loro azione politica. Possono forse peccare di ottimismo, ma mi sembra che molti movimenti si stanno muovendo in questa direzione.
Per quanto riguarda la tua domanda, anche io credo che bisogna sviluppare un altro tipo di organizzazione sociale. Non ritegno però che questa nuova organizzazione sociale debba essere introdotta dall'alto. Deve essere infatti sviluppata dal basso.

Nel tuo libro scrivi che il neoliberismo si caratterizza non tanto per l'occupazione dello stato, ma per la privatizzazione di alcune funzioni che gli competono, dalla difesa nazionale alla sanità alla formazione scolastica. C'è stato poi lo scandalo della società di «contractors» Blackwater in Iraq e molti analisti hanno denunciato come folle la privatizzazione della difesa nazionale. Stiamo assistendo al declino del neoliberismo? Oppure sono solo scosse di assestamento?
Il caso dell'uragano Kathrina è emblematico. Nei primi giorni dopo l'inondazione di New Orleans i media statunitensi hanno puntato l'indice contro le politiche di disinvestimento dell'amministrazione Bush per quanto riguarda la protezione ambientale. Appena le acque hanno cominciato a ritirarsi, gran parte dell'establishment liberista ha visto nell'uragano la mano divina che consentiva di cacciare gli abitanti poveri e gli afroamericani per lasciar spazio alle imprese private. Non credo dunque che il neoliberismo sia giunto al capolinea. È ovvio che lo scandalo della Blackwater qualche problema lo pone per i neoliberisti. Ma nei media mainstream non viene criticato il modello neoliberista, bensì l'operato di una singola impresa, in questo caso la Blackwater. Tutt'al più viene invocata una maggiore sorveglianza sull'operato di un'impresa privata che svolge una funzione statale, pubblica.
Stiamo assistendo a un mutamento delle politiche neoliberiste. Ci sarà maggiore attenzione al conflitto di interesse, che negli Stati Uniti e anche qui in Italia è giunto al parossismo. Oppure, l'applicazione delle politiche neoliberiste sarà più graduale. Affermare però che siamo alla crisi del neoliberismo è un azzardo analitico autoconsolatorio.

In Italia c'è molto interesse per le primarie del partito democratico negli Stati Uniti e alla competizione tra Hilary Clinton e Barak Obama. Possono i movimenti sociali condizionare gli esiti delle primarie nel partito democratico?
E' strano che lo chiedi a me che sono canadese. Non sono molto interessata al fatto che Hilari Clinton rappresenti gli olds democratics e Obama i news democratics. E trovo strano che un italiano sia interessato al conflitto tra Hilary e Obama.

La politica statunitense ha da sempre condizionato quella italiana. E poi tu vivi in un osservatorio privilegiato come è il Canada. Tuttavia ciò che mi interessa capire è quale rapporto - di conflitto, di cooptazione - i movimenti sociali negli Stati Uniti voglio intrattenere con il potere politico e la politica istituzionale.....
Il processo elettorale statunitense è molto complicato e consuma tempo, energie e soldi. Se un movimento sociale prova a condizionare l'esito di primarie o di una competizione elettorale rimane quasi sempre intrappolato nei meccanismi politici americani. Lo ha fatto Ralph Nader e non è andato molto bene. Lo ha fatto Move On, rischiando di diventare solo una componente del partito democratico.
Negli Stati Uniti c'è stato un appuntamento che i media hanno quasi del tutto ignorato. Mi riferisco al primo social forum statunitense a Atlanta. Centinai di gruppi, associazioni, migliaia attivisti si sono incontrati per conoscersi e discutere sul che fare. I pochi giornalisti che sono andati ad Atlanta sono rimasti meravigliati, perché vedevano uomini e donne che discutevano di povertà, di emarginazione, di diritti dei migranti, di mancanza di lavoro, di diritto alla sanità e all'istruzione pubblica, di pacifismo, proponendo iniziative di lotta e alternative praticabili al neoliberismo senza aspettare che il partito democratico presti loro attenzione. In altre parole, penso che i movimenti sociali devono sviluppare la loro iniziativa, organizzarsi, sviluppare una sorta di contropotere senza attendere l'esistenza di un candidato che prometta di rappresentare le loro proposte o che il loro punto di vista entri nell'agenda politica di un qualche partito.

I movimenti sociali, almeno qui in Europa, non godono di buona salute. Ci sono state importanti mobilitazioni contro la precarietà in Francia in Italia. Il movimento pacifista inglese ha continuato a portare in piazza centinaia di migliaia di persone. Eppure sono innegabili le difficoltà dei movimenti sociali. Non credi che queste difficoltà derivi anche dal fatto che il movimento dei movimenti, per usare un'espressione a te molto cara, non riesca a svolgere una lettura critica del mondo attuale e dunque a sviluppare forme di lotta e di organizzazione adeguate?
Concordo. Anche negli Stati Uniti i movimento sociali antiliberisti. sono in difficoltà. Secondo me, in Nord America, ma credo che questo possa valere anche per l'Europa, le difficoltà derivano dalle conseguenze dell'attacco alla Torre Gemelle. L'11 settembre ha cambiato il mondo. Il problema è capire come lo ha cambiato. C'è stata la guerra in Afghanistan, poi in Iraq. Guantanamo. Le crisi economiche. Non riusciamo però ancora a cogliere il senso pieno di quello che è accaduto dopo le Twin Towers. Ci vorrà tempo per capirlo. Spero di contrinuire, come molti altri, a capirlo. Mi piace pensare che questo libro sia un piccolo contributo a capire come è cambiato il capitalismo.
ilmanifesto.it

Il trionfo dei ratti malgrado l'agio della civiltà

Una inchiesta di Robert Sullivan, giornalista del «New Yorker» tradotta da Isbn. Si direbbe che le pantegane, in virtù del significato assunto nella sfera simbolica, custodiscano il segreto delle verità ripugnanti e lo trasmettano per contagio. Non a caso, le fobie che ispirano i topi hanno a che vedere con la dialettica tra il dicibile e l'indicibile, il puro e l'impuro
Pierpaolo Ascari
Nonostante se ne fosse già parlato alcuni anni prima, quando il sindaco Giuliani ne aveva fatto l'oggetto di una guerra senza quartiere, fu solo nel settembre del 2000 che il rattus norvegicus associò il proprio nome a quello dell'uomo più potente del mondo. Anche per un mammifero che intorno al 1750 era emigrato dalla Russia per figliare nelle capitanerie di mezza Europa e portare a termine la navigazione dell'Atlantico in un giorno imprecisato del diciannovesimo secolo, gli onori della stampa internazionale non erano affatto scontati.
Eppure il rattus norvegicus era lì, installato al centro della campagna elettorale per le elezioni del presidente americano. A trascinarcelo erano stati i ragazzi della comunicazione assunti dal governatore del Texas, o meglio ancora un pensionato di Seattle che, armato di videoregistratore, li aveva messi al tappeto. Gary Greenup, così si chiamava il pensionato, aveva notato come nello spot che riassumeva il punto di vista dei repubblicani sulle qualità di Albert Gore, gli uomini del futuro presidente avessero inserito alcuni fotogrammi subliminali, che per un momento parvero compromettere le aspirazioni di Bush alla Casa Bianca. In quei fotogrammi appariva una scritta di sole quattro lettere - rats, ratti appunto - che Greenup era riuscito a stanare dalle fogne della competizione politica.
Che si trattasse del rattus norvegicus, il ratto marrone, non poteva essere motivo di discussione: infatti, una volta sbarcati sul suolo americano, i topi scandinavi (così classificati solo grazie a causa di un errore contenuto nei Profili della storia naturale della Gran Bretagna di John Berkenhout) avevano costretto i pochi cugini neri sopravvissuti a ritirarsi sulle palme e nelle soffitte di Los Angeles. In ogni caso, la comparsa dei ratti nel videoregistratore di Seattle operava una sorta di processo ai limiti della democrazia - tanto simile all'esercizio di un voto estemporaneo da mortificarsi nella pulsazione di un fotogramma - e il fatto che a rivelarne l'oroscopo fossero proprio loro, i topi di fogna, non aveva nulla di occasionale.
Anche nell'inchiesta - titolata Ratti, trad. di Carlo Torielli, Isbn - che Robert Sullivan ha dedicato al rattus norvegicus qualche mese dopo le elezioni del presidente americano, infatti, si direbbe che tutto ciò che appartiene all'universo dei topi si inserisca in una prospettiva analoga a quella indicata dalle scritte di Bush. I ratti fanno tendenzialmente schifo, questo è noto, trasmettono le pulci della peste, la febbre gialla, il virus del Nilo, si cibano di immondizia e soprattutto hanno la propensione a rivelare gli aspetti più sgradevoli e maleodoranti di tutto ciò che finisce nel loro raggio di azione.
Un esempio tra i tanti lo potrebbe fornire Barry Beck, il più grande derattizzatore di New York, che non si perde in giri di parole per ammettere di non essere minimamente interessato a chiunque gli impedisca di fare cassa: «Sono un capitalista - taglia corto. - Se non ci guadagno non ho bisogno di te». Ancora meno sorvegliate potrebbero risultare le parole pronunciate dal rappresentante di una grande compagnia per il controllo dei parassiti, nel corso di un convegno organizzato dalla rivista «Pest Control Technology»: «La cattiva notizia - dichiara l'esperto - è che i ratti vinceranno la guerra contro gli uomini. La buona notizia è che potremo fare un mare di soldi».
Soldi già fruttati a Kit Burns, un immigrato irlandese che a partire dal 1840 organizzò combattimenti tra uomini e animali alla Sportsman's Hall, una specie di arena nella quale gli uomini dovevano decapitare i ratti con un morso, qualche decennio prima che gli uni e gli altri venissero salvati dal nuovo entusiasmo del pubblico per il baseball.
In virtù del significato che hanno storicamente assunto nella sfera simbolica, si direbbe che le pantegane custodiscano il segreto delle verità ripugnanti e che lo trasmettano per contagio, aggirandosi nel sistema fognario di una civiltà che allo stesso tempo sfruttano e aggrediscono, saccheggiano e santificano, popolano e tradiscono. A volte basta loro una piccola parte in commedia, come quando il sindaco di Milwaukee, impegnato in una campagna di disinfestazione, esclude che vi sia un qualsiasi rapporto tra l'aumento della criminalità e l'impoverimento dei sobborghi: il punto è che commettere reati sarà sempre «più divertente che immergere una lega di metallo in qualche sostanza chimica in una centrale termica». Perché svaligiare un attico o rapinare una banca è più eccitante che lavorare, alla faccia di tutti i discorsi che tenderebbero a dissimulare il contenuto di violenza delle differenze di ceto. Ma forse la verità dei ratti e delle fobie che ispirano, alla resa dei conti, è mutuata proprio da qui, dal ruolo che interpretano nella dialettica tra il dicibile e l'indicibile, la conformità e l'indecenza, il puro e l'impuro.
Una volta Italo Calvino scrisse che il programma della modernità si poteva riassumere nella riduzione del mondo a un «cromato candore ospedaliero e dentistico», un sogno malato di purezza che l'esistenza dei ratti, di per sé, sembra deputata a squadernare. Di tutti i ratti, dice Sullivan, anche di quello che nuota nelle acque di scarico per spuntare dal water e che si fa interprete di una potenza della vita irriducibile a qualsiasi modello sanitario. A dirla tutta, esistono forme di liberazione meno traumatiche della comparsa di un topo di quaranta centimetri tra gli elementi della nostra camera da bagno, ma è pur vero che il rattus norvegicus oppone alla sterilità dell'ambulatorio la buona novella di una vita sensibilmente più impura, compromessa e quindi reale. «Una scintilla feconda - come la chiama Robert Sullivan, - che vi piaccia o meno».
ilmanifesto.it

20.10.07

Attrazioni criminali nella fabbrica del consenso

Prove tecniche di «legge e ordine» in «tv-movie» dove ex-marines sono a caccia di killer in un paese sepolto sotto una montagna di cadaveri.
Da Cogne a Erba, da Erika e Omar a Garlasco, la cronaca nera è diventata una pervasiva macchina del controllo sociale. Sono così cancellati i delitti compiuti dall'ecomafia e contro i beni comuni operati da quella grande industria dell'illegalità che vede nello stesso consiglio di amministrazione la criminalità organizzata e la grande finanza
Massimo Carlotto
Come racconta il crimine la televisione italiana? E soprattutto quale crimine racconta? Vi è mai capitato di vedere un servizio sulla mafia russa o su una delle tante organizzazioni transnazionali che ormai hanno pianta stabile in questo paese? E sulla commistione tra investimenti economici italiani in certi stati dell'est e mafie locali? I casi sono troppo numerosi per essere elencati tutti ma, a parte qualche coraggioso esempio, come Blunotte di Carlo Lucarelli, Chi l'ha visto dell'era Sciarelli e Report di Milena Gabanelli, la televisione si guarda bene dal fare giornalismo d'inchiesta. Anzi, non ne ha la minima intenzione e il motivo è semplice. Gli affari criminali di un certo livello, quelli dove si fanno i soldi veri, non possono non prevedere il coinvolgimento di personaggi che provengono dal mondo della finanza, dell'imprenditoria e della politica. Il bacino del Mediterraneo è l'area dove viene riciclata buona parte del denaro sporco delle mafie internazionali, pensate che sia possibile senza rapporti di complicità con settori importanti delle categorie appena citate? E l'ecomafia?
L'Italia è sempre di più un paese corrotto e criminogeno, non c'è un solo settore della nostra società che non sia investito dal malaffare. Eppure tutto questo per la televisione non esiste pur occupandosi ampiamente di crimine. Dalla mattina alla sera non c'è programma dove conduttori e una pletora di «esperti» non si dilunghino sul caso del momento. Da tempo esiste un intreccio, anche produttivo, tra programmi di intrattenimento con momenti di informazione e quelli di «approfondimento» che ha come scopo occuparsi di delitti e crimini, seguendo due precisi filoni. Da un lato l'omicidio del momento e dall'altro l'allarme sociale più attuale.
Gogna mediatica
In Italia ci si ammazza spesso e volentieri. Soprattutto in famiglia. La causa è determinata dalla fine dello stato sociale che alimenta insicurezze profonde nelle persone sempre più preoccupate del presente e del futuro. Ansie che si riversano nella famiglia, che è diventata il fulcro di queste e altre contraddizioni pericolose e spesso insanabili. Ma ovviamente non è questa la lettura data al fenomeno e tantomeno si tenta di comprenderlo mettendo in discussione il tipo di società in cui viviamo ma, al contrario, vengono accuratamente scelti casi che per le caratteristiche di mistero e/o orrore e morbosità possono «affascinare» l'opinione pubblica. Dalla misteriosa morte della contessa Agusta in poi è stato messo in piedi un circo mediatico pronto a girare l'Italia alla ricerca di questo tipo di delitti, totalmente privi di «senso» per la comprensione dei fenomeni criminali in questo Paese. Erika e Omar, Cogne, la strage di Erba, il più recente delitto di Garlasco sono gli esempi più conosciuti e che tanto appassionano gli italiani. Casi di cui non ci libereremo mai perché anche la notiziola più insignificante è in grado di rimettere in pista il caso. Se fate attenzione vi renderete conto che sono tutti trattati nello stesso modo. Questo modo di fare giornalismo è perennemente uguale a se stesso. Gli esperti, in particolare, ripetono all'infinito sempre i soliti concetti. A ben vedere, le trasmissioni, peraltro seguitissime, sono di una noia mortale. Il segreto del loro successo sta nell'aver riprodotto e adattato al mezzo televisivo «l'uso sociale» del romanzo poliziesco e che lo ha reso il genere letterario più letto al mondo, il quale fin dalle sue origini ha avuto lo scopo di reificare la morte. Un concetto astratto che genera in ognuno di noi ansia, paure e infinite domande, nel giallo diventa un «oggetto» da analizzare. Non è la morte del lettore quella in discussione ma quella di un estraneo. La morte non è più tragedia ma l'oggetto di un'inchiesta. In questo senso la televisione ha fatto un salto di qualità perché lo spettatore nel seguire le infinite ore di trasmissione sul delitto di Garlasco riesce a sopprimere temporaneamente «tutte» le proprie ansie sostituendole con quelle determinate dal caso. La gente non ha mai letto Sherlock Holmes per coltivarsi, per capire la natura della società o quella della condizione umana in generale, ma semplicemente per distendersi. Ecco, anche lo spettatore si distende con quelle piccole tragedie ingigantite ad arte dalla spettacolarizzazione.
Magistratura delegittimata
Ma mentre il rapporto tra lettore e libro è individuale e intimo, quello tra spettatore e mezzo televisivo è collettivo. La conseguenza è stata la celebrazione dei processi al di fuori delle aule di giustizia. Al bar, in ufficio, sotto l'ombrellone, tra sconosciuti in treno, la moda nazionale è discutere del caso del momento con la stessa competenza da allenatore che gli italiani hanno sempre avuto nel parlare di calcio. E in un paese che, dal tempo della strage di Piazza Fontana, ha perduto il senso della verità e nessuno crede più alle versioni «ufficiali», questo agire collettivo ha determinato un lento processo di delegittimazione della magistratura e dei suoi giudizi. Perché una corte può decidere quello che vuole ma la parte dell'opinione pubblica orientata diversamente non sarà mai convinta della giustezza del verdetto.
Ma nel caso di Garlasco, il grande circo mediatico ha alzato il tiro. Per la prima volta, in modo massiccio, ha chiesto alla gente della strada un giudizio sulla colpevolezza di Alberto Stasi e questa insensatezza ha creato un clima da tribunale popolare a cui nemmeno gli esperti hanno saputo sottrarsi. Ore di trasmissione per analizzare se la presunta «freddezza» del giovane indagato era o meno la maschera dietro cui si nascondeva un omicida. Anni di garantismo e civiltà giuridica spazzati via dalla necessità di spolpare l'osso anche quando la notizia segnava il passo. E gli effetti si sono visti nel momento dell'arresto di Stasi, quando la gente, di fronte alle telecamere, ha ringhiato come un fedele rottweiler. E nessuno che si sia precipitato a dire che quel comportamento era incivile.
In stallo il caso di Garlasco, a tenere in piedi la baracca ci hanno pensato i coniugi accusati della strage di Erba, ritrattando la confessione. D'altronde anche imputati e avvocati guardano la televisione e hanno imparato le regole del gioco e se i Ris non hanno trovato tracce degli accusati sul luogo del delitto vuol dire che sono innocenti.
Questo reparto della scientifica è diventato un personaggio fondamentale di questa spettacolarizzazione e il messaggio che si è sedimentato nell'immaginario collettivo è che la scienza applicata alle indagini di polizia è infallibile. Peccato che la realtà sia ben diversa da una puntata di Csi e, nonostante tutti i casi più celebri abbiano puntualmente dato risultanze ambigue sul piano scientifico, si continua a blaterare di tracce ematiche e dna prive di reale significato probatorio. Questa non è solo cialtroneria e ignoranza ma corrisponde alla necessità di inviare al telespettatore un messaggio socialmente rassicurante e cioè che la scienza elimina la possibilità dell'errore giudiziario. E su questo spingono tutti, giudici compresi.
A proposto di giudici il caso di Garlasco ha visto come ospite in una trasmissione televisiva il procuratore capo, segno che nessuno ormai si può permettere di rimanere all'esterno del tendone del circo. Nessuno ha obiettato. Sarebbe troppo facile limitarsi ad affermare che si tratta di un segno dei tempi, è invece evidente che si stanno trasformando anche i rapporti tra magistratura e informazione e questo non fa presagire nulla di buono. Qualche malalingua sostiene che nelle procure tiri una certa aria, da voglia pazza di '92... ma si tratta certamente di illazioni come suggerisce la qualità dei rapporti tra magistratura e mondo politico.
Cercasi repressione
Diverso il ruolo dei programmi di intrattenimento con momenti di informazione che hanno il compito di trattare i cosiddetti fenomeni di allarme sociale, dalla droga ai rom, dagli effetti devastanti dell'indulto alle moschee. Ovviamente di Garlasco come degli altri casi hanno parlato ampiamente ma, per il tipo di struttura, sono più adatti ad affrontare il «sociale» tra un servizio sull'«Isola dei famosi» e uno sull'ultimo amore dell'ultima stellina dell'infinito firmamento televisivo.
Inutile soffermarsi sul modo in cui vengono tratti i vari argomenti ma quello che va sottolineato è che il messaggio generale punta a un rafforzamento del controllo sociale nella direzione di una società più repressiva. Non c'è un solo programma fuori dal coro. Gli esperti (che ormai sono il tormentone di questo modo di fare informazione e che sono trasversali alle reti) anche in questo caso vengono chiamati a dare autorevolezza ai soliti luoghi comuni. Non si può parlare di qualità dell'informazione ma si deve invece rendersi conto che si tratta di una potente fabbrica del consenso. Chi non capisce perché parte della sinistra sia oggi così meno sensibile ai temi dei diritti, delle libertà individuali e della solidarietà sociale farebbe bene a farsi una scorpacciata di questi programmi. Senza scordare quelli delle emittenti locali. Magari quelle del Nordest, tanto per fare un esempio.
ilmanifesto.it

14.10.07

Una impertinente nel mondo del romanzo

Ancora un Nobel politically correct. Premiando l'autrice del «Taccuino d'oro», l'Accademia di Svezia ha voluto riconoscere «lo scetticismo e la passione» con cui Doris Lessing ha raccontato l'epopea dell'esperienza femminile. Nell'arco di oltre mezzo secolo ha scritto diverse decine di opere tra narrativa e saggistica
Maria Antonietta Saracino

In esergo, sulla pagina bianca che precede l'inizio del suo primo romanzo, una frase anonima recita: «È dai falliti e dagli sconfitti di una civiltà che se ne possono meglio giudicare le debolezze». Era il 1949. Con il manoscritto di quel romanzo, L'erba canta, sotto il braccio, studi da autodidatta, una esperienza di lavoro come centralinista, due matrimoni falliti e tre figli alle spalle, Doris Lessing - nata Tyler in Persia, nel 1919 - lasciava la Rhodesia del sud, oggi Zimbabwe, nella quale aveva trascorso trent'anni, per approdare a Londra dove tuttora vive. Si lasciava dietro i due figli avuti dal primo marito (il terzo figlio lo avrebbe portato con sé) e i ricordi della famiglia di origine - emigrata in quella parte di mondo dopo la prima guerra mondiale - impoverita e sconfitta: il padre mutilato di una gamba per colpa di una mina, la madre delusa da una vita che non aveva scelto.

Scetticismo e passione
Insieme agli anni trascorsi in una fattoria nel veld, Lessing lasciava anche la fase dell'impegno politico, cui proprio in Rhodesia si era intensamente dedicata. Dell'Africa, osservatorio privilegiato di alcune delle più grandi follie dei nostri tempi (colonialismo, razzismo, violenza, guerre), dirà che è stata il più grande dono che la vita le abbia fatto, a quel mondo insistentemente tornando in tanti suoi romanzi. Con lo stesso sguardo lucido e attento, che da allora costantemente la accompagna e che proprio in quel contesto aveva preso forma, osserverà la vita delle donne, raccontata fin dal primo romanzo, e nei molti che sarebbero seguiti, senza enfasi o retorica. Sarà questo sguardo, grazie al quale intere generazioni si sono riconosciute nei suoi libri, a fornire la motivazione di questo Nobel per la letteratura, che in Lessing vede «l'autrice di un'epopea dell'esperienza femminile che con scetticismo, passione e forza visionaria ha sottoposto una civiltà divisa a un attento scrutinio».
Da L'erba canta (La Tartaruga), apparso a Londra nel 1950, a oggi, Doris Lessing ha presentato pressoché ogni anno un'opera di narrativa. Alla sua prosa lineare e solida, che richiama quella dei grandi narratori ottocenteschi, ha consegnato una ininterrotta serie di romanzi, ma anche di racconti brevi e novelle, tre opere teatrali e numerosi saggi e scritti di viaggio, tutti con un preciso taglio politico. È ad esempio a seguito della pubblicazione di uno di questi, Going Home, nel 1957, che verrà dichiarata persona non grata in Rhodesia, dove tornerà solo dopo l'indipendenza, nel 1981, esperienza questa riportata nel volume Sorriso africano. Quattro visite nello Zimbabwe, del 1992. E sarà tra i primi a scrivere con occhio fortemente critico della presenza occidentale in Afghanistan, dove si recò al seguito di un programma umanitario, in un prezioso libretto intitolato non a caso The Wind Blows Away Our Words, «Il vento soffia via le nostre parole», del 1987. Di politica e follia umana parlerà ancora nelle Massey Lectures, che tenne in Canada nel 1985, pubblicate con il titolo di Prisons We Choose To Live Inside (Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Minimum Fax).
Ma soprattutto ha scritto di donne, guadagnandosi la mai accettata quanto superficiale etichetta di «scrittrice femminista», dando voce lungo un arco di oltre cinquant'anni ai più importanti momenti dell'esperienza femminile: dalla Mary Turner dell'Erba canta, nella quale traspone il personaggio di sua madre, sopraffatta da un'Africa che non capisce e che le fa paura, alla figura di Anna Wulf del Taccuino d'oro (1962), libro-culto di una generazione, dalle figure femminili che affollano i cinque corposi volumi della serie I figli della violenza, apparsi tra il 1966 e il '75, a quelle, forse più inquietanti, del ciclo di fantascienza Canopus in Argos cui approda dopo un avvicinamento alla filosofia sufi. Ma anche la Harriet del Quinto figlio, del 1988, quintessenza della sposa felice, la cui vita viene sconvolta dalla nascita di un figlio difficile, un diverso, la cui esistenza ricadrà interamente sulle spalle della madre. O il personaggio della «brava terrorista», che dà il titolo all'omonimo romanzo e che si interroga sulla doppia vita di chi, dietro una esistenza apparentemente «normale», aveva scelto la militanza armata.
A Lessing si deve il merito di averci saputo rimandare lo sguardo sul mondo di una bambina di tre anni, lei stessa, nello struggente Sotto la pelle, primo di due volumi di una autobiografia che Lessing diede alle stampe nel 1994, a settantatré anni, rivendicando il diritto di raccontare la propria storia per impedire ad altri di farlo per lei. Il racconto è durissimo: il mondo non capisce i bambini e li condanna a un dolore che li accompagnerà nella vita adulta. Così è stato per lei, che - con la memoria di allora, vivida e impietosa - rivela il suo nocciolo di rancore verso la famiglia. Verso la madre, innanzitutto, tutta presa da se stessa, descritta con immutato risentimento a decenni dalla sua morte: a lei Lessing dedica nel 1986 una biografia dal titolo Impertinent Daughters. My Mother's life, apparsa in italiano con il titolo Mia madre (Bollati Boringhieri). Di lei parla estesamente e ancora con acredine nei volumi della sua autobiografia, Sotto la pelle appunto e Camminando nell'ombra. Ma è dura anche nei confronti del padre, ritratto nella figura di Dick Turner, il colonizzatore povero e perdente dell'Erba canta, travolto dal sogno di una realizzazione economica che non arriverà mai.

Il valore della vecchiaia
Impietosa nei confronti della retorica della maternità, la smaschera parlando delle maternità sue, mai del tutto accettate. Che le hanno insegnato, dice, come l'affetto verso i bambini nulla abbia a che vedere, nella donna, con l'esperienza fisica dell'essere madre. Così è stato per lei che, non ancora trentenne, in Rhodesia, si fece sterilizzare. All'altro estremo della parabola umana, a Lessing si devono straordinari personaggi di donne anziane, come la indomita barbona del Diario di Jane Somers che non si lascia accudire per non consentire agli altri di sentirsi con la coscienza a posto. Un personaggio di grande forza che Judith Malina del Living Theatre ha portato sulle scene teatrali in un celebre monologo.
Le sue donne anziane rivendicano il diritto all'amore e all'erotismo, come accade alla protagonista sessantacinquenne di Amare, ancora, del 1996, turbata e incredula davanti a una ondata di emozioni che, per la prima volta dopo tanto tempo, ricomincia a provare quando si scopre innamorata di un uomo assai più giovane di lei. Sul tema dell'amore tra una donna anziana e un ragazzo poco più che adolescente, Doris Lessing torna, nel 2003, con il lungo racconto Le nonne, che dà il titolo all'omonimo volume (Feltrinelli), presentato dalla scrittrice al Festivaletteratura di Mantova del 2004.

Ideologie inaffidabili
Fragile nel fisico ma estremamente lucida, Doris Lessing si è presentata in quella occasione pronta a ragionare sul presente e sul passato, sulla stupidità degli uomini e sulla inaffidabilità delle ideologie, il suo costante pensiero di questi anni. Perché «in my extreme old age», ha detto, «mi rendo conto di aver vissuto momenti della storia che sembravano immortali. Ho visto il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini, che sembravano destinati a durare mille anni. E il comunismo dell'Unione Sovietica, che si credeva non sarebbe finito mai. Ebbene tutto questo oggi non esiste più. E allora perché mi dovrei fidare delle ideologie?». Si è detta stanca, Doris Lessing, di vivere in un mondo che sembra avere perduto ogni centro di gravità; dove le donne di molti paesi occidentali non vogliono più fare figli, i giovani non trovano lavoro né casa, dove vecchi e bambini vivono una insostenibile condizione di incertezza.
Ma oggi, e ormai da tempo, è il pensiero della guerra a tormentarla, anzi delle molte guerre che il mondo si ostina a ignorare. Ne ha viste davvero tante, lei, nata nel 1919, prima fra tutte la Grande Guerra, il cui ricordo ha ossessionato la sua giovinezza. «La stupidità degli uomini è tale che nonostante tutto quello che abbiamo vissuto, non siamo riusciti a imparare dall'esperienza. La guerra porta solo distruzione e morte, e sono i più indifesi a pagarne il prezzo». Su questa mostruosità, aveva concluso la scrittrice in quella occasione, tutti dovremmo riflettere, se vogliamo che davvero le cose comincino a cambiare.

ilmanifesto.it

7.10.07

"Muoio, vi spiego cos'è la felicità"

L'ultima lezione di un professore.
La storia che commuove l’America.
I medici lo hanno sottoposto a esami
poi gli hanno detto: ti restano 3 mesi

PIERANGELO SAPEGNO

Era l’ultima lezione prima di morire, e il professore Randy Pausch l’ha tenuta ridendo e sognando, nell’Auditorium McConomy della Carnegie Mellon University, davanti a una folla di allievi e docenti che ridevano con lui, perché quella era poi solo una lezione della vita, insegnata in quell’aula senza tempo, come sul fondale di un teatro che rimpicciolisce gli attori sopra il proscenio. La vita, in fondo, è così: è più grande di noi. «Non possiamo cambiare le carte che abbiamo girato», ha detto Randy Pausch. «Dobbiamo solo giocare quella partita».

Fai la cosa giusta
La lezione magari è sempre la stessa, così americana, ma è dignitosa e commovente questa volta: fai la cosa giusta, e avrai vissuto e i sogni verranno a cercarti. A dirla così, sembra semplice. Però, Randy Pausch, professore di scienza del computer, ha 46 anni, una moglie e tre figli piccoli, una casa in Virginia «che è il posto più bello per avere una casa», una cattedra importante, e un tumore che gli ha lasciato soltanto tre mesi per stare con noi. Randy è un bell’uomo bruno, forte, ex giocatore di football, che si muove con una certa eleganza, alto ma non sgraziato, che assolve la sua parte senza mai caricarla, vestito con una maglietta nera e dei calzoni color guscio d’uovo, con tocchi che danno l’idea di uno spirito libero, di un’artista. Entra sorridendo nell’aula stracolma, un piccolo inchino fra gli applausi, e finisce sorridendo, senza ingoiare mai una lacrima. E senza mai esibire la docilità tenera degli esseri umani, la loro fondamentale disponibilità a piacere anche di fronte alla tragedia, come gli ebrei d’Europa che indossavano i vestiti migliori per essere condotti nei campi sterminio.

Desideri di bambino
La sua lezione è solo un inno alla vita. Si intitola: «Come realizzare davvero i tuoi sogni di bambino». Comincia con una battuta mentre sono tutti in piedi ad applaudirlo: «Grazie, ma fatemela guadagnare!». Poi continua: «Questa università offre da sempre l’ultima lettura a tutti i suoi insegnanti, prima di morire. Oh, finalmente anch’io ho questa occasione!». E allora hanno riso tutti. Anche lui ha riso. Fa vedere sullo schermo il suo tumore, le dieci metastasi. «I dottori mi hanno dato tre mesi di vita», dice. «Ma io mi sento bene. Se non vi sembro così triste, così depresso, scusate se vi deludo. Sono in una strepitosa condizione di forma. Peccato che sto morendo. Ma sto molto meglio di parecchi di voi, e ve lo faccio vedere». Si china sul pavimento e si mette a fare i piegamenti, prima con due mani, poi con una sola, poi battendole per restare senza. Si rialza fra le risate dell’aula senza fiatone, «ve l’ho detto. Se qualcuno mi vuole compatire, venga qui da me, mi faccia un po’ di piegamenti e poi gli permetto di compatirmi».

«Non parla della malattia»
Dice: «Non parlerò della malattia. Non parlerò di mia moglie e dei miei bambini, di religione e di spiritualità. Parlerò di come ho realizzato i miei sogni dell’infanzia». Racconta che ne aveva 4: provare l’assenza di gravità, giocare nella nazionale di football, scrivere un articolo nell’enciclopedia mondiale e diventare un disegnatore di Walt Disney. Beh, li ha realizzati a modo suo. Per salire su un’astronave s’è finto un giornalista, da ragazzo è stato un buon giocatore di football anche se non è mai finito in nazionale, è diventato un docente e l’articolo per l’enciclopedia l’ha scritto davvero. Il segreto? Dice: «Mi sono trovato a parlare al telefono con John Snoddy e lui mi diceva: se tu dai tempo agli altri, la gente ti sorprenderà. Se qualcuno è arrabbiato è perché tu non gli hai dato abbastanza tempo».

Certo, noi non abbiamo tutto il tempo del mondo. Ma bisogna fare bene il nostro. Con Walt Disney non andò, però è come se fosse andata perché è quello che si impara e che rimane, che conta di più. Racconta che appena laureato mandò a Walt Disney il suo curriculum e tutto quello che voleva fare. «Loro mi hanno rimandato indietro alcune delle più belle lettere di vaffa che abbia mai ricevuto». Gli aveva inviato un progetto di parco giochi. L’avevano bocciato, ma lui aveva capito lo stesso come si faceva. «Ricordatevi. I muri di mattoni che riempiono le strade sono lì per una ragione. Non per tenerci fuori, ma per darci una possibilità di mostrare come malamente noi vogliamo le cose. Sono là per fermare le altre persone».

Formule sul muro
Ricorda che da bambino lui voleva scrivere sopra le pareti della sua camera, «e, cavolo, i miei genitori me l’hanno lasciato fare. La cosa incredibile è che in tutto questo tempo quel muro è ancora lì, come l’avevo disegnato io, con le mie formule. E se vostro figlio, un giorno vi chiederà di dipingere la stanza, fate un favore a me: lasciatelo fare». Tutt’intorno, ad ascoltarlo, c’è un pubblico che ha il suo stesso sguardo, questo sorriso strano, come una lieve stonatura, così sereno, a cogliere le parole che si riavvolgono e le memorie che si fermano, lasciati lì a fissarsi in primi piani mai attoniti, appena velati di tristezza, piccoli ponti attraversati nel reticolo infinito dei loro rapporti. C’è una folla di occhi e di sentimenti, non c’è gente elegante, nessuno trasandato, qualcuno bello, qualcuno no. Qui c’è questo soltanto, il tremore della vita che resta per sempre, come due amanti che si lasciano sapendo di aver vissuto tutto il loro tempo e il loro amore.

Fine corsa
Il professor Randy Pausch ha terminato la sua ultima lezione alla Carnegie Mellon University e lo hanno applaudito come se fosse normale, come se fosse la prima, o una qualunque lezione della vita. Solo una bella signora, forse sua moglie, è salita sulla cattedra e l’ha baciato appassionatamente. Lui aveva appena finito di dire: «Non è come realizzi i tuoi sogni che è importante. Ma come realizzi la tua vita. Se fai la cosa giusta, il tuo kharma avrà cura di quello che fai e i sogni verranno da te». Poi è uscito così, nello splendore del giorno, mentre finiva la vita.

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