Liberale, o meglio liberal come si dice in inglese, è un termine che ci aiuta sempre meno a descrivere quello che significa: credo che oggi ci sia bisogno di nuove definizioni politiche». Bill Emmott, giornalista e saggista britannico, interviene così nel dibattito suscitato dalla storia di copertina sul “pericolo della sinistra illiberale” pubblicata un paio di settimane fa dall’Economist, lo storico settimanale di cui è stato direttore per tredici anni, dal 1993 al 2006. «In vita mia mi hanno chiamato comunista e conservatore, quando in realtà io mi sento un autentico liberale», dice a Repubblica l’autore di Il destino dell’Occidente: come salvare la migliore idea politica della storia, pubblicato in Italia da Marsilio, «ma circolano idee diverse a seconda dei paesi e delle epoche su cosa questo voglia dire in concreto».

Cominciamo dalla cover-story dell’Economist, Emmott: esiste una sinistra illiberale?
«Penso che esista un insieme di opinioni, particolarmente tra i giovani e nelle università, che tende a porre dei limiti alla libertà di parola. Un atteggiamento che si riflette nelle polemiche sulla cosiddetta cultura della cancellazione e sugli eccessi del politicamente corretto, cioè nel tentativo di riscrivere la storia. Non credo che questo movimento possa essere identificato con determinati partiti politici, è più una forza che si manifesta all’interno della società civile, ma sicuramente influenza anche la politica».

Ed è un “pericolo”, come scrive l’Economist?
«Tutte le iniziative per sopprimere la libertà di espressione sono pericolose per chi ha a cuore la democrazia. E il pericolo, in questo caso, consiste nel fatto che ogni forma di illiberalismo, di sinistra o di destra, finisce per rafforzare le posizioni più estremistiche, creando una reazione contraria che va proprio contro quelli che sono gli interessi dichiarati di coloro che si battono per demolire una statua, proibire l’uso di un particolare termine o impedire a qualcuno di intervenire a una conferenza. La sinistra illiberale vorrebbe un mondo più equo, più giusto, migliore, ma porta involontariamente ad attacchi contro il femminismo, contro gli omosessuali e a favore del pregiudizio razziale, perché le sue iniziative appaiono esagerate, estremistiche, antistoriche, alla maggioranza della popolazione».

Si può dire che in certa misura la sinistra illiberale coincide con la sinistra radicale?
«Effettivamente coincide con quella sinistra dogmatica, intollerante, massimalista, secondo cui chi non la pensa come te è il nemico e va abbattuto. La tradizione da cui proviene la sinistra illiberale è quella: l’incapacità di dare libertà di parola anche a chi ha idee diverse dalle proprie».

A complicare le cose contribuisce il fatto che liberale o liberal ha un significato diverso in luoghi diversi.
«Certamente. In America è l’etichetta dei progressisti, che si proclamano liberal. In Gran Bretagna i liberaldemocratici sono un partito di centro, alleato talvolta con la sinistra, talvolta con la destra. In Italia il vecchio partito liberale era un partito conservatore, da sempre alleato della Democrazia Cristiana. Per non parlare di neo-liberal, la politica economica identificata con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, in cui lo stato più leggero possibile deve lasciar fare tutto all’individuo. Purtroppo, temo che oggi il termine liberale abbia cessato di essere utile come definizione politica, perché genera troppa confusione. E mi dispiace molto dirlo, perché io mi sento per l’appunto un liberale».

Che tipo di liberale si sente di essere?
«A mio parere, un autentico liberale è colui che riconosce che lo stato può agire da freno o regolatore nei confronti dell’individuo in nome dell’interesse collettivo, ossia che ci debba essere un’armonia tra la libertà individuale e la libertà della società nel suo complesso. Alcuni liberali, viceversa, vedono il collettivo, lo stato, la società, come un avversario della libertà individuale».

La sua personale visione di liberale si avvicina forse di più a quella dei liberalsocialisti in Italia?
«Guardi, in Italia sono stato chiamato un comunista, anzi un sosia di Lenin, ai tempi del governo di Silvio Berlusconi, e un conservatore in altre circostanze. Lo ripeto, ho l’impressione che nella politica odierna ci sia bisogno di un nuovo linguaggio, per dare connotati chiari a chi si identifica con una visione sociale o con un’altra: in modo che poi si possa essere in disaccordo, ma restando almeno d’accordo su come definire le opposte forze politiche».

Ma i liberali diciamo così di sinistra e di destra non farebbero meglio a unirsi?
«In certi casi sono già dentro la stessa formazione politica, come il Partito Democratico negli Stati Uniti, al cui interno militano moderati come Joe Biden e progressisti più radicali come Alexandra Ocasio-Cortez. Lo stesso si può dire per il Labour in Gran Bretagna. Non so se vale anche per il Partito democratico italiano, perché a volte si fa un po’ fatica a capire da che parte stia, ma certamente moderati di sinistra o riformisti che dir si voglia e radicali o dogmatici di sinistra esistono pure in Italia, finendo per spaccare il fronte progressista».

In un mondo ideale dovrebbero affrontarsi alle urne liberal-conservatori e liberalsocialisti, in una sorta di eterno duello fra un John Major e un Tony Blair?
«In un mondo ideale forse sì, lo scontro più produttivo sarebbe tra moderati di destra e moderati di sinistra, ma nella realtà odierna e spesso anche in passato il populismo spinge a votare per gli estremisti di un lato e dell’altro. L’augurio è che il dibattito sulla sinistra illiberale serva a riportare i consensi popolari dell’una e dell’altra parte verso il centro, il luogo in cui tende a riconoscersi la maggioranza della gente».