27.2.16

Sorpresa: L'asilo batte Oxford - Una buona scuola materna rende studenti migliori

I pedagogisti: è il luogo dove si abbatte la differenza tra famiglie con mezzi diversi

Valentina Santarpia (Corriere)

A 11 anni sono migliori dei propri coetanei in matematica e inglese, hanno un comportamento scolastico più controllato e socievole. E nell’arco della vita guadagnano in media il 4,3% in più. Ecco come una buona educazione nei primi anni di vita, nella cosiddetta pre-school, fa progredire i ragazzini inglesi, secondo una ricerca presentata dalla professoressa Kathy Sylva, di Oxford, all’università Bicocca. Lei è una delle decine di esperti chiamati ad approfondire, nel corso di una tre giorni internazionale a Milano, lo 0-6: il cruciale periodo dalla nascita alla primaria.
«L’educazione dei primi anni dà le migliori chance per la vita — spiega Sylva —. Questo vale soprattutto per i bambini poveri o immigrati». Dal Nobel per l’economia James Heckman fino alle ultime ricerche del Tfiey (il forum transatlantico dedicato alle politiche per lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia) le conclusioni sono sempre le stesse: soprattutto per le fasce sociali svantaggiate, la frequenza di scuole con caratteristiche «dignitose» porta a maggiore inclusione sociale e migliori successi negli studi.
I dati Ocse-Pisa, sull’apprendimento dei ragazzi, confermano che tra il 2003 e il 2012, in Italia la differenza nei risultati ottenuti in matematica tra 15enni che avevano frequentato la scuola dell’infanzia e studenti che non l’avevano frequentata, era cresciuta di 25 punti. E gli alunni in difficoltà sono sovrarappresentati tra quelli che non hanno frequentato la scuola dell’infanzia per più di un anno.
Il nostro gap è evidente: il 5% dei bambini dai 3 ai 6 anni non frequenta una scuola materna, e l’82% di quelli tra 0 e 3 non ha posto in un asilo nido.
Come recuperare?
Il governo dovrà varare entro l’anno, come prescrive la riforma Renzi, una legge per ridefinire le regole per lo 0-6. I pedagogisti suggeriscono insegnanti con formazione accademica, coordinatori pedagogici per controllarli, spazi e tempi adattati ai ritmi lenti dei bambini, progetti pilota per costruire un sistema educativo di qualità. Improntato più alla sperimentazione invece che al nozionismo, come nelle «Cabane» di tre asili milanesi: strutture in legno dove toccare, immaginare, fantasticare.
«Dal progetto Care — spiega Susanna Mantovani, rettrice della Bicocca — emerge che genitori ed educatori concordano sul fatto che i bambini nella fascia tra zero e 6 anni devono imparare a sviluppare capacità e risolvere problemi, più che imparare nozioni. I bambini che hanno frequentato buoni asili sono quelli che riescono meglio nelle prove Invalsi». Test che invece vanno esclusi dalle scuole dell’infanzia: «Ci sono rischi di stigmatizzazione precoce», anticipa la professoressa Anna Bondioli , del gruppo di lavoro ministeriale.
Meno valutazione, più problem solving , laboratori dove provare. «I bambini piccoli — spiega Nice Terzi, presidente del gruppo Nidi-infanzia — non devono apprendere, ma capire come si apprende». Il resto verrà dopo.


0-6 anni, il successo parte da piccoli
Ecco come saranno i nuovi asili

Un convegno nel weekend porta alla Bicocca migliaia di esperti nazionali e internazionali, chiamati a disegnare le linee guida delle nuove scuole per i piccoli: laboratori e problem solving più importanti di nozioni e apprendimenti


 
A 11 anni sono migliori dei propri coetanei in matematica e inglese, riescono ad avere un comportamento scolastico più controllato, meno iperattivo e più socievole. E nell’arco della vita guadagnano in media il 4,3% in più. Ecco come una buona educazione nei primi anni di vita, nella cosiddetta pre-school, fa progredire i ragazzini inglesi, secondo una ricerca che verrà presentata dalla professoressa Kathy Sylva, dell’università di Oxford, venerdì all’università di Milano Bicocca. Lei è solo una dei tanti esperti chiamati ad approfondire, nel corso di una tre giorni internazionale, il tema delicatissimo e affascinante dello 0-6: capire cioè in che direzione stanno andando i nostri bambini da 0 a sei anni e come ridefinire le nuove regole per l’educazione e la cura dei bambini più piccoli.


Asili, gli effetti dell’educazione prescolare in Inghilterra

Anche i neonati apprendono
Proprio nei giorni in cui, come prescritto dalla legge 107, il governo sta mettendo a punto la legge delega per ridisegnare il panorama degli asili italiani, questo diventa un appuntamento prezioso per docenti, pedagogisti, funzionari ministeriali, educatori, economisti. Previsti i contributi dei massimi conoscitori del sistema, da Michel Vandenbroeck, dell’Università di Gent, a Sylva, di Oxford, da Christa Preissing, dell’Ista di Berlino, a Claudia Giudici, presidente Scuole e Nidi d’infanzia di Reggio Emilia. Con un punto fermo da cui partire: in quegli anni il piccolo essere umano introietta tutti gli stimoli possibili per realizzarsi nella vita. «Crediamo che l’educazione precoce dia le migliori chance ai bambini per iniziare nella vita - spiega Sylva- Questo vale soprattutto per i bambini che vengono da famiglie povere o di immigrati. Ed è fondamentale che la fascia 0-3 sia gestita dallo stessa fascia 3-6: anche i neonati imparano!». Gli studi in materia sono unanimi: da James Heckman, premio Nobel per l’economia nel 2000, alle ultime ricerche del Tfiey, il forum transatlantico dedicato alle politiche per lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia, le conclusioni sono identiche: soprattutto per le fasce sociali svantaggiate, la frequenza di scuole con caratteristiche «dignitose» porta a maggiore inclusione sociale e a migliori successi scolastici. Da dove cominciare allora per disegnare gli asili del futuro? Dal «curricolo, che è responsabilità», come recita il titolo del convegno.
Più competenze che nozioni
«Attenzione, non stiamo parlando di curricolo perché vogliamo mettere la pagella anche ai bambini piccolissimi», ride la rettrice della Bicocca, Susanna Mantovani. «Anzi, presenteremo gli esiti di 2471 questionari completati da maestri e genitori di bambini da 0 a sei anni, che ci rivela proprio quanto le competenze scolastiche siano considerate irrilevanti rispetto ad altri aspetti». L’indagine, realizzata nell’ambito del progetto Care (Curriculum and quality Analysis and impact review of European Early Childhood education and care), ha avuto un discreto riscontro in Italia, dove sono stati restituiti quasi 2500 questionari completi rispetto ai 200 olandesi e ai 700 tedeschi. E fornisce delle indicazioni molto precise sulle esigenze che gravitano intorni ai bambini più piccoli: le conoscenze non sono mai ai primi posti. Da 0 a 3 anni, genitori e insegnanti convergono nel ritenere l’atteggiamento nei confronti dell’apprendimento la cosa più importante, e da 3 a 6 la competenza interpersonale ed emotiva, mentre le abilità e conoscenze pre-scolastiche finiscono agli ultimi posti. «È interessante: significa che concordano nel ritenere che i bambini non debbano imparare a contare precocemente o a scrivere, ma ad affrontare i problemi, a sviluppare competenze. È un approccio molto diffuso in Norvegia, Finlandia, Svezia, e sempre più anche in Italia: valutiamo meno i risultati, misuriamo meno, ma sviluppiamo più capacità. E infatti i bambini che hanno frequentato asili dignitosi nella fascia 0-6 sono anche quelli che vanno meglio nelle prove Invalsi». Un esempio su tutti? Lasciar discutere i bambini di 4 o 5 anni di come si può pedalare senza rotelle, come sia possibile evitare di cadere - esperimento veramente realizzato, filmando i bambini per mezz’ora - può dare dei risultati sorprendenti, con risposte e idee che si avvicinano alla fisica pur senza averne alcuna cognizione. Un progetto educativo sperimentale da poco avviato dal Comune di Milano presso tre scuole dell’infanzia segue proprio questi principi: la Cabana, una struttura ludico-didattica alta, aperta, luminosa, sonora, magica, tattile. Una struttura polifunzionale in legno che nelle sue varie forme basiche lascia spazio a educatori e bambini per trasformarle nei modi più diversi.
No alla valutazione delle scuole dell’infanzia
D’altra parte, che la strada giusta sia questa - meno valutazione, più problem solving- lo dimostra anche il fatto che il gruppo di lavoro chiamato da ministero dell’Istruzione e Invalsi a definire il nuovo strumento di autovalutazione delle scuole dell’infanzia abbia stabilito nelle sue conclusioni che i bambini da tre a sei anni non debbano essere sottoposti a prove standardizzate, sul modello dei test Invalsi per capirci. «Abbiamo escluso questa possibilità- anticipa la dottoressa Anna Bondioli al Corriere- per evitare rischi di stigmatizzazione precoce, e che il passaggio di queste informazioni dalla materna alla primaria possa incentivare pregiudizi». Evitato questo rischio, l’autovalutazione verterà piuttosto su domande che riguardano il processo, sul curricolo specifico per l’infanzia, sull’iter complessivo del bambino. Proprio nell’ottica di considerare la fascia di età 0 - 6 un tutt’uno, una sorta di arco temporale unico, proprio come disegna la legge 107, che dovrà essere declinata dai decreti attuativi entro la fine dell’anno.
Poli educativi ed educatori laureati
Un tutt’uno non significa che esiterà una sola scuola dalla nascita fino alla soglia delle elementari, spiega Bondioli, che quando per la prima volta la senatrice Francesca Puglisi ha presentato il progetto di legge 1260 ha scritto, insieme a più di 100 docenti di pedagogia, una serie di linee guida sull’ipotesi di legge. I servizi rimarranno così come sono, divisi in asili nido e scuole dell’infanzia, che avranno gestione regionale/comunale/statale, ma quello che cambierà sarà il coordinamento. «La gestione delle liste di attesa, l’organizzazione degli aspetti pratici come i passaggi di informazioni da un grado all’altro, la formazione continua in servizio degli educatori e degli insegnanti-che la legge prescrive- dovrebbero essere affidate a dei poli educativi», spiega Bondioli. Il personale dovrebbe avere come riferimento dei facilitatori educativi, che non dovrebbero seguire delle linee guida uguali per tutti, ma calarsi nella realtà territoriale e declinare le indicazioni per i gruppi di lavoro in base ai contesti. Al di là delle specificità della cura riservata ai più piccoli, il comun denominatore dei bambini da 0 a sei anni dovrebbe essere «l’apprendere l’apprendere», ovvero «più che i contenuti, imparare l’approccio per relazionarsi ai problemi», ribadisce anche Bondioli: più laboratori ed esperimenti che canzoncine da imparare a memoria. E poi, un aspetto fondamentale è puntare sulla uniformità degli standard: spazi, orari, numero di insegnanti per bambini, oggi sono diversi in base alle scelte regionali o comunali, mentre i decreti punteranno a specificare con chiarezza i parametri validi per tutti. «Da 0 a sei anni, vanno bene 7 bambini ad educatore, tra i 2 e i 3 1 ogni 8, ma tra i 3 e i 6 bisogna scendere assolutamente: inaccettabile che un solo insegnante tenga 25 bambini e per di più senza compresenza». Il personale dovrebbe diventare tutto con carriera universitaria, ma «un compromesso potrebbe essere permettere alle educatrici del nido di avere la laurea triennale, quelle dell’infanzia la specialistica».
Un posto per tutti
Al di là delle questione tecniche, resta comunque uno l’obiettivo di fondo: «Dobbiamo generalizzare l’offerta, non possiamo permettere che continui ad esistere un Paese a macchia di leopardo», sottolinea Nice Terzi, presidente del gruppo nidi-infanzia italiani. «Fino ad ora gli investimenti sono stati utilizzati in maniera molto diversa da Nord e Sud, così negli anni abbiamo sviluppato delle realtà efficienti, che ci studiano anche all’estero, come a Reggio Emilia, e delle zone assolutamente prive di servizi per l’infanzia. Basta: ora è il momento di mettere i fondi e di stabilire il principio che tutti i bambini hanno diritto ad avere un posto all’asilo nido. Cominciamo col raggiungere l’obiettivo del 33% stabilito dall’Europa, e poi andiamo avanti. Anche la scuola dell’infanzia, deve passare dal 95% al 100%. E per cominciare a sperimentare, bisogna lanciare progetti pilota su tutto il territorio: poi, entro qualche anno, finalmente vedremo i frutti».
26 febbraio 2016

18.2.16

“La mia dolce morte in Svizzera, diecimila euro per non soffrire più”

Torino, la scelta di una donna immobilizzata dalla sclerosi: aspetto la chiamata

La diagnosi di sclerosi è stata fatta alla torinese Paola Cirio nel 2002: «E’ una discesa senza freni, ma la vita è mia e voglio il lieto fine Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto farlo»


Andrea Malaguti

«Mi hanno detto che per morire ci vogliono cinque minuti e diecimila euro. Ti danno un gastroprotettore. E subito dopo un bicchiere di veleno, una sostanza di cui non ricordo il nome. A quel punto te ne vai. Senza sentire dolore. Mi hanno anche raccontato di un uomo che prima di spegnersi ha cominciato a russare.
Come se, finalmente, stesse dormendo sereno. E’ questo il suicidio assistito. E’ così che conto di finire la mia vita. In Svizzera. E’ già tutto predisposto, ho avuto la luce verde».

La torinese Paola Cirio cerca la buona morte, una pratica che in Italia è vietata e su cui il Parlamento comincerà una storica discussione a marzo. Prima il testamento biologico, poi l’eutanasia, ennesima parola tabù che inquieta il mondo cattolico. Un dibattito imposto dalla caparbietà dei radicali, dalle azioni di disobbedienza civile di Marco Cappato, da Mina Welby e da Sos Eutanasia. Davvero si può dire a qualcuno quando spegnere l’interruttore? «In questo Paese sui diritti civili siamo alla preistoria. La politica è patetica. Io ho deciso di raccontare il mio percorso perché penso non sia giusto che solo chi ha un po’ di soldi da parte possa decidere di crepare con dignità». In attesa dei Palazzi il mondo, come sempre, procede per conto suo.

L’ULTIMO ISTANTE

Seduta sul divano del piccolo salotto di casa, le gambe immobilizzate dalla sclerosi multipla, la signora Cirio, 53 anni, racconta come ha intenzione di fregare la morte battendola sul tempo. «Devo essere io a scegliere, non la malattia». Non c’è rabbia nelle sue parole. E lei trasmette un invidiabile senso di libertà. Quella che lo Stato non le concede. E che Paola si è presa comunque. «Non ho paura. E so che, anche se non mi ridaranno i soldi, posso tornare indietro fino all’ultimo istante. Ho un’opportunità in più».

E’ una donna minuta, con i capelli corti. Una collana di perle è l’unico vezzo che si concede. Da ragazza ha studiato all’istituto d’arte, forse più per ribellarsi alla madre che per vocazione. Ha finito per fare l’impiegata al Politecnico, ma se la fotografia della sua esistenza si limitasse a questo non racconterebbe nulla di lei. «Se dovessi definire la mia vita direi “spericolata”, alla Vasco. Ho molto viaggiato e ho molto visto, dal Laos al Mar Rosso e se ho scelto di andarmene stabilendo io come non è perché ho smesso di amare la terra, è perché voglio impedirmi di odiarla». Considera il dolore destinato a sopraffarla una punizione ingiusta. «Perché la dovrei accettare?».

LA MALATTIA

La sclerosi gliel’hanno diagnosticata nel 2002. «Ma già nel 1999 avevo capito di stare male. Diplopia. Ci vedevo doppio. All’ospedale mi dissero: potrebbe essere sclerosi. Lo era». Nessuno le ha spiegato come sarà il decorso della malattia, ma lei ha studiato per conto suo. Solo l’esito è certo. «A un certo punto i muscoli si paralizzano. Ma la testa rimane lucida. E allora sei in trappola e sai che non ti resta molto. In genere si muore per un attacco cardiaco. Un medico non te lo spiegherebbe mai in questo modo, ma io lo so». Arriva un momento in cui il corpo che ti è così familiare diventa non solo estraneo ma radicalmente ostile. «E’ una discesa senza freni». Così, proprio per non sentire addosso l’indicibile panico dei sepolti vivi, Paola ha cominciato il suo percorso. Si è rivolta all’associazione Exit, che a Torino ha una sede a pochi metri da casa sua. Poi Sos Eutanasia, che oggi la porta a Roma, in Senato, per raccontare la sua scelta, si è schierata al suo fianco.

LA CLINICA

«Mi hanno fatto capire che andando in Svizzera potevo decidere da sola. Ho detto: bene, lo faccio, perché ho pensato che quando la malattia mi paralizzerà non avrò neanche la forza di buttarmi dalla finestra. Ci ho pensato al suicidio, sa? Due volte. Un giorno avevo deciso di lanciarmi dal terrazzo di un mio amico che abita al nono piano. Non ho avuto il coraggio. E ho anche pensato che gli avrei creato un sacco di problemi. Un’altra volta ho immaginato di lasciarmi cadere sotto un treno. Ma anche in quel caso ha vinto la paura». Le è venuta in mente la storia di un’ amica che si è tolta la vita per amore. «Il treno l’ha tagliata in due. Mi sono detta che doveva esistere un sistema meno violento. L’ho trovato». Ha versato diecimila euro a un centro di Ginevra e inviato le sue cartelle cliniche. Dopo due mesi è arrivata la risposta. «Se vuole noi siamo qui per lei, luce verde». Si è sentita sollevata, perché è certa che arriverà un momento in cui si sentirà da qualche parte al di fuori dalla vita e dalla morte, sospesa tra il cielo e la terra in un luogo in cui non ha intenzione di stare. «Mandano un’ambulanza a prelevarti e quando arrivi in Svizzera ti fanno parlare con degli psicologi. Cercano di convincerti a non farlo. Se tu insisti loro ti assecondano. Ma io conosco un solo caso in cui qualcuno si è tirato indietro». Guarda fuori dalla finestra. Si vedono le montagne. Poche centinaia di metri più in là c’è lo stadio del Toro. «Ora ho una casa di 70 metri. Ma la preferisco a quella da 700 di uno come Bertone che si permette di dire agli altri che cosa è giusto».

LA FAMIGLIA

Paola Cirio non ha figli. Aveva un marito, ma lo ha messo alla porta anni fa. «Mi tradiva. E quando la malattia si è presentata si è comportato al contrario di come mi sarei aspettata». La sua famiglia è un nucleo ristretto. Una sorella più giovane, un padre malato e una madre con cui non è mai andata d’accordo. «Una cattolica praticante che non mi ha mai capita. Ma anch’io non capisco la Chiesa. Quando ho divorziato mi hanno esclusa. Come se in quella vicenda non fossi già la vittima. Oggi non credo più a nulla. Nè a Dio né all’eternità. Ho deciso di farmi cremare. E poi di far spargere le mie ceneri in un bosco svizzero. Va bene lì ma sarebbe lo stesso se fosse l’Alaska. Quando mia sorella ha scoperto che avevo deciso di chiedere il suicidio assistito ha pianto. Perché non mi hai detto nulla?, mi ha chiesto. Le ho detto che questa è la mia vita e che voglio il lieto fine. Non so quando arriverà il momento. Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto. Credo abbia compreso. Mia madre no. Ma a questo punto che importa?».

L’intervista, parla Cirinnà: «Sto pagando le ripicche fatte da certi renziani che volevano un premietto»

La senatrice: si aspettavano un posto, magari da sottosegretario

di Fabrizio Roncone

Come sta, come si sente, senatrice Cirinnà?
«Come mi sento? Sono amareggiata, delusa… e anche un po’ stanca».
Tra l’altro, nel suo partito, il Pd, soffiano contro di lei, tira una brutta aria.
«Mhmm… Cioè?».
Dicono che ha sbagliato a fidarsi così tanto del Movimento 5 Stelle.
«No no, aspetti… Sa, in tutta questa brutta storia, cosa pago davvero io? Pago la lotta, la guerra profonda che c’è tra i renziani… Una cosa tremenda… No, dico: ma ha visto come s’è comportata con me la Di Giorgi? Guardi che lei è una renzianissima della prim’ora, stava a Firenze con Renzi… Eppure…».
Continui.
«Beh, sì, insomma: così accanita, così spietata contro il mio Ddl…».
E cosa avrebbe scatenato tante tensioni tra i renziani?
«La verità è che io pago le delusioni di molti… Ecco, sì».
Non capisco: le delusioni rispetto a cosa?
«Ma come rispetto a cosa? Pago le delusioni di chi, e sono tanti, nutriva forti aspettative nell’ultimo rimpasto di governo… Stavano tutti lì ad aspettare il premietto, una promozione… Chi voleva guidare una commissione, chi avrebbe voluto diventare sottosegretario… E allora sono scattate volgari ripicche, atteggiamenti assolutamente disgustosi sia in Aula che fuori».
Però anche alcuni suoi compagni di partito che provengono dal vecchio Pci, le hanno dimostrato una certa ostilità.
«Ma no, lasci stare. Uno come Migliavacca, ne sono sicura, mi avrebbe votato completamente tutto il “canguro”. E anche Sposetti… Uno molto rigido come lui, alla fine, davanti ad una legge così importante per il Paese, sono certa che non si sarebbe tirato indietro. Mi creda: pago le porcate che mi hanno fatto i renziani in guerra… contro i quali, come s’è visto, ho potuto purtroppo fare poco».
(Stiamo parlando nel salone Garibaldi, il transatlantico di Palazzo Madama. È in corso la riunione dei capigruppo che deciderà di far slittare di una settimana la discussione sul ddl per le unioni civili: e la senatrice Monica Cirinnà è qui, circondata dai rappresentanti della galassia LGBT-Lesbiche Gay Bisessuali Transgender, che sono venuti a chiederle cosa sia realmente accaduto in aula poche ora fa e che tra un po’, davanti alla buvette, ingaggeranno un coraggioso confronto con la grillina Paola Taverna. «A bbbello! Io le cosette che nun so’ democratiche… nun le votoooo! Io nell’incostituzionale nun ce scivolo».)
Senatrice Cirinnà, gira voce che lei abbia ricevuto sul telefonino addirittura degli sms da parte di esponenti del M5S, i quali le confermavano il totale appoggio in aula…
«Sì. Purtroppo, è così. Si sono rimangiati tutto: non hanno avuto un filo di vergogna, di imbarazzo... Ma che modo di fare politica è?».
Le ha scritto anche il grillino Alberto Airola, quello che poi ha preso la parola in aula, definendo inaccettabile l’idea di votare il cosiddetto canguro-Marcucci?
«Sì: pure Airola mi aveva spedito un sms, assicurandomi il suo sostegno. Che roba… Che roba… Comunque, sia chiaro: io mi prendo tutta la responsabilità di essermi fidata del M5S! Tutta ma proprio tutta… Chiudo la mia carriera politica con questo scivolone…». (poi, nel pomeriggio, preciserà: «Ma no, certo che non l’abbandono il campo di battaglia»)
Dicono che lei…
«No, aspetti: io mi prendo tutte le responsabilità, ma se qualcuno ha qualcosa da dire sul testo del Ddl 20/81, si deve sapere da chi e come è stato scritto. Eravamo in tre: io e i senatori Giuseppe Lumia e Giorgio Tonini, nell’ufficio di Giorgio. E lì abbiamo finito di limare il testo, sui cui contenuti tutto il gruppo del Pd s’era impegnato. E s’era impegnato, diciamolo, perché le unioni civili e le adozioni sono nel programma elettorale del partito».
Ora cosa può accadere?
«Mi pare evidente che il testo non sia più centrale, è chiaro che ci sono pesantissime questioni politiche da risolvere e comunque io non lascio il mio nome su una legge schifezza».
Il Pd potrebbe tentare di ricucire con il Movimento 5 Stelle?
«Ricucire? No, mi ascolti bene: io ho un brutto carattere. E se qualcuno mi fa una storta, non gli parlo proprio più».
(I romani usano la parola “storta” in modo abbastanza intraducibile: è qualcosa che sta a metà tra la scorrettezza e la mascalzonata. Alla senatrice la parola scappa perché è nata a Roma 53 anni fa: e perché ci mette passione. Da sempre. Vent’anni in consiglio comunale, al Campidoglio: prima con i Verdi, poi con il Pd; battaglie politiche su temi forti: la tutela delle donne, il rispetto dell’ambiente, la difesa degli animali. Sposata con Esterino Montino, potente esponente del Pd romano ed ora sindaco di Fiumicino, vivono in una specie di fattoria con quattro cani, quattro gatti, due cavalle e una famigliola di asini. «Pensi il destino: io, una che ha passato una vita a difendere gli animali, mi ritrovo a dipendere da un canguro…»).

16.2.16

Cinque chiarimenti doverosi

il manifesto. La nostra risposta alle critiche strumentali circolate in Rete in questi giorni. Abbiamo accertato che Giulio Regeni aveva proposto un solo articolo, con lo pseudonimo. Avevamo il dovere di pubblicarlo, dopo l’omicidio, per «smontare» verità di comodo

Tommaso Di Francesco (il manifesto)

È venuto il momento che il manifesto, dopo avere indagato anch’esso sulla tragica morte di Giulio Regeni e di fronte a tante, troppe illazioni, per rispetto di Giulio e della sua famiglia e per rispetto anche dei nostri lettori provi a chiarire equivoci, sbagli, ma anche a confermare convinzioni profonde su questo atroce delitto che non esitiamo a definire di Stato.

Perché intorno alle circostanze della morte dolorosa di Giulio Regeni, mentre emergono notizie e verità sconcertanti sulla sua uccisione, rischiano di piovere prese di posizione in aperta contraddizione.

Qualcuno ci accusa di non aver pubblicato subito l’articolo inviatoci co-firmato con uno pseudonimo; altri di essere stati «sciacalli» per averlo pubblicato dopo; qualcun altro di non avere chiarito se era o no un collaboratore; infine di non pagare i collaboratori.

1) Per prima cosa vogliamo subito dire che, dopo attenta valutazione, abbiamo finalmente accertato che Giulio Regeni aveva proposto al manifesto un solo articolo insieme a un altro collaboratore e con lo pseudonimo. Abbiamo equivocato che fossero suoi anche due contributi precedenti perché di eguale contenuto (i sindacati) e con pseudonimo. Cosa che sottolineava ai nostri occhi la cautela se non proprio la preoccupazione di Giulio Regeni.

Di questo equivoco ci scusiamo sia con i lettori che con la famiglia e con l’avvocata Alessandra Ballerini.

2) L’articolo al quale Regeni aveva collaborato era in attesa di pubblicazione, non era stato ancora pubblicato perché accade così nelle redazioni. Un contributo sul sindacato egiziano andava contestualizzato, soprattutto in vista dell’anniversario del 25 gennaio di Piazza Tahrir. Non riuscivamo a metterlo nel modo adeguato e allora Giulio e l’altro collaboratore lo proposero a Nena News dove è stato pubblicato.

Ma, ecco il punto, l’atteggiamento di Giulio che insieme a un altro collaboratore aveva proposto l’articolo non è di chi si mostra irritato per la non pubblicazione, ma positivo, anzi ancora motivato e propositivo. Ci scrivono infatti il 12 gennaio: «Un po’ a malincuore abbiamo deciso di proporre il pezzo ad altre testate online altrimenti invecchierebbe troppo. Restiamo comunque molto volentieri a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto. Per noi è un piacere poter pubblicare sul manifesto. Grazie della vostra disponibilità, a presto».

3) Da questo punto di vista, chiariamo la questione del «collaboratore». Giulio Regeni era entrato in contatto con il manifesto, non era un collaboratore come tradizionalmente s’intende. Diverso è il caso di sfruttare il lavoro gratuito, come recita una delle accuse circolate in Rete. Su questo il manifesto può ricordare le tante pagine dedicate all’analisi di come il lavoro gratuito è usato contro gli altri lavoratori (ad esempio qui).

Ma ci sono tanti freelance che scrivono per il manifesto. Per noi sono compagni di viaggio. Li paghiamo poco e spesso in ritardo. Ma li paghiamo. Collaborare con noi vuol dire sensibilità comune sui contenuti, approfondimento di temi condivisi, e poi anche un articolo.

Non a caso Giulio Regeni era entrato in rapporti con noi — a questo teniamo in modo particolare -, visto il nostro lavoro d’indagine e denuncia sulle crisi del Medio Oriente e in particolare sull’Egitto.

Si dimentica infatti con grande facilità che siamo stati quasi l’unico giornale a denunciare da subito i crimini del golpe militare dell’estate 2013 del generale Al-Sisi raccontando quel massacro e tutte le malefatte sanguinose che ne sono seguite, da allora fino ad oggi. E la solitudine era terribile l’anno seguente quando denunciammo il presidente del consiglio Matteo Renzi che per primo sdoganava con una visita al Cairo il golpista proclamando che era «l’uomo nuovo emergente in Medio Oriente» e poi ricevendolo e incontrandolo anche a Roma.

4) Perché nelle ore difficili e concitate il giorno dopo l’annuncio del ritrovamento del suo corpo martoriato abbiamo allora deciso di pubblicare l’articolo che Giulio Regeni ci aveva proposto e che non eravamo riusciti a pubblicare?

Dovrebbe essere evidente, l’abbiamo già scritto ma vale la pena ripetere: esattamente perché la tragedia che si era appalesata diceva che quel testo non rappresentava più un semplice buon articolo ma era diventato un documento fondamentale, «il» documento, per capire perché davvero fosse stato sequestrato, torturato e ucciso così barbaramente.

Non ne avevamo diritto? No, avevamo il dovere di farlo.

Abbiamo rifiutato di stare zitti, un giornale non può farlo, tantomeno poteva farlo il manifesto. Solo a dieci giorni dalla scomparsa di Giulio Regeni e a due dalla sua morte comprovata, abbiamo deciso di pubblicare l’articolo-documento.

È elemento di verità inoltre ricordare che i timori e i guai che hanno riguardato l’ambiente degli amici di Giulio sono cominciati non con la pubblicazione dell’articolo, ma per l’assassinio di Giulio Regeni.

5) Un’ultima doverosa considerazione. Crediamo di non avere sbagliato a pubblicarlo perché così facendo difendevamo le ragioni di Giulio Regeni.

E poi, se non avessimo deciso di pubblicarlo non saremmo forse ancora alle prese con una verità comodissima, quella del crimine malavitoso o a sfondo sessuale?

E’ così evidente che le autorità del regime egiziano continuano a far finta di nulla, a trincerarsi dietro «le indagini» e intanto probabilmente preparano proprio quella verità di comodo che il nostro governo a parole dichiara di volere evitare.

Abbiamo pubblicato l’articolo di Giulio (tacendo naturalmente il nome dell’altro collaboratore) perché fossero chiari i motivi politici che avevano indotto a ucciderlo e confutare così il tentativo di attribuire la sua morte a un volgare crimine malavitoso o a sfondo sessuale, tutte piste vergognose su cui le autorità insistono, dando spazio all’oggettività di una indagine che ha invece profondi contenuti politici.

L’ambiente «innesca» i geni. Così possono esplodere comportamenti antisociali

Le violenze sui bambini e le violenze da grandi
di Giuseppe Remuzzi (Corriere)

Geni o ambiente? Il solito problema mai risolto che questa volta si applica a chi ha subito violenza da piccolo. Questi bambini, dall’adolescenza in poi possono avere comportamenti antisociali e qualcuno diventa persino aggressivo o commette dei crimini. Non tutti però, molti di loro avranno una vita normale, socievoli o meno si capisce, ma come tutti gli altri.
Perché qualcuno di loro sì e qualcuno no? Non lo sa nessuno. Potrebbe dipendere dai geni di cui si sa qualcosa ma non tutto, oppure dall’ambiente, dai genitori per esempio o dalle persone che frequentano o dalla scuola e dalle possibilità economiche. Come orientarsi?
Provate a chiedere a un genetista, vi dirà quasi sicuramente che tutto dipende dal Dna; poi fate la stessa domanda a uno psicologo, vi risponderà che è tutta questione di ambiente, quello in cui questi ragazzi sono cresciuti. Insomma siete al punto di prima, chi ha ragione? Tutti e due almeno un po’. Il fatto è che per rispondere a domande così bisognerebbe aver studiato il problema in modo molto più approfondito di come è stato fatto finora. Ci vorrebbero dati su varie popolazioni di ragazzi e si dovrebbero poter confrontare quelli che hanno avuto un’infanzia felice con chi invece ha subito violenza e il comportamento di questi ragazzi poi andrebbe seguito nel tempo e lo si dovrebbe poter fare per un periodo abbastanza lungo. Difficile, ma non impossibile, tanto che ricercatori del Canada — il lavoro è pubblicato su «The British Journal of Psychiatry» di questi giorni — ci sono riusciti. Hanno preso in esame più di tremila ragazzi, la maggior parte di loro con una vita del tutto normale fin da piccoli, ma c’era anche chi aveva avuto un’infanzia difficile. L’obiettivo di tutto questo poi era di studiare l’influenza dei geni sul comportamento che i ragazzi avrebbero avuto negli anni successivi. I ricercatori non potevano certo studiare l’intero genoma — almeno 30 mila geni con interazioni estremamente articolate tra loro e sistemi di regolazione che rendono tutto ancora più complicato — perché mettere in rapporto una o più alterazioni genetiche con diversi comportamenti è più difficile che cercare l’ago nel pagliaio. Così hanno fatto riferimento a un lavoro precedente pubblicato su «Science» da un gruppo di psichiatri inglesi, americani e neozelandesi che aveva già dimostrato come i comportamenti antisociali di chi aveva subito violenza da piccolo dipendevano soprattutto da un gene che presiede alla sintesi di una proteina: monoaminossidasi A (MAOA) — si tratta di un enzima che degrada noradrenalina, serotonina e dopamina, ormoni che funzionano come «neurotrasmettitori», aiutano cioè i neuroni a dialogare fra loro e in questo modo governano emozioni, tono dell’umore ma anche depressione, rabbia e tanto d’altro.
Una volta deciso di concentrarsi su quel gene, il resto diventava più facile. Si trattava di mettere in rapporto certe variazioni (i medici dicono polimorfismi) del gene MAOA con il comportamento dei ragazzi nel tempo confrontando chi aveva subito violenza da piccolo con gli altri.
La prima informazione che viene fuori da questo studio — e non è di poco conto — è che essere esposti a violenza da piccoli aumenta davvero la probabilità di sviluppare con il tempo una personalità antisociale fino ad arrivare, per qualcuno di questi, a comportamenti aggressivi, in famiglia per esempio o con il partner. Fin qui non c’è niente di nuovo e ci si poteva arrivare con il buon senso, ma il rigore con cui è stato condotto questo studio e il tempo di osservazione così prolungato ci consentono oggi di avere qualche certezza in più.
Un’altra informazione importante che emerge dallo studio canadese è che la variazione del gene MAOA, proprio quello identificato più di dieci anni fa su «Science», influenza in modo importante l’eventuale comportamento antisociale di chi ha subito violenza da piccolo. Questo polimorfismo ce l’ha il 30 per cento della popolazione e sono proprio i portatori di questa variazione ad avere alla lunga le maggiori difficoltà di rapporto con gli altri.
Ma l’informazione forse più importante che emerge da questo studio è che la variazione genetica da sola non basta a scatenare comportamenti antisociali. L’effetto negativo dell’alterazione genetica sul comportamento si esprime solo in contesti molto particolari che configurano di fatto circostanze ambientali sfavorevoli. Così la domanda che c’eravamo posti all’inizio (vale per questo ma per tantissime altre condizioni in cui ci si interroga sull’influenza dei geni rispetto all’ambiente) andrebbe posta in un altro modo: «Com’è che l’ambiente può modificare l’espressione o la funzione di certi geni?». Più si studia e più ci si rende conto che non ci sono comportamenti che dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente. Ci sono piuttosto predisposizioni genetiche che consentono in circostanze ambientali particolari di sviluppare certi comportamenti piuttosto che altri. Ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche, l’espressione di certi geni e questo si traduce in comportamenti diversi a seconda delle circostanze.
Insomma, nel caso dei bambini che hanno subito violenza da piccoli non bastano i geni per sviluppare comportamenti antisociali e altre forme di labilità psichica: ci vogliono circostanze ambientali sfavorevoli. Il termine «ambiente» però è un po’ vago. Il passo successivo rispetto allo studio del «British Journal of Psychiatry» sarà quello di capire quali sono queste circostanze ambientali sfavorevoli e come si possono prevenire i comportamenti antisociali ed eventualmente aggressivi. E non è solo una curiosità; il giorno che riusciremo a capirlo la vita di questi ragazzi potrebbe cambiare.

All’origine dell’ira

Che cosa sono gli scoppi di collera? Si tratta di qualcosa anticamente finalizzato alla nostra sicurezza che oggi può addirittura metterla a repentaglio. Perché? Perché il cervello si è formato per dare risposte rapide a situazioni pericolose, non per essere logico. Perciò non sempre distinguiamo bene e male

di Leonardo Boncinelli (Corriere)

Quando ero piccolo mio padre inveiva spesso contro i mercanti di armi — «di cannoni», diceva lui — che riteneva essere all’origine di tutte le guerre. A quell’epoca io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse la biologia — l’ho scoperta solo a 25 anni! — e ancora meno la biologia del comportamento, ma la faccenda non mi quadrava affatto. Mi pareva semplicistica, antistorica e poco aderente all’osservazione della ordinaria microconflittualità quotidiana di tutti contro tutti, suscettibile di alcuni improvvisi incredibili inasprimenti. A parte il fatto che non esiste alcun fenomeno che abbia un’unica causa, sarebbe stato opportuno, pensavo, chiedersi se la conflittualità tra individui non avesse anche una qualche base biologica, oltre che storica.
A metà gennaio la rivista «Science» ha pubblicato una recensione del libro Why we snap , cioè «Perché scattiamo. Comprendere il circuito della collera nel nostro cervello» di R. Douglas Fields (Dutton, 2015). In questa lunga recensione, Pascal Wallisch, psicologo dell’Università di New York, tocca molti dei temi connessi all’argomento, a partire dalla nostra cosiddetta razionalità e dalla nostra scarsa linearità di comportamento. Lo studio delle dinamiche economiche assume che queste vedano come attore principale un essere umano dotato di specifiche qualità, che è stato convenzionalmente definito homo oeconomicus . La caratteristica fondamentale di costui o di costei è quella di agire sempre razionalmente e lucidamente, in modo da massimizzare il proprio guadagno, tenendo conto delle condizioni in cui si trova a operare. Si tratta ovviamente di una idealizzazione — come quelle di un moto in assenza di attrito, di gas ideale e di corpo solido — utile per impostare un’analisi dei processi economici che si osservano nelle varie situazioni.
Le neuroscienze ci hanno insegnato però negli ultimi trent’anni che nessuno di noi si può comportare così in ogni situazione, non solo in pratica, ma nemmeno in teoria. Perché? Perché ciascuno di noi possiede una sorta di «razionalità limitata», limitata per almeno due ragioni. Perché, anche se fosse perfetta, la nostra razionalità dovrebbe sempre fare i conti con l’interferenza del nostro onnipresente universo emotivo, e soprattutto perché la razionalità di ciascuno di noi è gravemente imperfetta e mostra specifiche «falle», vere e proprie «illusioni cognitive», che ci inducono spesso a fare scelte sbagliate, soprattutto, va detto, se si deve decidere in fretta e in condizioni di stress.
Tanto per giocare, sottoponetevi a questo semplice problemino, abbastanza noto e di cui s’è già scritto su «la Lettura». Un tifoso compra insieme una felpa e un distintivo della propria squadra preferita. Per comprare le due cose, spende 110 euro. Se la felpa è costata 100 euro più del distintivo, quanto è costato il distintivo? Provate a rispondere e vedrete che molti di voi daranno una risposta sbagliata, non perché siate stupidi, ma perché il nostro cervello funziona bene soltanto fino a un certo punto, a meno che non lo si metta alla frusta. Cosa che spesso non si fa e che è, per esempio, all’origine del fatto che le cose costino 4,99 euro invece che 5. E questi non sono che alcuni esempi elementari.
Colui che ha il merito principale di avere scoperto queste sorprendenti proprietà del nostro cervello, Daniel Kahneman, ha ottenuto un premio Nobel per la sua scoperta. L’andamento dell’economia mondiale degli ultimi anni, d’altra parte, ha messo drammaticamente a nudo quanto difettosi, oltre che improvvidamente emotivi, siano i ragionamenti di cui sono capaci anche i migliori operatori di mercato. Considerazioni del genere sono ormai all’ordine del giorno e ne è anche nata una nuova scienza, la neuroeconomia.
Ma qual è il motivo per cui il ragionamento degli individui ha tutte queste defaillance ? La risposta è semplice. Quando il nostro cervello si è formato e perfezionato non esistevano partite di scacchi, indovinelli logici o agenti delle assicurazioni, mentre esisteva un enorme numero di situazioni pericolose dove era richiesta una pronta valutazione delle condizioni ambientali e una decisione molto spedita. La nostra mente doveva essere veloce a valutare, e capace di decisioni tempestive, piuttosto che logicamente ineccepibili. Noi abbiamo ereditato un cervello di questo tipo e quello usiamo anche oggi che le condizioni esterne sono tanto diverse. Ci vorranno millenni, se ci saranno, perché quello cambi e ci dobbiamo arrangiare con ciò che abbiamo, ovvero un buon compromesso fra prontezza e rigore. Il fatto poi che possediamo una matematica e perfino una logica, una disciplina nata anzi praticamente adulta già venticinque secoli fa, deriva dal fatto che non esiste al mondo un unico individuo, ma una moltitudine di persone che, agendo collettivamente, riescono a sopperire ai difetti logici di ciascuno di noi.
Se si vogliono veramente comprendere molte delle nostre caratteristiche occorre spesso mettere la questione in prospettiva e considerarla da un punto di vista evoluzionistico, anche se con le dovute cautele.
Lo stesso vale per i nostri inopinati scatti di collera, per le nostre ostilità, sorde o conclamate, e la nostra perdurante e logorante conflittualità sociale. Negarlo serve solamente a impedirci di comprendere e magari porre rimedio, perché comprendere è sempre necessario anche per poter cambiare le cose e renderle più in linea con i nostri desideri. Non basta desiderarlo, sperarlo o prometterlo, come fanno molto spesso i promettitori di professione, iperbolici reclamizzatori del nulla.
Anche per quanto riguarda gli scoppi d’ira, rari fortunatamente, ma talvolta disastrosi e spesso memorabili anche per chi vi è stato coinvolto, è possibile individuare un’origine evolutiva, che può anche rivelare il suo volto paradossale: qualcosa originariamente finalizzato a proteggere la nostra sicurezza, la può mettere gravemente a rischio nel mondo di oggi, e comunque spingerci a comportamenti inappropriati alla situazione. Nove sembrano essere le situazioni più indicate per scatenare la nostra collera: una minaccia per la nostra vita oppure per parti del nostro corpo; una minaccia per il partner o altri membri della famiglia oppure anche per il gruppo di appartenenza; insulti a noi oppure all’ordinamento sociale; un tentativo di invadere il nostro territorio oppure di appropriarsi di roba nostra; e infine una qualche forma di costrizione che ci impedisca libertà d’azione. Sopravvivenza, quindi, e integrità per noi e le persone a noi più vicine, territorialità in senso proprio o esteso, e libertà di manovra materiale e virtuale, sono, non sorprendentemente, le questioni sul tavolo, alle quali teniamo sopra a tutto il resto. A queste aggiungerei almeno l’intransigenza per una mancanza di rispetto e di considerazione, istanza molto sentita oggi in un mondo dominato dalla conoscenza e dalla comunicazione.
Che cosa mette in moto tutto questo? Mette in moto una serie di aree cerebrali connesse con l’emotività, dopo una valutazione prettamente emotiva mediata dall’amigdala e una più meditata operata dell’ippocampo. A seguito di tutto ciò si passa o non si passa all’azione, in dipendenza della gravità degli stimoli, della situazione complessiva e dell’indole del soggetto implicato, il cui comportamento può anche variare da momento a momento.
Questo è quello che accade dentro di noi. Su questo va poi esercitata un’eventuale azione inibitoria da parte della corteccia cerebrale e della nostra cosiddetta razionalità, sulla base della nostra indole e dell’educazione che abbiamo ricevuto. La cosa può magari essere egregiamente arginata centinaia di volte e manifestarsi più o meno clamorosamente soltanto una o due volte. Spesso senza una concreta possibilità di prevedere. Oppure restare a «bollire in pentola» per anni senza manifestazione alcuna e magari «esplodere» all’improvviso, con atti concreti di ostilità o con decisioni altrettanto inconfondibili verso questo o quello oppure questi o quelli, anche mai incontrati di persona.
Il quadro è essenzialmente questo, e non c’è dubbio che contrasti un po’ con la concezione tipica della nostra cultura, figlia della filosofia occidentale e riflessa nelle norme del diritto, che considerano l’uomo come capace di distinguere chiaramente il bene dal male e quindi pienamente responsabile delle proprie azioni e dei propri errori.
L’autore fa notare però che molte di queste idee sono state elaborate per via speculativa secoli e secoli prima dello sviluppo delle moderne neuroscienze. Viene quasi da pensare che per molta filosofia valga quanto abbiamo detto di certe istanze biologiche: erano fondamentali e di grande utilità una volta; possono essere di dubbia utilità o anche d’intralcio oggi. Un po’ di quello che ci hanno insegnato le neuroscienze potrebbe essere perciò proficuamente incorporato nelle nostre concezioni correnti.

Il contagio

Il panico delle Borse per i titoli tossici, il reclutamento sul web dei terroristi, le emergenze sanitarie: non si contano i fenomeni virali, fino a configurare un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, che può espandersi o contrarsi. Questo tuttavia finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Ne hanno parlato Albert Camus nella «Peste» e George Orwell in «1984».
Ma forse la pagina più istruttiva si trova già nelle «Storie» di Tito Livio


di Emanuele Trevi (Corriere)

Non sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del «contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il «virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche. Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto. Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti. L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale, stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi allarmi sanitari — come appunto il virus Zika di questi tempi o le ricorrenti paure legate alla meningite —, destinati o meno a tramutarsi in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti, le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo. Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso lineare e infinito. Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei «miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
La verità è che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La peste , un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata, non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo, all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze. Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste , suona come una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.
Pochi mesi dopo La peste , George Orwell pubblicò 1984 . Questi due grandi scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano, sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus, noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico. Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso. Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire. Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una compagnia di attori. I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi, destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa.

15.2.16

Caso Regeni-Manifesto, la tempesta sui social accende i riflettori anche sui freelance sfruttati

di Antonio Armano – freelance – candidato sindaco Inpgi2 per Inpgi-La Svolta
 
Parafrasando Marko Vešović, “chiedo scusa se non parlo di Sanremo”. Volevo scrivere questo: cane non mangia cane. Sicuramente il famoso detto vale per i cani da guardia. Mi riferisco al ruolo che viene attribuito ai giornalisti (public watchdog, secondo la roboante definizione anglosassone). E al fatto che le magagne del mestiere sono emerse poco sui giornali. A meno che non assumessero proporzioni enormi, e almeno fino all’avvento di Internet.
La motivazione? Ai lettori dei giornali non frega niente di quanto riguarda i giornali. A volte c’erano ragioni meno confessabili: i guai o gli incidenti di percorso di un’altra testata è meglio lasciarli perdere sperando che accada altrettanto se sarà la tua testata ad avere problemi.
Ora con i social questa zona d’ombra non dico sia finita ma almeno si è in parte dissolta. Prendiamo il clamore intorno al caso Regeni-Manifesto.
Non è esagerato definire epic-fail, autogol virtuale la decisione di pubblicare l’articolo del giovane ricercatore friulano trovato morto mercoledì 3 febbraio al Cairo. Con tanto di tweet per creare aspettativa il giorno prima dell’uscita, il 4 febbraio. Scrive Simone Pieranni, della redazioni esteri, anche lui con un passato da ricercatore e da espatriato (in Cina), ma ora interno al giornale: “Domani sul Manifesto ricorderemo #GiulioRegeni (anche) con un pezzo suo che ci mandò poco prima del 25.1 (e con particolari non da poco)”. Risponde Marcella Martinelli: “Sono lettrice del Manifesto. Se quelli scritti da #GiulioRegeni erano particolari non da poco perché non pubblicarlo subito?”.
Da qui inizia una serie di tentativi di salvare la faccia che peggiorano la situazione: “i motivi sono in scambi di mail con Giulio e altri autori e non dipendono dalla richiesta di anonimato” si giustifica Pieranni genericamente. Il pezzo in realtà era stato rifiutato ed è uscito su un’agenzia di stampa, Nena News, Near East News Agency, sotto pseudonimo: Antonio Drius. Quando l’autore muore dopo giorni di torture diventa appetibile e nessuno scrupolo di coscienza ferma il “quotidiano comunista”.
Non basta. Il comunicato del legale della famiglia Regeni inviato a Ordine dei giornalisti, Garante della privacy e altri soggetti, nonché al Manifesto stesso, esprimeva contrarietà rispetto alla pubblicazione. Si è deciso di procedere comunque e sparare il pezzo in prima pagina. Il fax, dicono, è arrivato troppo tardi: alle sette di sera… I tempi erano stretti ma c’erano. Comunque la diffida aggrava la situazione ma il concetto non cambia. Piovono critiche. Mario Cipriani replica a Pieranni: “ma non ti vergogni neanche un po’? ma chi vuoi solleticare con quel: ‘e con particolari non da poco’ e ‘poco prima’? DIMETTITI”.
Sulla pagina Facebook del Manifesto, dominata dalla classica manina blu in versione pugno chiuso invece che in quella del like, la musica è la stessa. Un coro di condanna in mezzo al quale si leva qualche voce di difesa. Giovedì 4 febbraio viene annunciato anche qui il pezzo, si pubblica l’anteprima della prima pagina, e i commenti di diversi lettori sono pesanti: “Sfruttare la morte di un vostro collaboratore (pagato chissà quanto poco poi) e utilizzarlo come vostra cassa di risonanza. Inutile appellarsi al diritto d’informazione in questi casi. Sono basito”. Alla musica si aggiunge la nota dolente degli scarsi o nulli compensi che il Manifesto dà ai collaboratori. Il tentativo di pararsi il culo non fanno che peggiorare la situazione. Si risponde che c’è molta gente che scrive sul Manifesto per il puro piacere di scrivere, non per denaro. I lettori fanno presente che il Manifesto ha preso nel 2014 quasi 2 milioni di euro di finanziamento pubblico.
Il numero incriminato esce venerdì 5 febbraio. Il pezzo è intitolato “In Egitto la seconda vita dei sindacati indipendenti”. Dagospia, caustico come sempre, ironizza su quanto al Manifesto stiano a cuore i lavoratori egiziani ma non i collaboratori italiani. Il pezzo appare anche sul sito del quotidiano comunista, dove si trova tuttora, e in traduzione inglese (niente di strano; accade anche per altri articoli). I commenti sul sito sono dello stesso tenore. E con le stesse risposte suicide. Tra cui brilla questa: “nessuna famiglia può diffidare un giornale dal pubblicare alcunché se non per motivi regolati dalla legge e disposti dalle autorità competenti, e non è questo il caso”. Mai sentito parlare di diritto d’autore? Si cerca di liquidare la polemica come una cagnara dei social ma è davvero qualcosa di più; una ribellione generazionale.
Il post di Arianna Giunti, collaboratrice dell’Espresso, vincitrice del premio Guido Vergani per cronisti under 30 con una inchiesta sulle carceri (La cella liscia), supera in poche ore gli 800 like e inquadra il clima: “Ecco il quotidiano comunista il Manifesto che, dopo aver rifiutato gli articoli di Giulio Regeni da vivo, li ha pubblicati da morto. Che si vanta di non pagare i suoi collaboratori che – a sentir loro – scrivono per la gloria. (O per la disperazione?) Vergognatevi, gente. E chiedete scusa alla famiglia di quel ragazzo, per non aver tenuto conto della loro volontà di non pubblicare il pezzo post mortem dopo non averlo considerato da vivo. (E già che ci siete, chiedete scusa anche a tutti i ragazzi che – dopo esservi fatti belli ‘lottando per i diritti dei lavoratori’ nei salotti borghesi – avete fatto lavorare gratis ‘per piacere’)”.
Pat Zarate, collaboratrice del País, scrive (in inglese) sulla bacheca di Arianna: “Grazie per avere fatto emergere la verità. Giulio NON era un collaboratore del Manifesto. L’articolo non era ‘in attesa di pubblicazione’: l’avevano rifiutato. Lo hanno fatto passare per collaboratore solo per avere un tornaconto dalla sua tragedia e l’attenzione che deriva. Al massimo della falsità, hanno pubblicato il pezzo senza rispettare il desiderio di anonimato, infrangendo l’accordo della consegna del manoscritto; e contro il volere della famiglia, che chiedeva la discrezione che si deve alle indagini. Questa è una violazione della legge e di ogni codice di etica del giornalismo. Il Manifesto infama l’Italia e il giornalismo in tutto il mondo”.
Quello dei pagamenti è un punctum pruriens anzi dolens non da poco. Il Manifesto è in crisi cronica da molti anni e in mezzo alle polemiche è stato appunto accusato di non pagare i giornalisti pur ricevendo lauti finanziamenti pubblici. Un articolo di Libero ha ricordato che negli ultimi 12 anni ha incassato circa 30 milioni di euro di contributi statali (leggi qui). Luciana Castellina, storica firma del quotidiano comunista, cerca di metterci una pezza scrivendo un articolo in cui dice che proprio la scarsità di risorse ha fatto sì che la redazione esteri ricorresse al contributo di diversi italiani che si trovano all’estero: ricercatori o operatori delle Ong. Una risorsa preziosa (“i nostri inviati speciali”) che ha dato alle pagine di esteri un taglio particolare e apprezzato perché le suddette categorie vivono la realtà dei paesi che raccontano, hanno una conoscenza più profonda e personale. Se li apprezzano tanto dovrebbero dimostrarlo, viene da pensare. Comunque questo ragionamento non tocca i temi etici che sono stati sollevati sulla scelta di pubblicare quel pezzo rifiutato e contro il volere della famiglia.
Così come non li tocca l’intervento di Giampiero Mughini su Dagospia che fa notare come il Manifesto si sia retto in tutti questi anni grazie alla volontariato giornalistico, ai tanti collaboratori che scrivono gratis. Lui stesso dice di avere scritto il commento per Dagospia gratis. Michele Anselmi, firma dell’Unità e ora del Secolo XIX, fa notare su Facebook come Mughini possa permettersi di non percepire compensi perché campa di una lauta pensione. Pensione che le generazioni successive alla sua età non avranno mai. Se per questo Luciana Castellina, deputata ed eurodepudata del paese che più paga i politici al mondo, avrà pure un bel vitalizio. Alla faccia del sistema contributivo in base al quale i giornalisti non assunti, visti gli scarsi compensi, non avranno mai una pensione. E neanche l’integrazione al minimo, date le recenti riforme, visto che appartengono a un ordine professionale. Una bomba sociale che scoppierà nei prossimi anni. Per ora la media delle pensioni erogate ai giornalisti non assunti è sui 700 euro. L’anno!
Proprio per evitare lo sfruttamento di collaboratori giovani e meno giovani da parte di testate sovvenzionate pubblicamente è stata varata la legge sull’equo compenso che ha avuto un iter tormentato. Se vuoi fare il capitalista senza troppi scrupoli poi non chiedere soldi allo Stato. Sembra qualcosa di sacrosanto ma trova difficoltà di traduzione legislativa e ancora di più applicativa. Come si calcola un compenso equo? Si applica a tutti o solo ai collaboratori strategici, fissi, come ha sostenuto quell’Azzeccagarbugli di Tiziano Treu? Che cosa si intende per aiuti pubblici? Contano solo i finanziamenti alla stampa di partito e dintorni (vedi Manifesto), o qualsiasi forma di sostegno? In questo secondo caso il numero di testate interessate è molto più alto. Si salva giusto il Fatto quotidiano.
Comunque la si pensi il principio di un pagamento minimo dignitoso – superiore ai pochi euro corrisposti da alcuni pur fiorenti quotidiani, soprattutto locali – è stato recepito dall’ultimo contratto dei giornalisti nel 2014 sulla spinta dell’equo compenso. Stabilendo un conquibus non certo sontuoso. Forse neanche equo – non per niente la legge sull’equo compenso è stata oggetto di ricorso alla magistratura -, ma non proprio da fame. Anche qui l’applicazione ha incontrato difficoltà. Non legislative ma culturali, antropologiche: ci si è barbaramente abituati ad avere le mani libere nei confronti di chi non è assunto, di chi non è dipendente. E così molte testate hanno fatto finta di niente continuando a pagare pochi euro a pezzo. Quello che gli antichi romani chiamavano nummo uno… Aggiungiamo una tantum, cioè campa cavallo che l’erba cresce.
Bisogna poi chiarire un aspetto, visto che siamo partiti dal povero Giulio Regeni: queste norme si applicano ai giornalisti, agli iscritti all’albo dei giornalisti, condizione che riguarda oltre 100 mila persone in Italia. Ma non Regeni. Regeni era un brillante ricercatore di Cambridge che svolgeva un dottorato all’Università americana del Cairo, non un giornalista. Non ancora almeno. Ma questo dà il diritto di non pagarlo o pagarlo in modo ridicolo? Dal punto di vista strettamente formale forse sì. Ma da quello morale e civile? Ci sarebbe la Costituzione, certo, che sancisce un pagamento dignitoso al lavoro in generale, ma per ora si tratta dell’unico longseller di fantascienza italiano. In ogni caso si è evitato un dibattito serio sulla questione e liquidato le proteste di molti giovani per il comportamento del Manifesto come cagnara da social. Eh sì, comoda.
Proprio grazie a Internet si parla di temi giornalistici che sono stati messi sotto il tappeto troppo a lungo e nel frattempo sono diventati una montagna di polvere tossica. Un caso rumoroso di uscita dalla omertà e dal silenzio è stato l’articolo della giornalista Francesca Borri. Anche lei freelance, Borri nel 2013 ha lamentato come i suoi reportage dalla Siria venissero pagati 60 euro o giù di lì. E lo ha fatto in inglese sulla Columbia Journalism Review, il periodico della più prestigiosa scuola di giornalismo del mondo.
Il giornale a cui la Borri si riferiva, come poi si è detto e ridetto in Rete, è il Fatto Quotidiano. Il quale, va ripetuto, non riceve finanziamenti pubblici. Di nessunissimo tipo. La sua forza è proprio l’indipendenza. La coraggiosa formula di autonomia. Al di là di questo può pagare profumatissimamente i commenti di Selvaggia Lucarelli, e pagare poco dei reportage di guerra dalla Siria. Purché questo poco sia superiore al minimo previsto per i freelance, intorno ai 30 euro. Il che non è molto difficile. È il mercato. La Costituzione, per tornare al punto di prima, afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (art. 1) e soprattutto che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36). I 60 euro sono comunque non molto sotto quanto pagano testate con tirature ben maggiori.
Intendiamoci: spesso ai giornali, pagati gli stipendi dei dipendenti – non miseri, diversamente dai compensi dei freelance -, non restano molti soldi, o restano dei debiti. Dunque i collaboratori sanno benissimo quali sono le condizioni e le accettano in cambio della visibilità (di questo la Borri è stata rimproverata, per esempio in un pezzo di Riccardo Puglisi su linkiesta.it (leggi qui). Oggi accontentiamoci, domani chissà. La speranza è una buona colazione ma una pessima cena, diceva quello.
Ricordate il famoso video sul freelance che cerca di pagare l’idraulico con la visibilità? Anche questo ha avuto una diffusione virale. Tra precari di vario tipo, compensati con la visibilità. Non solo giornalisti. L’area dei non garantiti è molto vasta e la dieta della visibilità molto diffusa e più efficace di quella del minestrone. Non si mai è fatto granché per chi la pratica. Non ricordo uno sciopero dei giornali per i diritti dei collaboratori. Anzi: ricordo che con l’arrivo della crisi del 2008 i giornali, tutti, come se fossero d’accordo – erano d’accordo -, hanno mandato cortesissime lettere in cui informavano del taglio del 20/30 per cento dei compensi. Che saranno ripristinati appena possibile, si diceva. Invece sono arrivate altre lettere, altri tagli. Tutto viene subìto passivamente.
Vale la pena di rischiare la vita per pochi soldi e una remota speranza futura sempre più ridotta? Spesso sono i giornalisti – o aspiranti tali – con situazioni contrattuali precarie a esporsi, proprio perché non si muovono in gruppo. Giulio Regeni era l’unico occidentale presente alla riunione dei sindacati indipendenti al Cairo. Ha dato nell’occhio. Lo hanno fotografato. Il servizio che ha scritto inizia così: “Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono”. A rileggerlo suona maledettamente bene e sembra un pezzo della trama di un film. Un Sostiene Pereira arabo finito male.
Ce ne sono anche versioni balcanico-caucasiche. Non so quanti ricordano Antonio Russo, il collaboratore di Radio Radicale, emittente che pure riceve finanziamenti pubblici. Proprio grazie al proprio status di freelance con poche risorse, Russo è stato l’unico giornalista a rimanere a Pristina durante bombardamenti del Kosovo da parte della Nato. Tutti i colleghi alloggiavano in albergo e sono stati espulsi prima di lui dai serbi. Lui stava presso una famiglia kosovara e ne ha condiviso le sorti, fino in fondo. Compreso l’esodo in treno verso la Macedonia e poi, a piedi, fino a Skopje. Antonio Russo è stato ucciso pochi mesi dopo, mentre stava documentando le torture e gli abusi dei soldati russi in Cecenia. L’omicidio è avvenuto in Georgia nel 2000. Il 16 ottobre. Aveva appena compiuto 40 anni. Il 3 giugno.
Spesso i giornalisti freelance si muovono in zone di guerra con pochi soldi mentre in quelle circostanze per cavarsela è molto meglio avere grana in tasca. La morte non è l’unico scenario. Ma se accade qualcosa, per esempio di farsi male, senza rimetterci le penne? Gli assunti hanno tutele e coperture. I freelance spesso non hanno neanche una minima assicurazione. L’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani, ha varato lo scorso anno una assicurazione infortuni per i collaboratori. Non vogliamo buttarla sul burocratico, ci sono vite in gioco. L’Inpgi tra l’altro è intitolato a Giovanni Amendola, il giornalista e politico liberale morto a Cannes nel 1926 dopo varie bastonature fasciste.
Dunque: l’assicurazione è un passo avanti ma vale solo per quelli che hanno un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, altrimenti detto cococò. Perché il costo è stato addebitato al committente, vale a dire all’editore, in quanto è quest’ultimo che paga i contributi al giornalista. Se uno non ha un contratto cococò deve pagare di tasca sua i contributi previdenziali e quindi non si può chiedergli di autofinanziarsi un’assicurazione. Se la vuole se la paga da sé: al limite ci sono le tariffe scontate, le convenzioni Inpgi. Ma questa assicurazione potrebbe essere pagata dall’Inpgi almeno ai collaboratori che rientrano in una determinata fascia di reddito. Cioè che lavorano, fanno effettivamente il mestiere, quindi guadagnano qualcosa. Non solo a chi si fa male in guerra ma in generale sul lavoro. Di soldi ce ne sono all’Inpgi2, la gestione separata, che riguarda freelance e collaboratori cococò. Si tratta di far passare il principio di usarli per fini non puramente pensionistici. Lo stesso che l’Inpgi ha cercato di far passare approvando una convenzione con la Casagit di assistenza sanitaria integrativa. I ministeri competenti del governo Renzi, Economia e Lavoro, stanno ancora valutando, devono ancora esprimersi. Intanto i freelance si ammalano e si infortunano. E come si mantengono?
In ogni caso Internet ha dato alla categoria gli strumenti per parlare e ragionare di sé. Sui social network o sui siti. Una volta questi strumenti non esistevano e l’accesso a quelli che esistevano era molto più difficile. Lo sfruttamento e i colpi bassi nei confronti dei giornalisti o aspiranti tali alle prime armi restano un fenomeno tra i più deteriori, che mi dà personalmente più fastidio, per motivi di principio e per averla provata sulla mia pelle. Oggi si scatena subito la reazione e arriva l’etichetta di epic fail. Nella seconda metà degli anni ’90, quando i social non esistevano ancora, mi è capitato di proporre due pezzi all’Espresso. Un giornale con cui non avevo mai collaborato. Mi sono buttato candidamente, come giornalista che raccontava i paesi dell’Est, dalla Russia ai Balcani. Una proposta è stato approvata e l’altra no. Ho scritto il pezzo e passato un po’ di tempo nel cosiddetto ‘martirio dell’edicola‘. Andando in edicola il giorno di uscita per vedere se il pezzo era finalmente uscito. Niente. Quel pezzo, pur approvato, non è mai uscito.
In compenso è uscito l’altro! Ma non a firma mia, visto che non lo avevo scritto ma solo proposto. Il caposervizio degli esteri ha fatto sviluppare la proposta ad altri. Ai corrispondenti del giornale. L’idea deve averla apprezzata molto. Tanto che il servizio era amplissimo e con richiamo in copertina. Naturalmente non ha mai più risposto al telefono. In compenso mi ha chiamato il vicedirettore, Giampaolo Pansa, per scusarsi. Il direttore, Claudio Rinaldi, era malato e Pansa preferiva, mi ha detto, non coinvolgerlo in queste cose così tristi. Il giornalismo, mi ha detto, è un mestiere duro, come la boxe, ma non si dovrebbero dare colpi sotto la cintola.
Ho trovato il modo di parlarne, sul Foglio. Giornale allora appena nato. Durante una serie di note autobiografiche spedite per un concorso (“Cercasi giornalista o almeno scrittore”). Uno dei rarissimi casi di reclutamento aperto e pubblico di giornalisti, con tanto di inserzione. Quella che avete appena letto tra parentesi. Molto ironica ma concretissima. Si deve a Giorgio dell’Arti. Mai più viste inserzioni di ricerca di giornalisti nei venti anni a venire… Vale a dire fino a oggi. Ma questa è un’altra storia, un altro problema della categoria, che andrebbe risolto, in nome della trasparenza, se questa professione vuole avere un futuro.

14.2.16

Nelle scuole italiane che resistono e innovano

Classe della scuola Feld a Suhr in Svizzera, settembre 2014
Quando sono andata all’Open day della scuola di mia figlia, quella specie di visita guidata che gli istituti organizzano per far sì che i genitori valutino bene la scuola in cui rinchiuderanno i loro pargoli per cinque anni, mi sono ricordata di quello che scriveva Natalia Ginzburg nelle Piccole virtù (1962), a proposito del successo e dell’insuccesso scolastico dei nostri bambini. E ho pensato che in fondo in questi Open day siamo noi genitori a scegliere la scuola che ci piace di più, e a volte è una scelta puramente estetica.
I bambini all’Open day sono distratti e, anche se talvolta sono organizzati giochi e “lavoretti” per intrattenerli, di solito non vedono l’ora di andare. Mia figlia, e non è un buon segno, l’avevo proprio lasciata a casa. Sarà vero che oggi “i bambini sono il nuovo baricentro del mondo”, come dice la psicanalista Costanza Jesurum? Maria Montessori considerava i bambini come una vera e propria “classe sociale” (“una classe di lavoratori: infatti essi lavorano a produrre uomini”) e lo faceva già nel secolo scorso.
In ogni caso, tornata a casa, sono andata a rileggere quel saggio breve della Ginzburg, che più invecchia e più diventa attuale, (in parte è leggibile qui), in cui la scrittrice consigliava ai genitori di non opprimere i figli con l’idea del “successo scolastico”. E concludeva con questa semplice idea: perché i ragazzi capiscano qual è la loro vocazione è necessario che i genitori abbiano, essi stessi, una vocazione.

Scuole da imitare
Naturalmente questo vale anche per i maestri. Se un maestro è appassionato, trasmette ai ragazzi una passione, quel famoso “desiderio di essere e di sapere”. Ma questo non basta o meglio, sostiene Giacomo Stella nel libro fresco di stampa Tutta un’altra scuola. Quella di oggi ha i giorni contati (Giunti), è impossibile. Non si può formare dei maestri o dei professori innamorati dell’insegnamento. Bisogna piuttosto rivoluzionare la scuola che, al livello didattico, “è ferma agli anni sessanta”. Rivoluzionare la nostra obsoleta, fatiscente, grigia, ma comunque essenziale, e nella stragrande parte dei casi, inevitabile, scuola pubblica.
Dunque questa scuola martoriata dalle devastanti riforme Moratti e Gelmini, ridotta all’osso da un taglio di nove miliardi (che rischiava di diventare di 21 se il governo Berlusconi non fosse caduto!) dovrebbe cambiare ancora, e questa volta in meglio. Secondo Stella, professore di psicologia clinica all’Università di Modena e Reggio e tra i massimi esperti italiani di dislessia e disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), bisognerebbe prima di tutto rovesciare le classi, abolire la lezione frontale con la cattedra, abolire i compiti e i voti, ristabilire il tempo pieno (quello in cui si gioca, si sta insieme, si fa comunità), e introdurre un uso attivo degli strumenti multimediali.
“Io sono prima di tutto per una scuola in cui si chiede l’opinione del bambino”, mi ha detto Stella. “E in cui non si danno nozioni, quelle i ragazzi le trovano già su Google, ma si insegna senza insegnare, facendo esperienza”. E poi mi ha fatto l’esempio dell’inglese, materia che notoriamente in Italia non s’impara: ecco, la scuola italiana è un po’ tutta così, tante nozioni, ma non vero apprendimento. “E comunque il problema non è la scuola primaria, ma la scuola media, il vero buco nero del nostro sistema educativo”.

I famigerati dati dell’Ocse/Pisa sembrano dar ragione a Stella. Gli studenti italiani non sono bravi, anzi sono tra i meno bravi d’Europa. E il numero di Neet (improponibile acronimo con cui s’intendono i ragazzi che abbandonano gli studi e non hanno un’occupazione) nel nostro paese è altissimo, al pari della Grecia. La nostra “buona scuola” non è così buona, dicono, insomma le prove Invalsi.
Ma siamo sicuri che la scuola sia ovunque così obsoleta? Siamo sicuri che non si stia invece muovendo qualcosa? Se non sbaglio, stiamo assistendo a un palpabile cambiamento, sia all’interno dell’istituzione scolastica sia al di fuori, dove sempre più maestri e genitori sono alla ricerca di alternative alla scuola tradizionale.
Non ho gli strumenti scientifici per sapere se è davvero così, ma provo a segnalare qui alcune esperienze di scuole primarie statali e pubbliche dove si stanno sperimentando altre direzioni, in certi casi anche da alcuni anni. Scuole che potrebbero diventare e, in parte lo sono già, modelli per altre scuole. E i risultati sono ottimi (e più che ascoltare le Invalsi, qui il test migliore è chiedere gli studenti se vanno a scuola volentieri).

La classe rovesciata
Di questo movimento “dal basso” è testimone anche anche l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire), che nell’ultimo biennio sembra abbia avuto uno slancio concreto nelle proposte di aggiornamento dei docenti, ricerca e valutazione dei progetti. A Indire mi dicono che inizialmente si sono rivolte a loro 22 scuole, che adesso sono le scuole “pilota”, ma nel giro di un anno sono già 400. Scuole che hanno introdotto alcune delle 12 idee proposte dall’istituto (vai qui per leggerle tutte), tra cui nuovi modelli di apprendimento come la flipped classroom (la classe rovesciata) o l’introduzione di stampanti in 3d nelle scuole d’infanzia.
In generale, uno dei progetti più interessanti è quello dei Senza Zaino. Qualche anno fa Marco Orsi, maestro e pedagogista illuminato che insegna in una scuola di Lucca, è andato a visitare alcune scuole steineriane, montessoriane, libertarie, scuole non tradizionali insomma e, prendendo spunto da queste esperienze e non solo, si è inventato un vero metodo educativo.
Oggi alla Scuola Senza Zaino aderiscono più di cento scuole pubbliche. Il gesto di buttare lo zaino è simbolico, ma anche pratico: ci si muove con una cartellina leggera e a scuola si lasciano libri e materiale didattico. Le aule sono simili a open space, con aree dedicate a varie attività, e la cattedra è in un angolino. Il maestro supervisiona il lavoro degli studenti che sono responsabilizzati e attenti.

A Firenze alla Scuola Città Pestalozzi, uno dei tre istituti italiani che sperimentano la wikischool, si fanno grandi cose. Per averne un’idea consiglio la visione di Educazione affettiva di Federico Bondi e Clemente Bicocchi (in queste settimane il documentario è in tour per la penisola). Il documentario, girato con una grazia che ricorda Truffaut e candidato ai David di Donatello, è forse il più bel documentario italiano sulla scuola e racconta gli ultimi giorni di quinta elementare di una classe della scuola fiorentina.
I maestri, Paolo Scopettani e Matteo Bianchi, nel film parlano pochissimo. Quando lo fanno i bambini sono incantati. Spesso i maestri li abbracciano o semplicemente li guardano. Non sgridano, non urlano mai. Due maestri che si pongono sono davvero come guide, e non insegnanti, e sarebbero piaciuti molto a Maria Montessori.
La storia di Maria Montessori, che per molti è solo la signora ritratta sulle vecchie banconote da mille lire, è una tipica anomalia italiana: il metodo che il mondo intero riconobbe come rivoluzionario, in Italia, complice il fascismo, che la relegò ai margini, ancora oggi non stato è riassorbito del tutto dal sistema scolastico istituzionale. Le scuole montessoriane sono più numerose e rinomate all’estero che in Italia.
 
Comunque, anche da noi esistono istituti, statali o paritari, che usano sperimentalmente il metodo (una mappa completa delle scuole Montessori è qui). All’Istituto comprensivo Maria Montessori di Roma, una scuola statale, i bambini sono indaffarati e sereni. E anche gli insegnanti sono contenti, nonostante il lavoro sia molto impegnativo, come mi spiega Mariafrancesca Venturo, maestra della scuola primaria, autrice di Ho fame: il cibo cosmico di Maria Montessori (Mattioli 1885), un libro utile per capire tante cose sul metodo.
In viale Adriatico si lavora bene, grazie anche alle compresenze tra insegnanti, le quali lavorano anche fuori dell’orario di lezione per produrre i materiali necessari alle “presentazioni” (qui non si chiamano “lezioni”). La divisione tra le materie non esiste, i bambini sono abituati a muoversi liberamente tra i vari interessi.
Ci spostiamo a Bologna. Qui c’è la primaria Mario Longhena, una scuola con più di 300 alunni, situata nel parco del Pellegrino, sui colli. In città tutti la conoscono perché è la scuola dai cui gli studenti non uscirebbero mai (le foto dei bambini sporchi di fango sul sito non ufficiale della scuola parlano chiaro). “Siamo un gruppo di maestre molto unite”, racconta Marzia Mascagni. “Qui c’è stata la prima occupazione fatta di genitori, insegnanti e studenti, nel 2002, dopo la riforma Moratti”, mi dice con orgoglio. “Lavoriamo a classi aperte, con molte compresenze tra insegnanti, alterniamo momenti di studio e momenti di svago, spesso all’aperto. Il parco in cui giocano i nostri bambini è senza recinzione, li lasciamo liberi e ci aspettiamo un senso di responsabilità da parte loro. I voti? Solo in pagella, alla fine dell’anno”. Ma la scuola che resiste e che innova non è solo, necessariamente, nelle grandi città.
A Giove, in Umbria, un paesino di poche anime, insegnano Franco Lorenzoni e Roberta Passoni, i quali da anni mettono in pratica benissimo tutta la teoria appresa all’interno del Movimento di cooperazione educativa e lavorano proprio nella direzione dell’apprendimento esperienziale tanto agognato da Stella. Roberta Passoni ha scritto un libro sull’educazione alla lettura nella scuola primaria, A partire da un libro, che può essere uno strumento prezioso per i maestri che cerchino nuove strade per l’insegnamento.

Un fenomeno nuovo e prorompente
La provincia italiana è del resto storicamente teatro di esperienze pedagogiche fuori dal comune: Mario Lodi, che per primo importò gli insegnamenti del francese Célestin Freinet e che fu un vero riferimento per tantissimi insegnanti fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2014, insegnava in un paesino del cremonese; ma anche don Milani – che non ci si stanca mai di rileggere (di recente è stato ripubblicato il suo La scuola della disobbedienza) – o Danilo Dolci hanno lavorato indisturbati in luoghi isolati e periferici; o Nora Giacobini, una delle animatrici del Movimento di cooperazione educativa, che rivoluzionò l’insegnamento della storia e che visse per tanti anni alla casa-laboratorio Cenci, in Umbria (proprio qui dal 21 al 25 aprile ci sarà un convegno in suo onore).
Il mio viaggio finisce in Alto Adige, dove forse la scuola “alternativa” e quella tradizionale stanno dialogando di più. Beate Weyland, professoressa di scienza della formazione alla Libera Università di Bolzano, racconta di aver accompagnato sette scuole pilota, di varie regioni italiane, nella stesura di una sorta di manifesto, un documento che propone una ristrutturazione degli edifici. “Un fenomeno del tutto nuovo e prorompente”, mi dice. “Le scuole e i loro comuni stanno cercando una forma personalizzata, e per farlo riflettono proprio sugli automatismi arrugginiti che per tanto tempo le hanno rese prigioni tristi. All’interno della scuola pubblica, che finora era un luogo ‘di tutti e di nessuno’, s’inizia a credere di poter dare identità al luogo di lavoro”.