29.8.14

Ecco l'internet dei cavi sottomarini Tra geopolitica e velocità della rete


Carola Frediani (L'Espresso)

Il Mediterraneo è diventato lo snodo globale dei cavi che trasportano i dati in tutto il mondo: ed è una grande occasione per l'Italia. Mentre lo scandalo del Datagate cambia le strategie dei governi preoccupati dallo spionaggio degli Stati Uniti

Ecco l'internet dei cavi sottomarini 
Tra geopolitica e velocità della rete
Un “tubo” a prova di denti di squalo. Lo ha annunciato Google qualche tempo fa , descrivendo un suo recente investimento da 300 milioni di dollari in un sistema di cavi sottomarini in fibra ottica che unirà la West Coast americana col Giappone, facendo scorrere traffico Internet e telefonico in una autostrada che può arrivare a una capacità di 60 Terabit per secondo, ovvero 10 milioni di volte più veloce di una connessione casalinga. I “tubi” che trasporteranno tutti questi dati saranno avvolti da un guscio simile al kevlar, la fibra ultraresistente usata anche nei giubbotti antiproiettile o negli aeroplani. In questo modo saranno al sicuro dai morsi degli squali, che sarebbero attratti dal campo elettromagnetico prodotto dai cavi.

In realtà i pescecani sono l’ultimo dei problemi per simili superstrade del mare, senza la cui esistenza non sarebbe neppure concepibile l’attuale economia digitale e la sua apparente smaterializzazione. Il 70 per cento di tutti i danni subiti da questi “tubi” deriva infatti da “aggressioni esterne”, calcola il Comitato internazionale per la protezione dei cavi (ICPC), ma per la maggior parte si tratta di ancore di navi e pescherecci. Oppure di atti di sabotaggio più o meno consapevoli. Nel marzo 2013 le autorità egiziane arrestarono tre uomini sospettati di aver tagliato al largo di Alessandria il cavo Sea-Me-We 4, che collega il Nord Europa al Sud-Est asiatico passando per il Mediterraneo.



LA MAPPA NAVIGABILE A QUESTO LINK

L’incidente provocò forti rallentamenti nella connettività di molti Paesi in Africa, Medio Oriente e Asia. Mentre lo scorso luglio la Rete vietnamita è andata in tilt dopo il danneggiamento di un cavo che trasportava la maggior parte delle comunicazioni nazionali all’esterno e viceversa. A tutto ciò si aggiunga la continua domanda di banda a basso costo, la crescita esponenziale della quantità di dati e di servizi essenziali che circolano in Rete, la necessità di non avere “singoli punti di fallimento”, cioè di avere più alternative per far passare il traffico e, dulcis in fundo, le preoccupazioni per il terrorismo ma anche lo spionaggio e la sorveglianza su scala globale messi in piedi da Stati Uniti e alcuni suoi alleati. E si capirà perché oggi i collegamenti sottomarini attraggano tanto interesse e investimenti.

Attualmente si contano 263 cavi attivi, e altri 22 sono pianificati per i prossimi anni. Su queste arterie che scorrono sott’acqua passa tra il 95 e il 99 per cento di tutto il traffico internet mondiale. «Le ragioni dei nuovi investimenti sono diverse », spiega Jon Hjembo, Senior Analyst a TeleGeography, che produce le mappe più autorevoli sulle infrastrutture di internet. «In alcuni casi si tratta di trovare vie alternative per ridurre la dipendenza dalla rete di un certo luogo, come i nuovi collegamenti nati in America Latina e Africa. In altri casi si cercano proprio nuove rotte, come con i progetti sull’Artico. Infine c’è da tenere in considerazione l’età di alcuni dei sistemi esistenti».

Le considerazioni geopolitiche, e lo scandalo Datagate, hanno ad esempio messo le ali ai progetti brasiliani. L’80 per cento dei dati dell’America Latina sono instradati attraverso gli Stati Uniti, ma non ancora per molto. La presidente Dilma Rousseff ha annunciato il Brazil-Europe, un nuovo collegamento diretto tra il suo Paese e l’Europa, per un costo di circa 185 milioni di dollari. Ma ce ne sono anche altri, che uniranno il Brasile all’Africa.
Mentre si stanno tuffando nel settore i nuovi attori della Rete. Google, oltre al cavo col Giappone già citato, ha investito in altri due sistemi sottomarini: UNITY, che si stende sempre tra il Paese nipponico e la California; e SJC, che collega il Sudest asiatico. A oggi il colosso del Web è proprietario di oltre 100 mila miglia di “strade”  in fibra ottica sparse per il mondo. Anche Facebook è parte di un consorzio che sta lavorando sull’Asia Pacific Gateway, che toccherà una serie di Stati nel Nord e Sudest asiatico.

«Sì, ci sono nuovi protagonisti nell’industria, come Google e Facebook, e diventeranno sempre più attivi», spiega Hjembo. «La ragione è che tutti questi fornitori di contenuti hanno bisogno di così tanta capacità su una rete che alla fine diventa più conveniente per loro possedere sempre più infrastrutture, specie sulle rotte principali».

Dal punto di vista geografico, geopolitico ed economico, c’è un luogo che rimane strategico e potrebbe diventarlo sempre di più: il Mediterraneo. «La rotta preferita per collegare l’Estremo Oriente agli Stati Uniti, perché in grado di intercettare un mercato aggiuntivo, rimane quella che passa per l’Europa, via canale di Suez, Sicilia, Marsiglia, e poi a terra fino ad Amsterdam o Londra dove ripartono i cavi transatlantici», dice spiega Simone Bonannini, amministratore delegato della filiale italiana di Interoute, fornitore globale di reti in fibra e di servizi per le tlc.

Non a caso uno dei più grossi collegamenti in cantiere - gestito da un consorzio internazionale che include Telecom Sparkle, del gruppo Telecom Italia - è proprio il SEA-ME-WE 5, una mega arteria da 20mila km, con una capacità di 24 Terabit per secondo, che unirà la Francia a Singapore, passando per Catania.
Già, la Sicilia. Basta guardare le mappe di TeleGeography per capire al volo la sua rilevanza. «Purtroppo però l’Italia non sta sfruttando un’occasione storica per fa ranedere al meglio questa sua posizione», dice Joy Marino, presidente del Milan Internet Exchange (MIX), il più importante punto di interscambio tra Internet service provider.

Il fatto è che il traffico in arrivo dal Medio o Estremo Oriente, pur facendo tappa in Sicilia, non attraversa la nostra penisola per la via di terra, come sarebbe logico e auspicabile, ma si ributta sott’acqua e prosegue fino a Marsiglia. «Perché lì è stato creato un centro di smistamento del traffico neutrale, aperto, e non sotto il controllo di un fornitore dominante o di un ex-monopolista». Ciò significa che gli operatori che vi si insediano possono affittare connettività da chi vogliono. Tanto è vero che proprio poche settimane fa sono stati annunciati nuovi investimenti e la costruzione di altri data center nella città francese. «Il forte hub di rete creato dall’aggregazione di multipli punti di approdo di cavi sottomarini e l’interconnessione con quelli terrestri ha reso Marsiglia molto attraente», è stato il commento della società investitrice, Interxion.

Non far passare il traffico per l’Italia significa perdere la possibilità di attrarre data center, aziende, uffici e posti di lavoro. Secondo Bonannin però non tutto è perduto. «Basta guardare all’esempio dell’Internet Exchange Point di Francoforte: malgrado fosse partito in svantaggio rispetto a quelli di Londra e Amsterdam, è riuscito a crescere aggregando il nuovo traffico proveniente dall’Est Europa». Di sicuro, non ci può essere ragionamento serio su agende digitali e sviluppo a prescindere dalle infrastrutture di rete.

26.8.14

Rivoluzione scuola, ecco il piano “Meritocrazia e apertura ai privati” - e sotto - Vertecchi: "Don Milani non avrebbe avuto premi"



Il ministro Giannini: mai più precari e supplenti, aumenti di stipendio ai professori migliori.

Sponsor privati e merito stop ai supplenti precari ecco la riforma della scuola Nel disegno di legge del governo è prevista una revisione delle scuole professionali e un nuovo rapporto tra cultura e istruzione Allo studio nuove forme per finanziare il riassetto del sistema Il ministro dell’Istruzione Giannini illustra il suo disegno Possibile detassazione delle iscrizioni negli istituti privati Il provvedimento.
RIMINI – ’INGRESSO dei capitali privati nella scuola pubblica: un’esigenza fin qui bloccata da «pregiudizi ideologici». L’abolizione del precariato, anzi la «cura definitiva della piaga del precariato» calcificato da decenni di alchimie burocratiche. Eliminare il ricorso alle supplenze, «agente patogeno del sistema scolastico, batterio da estirpare».


Concita De Gregorio (La Repubblica)

RIVEDERE il rapporto tra istruzione professionale e lavoro secondo il modello tedesco «che funziona bene da trent’anni». Valutare gli insegnanti per il merito e non solo per l’anzianità: introdurre anche scatti di reddito ma sulla base di una progressione della loro attività professionale. Finanziare la formazione, dunque, poi valutarla e «premiare chi fa, penalizzare chi non fa il suo dovere ». Riunificare cultura e istruzione «per evitare che chi studia restauro finisca in un call centre», creare scuole di specializzazione collegate a enti culturali sul modello francese. Modificare i programmi: potenziare lo studio di storia dell’arte, musica. Dare un’effettiva libertà di scelta educativa «che nel nostro paese non è mai stata davvero garantita»: sul rapporto con le scuole paritarie evitare le trappole ideologiche, non fermarsi al tema dei soldi, guardare alla bontà dell’offerta formativa.
Concentrarsi sulle scuole medie inferiori «che hanno davvero bisogno di cura».
Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione Università e Ricerca, ha scelto la platea del Meeting di Cielle, a Rimini — platea naturalmente molto interessata al tema del sostegno alle scuole private di matrice cattolica — per dare qualche prima indicazione su quella che chiama una «rivisitazione rivoluzionaria delle regole del gioco». Non una riforma, una rivoluzione. La presenterà ai ministri venerdì, «Renzi ha annunciato una sorpresa e non sono qui per rovinarla». Però fra i corridoi dello stand del Meeting dove Vittadini la accoglie entusiasta e la presenta come «la prima vera erede di Berlinguer» (pazienza per Moratti Fioroni e Gelmini, a loro tempo pure osannati a queste latitudini) Stefania Giannini racconta di quanto «lavoro silenzioso» ci sia dietro questo testo, «che guarda ai prossimi trent’anni e non ai prossimi tre, una visione dei bisogni della scuola e della sua “infrastruttura umana”, dieci milioni di studenti e le loro famiglie, il corpo docente, parliamo dei due terzi del Paese». Cita due volte Don Milani, una Renzo Piano a proposito di «periferie fertili», una don Giussani sul «rischio educativo»: «Ecco, è anche questo il rischio che voglio correre. Mettersi in gioco, mettersi alla prova davvero», dice.
È un progetto diviso in quattro parti. Governo della scuola, personale docente, contenuti didattici, autonomia degli istituti. Questo è quel che Giannini ha anticipato, per capitoli e con le sue parole.
SCUOLA PUBBLICA/SCUOLA PRIVATA
«Noi dobbiamo offrire un progetto educativo complessivo. Pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. La libertà di scelta educativa nel nostro paese non è mai stata garantita. La legge Berlinguer del 2000 non è stata applicata. Il finanziamento alle paritarie è sempre stato preteso, concesso, negato, negoziato. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato. L’uno affonda senza le altre e viceversa. Il rapporto con le paritarie si risolve insieme senza pregiudizi ideologici, che pesano più dei soldi». Del tema si occupa il sottosegretario Toccafondi, ciellino proveniente dal Pdl poi Udc, che ha presentato la sua proposta al ministro. Una delle ipotesi è intervenire non su finanziamento diretto ma sulla detassazione.
PRECARIATO
«È frutto di decenni di scelte miopi. Abbiamo un corpo docente frammentato, un lavoro che non si chiama lavoro. Gae, Sgis, Tfa, concorsone. Una selva di figure professionali in cui chi è di ruolo finisce per essere contro chi ha vinto il concorso e chi ha vinto in concorso contro chi è in graduatoria. Quello delle supplenze è l’agente patogeno del sistema scolastico, un batterio che dobbiamo eliminare. In Italia non abbiamo tutti i docenti che ci servono a far funzionare la scuola. Mancano docenti. Il ricorso ai supplenti fa male a tutti: agli insegnanti agli studenti, alla scuola. Abbiamo bisogno di figure stabili, di ricondurre tutto a un sistema unitario. Faremo in modo di lavorare sulla pianta organica di fatto, non su quella di diritto. Una riforma funzionale che guarda alle esigenze reali e non a quelle sulla carta». Potrebbero essere riviste se non abolite le graduatorie provinciali d’istituto, circa 400 mila persone. Una parte dei precari dovrà essere stabilizzata. Ci sarà entro l’anno prossimo un nuovo concorso. Non ci saranno tagli per finanziare le spese. Su questo Giannini è stata categorica: «L’idea di tagliare a destra per spostare a sinistra appartiene a una vecchia logica. Servono soldi, è vero, ma non li sottrarremo ad altri comparti della scuola. Abbiamo studiato meccanismi di finanziamento molto innovativi». L’idea degli sponsor è una ipotesi. «Bisogna uscire dallo stereotipo che il mercato è nemico della scuola ».
MERITO
«Faremo una proposta molto articolata e consistente per l’aggiornamento e la formazione degli insegnanti. Ci saranno criteri di valutazione. Sarà premiata l’attività positiva, anche con aumenti di stipendio, e penalizzato chi non fa il suo dovere. Non possiamo più attenerci solo a un criterio di anzianità. Sono certa che nessuno avrà timore di essere valutato nel merito».
SCUOLE PROFESSIONALI
«In Italia 4 milioni e mezzo di ragazzi non studiano né lavorano. Dobbiamo recuperarli. Trovare la via italiana al sistema duale, in Germania funziona da trent’anni. Mettere in pratica l’alternanza scuola-lavoro a partire dalle esigenze, dalle richieste. Penso a stage professionali negli ultimi anni di media superiore, penso all’investimento delle imprese private nella scuola pubblica. È un tabù, ma una realtà in gran parte del mondo. Faccio anzi un appello agli imprenditori, anche medi e piccoli, perché intervengano nel finanziare, ad esempio, i laboratori. Abbiamo bisogno di strutture moderne, non di luoghi di antiquariato. I ragazzi devono uscire in grado di lavorare. Il capitale privato è benvenuto».
CULTURA VS ISTRUZIONE
«La divisione fra cultura e istruzione, a partire dalla spartizione di competenze fra ministeri e di conseguenza figure, autorità, poltrone è figlia di
una cattiva gestione politica ma in un paese come il nostro, che ha dato al mondo il Rinascimento, deve scomparire. Penso all’esempio francese delle scuole di specializzazione che immettono nelle reti culturali giovani pronti per entrare al lavoro nei luoghi in cui si sono formati. Lo fa il Louvre, perché non possono farlo gli Uffizi, Pompei? Abbiamo bisogno di intervenire sui programmi scolastici. Potenziare la storia dell’arte. Introdurre la musica fin dalla scuola primaria, siamo il Paese di Verdi e Puccini. Non possiamo consentire che chi studia restauro finisca in un call centre. Col ministro Franceschini abbiamo un protocollo d’intesa».
SCUOLA SUPERIORE
«Portare a quattro anni il ciclo delle medie superiori per equiparare l’età di congedo scolastico a quella di molti altri paesi non può essere il frutto di un calcolo da spendig review», dice Giannini. Per concludere: «Ci vorrà molto tempo per mettere a regime la nostra proposta, ma non dobbiamo guardare ai prossimi mesi. L’orizzonte è quello dei prossimi trent’anni. Chi nasce oggi va a scuola nel 2018 ed esce nel 2038. La scuola che cambiamo adesso arriverà a destinazione allora».

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A completamento una breve intervista del Secolo XIX a Benedetto Vertecchi


Riforma della scuola, Vertecchi: «Don Milani non avrebbe avuto premi»

Francesco Margiocco
La riforma che nel nome della meritocrazia promette di rivoluzionare le carriere degli insegnanti, e di sottoporle a periodici controlli della qualità, cita più volte nelle sue 136 pagine quattro grandi personalità del passato. Don Milani, don Bosco, Loris Malaguzzi e Maria Montessori. «Tutti e quattro, se fossero stati controllati come vuole il governo, ne sarebbero usciti con le ossa rotte». Benedetto Vertecchi, pedagogista sperimentale alla Sapienza, esperto di politica scolastica, una vita dedicata al tema della valutazione, è severo nei confronti della “Buona Scuola”, il libro d’intenti presentato a Palazzo Chigi due giorni fa.
Gli “scatti di competenza”, previsti da Renzi, e che dovrebbero premiare il merito, rischiano dunque di aiutare i peggiori?
«Certamente non aiuteranno i migliori. Questo perché si affida la valutazione a rigidi parametri dettati dal ministero. La storia dovrebbe insegnarci qualcosa. La Montessori, la personalità più nota al mondo di tutto il Novecento nel campo educativo, è stata osteggiata in Italia prima e durante il fascismo, che la costrinse a fuggire in Olanda. Malaguzzi, l’inventore degli asili di Reggio Emilia, definiti da Newsweek le scuole migliori del mondo, era un funzionario comune. Se fosse stato un funzionario ministeriale non lo avrebbero lasciato lavorare. Quanto a don Milani e don Bosco, erano entrambi sgraditi alle autorità, che spedirono il primo su quell’eremo che era Barbiana, e che mal digerivano la passione del secondo per gli emarginati».
D’accordo, ma oggi nel resto del mondo valutare gli insegnanti non è la norma?
«Il resto del mondo è un’entità variopinta, ma prendiamo la realtà a noi più vicina, la Francia. Lì gli insegnanti devono affrontare, a intervalli regolari, degli esami. In pratica, studiano tutta la vita. Chi supera l’esame progredisce nella carriera. Lo stipendio all’inizio si attesta su livelli simili a quello dei nostri insegnanti, dopo 20-25 anni di carriera è una volta e mezzo il nostro, a fine carriera, se uno ha superato tutti gli esami, è pari a quello di un docente universitario».
Qual è il modello cui il governo dovrebbe ispirarsi?
«La scuola a tempo totale della Finlandia, tempo totale perché impegna gli studenti mattino, pomeriggio e, chi lo desidera, anche la sera. Una storia cominciata negli anni Novanta, quando la Finlandia aveva un tasso di suicidio, tra gli adolescenti, altissimo. I giovani, di famiglie mediamente benestanti, uscivano di scuola, si rifugiavano nei bar, bevevano e, nei casi estremi, si ammazzavano. La scuola ha reagito con una rivoluzione. Sono partiti dalle lezioni di cucina, che insegnano a lavorare insieme e a coordinarsi. Sono passati al teatro, alla coltivazione dell’orto, ai laboratori di falegnameria e meccanica. E la cosa ha funzionato. Oggi le scuole finlandesi sono ai vertici delle classifiche Ocse dei livelli di apprendimento degli alunni».
C’è traccia di tutto questo nelle 136 pagine della “Buona Scuola”?
«Non direi».
E che giudizio dà, complessivamente, di queste linee guida?
«Sono figlie di chi parla della scuola come parlerebbe di una fabbrica di saponette. Tutto viene letto in un’ottica produttivistica, e la valutazione degli insegnanti ne è l’esempio più clamoroso. Una valutazione che di oggettivo ha poco perché può essere condizionata da simpatie, clientele, discriminazioni. Una falsa soluzione che può venire in mente soltanto a chi la scuola non la conosce».


21.8.14

Quel coltello pronto a uccidere ancora

Adriano Sofri (La Repubblica)

L’orrore messo in mostra dai barbari contemporanei pronti a colpire ancora L’esecuzione del reporter Usa è il modo con il quale gli uomini dell’Esercito islamico sfidano Obama e l’Occidente. E solo adesso che è intervenuto papa Francesco, anche l’Europa si muove. Il video.

ERBIL – DOPO l’8 agosto, quando gli aerei americani avevano cominciato a bombardare le postazioni dello “Stato Islamico”, i suoi portavoce li hanno derisi e sfidati.

Siete una banda di vigliacchi, scendete sulla terra e vediamocela da veri uomini». Più o meno così, le parole sono quelle di sempre fra “veri uomini”: «Scendi, se hai il coraggio!». I veri uomini dell’Is stavano appunto valorosamente sgozzando gente inerme, violentando madri e sorelle davanti a figli e fratellini, sghignazzando delle implorazioni dei vecchi, e insomma tutta la vecchia eterna vigliaccheria dei veri uomini.
James “Jim” Foley era stato rapito una prima volta in Libia, con un fotografo sudafricano, Anton Hammerl, rimasto ucciso subito, e una free-lance, Clare Morgana Gillis, che poi l’aveva descritto così: «A chiunque e dovunque Jim piace subito, appena incontrato ». A quasi chiunque, quasi dovunque. Rapito per la seconda volta in Siria, non dev’essere piaciuto a nessuno dei suoi successivi padroni, che se lo sono rivenduto lungo quasi due anni, finché è finito nelle mani dell’Is. La ferocia non è coraggiosa. L’Is ha vigliaccamente ucciso il proprio ostaggio.
Niente barbarie primitiva, niente medioevo: siamo contemporanei. Il boia jihadista lavora di macelleria antica (coltello che sega, non colpo di scure o lama compassionevole di ghigliottina) e corre a completare la propria voluttà mettendo il film in Rete. In Rete, i genitori dell’uomo che hanno visto con la testa in grembo, come i martiri sulla facciata di una cattedrale, dicono: «Non siamo mai stati così orgogliosi di nostro figlio. Ha dato la vita nell’impegno di rivelare al mondo la sofferenza del popolo siriano ».
Il boia aveva fatto le cose a puntino, rivestito la sua vittima della casacca arancione d’ordinanza, ostentato il suo accento britannico, e infine intitolato l’impresa: “Messaggio all’America”. Il messaggio non era solo per l’America, e l’America non è una sola. Una, la prima, che ha dato la risposta più grave di futuro, è l’America della madre di James Foley, che chiede riguardo per il proprio dolore, ma ha la forza di «supplicare » i rapitori di «risparmiare la vita degli altri ostaggi. Sono innocenti, come era Jim». Occorre infatti una forza grandissima, meravigliosa. La seconda risposta l’ha data Barack Obama. L’America cui si rivolgevano i boia è infatti lui: che il loro condannato avesse dei genitori, una famiglia, non li toccava. Obama è la loro America, e aveva sperato probabilmente di finire il doppio mandato senza impegnare la sua potenza in un nuovo conflitto armato, e anzi ritraendola dai luoghi roventi in cui l’arroganza dei suoi predecessori o le circostanze l’avevano cacciata. Col passare e l’infuriare del tempo, la smobilitazione di Obama aveva sempre più indebolito l’aspirazione pacifica a vantaggio di un’inerzia disorientata e una sconfessione della propria parola. Il punto più grave era stato la rinuncia a un intervento internazionale quando la ribellione siriana era ancora una promessa. Il punto più mortificante era stato il ripudio della “linea rossa” fissata al ricorso di Assad alle armi chimiche.
Ne venne un sarcastico domino di pezzi caduti: Putin, che in Siria difendeva il sacro accesso al Mediterraneo della propria flotta dal porto di Tartus, difese impunemente il sacro accesso al Mar Nero della propria flotta in Crimea. Una “guerra” tira l’altra. Fino all’8 agosto, quando Obama ha rotto l’incantesimo, e ordinato i bombardamenti sulla resistibile avanzata del Califfato. Il ritorno sul luogo di un doppio delitto, la “guerra” irachena di Bush e Blair, e il ritiro da quell’Iraq, nella finzione che la democrazia vi potesse vivere di vita propria, col paese abbandonato alla morsa fra la rivalsa sciita e la brutalità del jihadismo sunnita.
Gli aerei americani si sono alzati quando l’avanzata dell’Is aveva travolto
addirittura la città di Mosul e consegnato il controllo della diga che la sovrasta, con l’intera piana fino a Bagdad. I lugubri uomini mascherati che sembravano venire da un altro mondo di ferocia inaudita erano in realtà la mutazione di un esercito internazionale che da mesi, da anni faceva le sue prove sotto gli occhi chiusi del mondo, piantando la propria bandiera nera sopra la ribellione siriana e il cuore dell’Iraq. A Falluja quella bandiera è issata fin dal 5 gennaio. A Obama dunque, che aveva preferito non vedere — mentre i sunniti già alleati degli americani restavano senza armi né risorse alla mercé dei confratelli decapitatori — è rivolto il messaggio del boia di Jim Foley. Gli dice che bombardare, anche solo dall’alto, anche senza rompere il tabù del “non mettere i piedi sul terreno”, ha comunque un costo di sangue, e Foley ne è l’agnello sacrificale. «Ogni tuo tentativo, Obama, di negare ai musulmani il loro diritto di vivere sicuri sotto il Califfato, avrà come conseguenza lo spargimento del sangue della tua gente».
Il prossimo, consorte di prigionia e torture, esibito nel video, è Steven Joel Sotloff, 31 anni, collaboratore di Time , scomparso a sua volta in Siria un anno fa. Se i raid non cesseranno, proclama il messaggio, toccherà a lui, e poi avanti. Che Obama ceda a un ricatto simile è impensabile perfino per l’Is. Obama ha risposto com’era inevitabile e giusto. Può darsi che i capibanda dell’Is si propongano di forzare l’America di Obama a tornare sul campo fino a restarne intrappolati e offrire loro la gloria di cui si beano. Questo pensiero
si porta dietro due domande: se sia immaginabile arginare oggi, sconfiggere domani l’Is e le sue versioni concorrenti senza mettere nel conto i piedi per terra e il prezzo di proprie vite, e se questo riguardi davvero solo o soprattutto l’America.
Ieri il parlamento italiano ha votato per il sostegno in armi —e voglia l’intelligenza di coloro cui compete che non siano ferri vecchi — e ieri per la prima volta un capo di governo (o di Stato) europeo è venuto a Bagdad e in Kurdistan. Renzi e Obama hanno messo in rilievo la determinazione specificamente genocida di questo islamismo. Il genocidio non è tanto questione di numeri. I cristiani di Siria, o i cristiani e ancora più ferocemente gli yazidi d’Iraq, o i 12 mila turcomanni sciiti assediati da due mesi e minacciati di sterminio a Amerli, est di Tikrit, non sono “nemici”: sono creature inferiori, impure, da liquidare, e poi farsi il selfie. Ieri a Khanke, nel più commovente accampamento di scampati yazidi, un padre raccontava piangendo che lo chiamano col telefono delle sue figlie e gli dicono singhiozzando quante volte ne hanno abusato.
Se Obama avesse continuato nella scelta di non intervenire, che cosa avremmo fatto noi, l’Italia, l’Europa?
La domanda non è resa inutile dal fatto che Obama ha finalmente rinunciato all’omissione di soccorso. Forse è inutile perché la risposta è scontata: non avremmo mosso un dito, l’Italia, l’Europa.
Esiste o no un’obbligazione alla legalità internazionale, o almeno al pronto soccorso? Gli Stati Uniti hanno mostrato di non voler più fare da poliziotto del mondo, e oltretutto di non farcela più. Tuttavia, come in uno di quei malinconici film in cui il veterano che non vuole più saperne viene richiamato ad affrontare una minaccia diventata micidiale, sono ancora loro a fermare (nell’unico modo possibile, papa Francesco) un’avanzata che semina morte e terrore e minaccia l’isola di relativa tolleranza e normalità che è il Kurdistan. L’Europa, coi suoi 28 eserciti, non è esistita, né a Gaza, né in Siria, né sui monti Sinjar. E qual è, oltre alla viltà, o al malinteso interesse nazionale (gli affari, o la tassa per tener lontani da sé gli attentati islamisti) la spiegazione di questa colossale omissione di soccorso? E’ l’infinita discussione sulla guerra, sulla guerra ingiusta o giusta, di difesa o di aggressione, sulla guerra ripudiata dalla Costituzione o autorizzata da qualche codice canonico. Ci si gingilla
sulla guerra. Si accantona sprezzantemente la distinzione, l’opposizione anzi, fra la guerra e l’azione di polizia internazionale. Si ride della seconda, come di un’utopia, o di un eufemismo. Ma perché non si ride della polizia nazionale? Dunque la differenza decisiva starebbe nel fatto che l’uso della forza sul piano internazionale è comunque guerra? Ma è una pretesa senza senso. C’è un altro uomo minacciato di decapitazione: il dubbio riguarda l’accento col quale il boia registrerà il suo video. Ieri era un accento britannico per un messaggio all’America. Il messaggio suonava chiaro anche per noi.