29.4.09

Digitale terrestre, sintonizzatori: zapper o interattivi mhp? Ecco come scegliere

di Federico Rocchi

Dopo la Sardegna, scocca sull'orologio digitale terrestre la campana dello switch-over anche per il Lazio, Piemonte e Campania. La fase in cui Raidue e Retequattro saranno trasmesse soltanto in tecnica digitale è veramente alle porte e non volendo comprare un nuovo televisore (dal 3 aprile sono in vendita soltanto televisori con sinto digitale incorporato) l'acquisto di un sintonizzatore digitale separato o "decoder" (o "sintodecoder" per dare conto a tutte le possibili interpretazioni) diventa improrogabile per tutti quelli che ne siano ancora sprovvisti. Ad oltre quattro anni dalla distribuzione dei primi modelli non è ancora facile orientarsi nell'offerta di questi apparecchi che, almeno al primo sguardo, si somigliano davvero molto. Per dare una mano nella scelta, quindi, più che costruire elenchi di modelli che saranno presto sostituiti pensiamo sia più utile dare le informazioni di base per giudicare di persona gli apparecchi, magari dando uno sguardo alla parte posteriore, dove si trovano le prese di connessione che spesso sanno dire molto delle caratteristiche incorporate.

I sintonizzatori per la televisione digitale terrestre possono essere divisi nelle due più generali categorie di "zapper" e "interattivi mhp", con prezzi molto diversi fra loro: un sintonizzatore "interattivo mhp" costa in questo momento almeno il doppio di un sintonizzatore "zapper" ovvero "non interattivo". Per interattività s'intende sia la possibilità di usufruire dei "servizi di accesso condizionato", cioè dei servizi "pay per view" di televisione a pagamento, sia delle "applicazioni mhp", cioè i software da gestire con il telecomando. Un sintonizzatore "interattivo" contiene al suo interno alcuni elementi che il semplice "zapper" non possiede, come lo "slot" (alla vista è una semplice fessura) per inserire la carta di accesso condizionato ed anche un modem per la trasmissione dei dati "di ritorno" attraverso la normale linea telefonica analogica. Questa è una giustificazione, seppur non completamente convincente, circa la differenza di prezzo. In queste ultime settimane i prezzi si sono decisamente stabilizzati e non sono molto diversi da quelli di quattro anni addietro (al netto degli incentivi statali): con trenta euro si porta a casa un sintonizzatore zapper, che può essere usato soltanto per i canali non criptati quindi non per la visione dei canali "premium" di Mediaset e Dahlia, mentre ne occorrono almeno una sessantina per un modello "interattivo".

La scelta fra i due tipi di sintodecoder deve essere consapevole e, magari, non soltanto legata all'immediato ma fatta in prospettiva futura. Innanzitutto bisogna ricordare che i modelli interattivi godono degli incentivi all'acquisto predisposti dal Governo nelle aree interessate, per i cittadini che non ne hanno ancora usufruito e che pagano il "canone RAI". In questo caso la differenza di prezzo con i non interattivi può ridursi drasticamente e quindi perché privarsi della possibilità di vedere anche i canali a pagamento? Inoltre, i modelli interattivi possono usare le "applicazioni mhp", che per il momento non hanno avuto molta fortuna e molto sviluppo ma in futuro, sperabilmente quando il passaggio al digitale sarà compiuto nella sua globalità, le cose potrebbero cambiare. Per questo motivo, soprattutto per il televisore principale, il consiglio è dunque quello di comprare un modello del tipo interattivo. Per i televisori "accessori" oramai presenti in tutte le stanze della casa potrebbe bastare anche un modello più semplice, uno "zapper" non interattivo, tenendo presente che con pochi euro avremo molti nuovi canali, una ricezione perfetta, la lista dei canali facilmente raggiungibile e in più doteremo il vecchio televisore di un nuovo sintonizzatore: spesso infatti, dopo anni di servizio, i sintonizzatori dei televisori a tubo catodico finiscono col guastarsi e un intervento di riparazione verrebbe a costare molto di più dei trenta euro necessari per l'acquisto di un nuovo sinto digitale "zapper".

Riconoscere il tipo di sintodecoder "all'occhio", come si faceva una volta al mercato per i generi alimentari, è semplice. I modelli "interattivi" devono possedere per forza di cose una o due fessure per l'inserimento della carta di accesso condizionato. Avere due fessure piuttosto che una sola è ovviamente una comodità perché si possono mantenere dentro l'apparecchio due carte nello stesso momento. Di solito le fessure ("slot" in lingua inglese) si trovano sulla parte frontale dell'apparecchio ma esistono anche delle eccezioni, come nel SAGEM ITD70 che ha lo spazio per inserire la carta CA sulla faccia inferiore del mobile risultando quindi invisibile. Questo piccolo sintodecoder offre altre peculiarità rispetto agli altri: può essere agganciato sul retro del televisore perché non ha un display sul frontale, il ricevitore del telecomando è praticamente omnidirezionale ed è alimentato a 12 volt, quindi può anche funzionare sui mezzi mobili o in barca, il tutto ad un prezzo molto contenuto rispetto ai modelli appositamente progettati per quegli usi specifici.
In effetti, stante la diffusione di televisori a schermo piatto, spesso non si sa dove mettere un apparecchio con forma tradizionale e display da mantenere visibile. Oltre al Sagem ci sono altre eccezioni. Come lo Humax "DTT-Nano", ad esempio. E' miniaturizzato al punto di essere inglobato in un unico piccolo involucro con la spina SCART. Questo tipo di sintonizzatore, del tipo "interattivo mhp", si collega direttamente alla presa SCART sul retro del televisore, risultando invisibile anche nel caso in cui il TV sia del tipo a schermo piatto. Esiste una sola controindicazione: la qualità della riproduzione è influenzata dall'obbligatorio collegamento SCART analogico con il televisore.

I moderni televisori a schermo digitale hanno bisogno, per funzionare al meglio delle loro possibilità qualitative, di un segnale che non sia passato attraverso molte "conversioni analogico-digitale e digitale-analogico". Per questo motivo tutti i televisori LCD o Plasma sono dotati sul retro di almeno una presa di ingresso digitale e spesso ne hanno più d'una. Ne esistono di due tipi anche se il primo, detto DVI (Digital Video Interface), è in via di rapida sostituzione con il secondo e decisamente più pratico HDMI (High Definition Multimedia Interface). E' facile riconoscere i due tipi di collegamento: la presa DVI (usata anche dalle schede video dei computer) è rettangolare, abbastanza grande e bianca, con molti contatti a vista. La presa HDMI invece è molto più piccola, di forma schiacciata e con i contatti invisibili allo sguardo superficiale, somiglia ad una presa USB leggermente più larga e con i bordi arrotondati. Ci sono differenze anche sul piano "elettrico": il collegamento DVI porta soltanto il video mentre quello HDMI trasferisce anche l'audio digitale e prevede di norma l'uso del sistema di criptazione HDPC (opzionale nella connessione DVI) indispensabile per la visione di contenuti protetti. Non esistono sintodecoder per la televisione digitale terrestre con uscita DVI ma ne esistono alcuni, i più recenti, con uscita HDMI. Disporre di un sintodecoder con uscita HDMI, e di un collegamento con il televisore tramite cavo HDMI, è consigliabile per avere la massima qualità visiva con le trasmissioni digitali di oggi a risoluzioni standard e diventa indispensabile per le trasmissioni digitali in alta definizione. Nel caso in cui il vostro televisore abbia sul retro soltanto una presa di tipo DVI potete comunque collegare in digitale il sintonizzatore esterno utilizzando un cavo adattatore HDMI-DVI. La visione di un canale HD anche ridotto a "sole" 720 linee, per esempio quelle a disposizione con un "vecchio" TV del tipo "HD ready" è sempre uno spettacolo.

L'argomento "alta definizione" merita un piccolo approfondimento. Per poter godere di una visione ad alta definizione, che sarà realtà sin dal 2012 perlomeno per tutti i canali Mediaset, serve un sintodecoder con due caratteristiche ben precise: un circuito di decompressione capace di trattare l'algoritmo MPEG-4 e un apparecchio con uscita HDMI. Per quanto riguarda il primo requisito, esso è necessario perché per trasmettere un flusso di immagini ad alta risoluzione piena (1080 linee), quindi contenente più "informazione" rispetto al normale quadro PAL della televisione tradizionale (capace di circa 500 linee), è necessario l'uso di un algoritmo di compressione più efficiente rispetto all'MPEG-2, usato da anni sia nella televisione digitale a definizione standard che nei dischi DVD. L'algoritmo di compressione MPEG-4 consente di trasferire un flusso video a 1080 linee in una larghezza di banda pari a circa 12 Mb al secondo: in ogni frequenza TV, dove prima veniva trasmesso un solo canale analogico, passano circa 24 Mb/s e quindi possono essere diffusi due canali ad alta definizione. Purtroppo c'è da segnalare che i sintodecoder esterni con decompressore MPEG-4, da collegare al televisore di casa con cavo HDMI, non sono molti, anzi è piuttosto difficile trovarli nel negozio sotto casa probabilmente per motivi di marketing. Volendo acquistare proprio un modello di sintodecoder abilitato all'MPEG-4 è possibile, però, fare subito una scelta drastica con sguardo rivolto al futuro e scegliere un apparecchio "integrato", come il Telesystem TS4600HD-CI, che è contemporaneamente sintodecoder digitale terrestre e satellitare, capace di trattare i segnali HD sia terrestri che satellitari ed anche di utilizzare una "common interface" per visualizzare i canali a pagamento. Come se non bastasse può anche visualizzare foto, video e file mp3 prelevandoli da una memoria esterna di tipo USB ed il sintonizzatore satellite è del tipo DVB-S2, quindi del tipo più recente, adatto alla ricezione delle trasmissioni HD da satellite. Per inciso, questo sintonizzatore dovrebbe essere in grado di ricevere anche le trasmissioni di TiVù Sat che replicheranno i canali terrestri "rimbalzandoli" sui satelliti Eutelsat.
Esistono anche apparecchi "combo" per la ricezione dei programmi a risoluzione standard, ma dotati della capacità interattiva "mhp" come lo Humax Combo 9000. Uno sguardo alla parte posteriore dell'apparecchio può sempre facilmente chiarire se è incorporato un modem che quindi rende il sintodecoder "interattivo" del tipo mhp: basta che sia presente la presa per il cavo telefonico a quattro contatti, di tipo tradizionale come quello di qualunque telefono. Anche se questi apparecchi "combo" costano di più di un solo sintonizzatore, oltre 150 euro, essi rimangono comunque competitivi perché questa cifra non è lontana dalla somma richiesta assemblando intorno al proprio TV i due sintonizzatori separati, con la comodità di avere un solo "set top box" (con meno cavi ad affollare la parte posteriore) anche posizionato... "sotto il box", sul mobile che supporta il televisore.

Concludendo, possiamo suggerire di controllare prima dell'acquisto altri particolari che normalmente sfuggono nell'affollamento e nella fretta dei negozi di elettrodomestici e televisori. La qualità del telecomando è un aspetto importante perché nella pratica sarà con quello che avremo a che fare, spesso i sintodecoder non hanno nessun tasto sul frontale. Purtroppo, per mantenere i costi bassi, i modelli più popolari hanno telecomandi poco ergonomici, di tipo standard e di solito con tasti piccoli e gommosi. Ovviamente non esiste un telecomando perfetto ma se possibile è meglio provare ad utilizzarlo prima dell'acquisto, tenendo presente che è molto comodo avere un tasto per la guida elettronica dei programmi EPG a portata di dito, così come i quattro tasti principali per sfogliare i canali verso l'alto e verso il basso e per il volume. Un'occhiata all'interfaccia dell'apparecchio visualizzata sullo schermo quando si impartisce un comando, infine, non guasterebbe: moltissime persone trovano comoda la possibilità di chiamare la lista dei canali memorizzati e scorrerla con i tasti up e down, se la lista è poco visibile o lo scambio dei canali troppo lento il funzionamento può essere fastidioso e addio zapping. In ogni caso, però, anche con i modelli più economici la qualità audio e video della trasmissione digitale non ha uguali e cancella in un sol colpo tutti quei problemi, come doppie immagini, effetto nebbia e incostanza fra i diversi canali, che da sempre affliggono le installazioni meno fortunate. Un vantaggio oramai irrinunciabile e alla portata di tutti.

"Neutralità web sotto attacco" - Tutti contro la direttiva dell'Ue

Gli utenti del web e i provider chiedono ai parlamentari europei di fermare la direttiva "Telecoms Package", che darà ai gestori telefonici il potere di modificare le condizioni nelle quali usiamo le applicazioni più comuni, come Skype e Facebook
di VITTORIO ZAMBARDINO

C'è una lettera molto lunga, mandata qualche giorno fa al parlamento europeo. Si trova sul sito di AssoProvider. E' in inglese e usa un po' di gergo. Può sembrare uno di quegli allarmi da sesso degli angeli, di cui interessa qualcosa solo agli specialisti. E invece è una cosa molto urgente, molto seria. I firmatari chiedono ai parlamentari di pensarci bene prima di votare la direttiva "Telecoms Package", ormai in fase di approvazione. Perché con quel testo - dicono - c'è il rischio di approvare anche una sorta di apartheid elettronica che apparentemente riguarderà i dati, cioè le cose inanimate. Ma poi avrà a che fare con le persone. Ecco di cosa si tratta.

Facciamo un passo indietro che ci aiuta a capire. A metà del mese di aprile, T-Mobile, la grande azienda di telefonia cellulare tedesca, una delle prime al mondo, ha comunicato ai suoi utenti che l'utilizzazione di Skype per chiamate in "voice over IP" dal cellulare sarà fortemente limitato.

Ecco, la direttiva Telecoms package promette di produrre effetti simili a questo e su un ampio arco di servizi. Perché alcuni emendamenti daranno ai gestori telefonici il potere di modificare le condizioni nelle quali usiamo le applicazioni più comuni.

Così Guido Scorza, giurista e presidente dell'istituto per le politiche dell'Innovazione, uno degli organismi firmatari della lettera: "Bisogna immaginare il gestore di un autostrada che a un certo punto decida di incolonnare tutte le auto gialle su un casello e tutte quelle rosse su un altro. E che decida di far andare le auto gialle al doppio della velocità di quelle rosse. O di dare la precedenza a quelle che portano il suo marchio, quello del gestore, perché sono le 'sue' auto".

Fuor di metafora, Scorza intende dire che l'accesso a Facebook, per fare un esempio, potrebbe essere reso relativamente più lento rispetto a quello di un film che viene venduto dallo stesso fornitore di accesso. Oppure questi potrebbe porre limiti quantitativi all'uso di servizi non collegati alla propria offerta o ritenuti marginali. O ancora: che una volta violata la parità tra tutti i diversi servizi, potrebbero esserci offerte commerciali tese a risolvere il problema creato dallo stesso comportamente del provider: dammi 2 euro per avere Facebook più veloce oppure "più collegamento" a Facebook. E il bello è che sarebbe tutto legale.

"Se la direttiva passa - aggiunge Scorza - il diritto ad accedere ad ogni genere di informazione, il diritto ad utilizzare qualsivoglia tipo di applicazione attraverso la Rete che i 'netizen' hanno sin qui ritenuto di avere nonostante frequenti violazioni da parte di taluni ISP verrà limitato 'per legge'. A quel punto che il provider 'scelga' cosa far vedere, leggere e sapere ai suoi utenti non costituirà più un aspetto patologico ma la regola, un po' come avveniva ieri nell'era della vecchia e cara TV, nella quale pochi padroni dell'etere decidevano chi ci teneva compagnia a pranzo, con chi avremmo dovuto cenare e dinanzi a quale salotto ed ascoltando quali idee avremmo dovuto addormentarci. Si tratterebbe solo di 'variazioni dell'offerta commerciale': meno informazione e più intrattenimento o, magari, meno politica e più gossip."

Fin qui Scorza. Che tutto ciò rappresenti una palese infrazione di quella sorta di "par condicio" dell'accesso internet, che va sotto il nome "neutralità della rete", sembra ai firmatari della lettera fuori discussione. E sembra anche foriero di ulteriori gravi violazioni.

repubblica.it

La scommessa in 3-D tra gli immaginari

di Cristina Piccino

«Da Sodoma a Hollywood», quando i film cambiano la vita. E i piaceri Il festival dedicato alla produzione gay, lesbica, bisex e transgender, scopre in Italia Adorfo Arrieta, spagnolo, migrante a Parigi nel '68, narratore di fiabe nere e di erotismi ribelli. Incubi di bimbe e esistenze marginali, la passione per Sade e Cocteau. In gara, tra gli altri, «Serbis» di Brillante Mendoza, la nuova onda filippina che rivoluziona i codici della visione
Un occhialino per il 3-D, lenti fucsia e azzurre: «Da Sodoma a Hollywood, sottotitolo «I film che cambiano la vita», e il festival torinese glbt ha ventiquattro anni, di visioni ne ha «stralunate» parecchie. L'idea di un cinema omosessuale, anzi glbt - gay, lesbico, bisex, transgender - che sperimenta nel tempo, è spazio del pensiero e di resistenza politica, culturale, emozionale, e dire il cinema che cambia la vita non è soltanto una molto efficace invenzione di promozione. Quando il festival comincia le sue battaglie, a metà degli anni Ottanta, in Italia il cinema gay e lesbico è per pochi: visioni sparse, casuali, molta censura, e il tabù pesante come un macigno che è il sesso. Il segno politico del cinema gay e lesbico, e la sua cifra poetica, è rivendicare la propria specificità, il modo di raccontare, la potenza desiderante delle immagini. Col tempo le storie sono cambiate, e così il modo di raccontarle, seguendo la necessità di uscire dallo «specifico» del genere senza che questo comunque significhi smussare la carica antagonista.
Ecco, il festival glbt di Torino è stato e continua a essere il laboratorio privilegiato per questi passaggi, che sono confronto tra generazioni diverse, talvolta conflitto di sguardi e punti di vista, miscela di gusti, colori, allegria, durezza nel rimodellare le forme della realtà. Ci possono essere storie d'amore, paesi diversi, «classici» amatissimi dalle storie del cinema o rarità invisibili: ciò che conta è far circolare una cultura e una consapevolezza, liberare zone del pensiero, costruire sinergie e complicità. Una cosa fondamentale nell'Italia di oggi come era in quella di ventiquattro anni fa, anzi forse di più visto che ora molto si da per scontato e invece, l'esperienza quotidiana dimostra spesso il contrario.
Forse è per questo che passare a Torino, a questo festival, è sempre bello: per gli amici e per l'atmosfera vitale che circola nelle sale (il cinema Ambrosio) e negli spazi festivalieri, nonostante la pioggia che inonda la città da giorni.
C'è una figura strana nell'oscurità della stanzetta, una figura maschile: la bimba sul letto dorme, all'improvviso si sveglia, vede l'uomo e grida lanciando un oggetto contro alla finestra che va in pezzi. Un sogno, un incubo, la rassicura il padre, se avessi aspettato qualche secondo i contorni della sagoma oscura sarebbero svaniti, come vuole la materia dei sogni. La bimba non è convinta, lei quell'uomo, un pompiere, sa di averlo visto, e non è nemmeno la prima volta ... Passano gli anni, la bimba cresce, il pompiere è l'oggetto erotico delle sue passioni, l'amante segreto che quel gioco infantile spinge a entrare di nascosto nelle sue notti dalla finestra nella casa del padre ... Adorfo Arrieta: deliri d'amore è il titolo della retrospettiva dedicata al regista spagnolo, una scoperta i suoi film eccentrici, col gusto di chi ama Sade e le fiabe che ci dicono di uno strano intontimento sul filo del sogno e della veglia. I giochi di specchi, e lo scambio dei sessi, l'erotismo giocoso e ribelle, come il suo cinema, al genere. Il film di cui parlavo si chiama Flammes ('78), lo interpretano tra gli altri Caroline Loeb, Marilù Marini, Pascal Gregory, Arrieta è di Madrid ma a un certo punto, nel '68, va a vivere a Parigi, frequenta Jean Eustache e il suo gruppo (Caroline Loeb aveva lavorato col regista di la Maman et la putain), è amico di Cocteau, vive in casa di Marguerite Duras quando gira un'altra fiaba nera che Pointilly ('72). Sono un'esperienza spiazzante i suoi film, fuoriformato nonostante le molte passioni dichiarate (cinefile e non solo) disseminate come in una girandola o in un labirinto.
Tam Tam ('76) è la storia di un «party organizzato per un libro che nessuno ha letto ma di cui tutti parlano» (sono parole del regista), lo hanno definito il primo film underground parigino, vicino a Warhol o a Jack Smith, racconta di esistenze marginali, è realtà di fantasia sovversiva.
Una scoperta Arrieta, e non solo glbt, come i film di questo festival, la cui sfida ricomincia ogni volta da questa libertà. Un film come Serbis, in gara, di Brillante Mendoza (regista che sarà in concorso al prossimo festival di Cannes) va visto e fatto vedere in Italia perché Mendoza è uno dei cineasti delle nuove onde filippine, che col loro cinema indipendente e a diverse gradazioni di radicalità, stanno riconquistando l'immaginario colonizzato del paese. L'«indio nacional» di Raya Martin, altro geniale autore filippino, composito visto che ognuno di questi cineasti è diversissimo nel modo di metabolizzare l'onnipresenza americana e occidentale trasformandola in critica «glocal», politica, e radicale. Che al tempo stesso destabilizza i codici di tutto il cinema contemporaneo.
Serbis ci porta in una sala porno a Manila gestita da una famiglia filippina. I ragazzi si prostituiscono, fanno l'amor per pochi denari, o anche solo per piacere, qualcuno si incontra lì perché non ha altri posti dove andare. E mentre le trame delle vite si intrecciano, clienti e famiglia, scorre questo melò di povertà, rabbia, tenerezza. Mendoza usa la nostalgia del vecchio cinema a luci rosse come set di commedia, sentimenti, serialità dove il presente delle Filippine si mette in scena e diviene cinema.
ilmanifesto.it

25.4.09

Le piazze rubate del 25 aprile

Marco Revelli

Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?
Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.
ilmanifesto.it

Sodalizi e conflitti tra gemelli siamesi

di Benedetto Vecchi
CAPITALISMO E DEMOCRAZIA - Intervista con Prem Shankar Jha

Il destino incerto della democrazia. È questo il tema attorno al quale ruota l'iniziativa in corso a Torino, che non a caso ha come titolo «Biennale democrazia». Tema articolato in più sessione, attraverso «parole chiave» che hanno accompagnato la discussione sullo stato di salute dei sistemi politici appunto democratici. Il multiculturalismo, il potere pervasivo dei media, ma anche i rischi che la attuale crisi economica possa determinare la crescita di un populismo che in nome del popolo limita libertà civili, politiche e ridimensiona ulteriormente i diritti sociali. L'economista indiano Prem Shankar Jha è stato invece chiamato a discutere di quel «caos» originato dalla crisi economica e di come quel caos possa accelerare la crisi della democrazia.
Prem Shankar Jha è, oltre che uno studioso, anche un noto commentatore dell'economia mondiale da una prospettiva, quella dell'India, cioè di una nazione considerata l'esempio vivente di una nazione che è potuta crescere economicamente grazie a quella deregolamentazione dei mercati che ha caratterizzato il cosiddetto neoliberismo. Tesi che lo studioso indiano ha più volte contestato, come d'altronde dimostra il ponderoso volume Caos prossimo venturo pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno. Un libro che prevedeva l'eclissi del neoliberismo. Prem Shankar Jha sarà oggi a Torino, dove terrà una «lezione» proprio sulla realtà originata dalla crisi, prefigurando ancora anni di «caos», indipendentemente da quanto sostengono alcuni commentatori sulla fine della crisi economica.

Capitalismo e democrazia. Due termini spesso in conflitto, nonostante la retorica sulla loro indissolubilità. Cosa ne pensa di questa «querelle»?
Storicamente, la democrazia politica è stata voluta dalla borghesia per contrastare il potere dei proprietari terrieri e dell'aristocrazia. Poi è stata usata dal movimento operaio per contrastare il potere del capitale, dando vita all'intensa, seppur breve stagione dei diritti sociali. Stagione tuttavia che ha reso la democrazia e il capitalismo come realtà in conflitto. Per me, sono da considerare come fratelli siamesi. Aggiungo, però, che stiamo parlando di un contesto molto preciso, quello dove lo stato-nazione esercitava la sovranità sulla nazione. La globalizzazione ha lentamente ridimensionato, se non distrutto lo stato-nazione. C'è stata l'unificazione dei mercati nazionali in un unico, grande mercato, mentre le imprese manufatturiere e finanziarie sono diventate globali e profondamente antidemocratiche. Ogni azione politica deve essere quindi globale, come le imprese. È questa la cornice antro la quale agire politicamente per ridimensionare il potere del capitale e per sviluppare l'equivalente globale di ciò che è stato il welfare state.

In «Caos prossimo venturo», lei sosteneva che la crisi dell'economia mondiale era una probabilità che non poteva essere esclusa. Il bailout delle borse ha drammaticamente confermato la sua analisi. Alcuni studiosi e economisti, come Immanuel Wallerstein, ora scrivono che la crisi attuale possa coincidere con la fine del capitalismo e con lo sviluppo di una economia di mercato senza capitalisti. Tesi molto provocatoria, non crede?
Inviterei alla cautela. È difficile infatti pensare una economia di mercato senza la proprietà privata. Più realisticamente il nodo da sciogliere è come affrontare la crisi e nessuno ha ricette pronte. Durante il cosiddetto ciclo neoliberista abbiamo assistito al divorzio tra stato-nazione e l'attività economica, fattore che ha messo fine all'«alleanza» tra il potere politico e le imprese. La crisi, invece, ripropone con urgenza un rinnovato controllo e regolazione nella circolazione dei capitali e della finanza; assieme a un maggiore rigore nella certificazione dei bilanci delle imprese. Infine, la crisi economica può favorire un cambiamento negli assetti proprietari delle imprese, come imprese a capitale misto pubblico e privato; oppure forme inedite di proprietà «sociale». Più che fine del capitalismo parlerei quindi di una trasformazione del capitalismo.

Green economy: è la parola magica per uscire dalla crisi. Lo dicono e scrivono in tanti. Il personaggio più noto a usarla è il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha illustrato la sua azione per favorire lo sviluppo di uno sviluppo economico sostenibile e compatibile con l'ambiente. Una lieta novella, non crede?
L'«economia verde» è proprio una parola magica, proprio come lo fu carbone in un mondo dove il vento e l'acqua costituiscono le uniche potenze energetiche usate nell'attività produttiva nel diciassettesimo secolo. Le stesse speranze sulla possibilità di uno sviluppo economico duraturo sono state rinnovate con il petrolio agli inizi del Novecento, il motore a scoppio, fino all'ultimo prodotto, il computer, che doveva, al pari degli altri esempi che ho fatto, garantire lo sviluppo ecconomico. Per il momento, tuttavia non ci sono tecnologie «ambientaliste» che possono essere sfruttate economicamente, cioè che possono fare da traino alle attività produttive. Quindi ci sarà un'«economia verde» solo quando si creeranno le condizioni che hanno portato il carbone, il motore a scoppio, il petrolio, l'automobile e il computer a essere fattori energetici e prodotti che potevano essere usati o prodotti secondo precisi requisiti economici e altrettanti prevedibili profitti. Allo stato attuale, per quanto riguarda le fonti energetiche non c'è infatti nessuna «vera» alternativa al petrolio. Né esistono al momento attività produttive che possono sostituire quelle attuali.

Il neoliberismo ha alimentato la crescita di forti diseguaglianze sociali, proprio quando veniva alimentata la speranza che la ricchezza avrebbe trovato nel mercato uno straordinario strumento di redistribuzione. Lei, invece, ha spesso sostenuto il contrario, cioè che l'essenza dell'economia mondiale erano proprio le diseguaglianze sociali. In questo mondo in fibrillazione c'è chi guarda alla crisi come a una possibilità per politiche sociali più egualitarie....
Quest'ultima è proprio un'opinione bizzarra basata su un errore logico che scambia le coincidenze con la causalità. Potrebbe certo accadere che una società industriale privilegi politiche sociali più eque. Ma viviamo in un'economia di mercato dove le differenze di reddito determinano disparità nel consumo, nel mercato del lavoro e precarietà nei rapporti di lavoro. È quindi auspicabile la presenza di interventi politici tesi a ridurre le diseguaglianze sociali. Ma per questo serve limitare il potere delle imprese e favorisca la redistribuzione della ricchezza. Non vanno però nascoste le difficoltà che incontrerebbe tale azione politiche in un mondo globalizzato che vede la messa all'angolo degli stati nazionali, il luogo e il contesto cioè dove far crescere gli interventi politici necessari per ridurre le diseguaglianze sociali. Questo non significa che non bisogna comunque provarci. Lo ripeto: la necessità di una regolamentazione dell'economia è necessaria anche perché l'economia e la finanza lasciate libere di fare ciò che volevano hanno determinato questa crisi.
ilmanifesto.it

24.4.09

Ragazze in fuga

Letteratura/tendenze Dopo anni di voyeurismo e porno soft, le giovani scrittrici tornano a raccontare la famiglia. Disfunzionale e violenta. Con le istruzioni per evadere e ricostruire il mondo

di Benedetta Marietti

Chi focu chi 'ndi vinni". Che inferno ci è toccato. La frase è di zia Nuccia, ma per Caterina, bimba di dodici anni che a sentirla gridare ha i brividi, quella frase è segno di un disastro incombente. Soprattutto se la famiglia in questione è costretta a scappare da Nacamarina, paesino sconosciuto della Calabria, per una sciagura macchiata dai legami con la 'ndrangheta. La protagonista non c'entra nulla, ma "all'interno di una famiglia come quella che descrivo, nessuno è mai innocente perché i legami sono troppo intensi, indissolubili", dice Rosella Postorino, 31 anni, autrice di L'estate che perdemmo Dio, in uscita in questi giorni per Einaudi/Stile Libero. Dopo il romanzo d'esordio, La stanza di sopra (Neri Pozza), Postorino torna ai temi del senso di colpa, della separazione, del segreto, con una scrittura poetica e cinematografica, capace - fotogramma per fotogramma - di dilatare il tempo e le sensazioni. La frase della zia è il motore della narrazione. Dopo quella rivelazione, nulla sarà più uguale: "gli eventi avrebbero preso una piega nuova, stavano sterzando in una direzione sconosciuta ancora a tutti, eppure inevitabile". Caterina dovrà cercare la sua libertà in "Altitalia", un posto "dove le strade erano pulite ma piene di curve, gli edifici erano bassi e finivano con i tetti rossi, come quelli dei Lego". Con i ricordi familiari che la inseguono. Speculare è la vicenda di Thea, la protagonista di Una bambina sbagliata, romanzo d'esordio di Cynthia Collu che Mondadori sta lanciando come "caso letterario" della stagione. Catapultata da una Sardegna arcaica e selvaggia a Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano, un susseguirsi di palazzi popolari che crescono come funghi, abitati soprattutto da meridionali, la piccola Thea è intrappolata da un padre alcolizzato e violento e da una madre incapace di amare. "Il romanzo nasce da suggestioni autobiografiche", spiega Collu. "Sentivo il desiderio di parlare della mia storia familiare per cercare di capire da dove vengo e che cosa sono diventata". Basta con la letteratura voyeuristica alla Melissa P., Berarda Del Vecchio, Marilù Manzini e Pulsatilla. La nuova ondata di scrittrici italiane guarda oltre il proprio ombelico, recuperando la tradizione del romanzo familiare e una lingua letteraria spruzzata talvolta di espressioni dialettali. Suggestioni biografiche o meno, la famiglia (italiana) resta il luogo più naturale da descrivere: un pozzo inesauribile di sentimenti contraddittori, segreti inconfessabili e dinamiche disfunzionali. La parabola di Gisela Scerman è da questo punto di vista esemplare: dopo aver esordito nel 2007 come Gisy Sherman con il romanzo feticista La ragazza definitiva (Castelvecchi), oggi propone Vorrei che fosse notte (Elliot), dove ricostruisce la propria infanzia malinconica in un paese del vicentino, mortificata dalla presenza di uno zio autoritario e crudele e dalla scoperta dell'esistenza del male. "Me ne sono andata di casa a 17 anni per disintossicarmi da un ambiente malato", racconta. "Nel paesino di montagna, incastrato tra due valli, dove ho vissuto, la dignità e la normalità esibite dalle famiglie erano solo apparenti. Troppe volte le violenze private erano taciute per la vergogna e la paura delle malelingue. In quei luoghi si può fare tutto, basta che non si sappia in giro. E tutto rimane uguale. In città, invece, c'è molta meno ipocrisia. Il mio trasferimento a Modena è stato una liberazione". Con la liberazione, è anche arrivata la consapevolezza. "In questo romanzo volevo raccontare quell'inferno, facendo però un passo indietro rispetto a quella materia ancora adesso incandescente". L'escamotage? Prestare la sua voce al bambino protagonista. A volte il posto in cui si approda non è però così risolutivo, magari apre altre ferite, come l'emarginazione e il razzismo. "I luoghi sono fondamentali per l'equilibrio di una famiglia", dice Collu. "Spesso mancanza di radici affettive e territoriali coincidono. E l'immigrazione amplifica i problemi, soprattutto se è vissuta come un obbligo e non come una scelta. Penso alla Milano degli anni 50, quando molti meridionali provavano l'alienazione del lavoro in fabbrica e il disagio di essere "terroni"". Oggi quel disagio si è spostato sulle coppie miste. In Quelle stanze piene di vento (Einaudi/Stile Libero), Francesca Di Martino descrive una Napoli corrotta e decadente, dove si consuma l'amore disperato tra due giovani migranti: il tunisino Alì e la pugliese Teresella. E dove si riflette anche lo sguardo della voce narrante, Anna, un'intellettuale alle prese con la propria solitudine, fuggita da un paesino incolore sul lago di Garda per chiudere una volta per tutte i conti con un passato doloroso. "La pressione sociale sulle coppie miste è diventata insostenibile. Napoli non è mai stata una città razzista, ma in questi tempi di crisi hanno attecchito pregiudizio e intolleranza. E allora si cerca il capro espiatorio". L'amore che lega gli esuli diventa quasi impossibile. "L'unica speranza è che la tragedia aiuti la gente a capire". Nei romanzi - come spesso accade nella vita - sono sempre le donne la forza dirompente che corre verso un futuro alternativo. "Per salvare i figli siamo capaci di ribellarci a un destino che ci va stretto, e di guardare avanti. Progressiste e coraggiose", commenta Postorino. "Come Laura, la madre di Caterina, che pur venendo da un ambiente provinciale e da un'estrazione sociale "bassa", vuole liberarsi dalla cultura mafiosa". Così il suo trasferimento al Nord, pure in mezzo a tante difficoltà, è una rinascita. E una condanna per Salvatore, il marito, intrappolato dal senso di colpa per aver abbandonato la sua famiglia d'origine. Accade anche nel romanzo di Cynthia Collu, dove Angela, la madre di Thea, reagisce al trasferimento a Milano con grinta, senza lasciarsi andare come il marito. "Angela è una donna che per sopravvivere si è indurita", racconta l'autrice. "Non ha ricevuto amore quand'era piccola e non riesce ora a darlo ai suoi figli. È povera, ignorante, non ha gli strumenti per comprendere. Ed è sopraffatta continuamente da un quotidiano brutale, che non le permette di esprimere i propri sentimenti. Ma riesce comunque a offrire ai figli un futuro diverso dal suo. Del resto, la maternità è una conquista, e a essere madri si impara solo con fatica". Così le figlie spezzeranno definitivamente la catena di un destino che si ripete di generazione in generazione. Caterina, Thea, Teresella, il bambino senza nome di Vorrei che fosse notte, reclamano il proprio diritto alla felicità. E riescono a salvarsi grazie anche alla capacità, propria dello scrittore, di saper raccontare una storia vera, la loro. "Caterina è la più forte della sua famiglia perché è l'unica dotata del potere dell'immaginazione", spiega Rosella Postorino. "È attratta da ciò che è bello, da ciò che è magico, e in questa maniera riesce a proiettarsi in un altrove. La conoscenza le permette di ribellarsi lucidamente alla cultura da cui proviene. E di accedere alla speranza, anche se è un percorso faticoso. Un bambino si sente sempre responsabile del dolore dei genitori. Ma può liberarsene se riesce a fuggire nella letteratura. È questo l'ultimo atto di fuga possibile. Un atto non più fisico, ma intellettuale. E questa possibilità di costruire mondi "altri" è forse il passo decisivo verso la ricerca della felicità".

Storie sfilacciate di ricordi "È successo: ha provato in tutti i modi a sfuggire il dolore, ha provato a cambiare strada, a ingannarlo, a diluirlo, sperando che prima o poi traboccasse dal corpo, non avesse più nulla a che fare con lei. Ha cancellato ricordi come disegni sconci sulla lavagna, li ha camuffati, li ha rivestiti, sono stati Cenerentola al ballo prima della mezzanotte, a volte sono risaliti a galla come rifiuti tra le barche del porto, e non ha potuto fare a meno di vederli, di nuovo lì, di nuovo un bagaglio recapitato dall'ufficio oggetti smarriti, e coi pezzi che si ritrovava, scomposti, disordinati, incandescenti a toccarli, lei ha cucito una storia, tutta storta, sfilacciata, stasera le sembra di sgranarla come un rosario tra le mani, e anche se trova buchi, e rattoppi, e nodi che non saprebbe mai sciogliere - ci vorrebbe nonna Màrgara, è lei l'esperta di fili - anche se attraversa le lenzuola sotto cui è stesa, stasera, come un ricamo sbilenco, raffazzonato, stretto fino a rovinare la stoffa, in fondo nessuno potrebbe dirle che non è vera, che è diversa, in fondo Caterina lo sa che è questa la sua storia. Che questa storia è proprio sua". da L'estate che perdemmo Dio (Einaudi/Stile Libero) di Rosella Postorino

Quella ragazza giapponese "Nel paese faceva scandalo che arrivassero, per poi rimanere, persone straniere, fossero queste anche di altre province poco distanti di lì. Del resto non c'erano altri umani al di là dei montanari, e di quei pochi operai che in alcuni giorni facevano brevi soste per lavoro e per commissioni dai confini vicini. In particolare fece scandalo una ragazza giapponese dai capelli neri, lisci, lunghissimi che le cascavano addosso, di nome Yoshi. Si diceva facesse l'intrattenitrice in un night a Kyoto. Da quando il marito montanaro Nardo era ritornato in Italia con lei, era sempre stato visto di cattivo occhio anche dagli stessi altri montanari, per i suoi noti tour del sesso all'estero. Col passare del tempo lui era pure peggiorato di carattere; nonostante non andasse più molto in giro per il mondo, lo stravizio continuava a coltivarlo lì, ad un ponte famoso nel paese, unica fonte di attrazione notturna". da Vorrei che fosse notte (Elliot) di Gisela Scerman

Il corpo di mio padre "Mi sembra strano sentire che mio padre si affidi completamente a me, che sia felice del nostro contatto fisico: così stretti non siamo mai stati. Se non avesse la paralisi sono certa che adesso ce ne andremmo insieme a zonzo, due vagabondi che non sono stati capiti in famiglia, due scansafatiche, due anime perse, artisti a nostro modo nel disegnare cieli intrappolati dal sole e ruscelli d'ombra nei quali riposare. Cercheremmo insieme le pere selvatiche e i fichi d'India, ascolteremmo sotto un ulivo il canto delle cicale e ce ne staremmo beati così, senza nulla dare e nulla chiedere. Papà mi porterebbe a vedere la sua spiaggia. Aspetteremmo. Aspetteremmo a lungo la voce del mare. Si ferma di colpo, scrolla la testa: "eh, eh!" mi dice con tristezza e si batte la gamba ribelle. Gli occhi gli si appannano e la mano si stringe alla mia. È il discorso più intimo che mi abbia mai fatto nella sua vita. Il più prezioso". da Una bambina sbagliata (Mondadori) di Cynthia Collu
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Se lo stato non vuole incassare il dividendo digitale

di Tommaso Valletti

L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all'estero i governi mettono all'asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)
COS'È IL DIVIDENDO DIGITALE
Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.
COSA ACCADE ALL'ESTERO
Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L'analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)
IL CASO ITALIA
E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.
(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.
lavoce.it

L'ENCICLOPEDICO RABDOMANTE DEL LIBERALISMO - Il pigro democratico

di Toni Negri

Escono finalmente per Feltrinelli le «Lezioni di storia della filosofia politica» di John Rawls. Un'opera monumentale che cerca di legittimare, cercando nei classici, l'anima imperiale dei paesi liberali. E che considera i conflitti sociali, di classe e di potere come incidenti di percorso nel buon governo della società

Chi sono i fondatori del pensiero politico moderno? Quelli che elenca e studia John Rawls nelle sue Lezioni di storia della filosofia politica (traduzione di Valeria Ottonelli, Feltrinelli, pp. 514, euro 45), e cioè Hobbes, Locke, Hume, Rousseau, Mill eccetera, oppure lo sono Machiavelli, Thomas Muentzer, Harrington, Spinoza, Voltaire, Diderot eccetera, che Rawls non cita neppure? Devo ammettere che talvolta, piuttosto che scrivere una recensione, verrebbe voglia di fare un'esecuzione. Io voglio bene a Rawls, ho imparato moltissimo dal suo pensiero negli anni '60 quando lui era ancora liberal. Quello che non sopporto è la teologia dell'Occidente, il contrattualismo liberale, quella storia della filosofia morale che si pretende inevitabile teoria politica. È insopportabile. Lo è sempre stato ma nessuno si permetteva pubblicamente di dirlo perché questo tipo di filosofia e di storia della filosofia costituivano ancora la faccia decente di un neoliberalismo imperiale e capitalista, indecente e trionfante. Bisognava pur salvare gli stracci.
Ma ora, nella crisi, perché continuare a osannare virtù storiografiche ambiguamente o completamente soggette ad un progetto politico che la crisi attuale rivela con tragici effetti e mostruosa efficacia?

Il dovere del liberale
Com'è costruito questo libro? Si comincia con una definizione della filosofia politica, che è in realtà definizione del solo liberalismo come determinazione politica effettuale. Di essa, non si può dire che contenga un'autorità specifica, e cioè che sia la più adeguata a governare, ma sicuramente si può dire che conta, perché essa è riflessione sull'esistente - e l'esistente è quella democrazia politica. Un'altra concezione della giustizia o del bene comune può forse essere data: ma dove sta la sua attualità? Questa è il forzoso presupposto del discorso di Rawls. È chiaro che si può obbiettare, come Hume avrebbe fatto, che questa posizione non è altro che un «a posteriori» trasformato in un «a priori».
Dall'altra parte che c'era di diverso nella formulazione del fondamento di «giustizia come equità» in Rawls? «I due principi della giustiza come equità sono: a) ciascuna persona ha lo stesso diritto indefettibile a uno schema pienamente adeguato di libertà fondamentali eguali, che sia compatibile con lo stesso schema di libertà per tutti; e b) le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, che debbano essere collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equaeguaglianza di opportunità; e, secondo, che debbano essere per il più grande vantaggio dei membri meno avvantaggiati della società». Che cosa significa questa arzigogolata definizione? Che la libertà e l'eguaglianza (dati a posteriori - così come storicamente sono) vanno riconosciute come campi di realizzazione di un «dover essere» (a priori).
C'è nulla di più banale? E perché non ci si chiede quali siano le condizioni nelle quali consistono i campi di realizzazione del «dover essere»? Eppure è vero che qui la speranza non è cinicamente esclusa. Ma basta sperare?

Da Hobbes a Marx
A che pro' continuare nella descrizione di questo libro? Si continua con una serie di analisi: del pensiero di Hobbes (giustamente valutato come un liberale: il dibattito se lo fosse o meno non sarà mai chiuso da chi costruisce la libertà sul potere, quali che siano i paradossi che ne risultano); di Locke (qui il contrattualismo si mostra lucidamente e pacificamente nello stringere un rapporto indissolubile fra legittimità sovrana e classe borghese: pensate che possa darsi altro contrattualismo? Altro da questo suo fondamento assoluto lockeano, si interroga Rawls); di Hume (quasi uno scandalo il suo empirismo ed il suo illusionismo radicale, ma si sa che nessun assoluto può vivere senza uno scetticismo adeguato e compatibile); di Rousseau (bravo... ma è così irresoluto nel passaggio dall'idea del «contratto» alla realtà del «patto» che il suo individualismo resta opaco); di John Stuart Mill (infine... che brav'uomo, il contrattualismo, pur radicandosi nell'individualismo più strenuo, è finalmente aperto anche alle femmine ed a aspetti caritatevoli che possano anticipare un welfare future...); e infine di Marx (considerato, in maniera tanto subdola quanto riduttiva ma, in questa prospettiva, probabilmente esatta, un filosofo della giustizia liberale quando lo si valuti, come fa Rawls, semplicemente sulla base della sua teoria del valore). Le due appendici su Sidgwich e Butler, autori che spaziano fra il sette e l'ottocento, riarticolano nella tradizione anglosassone più remota le storie che abbiamo fra le mani.
Il libro è molto intelligente - è l'intelligenza pigra della classe media colta, direbbe Veblen. Schematismi, rinvii consueti, ripetizioni si susseguono: la cura del libro è ottima. La cura offerta dagli editori alle lezioni di Hegel fu indubbiamente meno prolissa. Ma soprattutto è un libro di storia della teoria del contratto e della sua eterna funzione nella fondazione del pensiero politico. Ma è legittima questa pretesa? Mi ripeto: supponiamo che la teoria del contratto possa spiegare l'ordine presente, quando esso si dà nella sua stabilità. È tuttavia certo che non può rappresentarne la crisi. La crisi è insopportabile: essa viene infatti sempre, consapevolmente, sia da Hobbes come da Locke, sia da tutti i contrattualisti, rigettata nel passato, rinviata ad uno stato iniziale di natura bellicosa, critica: ma il pensiero politico ed il mondo della politica (vi riassicurano subito i contrattualisti) nascono e si mantengono dopo che la crisi è stata superata. Questa è pura e semplice metafisica, ideologia, Plato redivivus! Che bella differenza dall'ontologia politica, per esempio, del Segretario fiorentino o dell'ebreo olandese o dell'enciclopedista, laddove la crisi è costante e la politica è la sua gestione continua e la filosofia è la critica continua della gestione!
Dicevamo libro di filosofia, ma appunto libro di una filosofia ideologica. Dicevamo libro non storico: perché la storia della filosofia, esattamente come la storiografia civile, non ha più nulla a che fare con queste liste di ritratti, con queste serie scolastiche e con queste celebrazioni di concetti. Anche i libri di storia della filosofia (e soprattutto di filosofia politica) dovrebbero ormai - è passato un cinquantennio da quando questa riforma è intervenuta - tener presente la lezione degli Annales, l'insegnamento cambridgiano di Skinner e di Pocock, e poi soprattutto il lavoro del post-strutturalismo francese dove la produzione di soggettività diventa il centro della processualità storica. La storia della filosofia, dopo Foucault, va reinventata per farla vivere altrimenti, nel gioco di discontinuità e creazione.

La rigida disciplina
Scusatemi questo sfogo, ma è ora di affrontare in termini non sacrali, comunque irrispettosi, una tradizione nella quale si mostrano ormai non solo mancanza di vigore ma insensatezza. Sono libri noiosi, questi che ci fanno leggere; libri troppo dispendiosi che le biblioteche universitarie debbono comperare; libri che ripetono un'ideologia consunta e spandono tossine del tipo di quelle che le banche americane hanno messo in giro negli ultimi anni. Rawls non c'entra: malgrado tutto, quando gli si vuol bene, si riconosce al suo discorso un lieve, lievissimo afflato sessantottesco. Ma c'entra tutto il resto. C'entra quel modello di studi che da Weimar a Oxford a Harvard, ormai da secoli, ha invaso la cultura occidentale imponendone la potenza politica anche quando le sue articolazioni e le sue argomentazioni culturali erano flebili.
Un modello disciplinario rigido che costruisce la struttura del sapere in maniera adeguata agli interessi della classe dominante. Ci fu chi, di fronte a situazioni analoghe, propose «di rompere i vasi Ming»! Non credo che sia questo il momento di farlo, anche perché i nuovi teologi-politici dell'anarchismo e i niceani impuniti continuano a proporcelo. Ed anche perché nelle università di filosofia italiane, se si togliesse di mezzo quel tipo di storiografia filosofica, non si saprebbe più cosa fare, non ci sarebbero nemmeno più argomenti di tesi da proporre. Quindi, che fare? Per chiudere, fermiamoci su un ultimo aspetto del discorso di Rawls che ci sembra tipico dell'allure talora lievemente sessantottina del suo procedere. Ragionando sul pensiero di Marx, Rawls sottolinea che l'idea della pianificazione vi è centrale per la definizione del comunismo. Ora, aggiunge Rawls, noi siamo individualisti, non comunisti. Ma, attenzione, adesso che il socialismo sovietico è finito, non buttiamo, con questo, anche l'idea razionale di piano. Essa può essere un'idea di buon governo per riassestare il corso della storia e per sanare i momenti di cattiva sorte del capitalismo: benvenuto Mr. Obama!

ilmanifesto.it

23.4.09

Tutto va bene

di Galapagos
C'è sempre un fondo nei precipizi qualunque sia la loro profondità e affermare che la crisi economica è destinata prima o poi a terminare è una banalità. Meno banale è l'uso che si fa di queste affermazioni. Come ha sostenuto ieri Guglielmo Epifani il governo sparge ottimismo per nascondere le proprie responsabilità politiche di inazione nella gestione della crisi. Insomma, non fa nulla promettendo che già nel secondo semestre dell'anno si avvierà la ripresa.Il primo ottimista è stato Tremonti, affermando che la crisi della banche era risolta. Ergo: con la soluzione della crisi finanziaria si avvierà a soluzione anche la crisi dell'economia reale. Ma non la pensa così il Fondo monetario internazionale che oltre a diffondere un paio di settimane fa cifre sconvolgenti sull'arretramento del Pil mondiale nel 2009 (oltre il 4% per l'Italia) in un rapporto presentato ieri ha fatto sapere che la crisi finanziaria costerà tantissimo ai governi (e a cascata ai contribuenti) visto che stima in 4 mila miliardi di dollari la cifra necessaria per mettere una «pezza» alle follie finanziarie del sistema bancario. Di più: l'Fmi sostiene anche che dell'importo reale degli asset tossici in circolazione ne sappiamo ancora pochino e i 4 mila miliardi di dollari potrebbero rivelarsi una somma inadeguata a coprire il «buco».L'ottimismo di Tremonti ha fatto breccia nella Marcegaglia e altri imprenditori. Ieri al coro degli ottimisti si è aggregato il ministro Scajola secondo il quale non c'è da temere visto che in marzo gli ordinativi dall'estero sono aumentati. Il problema è che non aumentano (lo dice la Confindutria) quelli dall'interno, visto che masse di lavoratori vengono progressivamente emarginate. Lo conferma un dato della Cisl: nel primo trimestre nella sola Lombardia 15.410 lavoratori hanno perso il posto e 1.126 imprese (al 10 marzo) hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, che significano 700-800 euro di Cig. Insomma, stiamo diventando un paese nel quale cresce la povertà relativa e l'emarginazione.Una conferma è arrivata ieri da un'audizione parlamentare di Andrea Brandolini, un dirigente della Banca d'Italia, secondo cui, cifre alla mano, negli ultimi 15 anni gli operai e gli impiegati sono diventati più poveri perché «si sono verificati movimenti ridistributivi orizzontali che hanno modificato le posizioni relative alle classi sociali». Per buon peso occorre citare R&S, l'istituto di ricerche di Mediobanca che analizza oltre 2 mila imprese italiane ricavandone che la quota dei profitti (e delle rendite) negli ultimi 20 anni è cresciuta a dismisura mentre è precipitata la quota dei salari e del costo del lavoro. Come ha sostenuto recentemente Emiliano Brancaccio, la riduzione dei salari è un vantaggio per una singola impresa, ma a livello globale i salari sono domanda di consumi. Conseguenza: se la distribuzione del reddito penalizza i salari alla fine ci sarà una crisi di sovraproduzione delle imprese e una di sotto consumo dei lavoratori. E un governo che non fa nulla per i lavoratori vaticinando una ripresa in tempi brevi fa solo politica classista, anziché impegnarsi in una politica redistributiva e dover pietire perfino i soldi per fronteggiare l'emergenza terremoto.
ilmanifesto.it

22.4.09

Dovevamo partecipare e batterci

di Sergio Romano

Come la conferenza precedente, anche «Durban II» si è conclusa con un comunicato pasticciato, zeppo di buoni propositi ed esortazioni generiche, privo probabilmente di pratiche conseguenze. Le posizioni, dentro e fuori la conferenza, erano troppo distanti.
I Paesi ex coloniali credono, non senza qualche ragione, che «razzismo» fosse quello dei conquistatori e non accettano lezioni morali dai loro vecchi padroni. I Paesi musulmani pensano che le critiche all’islamismo e il dileggio delle loro credenze siano colpe più gravi della durezza con cui i loro governi trattano gli oppositori. I Paesi arabi, in particolare, ritengono che lo Stato israeliano abbia usurpato le loro terre e trattato i loro connazionali come cittadini di seconda categoria. I Paesi occidentali non intendono rinunciare agli illuminati principi della loro migliore tradizione filosofica e chiedono al mondo di rispettarli. Ma quando un membro della loro famiglia li ha platealmente violati nel carcere di Abu Ghraib, a Guantanamo, nella pratica delle «consegne straordinarie» e persino nelle istruzioni impartite dal suo governo ai propri servizi di sicurezza, i cugini occidentali hanno chiuso un occhio o, addirittura, prestato la loro collaborazione. Sperare, in queste circostanze, che la conferenza di Ginevra potesse produrre una linea concordata, utile ed efficace, era ingenua illusione. Come tutti gli esercizi inutili, anche questo potrebbe lasciare una coda di risentimenti e rendere le grandi crisi internazionali ancora più imbrogliate e avvelenate.
Che cosa avremmo dovuto fare di fronte a un tale mostro diplomatico? Partecipare o restarne fuori? Per rispondere a queste domande sono state espresse molte opinioni, fra cui quelle, appassionate e bene argomentate, di Angelo Panebianco e Paolo Lepri sul Corriere degli scorsi giorni contro la partecipazione. Proverò a sostenere la tesi opposta.
La conferenza di Ginevra non è una iniziativa privata. È un incontro promosso dall’Onu, nell’ambito delle sue attività istituzionali, e inaugurato dal suo segretario generale. Sapevamo che sarebbero stati pronunciati discorsi intolleranti e inaccettabili. Ma è forse la prima volta che propositi di questo genere turbano un dibattito delle Nazioni Unite? Decidemmo di boicottare l’Assemblea generale quando Nikita Kruscev si tolse la scarpa per batterla sul leggio del suo scranno e annunciò che il comunismo ci avrebbe sepolti? Gli assenti, a Ginevra, hanno dato agli altri la sensazione di non tollerare la sconfitta, di non voler essere minoranza.
Questa non è diplomazia: è una forma di presuntuosa arroganza. Noi italiani, in particolare, abbiamo dimenticato le parole di Giovanni Giolitti ai deputati che si erano ritirati sull’Aventino dopo il delitto Matteotti: «A mio avviso dovreste rientrare alla Camera». E quando il socialista Giuseppe Modigliani replicò «Per fare a revolverate?», il vecchio di Dronero rispose «Può darsi». Intendeva dire che persino la durezza del dibattito può essere preferibile a un atteggiamento che si propone d’inceppare un meccanismo istituzionale.
Avremmo dovuto andare a Ginevra per affermare le nostre verità, rintuzzare le faziose parole di Ahmadinejad, separare i faziosi dai ragionevoli (esistono anche quelli), comprendere le ragioni degli altri, lasciare agli atti della Conferenza programmi e concetti a cui avremmo potuto fare riferimento in altri momenti e circostanze. La Santa Sede lo ha fatto e ci ha dato, in questo caso, una lezione di laico buon senso.
corriere.it

La Lombardia e la legge anti-kebab

Anche per gelati e panini vietate le consumazioni sui marciapiedi dei locali

Giro di vite in Lombardia per take-away, kebaberie, ma anche gelaterie, pizzerie d'asporto, rosticcerie e piadinerie. Saracinesce giù tassativamente non oltre l'una del mattino. Posate e bicchieri usa e getta. Vietato consumare sui marciapiedi fuori dai locali. Pena sanzioni fino a 3 mila euro. Era nata dietro la spinta della Lega, per arginare il «fenomeno kebab», i locali arabi aperti giorno e notte, a centinaia solo nei capoluoghi. E per combattere «gli assembramenti» sui marciapiedi, fuori dai ritrovi etnici. Ma sei mesi di revisioni hanno trasformato il progetto di legge «anti-kebab», per ammissione degli stessi esponenti della Lega, in un provvedimento punitivo per tutti gli artigiani del fast food. Oltre seimila in Lombardia.

La leggina, varata ieri dal Consiglio regionale, in soli sei articoli mette fine «all'anarchia del take-away». Impone limiti contro l'inquinamento acustico. E orari rigidi, anche se non da coprifuoco come chiedeva una delle prime stesure del testo: «Consentita l'apertura dalle 6 del mattino alla una del giorno dopo — spiega Daniele Belotti, bergamasco e consigliere della Lega —. I kebab fino ad oggi non avevano orario». La legge pone dei limiti ai quali solo i sindaci potranno derogare. «Uno strumento in più per la sicurezza», aggiunge il capodelegazione del Carroccio in giunta, Davide Boni. Ma a far discutere è l'articolo 2-comma 2, che «vieta il consumo dei prodotti negli spazi esterni al locale». Cavillo necessario, come spiega il relatore della legge, Carlo Saffioti (Pdl), «per evitare che tali locali chiedano l'autorizzazione ad installare un dehor». Non una panchina, né sedie o ombrelloni di fortuna. Comma necessario forse, ma anche ambiguo quanto basta. «Serve ad evitare assembramenti», dicono dal fronte Lega.

«Penalizzante per tutti. Ci vietano pizza e birra — aggiungono dal centrosinistra Carlo Monguzzi dei Verdi e Ardemia Oriani del Pd —. Ve l'immaginate fuori dalla panzerotteria di Luini, dietro al Duomo, a mezzogiorno? O da Chocolat dietro alla stazione Cadorna, dove c'è la ressa in strada, inverno ed estate, di gente che gusta un cono di gelato? Ci penseranno i vigili ad allontanare gli avventori?». E mentre c'è chi si domanda a chi toccherà vigilare, esulta il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato che da settimane tiene il fiato sul collo alle 350 kebaberie della città con un'azione congiunta di vigili dell'Annonaria e veterinari della Asl. Operazione che ha portato, non più tardi di una settimana fa, ad individuare alla periferia Nord della metropoli un deposito abusivo di carne che riforniva da 3 anni i kebab di mezza regione.
corriere.it

Lost in translation

Not for the first time, Mahmoud Ahmadinejad has got everyone scrambling for their Farsi phrasebooks. The Iranian president did not describe the Holocaust as “ambiguous and dubious” in his speech to the UN conference on racism, as first reported. He dropped the phrase at the last minute, but not in time for it to be deleted from the English text handed out by his officials after he spoke. In either version, Mr Ahmadinejad is hard put to disguise the views of a crude anti-semite. And that colours how people see his remarks on the establishment of Israel. Nobody is going to get anywhere discussing 1948. Matters will only progress if all sides address the here and now.
Israel has a prime minister in Binyamin Netanyahu who told Barack Obama that if the US does not stop Iran from getting the bomb, Israel will. What greater vindication of Mr Netanyahu’s view that the Iranian nuclear programme represents an existential threat to Israel can there be than the sentiments just expressed by the Iranian president? Further, Mr Netanyahu uses the threat of Iran as a way of avoiding having to deal politically with Hamas as a Palestinian resistance movement. He describes Hamas as an extension of Iran’s power. Nor are the Palestinians any the less hostile to the notion of an Iranian supposedly championing their cause.
Washington has been drawing the opposite conclusions about how to restart talks with Iran. Mr Obama appears to have made a concession in dropping the precondition that uranium enrichment be suspended before talks can start. The US could soon be talking with Iran with the centrifuges spinning. But those talks will swiftly be undermined if the view gains hold that Iran is playing for time, in the knowledge that within one or two years it would have the material it needs to build a bomb. As it is, it is difficult enough to discern the Islamic republic’s real intentions, such are the rivalries that exist between competing power structures. Has the Iranian president, on a rare outing to Geneva, done anything to reassure the new US administration that its pragmatism will pay off ? It is in his country’s interests that he does. Mr Netanyahu must be thanking Allah for the Iranian president’s timely intervention, as he prepares for his first visit to Washington.
But Mr Obama’s effort to avert another war in the Middle East is not the only potential victim of a disastrous speech. It is grist to the mill of UN haters, whose lobbying scared the US away from the conference. It makes whatever desire there is within the UN to investigate allegations of Israeli war crimes in Gaza that much harder to realise, as the UN as a whole is tainted by the Iranian leader’s presence at one conference. No wonder Ban Ki-moon was furious with him.
The Guardian

21.4.09

Solidarietà e referendum

Mario Deaglio

Il finanziamento della ricostruzione dell’Aquila pone una serie di problemi complessi che vanno dalla politica economica alla lotta politica e che partono da un’osservazione fondamentale: i soldi per la ricostruzione non possono essere spesi tutti subito ma, per i tempi tecnici della spesa - ai quali si spera che non si debbano aggiungere ritardi anomali della burocrazia - dovranno essere «spalmati» su un certo numero di esercizi finanziari, diciamo 3-4 anni nel migliore dei casi.
Sarebbe appropriato che il prossimo Consiglio dei Ministri indicasse, sia pure a grandi linee, non solo l’ammontare della spesa complessiva ma anche la sua probabile scansione temporale. In ogni caso, se si accetta per buona la stima sommaria di 12 miliardi di euro, l’entità della spesa equivale all'incirca a una manovra finanziaria. Anche se tale spesa sarà diluita in qualche anno, occorre domandarsi come possa digerire una medicina così pesante un paziente qual è l'economia italiana, già appesantito da un pesantissimo fardello di debiti e deficit. E

in qualunque modo si affronti la questione, l'Europa gioca, in maniera sia diretta sia indiretta, un ruolo importante nella risposta. Direttamente, è legittimo attendersi lo stanziamento di fondi speciali europei per aiutare la ricostruzione e l'abbuono all'Italia di versamenti dovuti all'Unione Europea in questo e nei prossimi 3-4 anni. E questo perché siamo di fronte alla maggiore calamità naturale di un Paese dell'Unione Europea nel nuovo secolo e il Trattato di Maastricht prevede esplicitamente (all’articolo 103 A) un'«assistenza finanziaria comunitaria» allo Stato membro qualora questo si trovi in «gravi difficoltà» a seguito di «calamità naturali». L’aiuto dell’Unione Europea può inoltre essere indiretto in quanto all’Italia sia consentita una modifica del piano di rientro dal debito e dal deficit che era stato concordato prima del terremoto. Il che darebbe via libera al reperimento sul mercato della parte maggiore dei fondi necessari. Ci si può ragionevolmente attendere che questa «dimensione europea» del finanziamento giunga a coprire, su 3-4 anni appunto, più della metà della somma necessaria. Che fare per la parte restante? È inevitabile che si concorra con una pluralità di fonti, ciascuna di entità relativamente modesta ma dal notevole valore pratico e simbolico. Si potrebbe cominciare con qualche vendita di oro, il prezioso «metallo giallo» di cui l'Italia detiene una quantità spropositata (è al quarto posto nella classifica delle riserve auree) nel rispetto degli accordi internazionali che limitano questo tipo di operazioni. Anche se in passato analoghe proposte si sono scontrate con un’incomprensibile ritrosia, questo è il momento di metter mano, sia pure in piccola parte, ai gioielli di famiglia. Non sarebbe irragionevole pensare di ricavare, in tempi brevi, circa 400-500 milioni di euro dalle vendite delle quantità relativamente modeste di oro delle nostre riserve. Sarebbe ugualmente non irragionevole la richiesta di un contributo specifico ai parlamentari e anche a chi ricopre cariche elettive a livello regionale o locale, oltre che agli eletti al parlamento europeo: si tratterebbe, certo, solo di poche decine di milioni di euro ma sarebbero prova tangibile di solidarietà da parte di chi gode di numerosi trattamenti di favore, spesso nettamente superiori a quelli in vigore in altri Paesi europei per le medesime cariche.
Un contributo specifico dal mondo della politica avrebbe senso in un contesto in cui si pensasse a un'addizionale sui redditi elevati (sopra i centomila euro lordi annui), già colpiti da aliquote marginali superiori a quelle degli altri redditi. Si tratta complessivamente di poche persone (poco più di centomila, i «soliti noti») in un Paese in cui i redditi da capitale vengono tassati separatamente, il che riduce legalmente la visibilità fiscale dei «grandi redditi» e potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 400-500 milioni di euro. Sempre che si tratti di un’imposta una tantum e non, come è stato purtroppo frequente nella storia fiscale di questo Paese, di un’addizionale che da straordinaria diventa ordinaria. Si potrebbe anche cercare di far pagare un poco gli evasori devolvendo alla ricostruzione abruzzese una quota dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale che, in quest’occasione, potrebbe essere ancora potenziata. In questo contesto di attenta e risicata ricerca di risorse non avrebbe senso, ma sarebbe anzi un insulto alla solidarietà nazionale emersa spontaneamente in questi giorni, che una somma di poco inferiore al gettito dell’eventuale addizionale una tantum venisse scialacquata in pochi giorni con le spese per un referendum che, per i capricci o i calcoli politici della Lega, non si vuole accorpare con le altre consultazioni elettorali dei prossimi mesi. E non avrebbe senso, in un momento in cui si chiedono sacrifici «mirati» a categorie specifiche di italiani, cercare risorse offrendo vantaggi ad altre categorie, come sarebbe il caso di un nuovo «scudo fiscale» per chi rimpatria capitali dall'estero. Il Consiglio dei ministri di venerdì dovrà muoversi con ragionevolezza in questo insieme di scelte intricate se non vorrà sciupare il «capitale politico» che la gestione della prima fase dell’emergenza terremoto gli ha indubbiamente procurato. mario.deaglio@unito.it
lastampa.it

Algide mappe di una crisi irreversibile - James Ballard

Benedetto Vecchi

La morte dello scrittore inglese. Dalla guerra civile molecolare ai riti identitari legati al consumo, fino alla disperata rivolta contro il mondo delle merci. La lucida preveggenza di un autore che ha scelto come protagonisti dei suoi romanzi i conflitti di cui sono pervase le società contemporanee
I romanzi di James Ballard alimentano ricezioni che non ammettono mezze misure. Possono essere molto amati, oppure valutati come opere scadenti, con una scrittura algida e poco curata, dove il «non detto» dei personaggi annichilisce ogni «economia dell'attenzione». Eppure Ballard è stato un buon artigiano della scrittura, se con questo si intende la capacità di gettare luce sui lati oscuri della società contemporanee. Al di là delle qualifica di scrittore di fantascienza, Ballard è stato infatti un accurato cartografo dei conflitti sociali del presente. Non che la qualifica di scrittore di genere gli desse fastidio. Per Ballard significava solo che scrivere era divenuto il suo lavoro, come testimoniano le decine di racconti scritti per riviste di science fiction e pubblicati dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e che meritoriamente la casa editrice Fanucci ha pubblicato negli anni scorsi. Una fantascienza tuttavia anomala, dove gli alieni costituivano sempre l'immagine rovesciata allo specchio dei terresti, incarnandone così gli inconfessati incubi.
D'altronde, il rapporto con l'altro è stata sempre una costante di questo inglese nato settantotto anni fa a Shangai. E che emerge con forza nel suo romanzo più citato (Crash, Rizzoli 1990, Feltrinelli 2004), che costituisce tuttavia un punto di svolta nella produzione di Ballard, perché il medium della relazione tra «umani» è individuato nel feticcio della società capitalistica del secondo dopoguerra: l'automobile. Da allora lo scrittore inglese comincia a misurarsi con tutte le parole chiave del pensiero critico. Il feticismo delle merci, ovviamente, terreno su cui Ballard ha frequentemente scorrazzato, fino a quel Regno a venire (Feltrinelli 2006) che mette in scena gli effetti tellurici costituiti dalle città cresciute come parassiti a ridosso dei mall, i grandi centri commerciali che finiscono per costituire l'unico spazio pubblico possibile per organizzare la rivolta contro le merci. Ma in Ballard è forte anche l'attenzione verso la dissoluzione della «forma metropoli» e la fuga verso le comunità recintate, dove la vita è pianificata attentamente, alimentando così sofisticate e, al tempo stesso, impalpabili tecnologie del controllo. Da Condominio (Urania 1976, Feltrinelli 2003) a Isola di cemento (Anabasi 1993, Feltrinelli 2007), da Cocaine Nights (Baldini & Castoldi 1997, Feltrinelli 2008) a Super Cannes (Feltrinelli 2000), la metropoli diviene il teatro per una guerra civile molecolare, esito obbligato della crisi irreversibile dell'ordine sociale capitalistico.
Ed è stata questa sua «preveggenza» che lo ha reso l'autore più amato dagli scrittori cyberpunk. William Gibson e Bruce Sterling non hanno infatti mai nascosto i loro debiti verso di lui. Un'affinità elettiva dovuta al fatto che in Ballard non c'è nessuna apologia delle virtù salvifiche della tecnologia. Per Ballard, la tecnologia è semplicemente divenuta parte integrante del vivere in società. Non c'è più quindi nessun paradiso naturale perduto da invocare, ma solo la constatazione che la simbiosi tra naturale e artificiale è parte integrante della natura umana. Cioè di quella stessa realtà sapientemente descritta dal cyberpunk, come testimoniano, per restare all'Italia, le interviste alla rivista «Decoder» e la raccolta di saggi pubblicata dalla milanese Shake.
I romanzi dell'ultimo periodo - Millennium people (Feltrinelli 2004) e Il regno a venire - si concentrano invece sulle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo contemporaneo. Ballard prende di mira la favola della fine del conflitto sociale e di classe, sostenendo invece che la tanto mitizzata middle class è divenuta una classe produttiva, fatto che la spinge alla rivolta, che può, in pieno movimento no-global, scagliarsi contro il regime del lavoro salariato, ma anche subire una torsione razzista e sciovinista. Il bandolo della matassa da sciogliere, ma che Ballard non prova mai a sbrogliare, è cosa determina un esito piuttosto che un altro. Non è quello il compito che ha riservato a sé questo acuto cartografo delle società contemporanee. Il suo atteggiamento è sempre quello dello scanzonato ragazzo che nell'Impero del sole (Rizzoli 1986, Feltrinelli 2006) non riesce a contenere l'entusiasmo e la rabbia per gli aerei giapponesi che bombardano lo stile di vita di cui era prigioniero. Per stilare le mappe del presente occorre infatti curiosità e sguardo lucido: sentimenti e attitudine che Ballard ha sempre avuto.
manifesto.it

19.4.09

La tirannia della bontà

di ILVO DIAMANTI

Il bene comune, dopo una lunga eclissi, è riemerso. Tracimato, in modo prorompente. Se ne erano perdute le tracce, da qualche tempo, in Italia.

La tragedia del terremoto in Abruzzo l'ha fatto uscire dagli anfratti del non-detto, dove era nascosto da molti anni. Da quando - in economia, in politica, nello spettacolo, ma anche nei rapporti con gli altri - per avere successo, per apparire credibili in pubblico era divenuto conveniente apparire "cattivi". E quindi inflessibili, intolleranti. Nonché discretamente egoisti. Attenti anzitutto al proprio interesse. Sicuramente diffidenti verso qualsiasi "bene in comune", soprattutto se "pubblico". In nome del trionfo del mercato, del privato, della competizione. Impossibili dirsi "buoni" senza essere tacciati di "buonismo". Malattia senile della solidarietà. Marchio di un'epoca passata. Da rimuovere. Così gli italiani si sono trovati a vivere la loro "bontà" e il loro "altruismo" in modo quasi clandestino. Nonostante il loro spirito solidale e comunitario, coltivato da identità radicate, come quella cattolica e socialista. Bollate, a loro volta, nel segno - spregiativo - del catto-comunismo. Per cui oltre metà degli italiani hanno continuato a dedicare tempo, denaro e soprattutto impegno personale agli "altri", in modo continuo e regolare. Ma in silenzio. Come un vizio inconfessabile. Comunque da non dichiarare in pubblico. Per farsi apprezzare dai cittadini, l'uomo pubblico doveva apparire uno sceriffo, un vigilante, una ronda a tempo pieno. Perché la bontà e la solidarietà apparivano vizi privati. Che non facevano notizia, audience. Spettacolo. E sono stati, per questo, a lungo emarginati dai media. Ridotti in spazi minimi e dedicati. Come le rubriche per camionisti o i programmi sugli stranieri. Lo spazio del bene comune. Trasmesso alle 6 di mattina alla domenica e in replica alle 4 di notte.

Il terremoto, la tragedia immensa che ha colpito la popolazione dell'Abruzzo due settimane fa, ha sconvolto - insieme alla vita di migliaia di persone - anche la "gerarchia dei valori" e dei sentimenti. Il "male comune" ha risvegliato il "bene comune". O meglio: gli ha restituito dignità pubblica, visto che nel privato non aveva mai smesso di essere frequentato, dagli italiani. Abbiamo, anzi, assistito e stiamo assistendo, in questi giorni, a un significativo rovesciamento di prospettiva. Che ha posto - e anzi: imposto - il bene comune come cifra di lettura di ogni manifestazione, di ogni comportamento. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Le difficoltà comuni sollecitano risposte comuni. Le emergenze stimolano convergenze. La disperazione sollecita la cooperazione. E insieme: la solidarietà e la pietà. Comunità, pietà, solidarietà, cooperazione; e ancora; carità, altruismo, soccorso. Parole quasi indicibili fino a ieri: sono tornate di moda. Sulla bocca di tutti. Pronunciate ad alta voce e non piano piano, per timore che qualcuno ci senta. Evocano il repentino passaggio del bene comune dalla clandestinità alla scena pubblica. Accanto alla desolazione e alla disperazione, sui luoghi del terremoto, sui media passano le immagini del soccorso. Non solo "professionale" ma soprattutto "volontario". Lo spettacolo del dolore si mischia a quello della solidarietà. Senza soluzione di continuità. Sottoscrizioni dovunque. E partite di calcio, tennis, basket, pallavolo; concerti, recital, pièces teatrali. L'incasso totalmente devoluto alle popolazioni colpite dal sisma. Perfino i talk show più futili si riconvertono all'impegno.

Il bene comune e il bene pubblico diventano virtù accettate e condivise. E definiscono nuove regole di comportamento e di linguaggio. La "cattiveria" diventa improponibile. Anche come linguaggio e come sguardo. Come chiave di lettura della realtà. Dei comportamenti pubblici. Cresce l'insofferenza verso la satira e l'ironia, perché dissacrano la pietà. Così la critica e le polemiche: suscitano fastidio. Sospettate di corrodere il principio della comunità solidale. Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l'unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune. Anche se in Italia - paese storicamente diviso - lo Stato è considerato proprietà di chi governa e la fiducia nelle istituzioni cambia segno a seconda di chi vince le elezioni. Con la conseguenza che la spinta verso il "bene comune" tende a premiare soprattutto - anzi "solo" - il governo e il suo leader. Con l'opposizione a recitare la parte del coro muto. (Non abbiamo ancora dati al proposito, ma scommetteremmo che i prossimi sondaggi confermeranno questa ipotesi). Così, leader e forze politiche che hanno fondato la loro immagine (e il loro successo) sul sorriso permanente e la comunicazione opulenta, su valori individualisti e aggressivi, sulla critica allo Stato: acquistano un volto sofferente e mite; identificano il bene pubblico. Non è nostra intenzione "mettere a tacere la voce della compassione", per usare una formula di Adriano Sofri qualche giorno fa. Tuttavia, questo trionfo del "bene comune", esibito dovunque come bandiera. Regola di comportamento e stile di comunicazione. Questo clima di bontà coatta. Mi fa quasi rimpiangere i giorni cattivi del tempo recente. Perché sfidare i "ministri della paura" è difficile. Ma non quanto opporsi alla "tirannia della bontà" e ai nuovi custodi del bene comune.
repubblica.it

17.4.09

Editoria liquida in trepida attesa dell'e-book - Inchiesta/5

di Maria Teresa Carbone
Nonostante si dichiarino in maggioranza attrezzati sul piano tecnico ad affrontare la imminente «rivoluzione elettronica», gli editori italiani appaiono estremamente prudenti in questa fase di passaggio. Da un lato i congegni per la lettura degli «e-book» non sono ancora perfezionati, dall'altro, ed è quello che più conta, l'abbandono della carta porta con sé problemi ancora irrisolti sulla gestione dei dirittiC'è quello che, per prendere tempo, si schiarisce la gola e parla di «una domanda da un milione di dollari», preannunciando una telefonata che non arriverà; quello che scherzosamente si appella al quinto emendamento e promette di rispondere tra qualche settimana, quando avrà messo a punto la sua linea di difesa; quello infine che si trincera dietro una tra le più celebri repliche letterarie, il «Preferirei di no» dello scrivano Bartleby. Può essere solo un caso, una coincidenza, ma la maggior parte degli editori italiani che abbiamo interpellato sulle misure già prese o comunque deliberate per attrezzarsi di fronte a quella che si preannuncia come una vera rivoluzione, il passaggio dalla concretezza della carta all'evanescenza elettronica, hanno assunto l'aria degli studenti chiamati senza preavviso alla lavagna dall'insegnante.E sì che all'ultima Fiera di Francoforte, in ottobre, il direttore della Buchmesse, Joergen Boos, ha detto che ormai «i nuovi lettori hanno creato le condizioni per fare del lettore di e-book un prodotto di massa». E in tempi e luoghi ancora più vicini a noi, solo una decina di giorni fa, al convegno «Libri in svendita: quale futuro?» organizzato dall'Associazione Librai italiani a Orvieto per parlare dell'annosa questione degli sconti indiscriminati, il direttore di Mondadori, Gian Arturo Ferrari, ha ammesso che, certo, il problema esiste, e rischia di avere conseguenze ancora più pesanti adesso che c'è la crisi, ma che tutto questo rischia di scomparire nel momento in cui i «contenuti liquidi» prenderanno il sopravvento. Un momento piuttosto vicino, a detta di moltissimi editori: in un sondaggio internazionale i cui risultati sono stati presentati proprio in occasione della Fiera di Francoforte, il 40 per cento dei responsabili delle case editrici si è dichiarato convinto che entro dieci anni le vendite dei libri elettronici supereranno quelle dei testi tradizionali, e il 70 per cento ha affermato di essersi già attrezzato per il passaggio al digitale.«Tecnicamente - conferma Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale di Garzanti (sigla che ormai da alcuni anni fa capo al gruppo Mauri-Spagnol) - la conversione al formato elettronico non rappresenta un problema per la maggior parte degli editori. Più delicata è la questione dei supporti, gli e-book reader, che pure si sono evoluti moltissimo negli ultimi anni: la lettura su schermo ha oggi caratteristiche molto simili a quella su carta, e comunque non spaventa i lettori più giovani. Anche se proprio la rapidità con cui si sviluppano queste tecnologie può essere paradossalmente un atout per la carta: negli ultimi anni abbiamo venduto diciassette milioni di Garzantine in abbinamento a quotidiani e settimanali, una cifra enorme, eppure inizialmente i nostri interlocutori nei giornali storcevano il naso, perché avrebbero voluto le enciclopedie su cd-rom. E oggi i cd-rom si sono praticamente estinti!».Ma il punto davvero dolente, quello che impone agli editori, italiani e non solo, una grande prudenza, è la gestione dei diritti, resa adesso ancora più complessa dal Google settlement, la transazione che il gigante informatico statunitense propone - ma di fatto impone - a editori e autori dell'intero pianeta per l'inclusione delle loro opere all'interno del Google Library Project, il programma che si prefigge di indicizzare «tutta la conoscenza del mondo».«Rifiutare - osserva Ponte di Pino - è impossibile, almeno nel panorama attuale, perché il rischio è di scomparire nel nulla, ma accettare significa fare un salto nel buio, perché l'accordo di Google stravolge completamente lo scenario di leggi e consuetudini a cui siamo abituati. E non è un caso probabilmente che questa forzatura sul copyright venga dall'America proprio quando i più importanti gruppi editoriali, da Bertelsmann a Holtzbrinck a Hachette, sono in mani europee».Forse perché le edizioni Bruno Mondadori appartengono a un gruppo, Pearson, che ha le sue sedi principali da una parte e dall'altra dell'Atlantico, a Londra e a New York, ed è specializzato soprattutto nel settore pilota dell'educazione, il tono con cui Maria Rosa Bricchi, direttore editoriale appunto di Bruno Mondadori, parla del passaggio alla «editoria liquida» è molto più tranquillo di quello di tanti suoi colleghi: «Sul piano internazionale, il passaggio all'editoria elettronica è molto avanti, e anche in Italia i testi scolastici e scientifici pubblicati dalle varie sigle del gruppo non possono non tenere conto delle trasformazioni in atto nella scuola. Ma anche noi ci stiamo attrezzando, e abbiamo già in catalogo un testo, Geopolitica del conflitto arabo israeliano palestinese di Giovanni Codovini, che è un"ibrido". Insieme al libro "di carta" viene fornita una password che consente di accedere online a documenti, cronologia e mappe, che vengono costantemente aggiornati».Su un ibrido, e piuttosto audace, si fonda la produzione (futura) della nuovissima casa editrice Il gatto e la luna, che propone «e-books a prezzi modici» - in pratica adesso un solo libro, il classico per ragazzi Anna dei tetti verdi di di Lucy Maud Montgomery, ritradotto appositamente e scaricabile in formato pdf, per due euro. Non c'è bisogno di aggiungere che la direttrice - nonché ufficio stampa, traduttrice, insomma factotum - Ilaria Isaia si è lanciata nell'impresa per passione, con un budget «pari a zero», ma con idee chiare («gli ebooks sono ancora cervellotici, il pdf è più agile, e si scarica anche sul navigatore satellitare») e alcune ambizioni («ho cominciato con un classico, ma non mi dispiacerebbe proporre testi contemporanei»). Come navigherà la piccola sigla nel grande mare di Internet, è impossibile prevedere. Per fortuna «quello che conta per me - dice Ilaria - è che faccio il lavoro che mi piace di più».
ilmanifesto.it

15.4.09

LE LIBRERIE SCATENATE CONTRO LA CRISI - INCHIESTA/4

di Maria Teresa Carbone

Scaffali INDIPENDENTI
Costrette a fare i conti con la concorrenza di aggressivi megastore, le librerie storiche hanno affinato nuove strategie di sopravvivenza. Ma i risultati sono alterni e la recessione incombe
Immaginiamo (non ci vuole grande fantasia) che in Italia, e nel resto del mondo, sia in corso all'insaputa dei più una guerra che, pur non cruenta, lascia ogni anno sul campo morti e feriti e vede contrapposti soggetti ben diversi per mole. Da un lato, le poderose armate delle catene librarie (Feltrinelli, Mondadori, Fnac, ora anche le Librerie Coop) che si scontrano tra loro ad armi più o meno pari. Dall'altro, una miriade di guerrieri solitari, le librerie indipendenti, che si battono per non essere sopraffatte da questi avversari tanto più muscolosi di loro, stringendo alleanze o escogitando sempre nuove strategie di sopravvivenza. Naturale che in una fase, come questa, di crisi, il conflitto si faccia più violento e il panorama disegnato giorno dopo giorno da quelli che suonano come veri e propri bollettini di guerra appaia confuso e contraddittorio.
Unchained success, «Successo scatenato», titolava per esempio giorni fa il «Boston Globe», segnalando un'imprevedibile capacità di tenuta delle librerie indipendenti contro i big rivals: «C'è un luogo comune secondo cui le librerie indipendenti stanno crollando e scompariranno presto, ma sono convinto che sia un cliché datato», dice John Mutter, responsabile del sito specializzato «Shelf Awareness». E l'ultimo magazine del «Sole 24 ore» sottolinea il successo di alcune librerie francesi, come La griffe noire, a Saint-Maur-des-Fossès, che ha sbaragliato la concorrenza dei megastore ed è diventata il punto di riferimento di non pochi parigini pronti a farsi mezz'ora di treno pur di non perdere gli illuminati consigli del libraio, Gérard Collard.
In Italia, però, il quadro si presenta meno confortante. Cliccando su www.vigata.org/libreriadelgiallo/letteraagliamici.shtml, si legge il desolato messaggio con cui Tecla Dozio ha annunciato ai clienti la chiusura, il 31 marzo, della milanese Libreria del giallo. Chiusura definitiva, dopo una serie di falsi allarmi negli anni passati, perché, scrive Dozio, questa volta «non è solo la solita e cronica mancanza di denaro, ma la consapevolezza di non avere possibilità reali». E chiusa anche, sebbene qualcuno speri di poterla resuscitare, la Lef di Firenze, luogo di incontro degli intellettuali cattolici, ben oltre i confini della città. Due storie che ne nascondono tante altre, a giudicare da quanto è scritto nel sito della torinese Massena 28, specializzata in libri di viaggio e narrativa straniera: «Questa libreria ha quasi tre anni ed è quasi un miracolo che ci sia ancora. Ne chiudono molte, di librerie indipendenti. Più d'una, a Torino, proprio in questi giorni».
Che la recessione abbia accelerato un processo avviato da tempo, lo dimostra un film americano di una dozzina d'anni fa, You've Got Mail, (in italiano C'è posta per te), dove la bella e brava libraia indipendente Meg Ryan veniva sconfitta dal megastore aperto proditoriamente nel suo quartiere, tranne innamorarsi, ovviamente riamata, del proprietario dello stesso (Tom Hanks), scoprendone le virtù nascoste e forse accingendosi a mettere la sua competenza al servizio della non più odiata catena. A quanto pare, però, la grigia realtà non concede questi happy endings, a giudicare dal tono con cui il vicentino Alberto Galla, titolare di una delle più antiche librerie italiane, commenta i casi di punti-vendita indipendenti fagocitati dai «supermercati del libro». L'ultimo, la mantovana Nautilus di Luca Nicolini passata in mano alle librerie.Coop, ha sollevato in giro reazioni piuttosto sconcertate, ma - dice Galla - «non si può biasimare un collega che ha fatto una scelta pragmatica: di fronte allo sbarco di un gigante, i tentativi di contrastarlo in una situazione di crisi rischiano di essere inutili. L'importante è che sia stato pattuito un modo per valorizzare le ricchezze di una libreria nata nello specifico contesto di Mantova, anche se nel passaggio dalla posizione di "indipendente" a quella di "dipendente", il pericolo che l'identità della libreria si trasformi è grande».
Non che Galla abbia paura dei cambiamenti, visto che la storia della sua libreria - anzi, delle sue librerie - è una storia di metamorfosi (e traslochi): «La libreria Galla, nata nel 1880, già ai primi del '900 si trovava nel pieno centro di Vicenza, all'incrocio tra cardo e decumano, cioè tra corso Palladio e corso Fogazzaro, un punto così conosciuto che ne era nato un toponimo, il "Canton di Galla". Senza saperlo, mio bisnonno Giovanni, il fondatore, inventò anche il «multitasking»: rendendosi conto che la vendita dei libri non sarebbe bastata per far quadrare i conti (proprio come succede oggi, tra l'altro), inviò una lettera promozionale in cui spiegava che nel suo negozio avrebbe venduto qualsiasi prodotto potesse soddisfare il cliente: volumi, ma anche giornali, carta da regalo, giocattoli, perfino sementi. La seconda guerra mondiale segnò una frattura, la libreria fu distrutta dai bombardamenti, molti famigliari morirono nella resistenza, ma nel '46 si ricominciò. La sede si trasferì ancora su corso Palladio in uno spazio più grande, che era libreria, cartoleria, casa editrice, negozio di giocattoli e di arredi sacri. Negli anni '80, nuovo trasloco, ed è stato in quel periodo che ho cominciato a occuparmi della libreria anche io, che avevo seguito il primo corso per librai della scuola Mauri».
Finita la fase eroica, la Galla diventa rapidamente un prototipo di libreria moderna. Vengono dismesse le attività «collaterali», si distacca la cartoleria e nasce un gruppo che, accanto alla «casa madre», Galla 1880, comprende una libreria specializzata in concorsi e informatica (Galla 2000), una libreria per ragazzi (Girapagina) e altri due punti-vendita: uno dei quali a Valdagno, avviato con un libraio veronese, potrebbe servire come modello per una nuova formula di libreria indipendente in cogestione. Ma Galla, che pure catastrofista non è, non offre un quadro roseo della situazione, perché negli ultimi anni a Vicenza sono sbarcate le catene, una Feltrinelli «sotto mentite spoglie» in un centro commerciale, due Mondadori, una Giunti e presto, si dice, una Coop, che sommate all'«impero Galla» e ad altre due o tre librerie indipendenti, sembrano troppo per una città colta ma che conta centomila abitanti, duecentomila con il territorio circostante. «E il vero problema è che questi giganti hanno una situazione finanziaria diversa dalla nostra, non devono fare i conti giorno per giorno, possono prescindere da risultati economici immediati e in questo modo rischiano di stravolgere completamente il mercato».
Pessimista senza sfumature è invece Katia Gabrielli, «anima» (per una volta la parola non è disdicevole) della Libreria Fahrenheit, tre locali con una vetrina che dall'89 si affaccia su Campo dei Fiori a Roma. Katia è combattiva, rivendica per Fahrenheit una serie di primati («siamo stati la prima libreria romana aperta la sera, la prima aperta la domenica»), è ancora convinta delle scelte che l'hanno guidata in questi vent'anni, e che hanno fatto di Fahrenheit una «libreria di qualità». Ma si dichiara stanca di una fatica «che peggiora ogni giorno»: «E ora che c'è la crisi, la situazione sarà più dura, gli editori si accaniranno in cerca del bestseller, e noi finiremo strozzati dai megastore che possono applicare sconti del venticinque o del trenta per cento. Il nostro è un mestiere in via di estinzione, si parla di librerie indipendenti, ma ognuna fa storia a sé, non ci sono regole fisse, mentre il mercato ti spinge a tenere solo i libri "vendibili". Un bel ragionamento, se lo segui fino in fondo accantoni Tolstoj e metti sul banco Pulsatilla...».
Sul banco di Tombolini Pulsatilla non la trovi di certo. Perché la libreria Tombolini di Roma, solo di pochi anni più «giovane» di Galla (è stata fondata nel 1885 e non ha mai cambiato la sede, in via IV Novembre, nonostante periodici aumenti di affitto ne mettano a repentaglio la sopravvivenza), è rimasta una libreria all'antica, che non solo limita al massimo le novità ed è specializzata in testi di filologia, filosofia, archeologia e storia medievale, ma presenta i suoi volumi secondo il metodo tradizionale, quello pre-Feltrinelli, di costa e non di piatto, ossia con la copertina in vista. Una scelta, questa, che sconcerta parte dei visitatori: non gli habitués, naturalmente, che ancora esistono e resistono («anche se l'età media sale...», osserva sorridendo il proprietario, Enzo Orieti), ma i turisti occasionali entrati per acquistare una cartolina o sbirciare le vetrinette dove sono esposti oggetti di porcellana. Perché in effetti anche Tombolini deve fare i conti con i tempi che cambiano, e - come un secolo fa il vecchio Giovanni Galla - sta praticando il «multitasking». «In questo modo - concede Orieti, lievemente incerto di fronte alle novità introdotte dai suoi soci - qualche risultato lo abbiamo ottenuto, ma forse la maggiore apertura verso il futuro ce la dà il sito, dove stiamo travasando il nostro catalogo».
Ma che la sopravvivenza delle librerie (indipendenti e non) sia affidata a Internet è da vedere. «Al recente convegno di Orvieto promosso da editori e librai - dice Alberto Galla - il direttore di Mondadori, Gian Arturo Ferrari, ha detto che il futuro appartiene ai "contenuti liquidi". Per quello che mi riguarda non lo escludo, ma personalmente la vedo in modo diverso: sono contento di avere vissuto una stagione meravigliosa per le librerie, e adesso che sto per compiere cinquant'anni, mi auguro solo di avere il tempo e il modo di prepararmi a una pensione dignitosa».
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