31.10.08

Se l'editore DICE NO
Da Tomasi di Lampedusa a Goliarda Sapienza, lunga è la lista degli autori le cui opere sono state respinte dalle case editrici. Ma leggendo le lettere di Cesare Pavese raccolte in «Officina Einaudi» o la ricostruzione dell'«affaire Gattopardo» di Gian Carlo Ferretti, appare evidente come dietro certi rifiuti non ci sia miopia, ma valutazioni rigorose fondate su precise ragioni editoriali
Mariarosa Bricchi
Nell'autunno del 1979 il direttore letterario della Rizzoli, Sergio Pautasso, riceve una lettera di Goliarda Sapienza, cui ha rifiutato un romanzo qualche mese prima. Se Pautasso leggerà davvero il suo libro, scrive l'aspirante autrice, «forse prenderà la forza di non essere più il forzato del suo lavoro, o del suo talento o del suo dovere». Se leggere i libri dà forza ma il lavoro editoriale rende forzati, ci sono poche speranze per gli scrittori nuovi che cercano di farsi pubblicare. Il libro di Goliarda sembra documentarlo: L'arte della gioia avrebbe aspettato la stampa per altri vent'anni. Qualcuno, fin da allora, lo aveva paragonato al Gattopardo: nessuna parentela effettiva, ma un destino editoriale in due tempi (difficoltà di approdare alla pubblicazione e più o meno clamoroso successo postumo) che, col senno di poi, si riconosce in parte sovrapponibile. Il «distratto» VittoriniProprio sulle faccende (pre) editoriali del romanzo di Tomasi di Lampedusa è appena uscito La lunga corsa del Gattopardo di Gian Carlo Ferretti. Un libro piccolo piccolo che ha diversi meriti: racconta, a chi non le conosce, due storie interessanti; e soprattutto, attraverso quelle storie, fa chiarezza su un paio di temi cruciali legati alle vicende dell'editoria. Una storia è appunto quella del Gattopardo prima della sua pubblicazione. Esaminato da Mondadori nel 1956, e da Einaudi l'anno successivo, il romanzo esce alla fine, nel dicembre 1958, da Feltrinelli, per volontà di Giorgio Bassani, e diventa un successo mondiale, doppiando il trionfo feltrinelliano di un anno prima, Il dottor Zivago di Pasternak.La seconda storia è quella di come la prima storia è stata raccontata, interpretata e travisata. Un percorso di fraintendimenti che si è perpetuato negli anni, nonostante lo stesso Ferretti avesse già in passato reso pubblici i documenti della vicenda, gli stessi che questo libro, utilmente, ripropone. L'affaire coinvolge infatti un protagonista della cultura italiana, Elio Vittorini, nel ruolo, rispettivamente, di consulente per Mondadori, e di direttore di collana presso Einaudi. Facile dunque etichettare il tutto come un duplice rifiuto del romanzo da parte di Vittorini, distratto, o imprevidente, di fronte a un successo di cui non avrebbe saputo intuire il potenziale. Ma scorretto. Il che appare chiaro quando vengono messi a fuoco, attraverso l'esempio del Gattopardo, ragioni e chiaroscuri delle decisioni editoriali, specialmente di quelle negative; e quando si chiariscono i ruoli dei giocatori in campo (direttori, editor, consulenti), il peso e i limiti del loro potere e delle loro responsabilità. Esercizio tanto più utile se si pensa che quello del rifiuto è un tema tra i più risonanti dell'editoria, e si presta a facili derive larmoyantes. La storia letteraria, come tutti ricordano benissimo, ha i suoi grandi rifiutati. Accanto a Lampedusa campeggia, nell'Italia del secondo Novecento, Guido Morselli, morto suicida lasciando le lettere negative degli editori in una cartellina azzurra decorata col disegno di un fiasco. Ma non dimentichiamo che anche Se questo è un uomo di Primo Levi, in prima edizione nel 1947 presso la De Silva di Franco Antonicelli, era stato respinto da Einaudi, che lo riprese quindi a distanza di un decennio. Rifiuto inspiegabile dall'esterno - anche vista la successiva ammenda dell'editore. Ma maturato a seguito di varie letture e dettato da ragioni, se non altro, chiare: la sovrabbondanza, nell'immediato dopoguerra, di scritti su temi concentrazionari, e la convinzione che l'interesse del pubblico fosse ormai esaurito. L'alone che il rifiuto porta con sé (il grande tema è quello dell'innocenza perseguitata) può rideclinarsi, per contrasto, in un nuovo motivo di interesse, e l'avventura del libro in cerca di editore si trasforma ormai facilmente, in un mercato editoriale a sua volta in cerca di emozioni sempre più forti, in motivo di attrazione supplementare: al pubblico piace sapere che i libri che apprezza sono stati riconosciuti solo al termine di tortuose complicazioni. Nulla del genere trapela dal sobrio ricordo di Primo Levi, consegnato, anni dopo, a un'intervista giornalistica: «Se questo è un uomo - disse Levi - ebbe varie letture, toccò all'amica Natalia Ginzburg dirmi che a loro non interessava». Per contro le passate disavventure editoriali della tardivamente fortunata Goliarda Sapienza sono oggi parte della sua canonizzazione mediatica. Niente di diverso oltre confine. Jean Echenoz, alla fine pubblicato da un editore leggendario come Jérôme Lindon di Minuit, inizia il suo piccolo memoir Il mio editore presentandosi come un collezionista: «dispongo di una collezione pressoché esaustiva di lettere di rifiuto». Per non parlare di Harry Potter che, all'inizio, nessuno voleva.Incompatibilità di collanaMa perché gli editori respingono i libri? Vuoti d'attenzione, certo, e fretta, e miopia. Ma, non solo. Ci sono documenti di rifiuto dove nulla si concede alla superficialità: la lunga lettera dell'ottobre 1965 dove Italo Calvino spiega a Morselli le sue perplessità sul romanzo Il comunista testimonia forse di un errore, certo di una civiltà intellettuale, fatta di severa passione per i libri, di nettezza di giudizio, di rispetto per il lavoro dello scrivere, che scoraggia qualunque interpretazione scandalistica del rifiuto.In realtà il mancato riconoscimento della qualità letteraria è una leva ovvia ma non decisiva, ed entrano in gioco, almeno idealmente, altri fattori: valutazioni generali sull'interesse e sull'attualità del tema (vedi la rinuncia einaudiana a Se questo è un uomo); propensione o meno a dedicare tempo ed energie alla rielaborazione di un manoscritto magari promettente ma ancora acerbo; analisi della compatibilità di testo e autore con l'immagine del marchio o della collezione. L'ultimo tema è anche quello di massimo peso editoriale: ricorrono, nelle cronache, i libri rifiutati «perché non si sa in che collana metterli». O perché si adattano meglio al profilo di un altro editore. Pavese, per esempio, in una lettera ad Antonio Giolitti del febbraio 1947 scrive che la proposta di una certa antologia «sarebbe un'ottima trovata bompianesca». Per Einaudi, invece, proprio non va.Tutti questi motivi agiscono, come ricostruisce Ferretti, nella storia di Lampedusa. Cominciamo da Mondadori: alcuni capitoli del romanzo raggiungono la casa editrice e vengono valutati non positivamente da tre diversi lettori. Vittorini sintetizza i pareri altrui e annota: «Restituirei avendo cura di assicurarci che autore rispedisca a noi dopo fatta revisione». Questo non è un rifiuto. È il suggerimento, di un consulente al suo editore, di lavorare su un testo che può diventare interessante. La situazione è ben diversa quando, un anno dopo, Vittorini si trova a valutare una seconda volta il libro per la collana dei Gettoni, che lui stesso dirige presso Einaudi. I Gettoni sono votati alla scoperta del nuovo, sono il manifesto di un'interpretazione forte e personale dello scrivere, sono pensati per indicare «quel che intendiamo quando diciamo letteratura». In questo caso, il giudizio non può che essere netto, e ha a che vedere proprio con la compatibilità tra autore e collana, meglio con l'incompatibilità che il direttore avverte tra il romanzo di Tomasi e le sue proprie attese di romanzo. Questa volta Vittorini respinge il Gattopardo. Lo fa senza mezzi termini, e ne spiega le ragioni in una lettera all'autore. Per chiudere la storia: il romanzo non sarebbe mai stato ripreso in esame da Mondadori, perché la richiesta di revisione fu ignorata nella lettera ufficiale spedita dall'editore all'autore. Ecco un altro piccolo giallo che Ferretti dipana. E un'altra fonte di informazione sulle procedure editoriali: come direttore dei Gettoni Vittorini accetta o rifiuta un titolo in autonomia, secondo parametri interni alle logiche di collana; come consulente, si limita a sottoporre il suo parere, non vincolante, all'editore. Che agisce però in autonomia. Per esempio, trascurando un testo che sembra richiedere pratiche di editing molto lunghe e incerte.
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Illustri esempi di epopea dei pluririfiutati

Maria Teresa Carbone
Che si possa campare di rifiuti non è una scoperta, come sanno tutti quelli che rovistano nei cassonetti stracolmi, certi di trovare l'indispensabile e (più spesso) il superfluo. In qualche misura, la regola vale anche in campo editoriale: se un solo rifiuto, il primo d'abitudine, serve soprattutto a deprimere chi l'ha ricevuto, decine - o ancor meglio, centinaia - di lettere editoriali più o meno gentili, più o meno stereotipate, possono funzionare da tasselli per la composizione di un nuovo libro. Qui come là, ci vuole una notevole tenacia, forse una ancor più notevole disperazione.Tempo fa, nei primi anni '90, uno scrittore calabrese, Giuseppe Cerone, si è guadagnato i propri quindici minuti di celebrità raccontando le sue vicissitudini di pluririfiutato in un volume, Lo scrittore, che ha trovato anche una piccola casa editrice, Garamond, disposta a pubblicarlo. Da allora il libro, come accade anche a tanti capolavori, è uscito di catalogo, ma l'indomito Cerone, complice l'infinita disponibilità della Rete, ha aperto un sito - loscrittore.too.it - all'interno del quale si trova perfino una pagina intitolata «Come costruire un romanzo». Per completezza di informazione, Cerone ha pubblicato nel 2003 un altro libro, un manuale, Zen.Zip, definito da Tullio De Mauro, che ha firmato la prefazione, come «un'opera piena di saggezza condita d'ironia». Non certo ironico, ma «irregolare, appartato, oggetto di amore e odio, quasi di culto..., disperato e donchisciottesco», si presenta invece quello che, almeno in Italia, è diventato il portabandiera degli autori rifiutati, Antonio Moresco, di cui Stile libero Einaudi ha appena rimandato in libreria le Lettere a nessuno, uscite in origine per Bollati Boringhieri nel 1997, in una versione raddoppiata e con una copertina che ammicca alla sobrietà di Gallimard (e stride orribilmente con la costa arancione). Versione raddoppiata, perché alle prime «lettere» mandate, o non mandate, a editor e editori, Moresco ha aggiunto una seconda parte più magmatica, dove la dimensione epistolare si inserisce in un tessuto di appunti, pagine di diario, frammenti, per comporre - nelle intenzioni dell'autore - un quadro del «nostro chiuso presente... nella grande tradizione dello Zibaldone di Leopardi e del Mestiere di vivere di Pavese» (così la quarta di copertina, da cui sono tratti anche i virgolettati precedenti). Ma, forse, per descrivere il «chiuso presente» della cultura italiana, più delle settecento e passa pagine di Moresco vale la pena leggere uno smilzo libretto, «Non leggete i libri, fateveli raccontare», che Luciano Bianciardi pubblicò a puntate su «Abc» nel '67 e che ora viene proposto nella collana «Eretica» di Stampa alternativa. Sono sei «lezioni» destinate ai giovani desiderosi di diventare «intellettuali», e a quarant'anni da quando furono scritte, risultano fin troppo attuali.
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29.10.08

Maestro unico e tagli alla scuola: ecco la riforma

La riforma Gelmini approvata dal Senato ha introdotto una serie di novità, parte delle quali già operative essendo state inserite in un decreto legge: a partire dalle più pubblicizzate, il grembiulino obbligatorio alle elementari, la reintroduzione del voto in condotta e quella dei voti in decimi. Ma il decreto legge 137/2008 si accompagna alle misure previste nel dl 112, collegato alla Finanziaria, che prevede forti tagli agli organici e alla didattica che nel prossimo triennio puntano a far risparmiare alle casse dello stato 7,8 miliardi di euro: tra il 2009 e il 2012 verranno soppressi oltre 87 mila posti di docente praticamente in tutti gli ordini di scuole.

Nel prossimo anno la 'sforbiciata' sarà più consistente (- 42mila posti), poi nel 2010 se ne elimineranno circa 25.500 e l'anno successivo poco meno di 20mila. Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini e gli esponenti del governo hanno più volte precisato che non di licenziamenti si tratta, ma di una riorganizzazione che di fatto precluderà la possibilità della riconferma per migliaia di docenti con rapporto di lavoro precario. I tagli non risparmieranno nemmeno gli Ata vovero il personale non docente, il cui organico complessivo verrà abbattuto del 17 per cento: 44.500 tra direttori amministrativi (- 10mila), collaboratori scolastici (- 29mila), amministrativi e assistenti tecnici (- 4mila) tutti appartenenti al personale non docente. Prima dell'intervento del governo Berlusconi, i tagli previsti dal precedente governo assommavano a 20mila dipendenti. La scuola conta circa 1 milione e 100mila occupati, la riduzione complessiva quindi riguarda oltre il 10 per cento del personale del comparto istruzione.


L'obiettivo ultimo che si è posto il governo con il dl 112 è quello di avvicinare il rapporto alunni-docenti a quello della media Ue: attualmente in Italia è pari a 8,94, mentre con l'attuazione dei tagli nel 2012 verrebbe portato a 9,94. I calcoli fatti, tuttavia, si basano sul presupposto che il numero degli alunni resti invariato: se, invece, il numero aumenterà (confermando il trend degli ultimi anni) i tagli diminuiranno, al contrario se gli alunni dovessero diminuire il decremento di cattedre e posti potrebbe essere ancora più consistente.


Nel mese di ottobre il ministero ha anche presentato il piano programmatico del decreto: un piano che prevede, tra le altre cose, la riduzione dell'offerta formativa a 28-30 ore settimanali nei licei e a 32 negli istituti tecnici e professionali; ma anche la ridefinizione dei parametri per la formazione delle classi (dove in media verranno così collocati più alunni di ora). Nel progetto attuativo è inserito poi l'accorpamento delle classi di concorso di accesso all'insegnamento, in modo da poter utilizzare con più facilità i docenti in esubero spostandoli da una materia all'altra (comunque affini), e la soppressione o l'accorpamento degli istituti con meno di 50-100 alunni complessivi.


Nel dl 137, sono invece contenute principalmente disposizioni riguardanti lo svolgimento dell'attività didattica. Ad iniziare dalla riduzione a 24 ore del modello base d'insegnamento alla primaria: un ritorno al passato che permetterà l'attivazione del maestro unico e l'abbandono, dopo alcuni decenni di sperimentazione, del modulo basato su tre maestri per due classi. La soppressione di 'mezzo' docente per classe permetterà così alle ex elementari di dare il proprio contributo ai tagli sottraendo a fine manovra, rispetto all'attuale organico, tra i 20 e i 30mila posti. Il governo ha sostenuto che con il suo sistema il tempo pieno verrà confermato e rafforzato: su richiesta delle famiglie, infatti, le scuole potranno predisporre classi a tempo prolungato (27-30 ore) o pieno (40 ore), ma i maestri disposti a svolgere ore in più dovranno essere retribuiti attraverso il cosiddetto fondo d'istituto scolastico.


Nella nuova legge ci sono altre novità: l'inserimento in graduatoria degli ultimi aspiranti docenti abilitati presso le scuole di perfezionamento, i cosiddetti corsisti Ssis ed un piano straordinario per accelerare gli investimenti nel campo dell'edilizia scolastica e della sicurezza. Il passaggio ai voti espressi in decimali nella secondaria di primo grado (la 'media inferiore') e nella scuola primaria, dove però restano in vita anche i giudizi sintetici. Approvata anche, per «promuovere la conoscenza del pluralismo istituzionale definito dalla Carta Costituzionale», la nuova disciplina 'Cittadinanza e Costituzione'.

Confermata dal Senato la modifica al decreto introdotta in sede di approvazione alla Camera, secondo cui alle elementari la bocciatura degli alunni potrà essere decisa solo dopo l'espressione in tal senso di tutti i componenti del consiglio di classe; e comunque sempre laddove si stia trattando di casi eccezionali e adeguatamente motivati.

ORE ECCEDENTI MAESTRO UNICO - A partire dal prossimo anno scolastico, i docenti della scuola elementare impegnati oltre il proprio orario di servizio per assolvere alle esigenze di 'copertura' del tempo pieno o comunque superiore alle 24 ore settimanali di base verranno retribuiti attraverso il fondo d'istituto integrato dai risparmi ricavati dall'applicazione della finanziaria approvata con la legge n. 133 del 6 agosto scorso.


In pratica le eventuali ore aggiuntive svolte dal 'maestro unico' saranno, almeno per questa prima fase transitoria, retribuite con il fondo di istituto di ogni singola scuola che il Miur provvederà a finanziare anche in base alle specifiche necessità.

BOCCIARE ALLE ELEMENTARI SOLO IN CASI ECCEZIONALI - Dopo le polemiche sull'interpretazione dall'art.3 del decreto (`Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all'esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline), che avrebbe potuto essere interpretato come un'indicazione a bocciare gli alunni di elementari e medie manche con un solo cinque in pagella, arriva un emendamento (proposto da alcuni deputati della Lega tra cui Paola Goisis) che fa chiarezza: nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado la bocciatura degli alunni dovrà non solo essere decisa all'unanimità dal consiglio di classe, ma anche essere collocata nei casi di eccezionalità e «comprovati da specifica motivazione».

La singola valutazione, relativa ad ogni materia o (come alle elementari) gruppo di materie, non sarà inoltre assegnata dal singolo docente, ma sempre e comunque «assunta a maggioranza dal consiglio di classe».

SPECIALIZZANDI SSIS IN GRADUATORIA COME GLI ALTRI - La battaglia degli specializzandi Ssis (che la scorsa settimana è culminata con una manifestazione davanti al Miur, con due mila partecipanti, organizzata dall'Anief) ha avuto un esito positivo: gli oltre 12mila studenti che stanno terminando il IX ciclo formativo presso le università verranno inseriti nelle graduatorie ad esaurimento non più in coda, come previsto dalla prima bozza, ma «nella posizione spettante in base ai punteggi attribuiti ai titoli posseduti».


Lo stesso trattamento, di equiparazione dei nuovi iscritti agli oltre 300mila precari già inserite nelle graduatorie, verrà concesso anche i docenti che stanno conseguendo l'abilitazione all'insegnamento di materie musicali. E per coloro che si stanno formando per diventare maestro di scuola d'infanzia e primaria: questi ultimi prima verranno inseriti «con riserva» e, una volta acquisito il titolo, collocati nelle graduatorie sempre sulla base del punteggio derivante dal voto finale del corso, dei titoli di studio e dall'eventuale servizio già svolto.

EDILIZIA SCOLASTICA - Al fine di porre rimedio alle emergenze strutturali in cui versano migliaia di scuole, si «un finanziamento di interventi per l'edilizia scolastica e la messa in sicurezza degli istituti scolastici ovvero di impianti e strutture sportive dei medesimi» attraverso la proroga fino al prossimo 30 novembre di risorse che, dopo «l'individuazione degli interventi», verranno stabilite dal ministro dell'Economia assieme a quello del Miur. Approvati anche specifici 'Provvedimenti per la sicurezza delle scuole' finalizzati a snellire le procedure per l'utilizzo dei fondi disponibili, ma anche a rendere più stabili nel tempo i finanziamenti statali: al piano straordinario per l'edilizia scolastica previsto dalla legge finanziaria del 2003 è destinato annualmente un importo non inferiore al 5% delle risorse assegnate al programma delle infrastrutture strategiche, fino al completo esaurimento degli interventi previsti.

Gli interventi verranno attuati sulla base delle priorità definite da un «soggetto attuatore» che assicurerà la «messa in sicurezza di almeno cento edifici scolastici presenti sul territorio nazionale che presentano aspetti di particolare criticità sotto il profilo della sicurezza sismica».

STOP ALLE RIEDIZIONI DEI LIBRI - Le nuove edizioni dei libri di testo scolastici si adotteranno differentemente a seconda del ciclo di studi: alla primaria la cadenza di rinnovamento dei testi sarà quinquennale, come già previsto nella bozza iniziale del dl, mentre nella scuola secondaria di primo e secondo grado la cadenza diventa di sei anni. Permane la possibilità, per i docenti e le case editrici, di adottare nuove edizioni di testi qualora siano subentrate, anche prima dei termini stabiliti, «eventuali appendici di aggiornamento».

unità.it

28.10.08

Maglie nere della libertà di stampa

MIMMO CÁNDITO

Al primo posto c’è l’Islanda, al secondo il Lussemburgo, al terzo la Norvegia, e poi a seguire Estonia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lettonia, fino al primo paese non europeo, che è la Nuova Zelanda, nono posto. La classifica mondiale della liberta di stampa appena pubblicata da una delle più autorevoli organizzazioni che controllano la condizione del giornalismo nel pianeta, Reporters Sans Frontières, non mostra in questa testa della graduatoria elementi di novità. Sono, tutti, Paesi e culture dove la libertà d’espressione non sta soltanto nelle norme del diritto positivo - ci sono, naturalmente, Svezia, Svizzera, Canada, Olanda, Inghilterra e così via - ma questa libertà è parte integrante del costume civile di quelle società, insieme con il rigoroso rispetto della divisione dei poteri.

Fa stupore, piuttosto, uno stupore iniziale, d’abbrivio, che gli Stati Uniti siano ben giù, al quarantesimo posto; ma poi si pensa alle censure e alle manipolazioni della «guerra contro il terrorismo», e alle dure limitazioni che il Patriot Act comporta nella vita pubblica di quel paese, e allora si fa presto a cancellare dall’immaginario la vecchia lezione (che pure era largamente autentica) del giornalismo del Watergate, di Lippman, di Arnett, di Cronkite. posizione ancor peggiore va comunque all’Italia, classificata quarantaquattresima, e possiamo perfino dire che non ci va malissimo, considerando l’evidenza dei conflitti d’interesse e delle manomissioni politiche che inquinano il nostro sistema mediatico, la canea strumentale sulle intercettazioni che tendono a imbavagliare la stampa sotto la pretesa dì un rigoroso controllo della privatezza, le pesanti minacce che la criminalità lancia contro i giornalisti, a cominciare dalla morte che pende sulle amare giornate clandestine di Roberto Saviano.

Per i Paesi dittatoriali o comunque a regime autoritario, poco da dire: l’Iran è 166°, la Cina 167°, Cuba due posti ancora più giù. Ultimi, Corea del Nord ed Eritrea. Ma poiché non sempre le strutture formali corrispondono alla realtà della vita pubblica, nessuno deve stupirsi se un Paese formalmente democratico, la Russia di Putin e di Medvedev, sia ben verso il fondo della classifica, 141ª (richiamo alla nostra comune memoria che, da quando Putin ha preso il potere, a parte il suo controllo totale, o quasi, sui media, nel suo Paese sono stati assassinati 22 giornalisti, senza che mai la giustizia abbia trovato un colpevole).

Chiuso l’elenco con qualche malinconico, insopprimibile, sconforto, bisogna avere tuttavia la forza di proiettare la classifica all’interno del nuovo orizzonte dentro il quale il giornalismo va muovendo, incerto, pavido, schiacciato dai condizionamenti dei poteri, ma anche dalla rivoluzione che le tecnologie elettroniche hanno scatenato sul vecchio mestiere. Se politica e affari tentano sempre più di inquinare l’autonomia della narrazione del giornalismo (consiglio a tutti di leggersi sulle pagine del New York Times gli editoriali rabbiosi del neo-premio Nobel, Paul Krugman), si vanno però diffondendo con Internet e con il telefonino forme nuove di produzione giornalistica, il citizen journalism, il microjournalism per esempio, che tentano di arrangiare una difesa che coinvolga più direttamente la società cioè i consumatori d’informazione. Il problema non è affatto corporativo: il 90 per cento di ciò che forma la nostra «conoscenza» viene costruito dalla produzione quotidiana dei massmedia. Conviene rifletterci, tutti.

lastampa.it

27.10.08

Provaci ancora e-book

di Federico Ferrazza
Dopo una falsa partenza, ora il libro elettronico torna in versione 2.0: molto più pratico, radevole, facile da usare. E con investimenti enormi alle spalle

David Farrow ha passato l'ultimo mese sulla Quinta Strada di Manhattan. Non è un clochard né un fanatico di shopping: è stato lì per lavorare e rilanciare una delle tecnologie più suggestive (ma che finora non ha riscontrato un grosso successo di pubblico) degli ultimi anni: l'e-book, il libro in formato digitale. David, infatti, ha vissuto dentro la vetrina di uno dei negozi di elettronica più importanti della Quinta leggendo 24 ore al giorno sull'ultimo lettore di e-book della Sony: un'iniziativa promossa dal colosso giapponese in occasione del mese nazionale del libro. Il nuovo lettore di Sony si chiama PRS-700, è un dispositivo dotato di tecnologia touch screen e ha un'autonomia di 7.500 pagine di lettura continua. Ma non è l'unico uscito negli ultimi mesi sul mercato. La prima a inaugurare la nuova ondata di lettori di e-book è stata, qualche mese fa, Amazon. Che con il suo lettore Kindle ha pianificato una strategia che coinvolge anche il negozio on line di libri: i testi in formato digitale costano la metà di quelli cartacei e si possono scaricare per essere letti su Kindle stesso. Anche Philips, tramite il suo partner iRex, ha lanciato un nuovo lettore: il Digital Reader 1000, un dispositivo con un Giga di spazio capace di contenere circa 20mila pagine. C'è poi la Plastic Logic, azienda specializzata in schermi flessibili (e in alcuni casi addirittura arrotolabili), che ha annunciato la prossima commercializzazione di un suo lettore, con uno schermo da 13 pollici.Un fermento, quello intorno all'e-book, che sta anche nelle previsioni di mercato di diversi analisti. Secondo iSuppli, per esempio, le vendite di e-book avranno un giro d'affari di 291 milioni di dollari nel 2012, tanti soldi se si considerano i 3,5 milioni del 2007. Anche nel mondo dell'editoria classica, per la prima volta, ci sono opinioni che fanno ben sperare sul futuro del libro elettronico. Durante l'ultima fiera del libro di Francoforte, infatti, l'e-book è stato al centro dell'attenzione e - secondo un recente sondaggio - il 70 per cento degli editori si dice pronto a passare al digitale e il 40 crede che entro dieci anni le vendite dei libri elettronici supereranno quelle dei testi tradizionali. Il direttore della fiera tedesca, Joergen Boos, si è sbilanciato dicendo che "i nuovi lettori hanno creato le condizioni per fare del lettore di e-book un prodotto di massa". E perfino diversi gruppi ambientalisti sposano la causa dei libri elettronici che potrebbero salvare la vita di moltissimi alberi.Ma perché l'e-book è tornato di moda e si ripresenta alla sfida con il mercato? "Effettivamente gli e-book hanno avuto una falsa partenza agli inizi degli anni 2000. Ma ora c'è l'inchiostro elettronico, l'e-Ink, una rivoluzione tecnologica che sta rilanciando questo mercato", spiega Antonio Tombolini, fondatore e amministratore di Simplicissimus Book Farm, società che si occupa di e-book in Italia. L'e-Ink 'vive' all'interno di quasi tutti gli e-book di ultima generazione. Si tratta di una tecnologia che manda in pensione - per i libri elettronici - gli schermi a cristalli liquidi (Lcd). Un cambiamento di non poco conto visto che i monitor Lcd, emettendo luce, affaticano la vista mentre l'inchiostro elettronico sfrutta la luce ambientale, riflettendola. Ciò fa sì che i nuovi e-book si comportino come i libri tradizionali: non abbagliano i lettori e possono essere letti in qualsiasi condizione a patto che ci sia una fonte luminosa. I loro monitor, inoltre, non vengono 'oscurati' dalla luce del Sole come avviene con gli schermi Lcd.La tecnologia dell'e-Ink nasce al Mit di Boston (da cui è nato lo spin-off E-Ink Corporation) e la prima azienda a investirci è stata Philips che poi ha rilasciato il brevetto alla P.V.I. di Taiwan, ora produttrice di quasi tutti gli schermi per e-Ink (tranne che di quelli di Philips che si è riservata il diritto di produrli in proprio).Un altro fattore determinante per la diffusione degli e-book è ovviamente rappresentato dai contenuti. E anche qui, le cose stanno cambiando in meglio. L'editore britannico Random House, per esempio, pubblicherà entro dicembre 1.000 nuovi titoli sia per Sony (che ha un suo negozio all'indirizzo ebookstore.sony.com) sia per la libreria on line Waterstone's: di questi il 50 per cento saranno novità e il 50 per cento da catalogo. I negozi on line iniziano dunque ad avere un magazzino di discrete dimensioni: Amazon ha 185 mila titoli e Waterstone's 150 mila.Nonostante questo periodo di rinascita degli e-book, ci sono ancora alcuni aspetti da chiarire che ancora possono frenare il boom. Il primo riguarda la ritrosia di molti editori a mettere a disposizione in formato digitale i propri libri: la paura è che i titoli vengano copiati e distribuiti gratuitamente su Internet. "Ma gli editori si devono rendere conto che i titoli vengono comunque scaricati illegalmente", dice Tombolini: "Qualche tempo fa ho fatto un piccolo esperimento: sette dei dieci titoli della top ten italiana delle vendite erano scaricabili dalla Rete. Significa che c'è una domanda non intercettata da chi potrebbe rispondere in modo legale. Negli Usa gli editori hanno cominciato a comprendere il fenomeno, imitando l'industria musicale: quando iTunes ha cominciato a vendere brani tutti si sono chiesti perché, visto che erano già scaricabili gratis. Eppure la mossa si è rivelata vincente. Bisogna che gli editori si convincano a rilasciare i diritti. Tra tutti gli editori il mondo della scolastica è il più ostile: il formato elettronico deve essere venduto a un prezzo inferiore rispetto al cartaceo".Il secondo aspetto da affrontare è quello degli standard. Ci sono infatti diversi formati di e-book (tra i più importanti l'e-pub dell'Idpf e il Pdf): "Esiste un problema di compatibilità tra i formati disponibili (che sono di proprietà) e i diversi lettori. Non è pensabile per un editore gestire 7-8 formati diversi, perché questo richiede di fare lo stesso lavoro 7-8 volte", dice Cristina Mussinelli, consulente dell'area editoria digitale dell'Associazione editori italiani.In molti, poi, credono che alla consacrazione dell'e-book manchi ancora un dispositivo che faccia da traino per il mercato (un po' com'è stato l'iPod per i lettori di musica). Anche se c'è chi, come Mussinelli, ritiene che in ogni caso i lettori puri e semplici potrebbero non sfondare mai: "Penso che gli e-book potranno avere più successo su dispositivi integrati sempre più portatili, piccoli, leggeri e multifunzionali e che non sia solo un lettore di libri elettronici. Non credo possa avere successo un dispositivo che si limita a immagazzinare libri e documenti, per quanto utile possa essere". Insomma, quando ci sarà un telefonino o un lettore videomusicale che leggerà anche i libri, il fenomeno potrebbe esplodere veramente. Anche per la possibilità di cambiare modalità di lettura a seconda della situazione: si legge normalmente il libro, magari in treno, poi lo si prosegue come ascoltandolo con le cuffiette come audiolibro quando si sta guidando. Insomma, quando troverà la 'scatola' giusta, il libro in formato elettronico sembra destinato ad avere successo. Uno dei target possibili esce da una recente indagine dell'Osservatorio permanente sui contenuti digitali italiano: i lettori 'forti' (che leggono una decina di libri al mese) sono anche quelli che accedono più frequentemente alle nuove tecnologie. Loro potrebbero rappresentare quella fetta di mercato interessata a scaricare i titoli che si trovano meno facilmente in libreria. è la famosa 'coda lunga' dell'editoria, la possibilità di comprare in digitale titoli usciti dal giro delle librerie cartacee. Un affare anche per gli editori di libri, se solo se ne rendessero conto.
ha collaborato Tiziana Moriconi
espresso.it

26.10.08

Il segreto matematico del Superenalotto

Piergiorgio Odifreddi

Un giorno ad Atene scoppiò la peste e gli ateniesi si rivolsero all'oracolo di Delo per sapere come fermarla. Apollo rispose attraverso l'oracolo, che avrebbero dovuto raddoppiare il volume dell'altare cubico del tempio. Gli ateniesi raddoppiarono il lato, ma la peste non cessò, perché il volume si era ottuplicato. La soluzione era più complicata e quando fu trovata, la peste finì. E Platone commentò che lo scopo di Apollo non era il raddoppio dell'altare bensì l'educazione matematica degli ateniesi. L'Enalotto non è una peste, ma sicuramente è un'epidemia e non è detto che Apollo o i suoi moderni sostituti non ce l'abbiano mandato volendo educare gli italiani alla matematica. Proviamo allora a calcolare qual è la probabilità di vincita al Super enalotto. Si devono indovinare 6 numeri su 6 ruote da ciascuna delle quali ne viene estratto uno da 1 a 90. La scelta per il primo numero ha 90 possibilità, la scelta per il secondo numero ne ha 89, perché i numeri devono essere tutti diversi. Le possibilità sono dunque 90 per 89, per 88, per 87 ... Poiché però l'ordine non conta e ci sono 720 modi di ordinare 6 numeri, si deve dividere il prodotto per 720 e si ottiene 622 milioni circa. La probabilità di fare 6 al Super enalotto è dunque circa 1 su 622 milioni. E' una probabilità estremamente bassa paragonabile a quella di centrare un numero telefonico che si vuole chiamare facendo 9 cifre a caso sulla tastiera del cellulare. Nessuna persona sana di mente, volendo chiamare qualcuno, farebbe un numero a caso sperando di trovarlo. Eppure è proprio quello che facciamo quando giochiamo al Super enalotto. Per avere un parametro di riferimento, provare a fare a caso il pin del bancomat di 5 cifre equivale a una probabilità di 1 su 100 mila. Ed è quindi circa 6 mila volte più facile che fare un 6 al Super enalotto. Si potreebbe provare a giocare tutte le possibili combinazioni di 6 numeri per essere sicuri di vincere. Questo richiede però di giocare 622 milioni di schedine e di spendere una cifra analoga in euro: poiché la vincita di giovedì era di 100 milioni, rimangono più di 500 milioni che vanno a finire in tasche altrui. Poiché però ogni settimana vengono giocate circa 100 milioni di schedine, in media qualcuno riuscirà a centrare il Super enalotto una volta ogni 6 settimane. Il caso di giovedì era leggermente diverso perché c'era stato un ritardo di qualche settimana, che però è perfettamente nella norma statistica. Giocare tutti insieme è naturalmente più conveniente che giocare da soli e ha lo stesso vantaggio dei computer paralleli rispetto ai computer comuni. Ma psicologicamente, perché giochiamo quando sappiamo di avere una così piccola probabilità di vincita? Lo psicologo Daniel Khaneman ha vinto il Nobel per l'economia (2002) proprio studiando i meccanismi mentali che ci fanno preferire certe situazioni ad altre, indipendentemente dalle loro probabilità razionali. Il che significa che oltre alla solita razionalità logico-matematica, tutti noi abbiamo una seconda razionalità intuitiva che prende spesso il sopravvento sull'altra. E' la stessa razionalità che ci fa consultare l'oracolo di Apollo e che alla maggior parte di noi fa perdere quattrini, ma a un fortunato signore di Catania ha fatto incassare 100 milioni di euro.
repubblica.it

21.10.08

Ocse, l'Italia tra i peggiori per la disuguaglianza economica

Secondo il rapporto 'Growing Unequal' nel nostro Paese dagli anni '80 a oggiil gap tra le classi sociali è cresciuto del 33% contro la media del 12%
Le differenze, dimostra un'indagine Coldiretti, emergono anche a tavola
Crescono infatti da un lato gli acquisti di prodotti a basso prezzo e dall'altro di alta qualità


di ROSARIA AMATO

Negli ultimi anni in Italia si è pesantemente aggravato il divario tra ricchi e poveri. Secondo il rapporto dell'Ocse Growing Unequal?, che analizza la distribuzione del reddito e la povertà all'interno dei 30 Paesi che compongono l'organizzazione, l'Italia è infatti al sesto posto per il gap tra le classi sociali, dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.

La disuguaglianza economica è cresciuta del 33 per cento dalla metà degli anni Ottanta a oggi, contro una media Ocse del 12 per cento. Un dato sul quale hanno inciso pochissimo le recenti misure adottate a favore dei più poveri, che pure gli autori del Rapporto elogiano, sottolineando come solo tre Paesi Ocse, tra i quali appunto l'Italia, negli ultimi 10 anni abbiano varato misure per sostenere i redditi più bassi. Ma le misure non hanno inciso nel dato di fondo: "I ricchi hanno beneficiato maggiormente della crescita sociale rispetto ai poveri o alle classi medie".

La povertà favorisce naturalmente l'esclusione, e pertanto la mobilità tra le classi sociali "è più bassa in Italia rispetto a paesi come l'Australia o la Danimarca. - si legge nel rapporto - I figli di genitori poveri hanno molte meno probabilità di accedere alla ricchezza". La ricchezza è distribuita in modo anche più diseguale delle entrate: infatti in Italia il 10 per cento dei più abbienti possiede il 42 per cento della ricchezza totale e il 28 per cento delle entrate globali.

In effetti dal rapporto Ocse emerge un generale aumento della disuguaglianza in tutti i Paesi del mondo. Il gap si è allargato, oltre che in Italia, anche in Canada e in Germania, mentre è diminuito in Messico, Grecia e Regno Unito. Ma in Italia i dati di riferimento sono notevolmente peggiori: "Il reddito medio del 10 per cento degli italiani più poveri è di circa 5000 dollari (l'equivalente di circa 3770 euro ndr), tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari (l'equivalente di circa 5280 euro, ndr). Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari (l'equivalente di circa 41500 euro, ndr), sopra la media Ocse".

In Italia si è registrato, rileva l'Ocse, una riduzione del tasso di povertà dei bambini, che tra la metà degli anni Novanta e il 2005 è diminuito dal 19 al 15 per cento. Solo nel Regno Unito si è avuto un calo di queste dimensioni, si legge nel rapporto: però un tasso di povertà infantile del 15 per cento "è ancora sopra il tasso medio Ocse del 12 per cento".

Le disuguaglianze di reddito e ricchezza si riflettono anche a tavola. Da un'indagine Coldiretti - Swg sui consumi alimentari emerge infatti che la crisi economica sta provocando una polarizzazione nei consumi alimentari e se da un lato cresce in numero di quanti sono costretti a ricercare prodotti a più basso prezzo, dall'altro si assiste ad un consolidamento della domanda di prodotti di alta qualità, tradizionalmente acquistati da fasce di cittadini a più alto reddito.

"La metà di coloro che hanno cambiato le proprie abitudini alimentari per effetto della crisi economica lo hanno fatto - sottolinea la Coldiretti - cambiando i luoghi della spesa a favore di bancarelle ed hard discount e modificando il tipo di alimenti acquistati con conseguenze sulla dieta e sulla qualità dell'alimentazione. Ma dall'altra parte, aumenta la domanda di prodotti di elevata qualità e cresce dell'8 per cento la percentuale dei cittadini che acquista regolarmente prodotti a denominazione di origine (sono il 28 per cento) e del 23 per cento di quelli che comperano cibi biologici, i quali però interessano una fetta più ridotta della popolazione (il 16 per cento)".
repubblica.it

Se il governo minaccia, ma poi a porte chiuse tratta

Il ministro Prestigiacomo: "Non riusciamo a rispettare Kyoto"
Neanche il nucleare potrà contribuire al conseguimento dell'obiettivo


di Andrea Bonanni

Come accade purtroppo spesso, quando la politica italiana varca i confini nazionali per arrivare in Europa sembra perdere ogni nesso tra quello che annuncia e quello che fa. È successo anche ieri a Lussemburgo, dove al consiglio dei ministri dell'Ambiente il governo italiano ha dovuto affrontare il primo scontro concreto con la Commissione e con la presidenza francese sul pacchetto clima, che dovrebbe essere approvato al vertice di dicembre.

Il giorno precedente l'incontro, il ministro Matteoli aveva solennemente annunciato che Roma avrebbe chiesto di rinegoziare gli accordi di Kyoto. Naturalmente non se ne è fatto cenno, visto anche che quello di Kyoto è un trattato internazionale firmato oltre dieci anni fa e che scadrà tra tre anni. Sempre alla vigilia dell'incontro, fonti del governo avevano reso noto che l'Italia avrebbe chiesto un rinvio della decisione sul nuovo pacchetto Ue al 2009. Ma neppure di questa richiesta si è trovata traccia nei verbali del Consiglio.

Più modestamente, il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, entrando in riunione ha spiegato ai giornalisti che avrebbe domandato a nome del governo di inserire una "clausola di revisione", che è un preciso meccanismo legale, in modo da riaprire il negoziato sul pacchetto clima-energia alla luce di una più attenta valutazione del rapporto costi/benefici. Ma poi, al momento di entrare nella sala delle riunioni, deve essersene dimenticata perché nessuno dei ministri presenti si è accorto di una simile richiesta.

La leggera schizofrenia che circonda la politica italiana all'estero ha avuto anche un consistente strascico alla fine del Consiglio. Il ministro Prestigiacomo, infatti, ha avvertito che se le richieste italiane non saranno accolte non sarà possibile arrivare ad un accordo al vertice di dicembre: "se non ci sarà unanimità, il pacchetto clima non sarà chiuso". Si presume che queste cose, oltre a dirle ai giornalisti, le abbia spiegate anche ai colleghi ministri. Ma questi erano evidentemente distratti. Il presidente di turno, il francese Jean Louis Borloo, ha infatti dichiarato che "vi è una volontà forte degli stati membri per intensificare i lavori e arrivare un accordo sul pacchetto clima ed energia prima di fine anno", ed ha negato che su questi temi esista un "caso Italia".

Ironicamente, il ministro svedese Andreas Carlgren, interrogato sulla dura opposizione italiana, ha spiegato che "da quel che capisco, alcuni ministri sono stati chiaramente più critici nelle dichiarazioni che hanno rilasciato ai loro media nazionali che nel corso della discussione tenutasi al Consiglio".

Al di là della sgradevole impressione che questa dicotomia tra il dire e il fare dovrebbe lasciare nell'opinione pubblica, il fatto che il governo italiano abbia rinunciato ai toni ultimativi è in realtà una buona notizia. Significa infatti che le parti hanno cominciato a negoziare sul serio non sulle questioni di principio ma su concreti dettagli tecnici, dove probabilmente c'è margine per strappare qualche ulteriore concessione.

Un altro positivo ritorno al principio di realtà si è avuto ieri, quando il ministro Prestigiacomo ha riconosciuto esplicitamente che, mentre l'Unione europea riuscirà a rispettare gli accordi di Kyoto, l'Italia non sarà probabilmente in grado di onorare gli impegni assunti. "Dobbiamo cominciare a pensare sul serio che, se continuiamo così, non raggiungeremo l'obiettivo di Kyoto", ha detto il ministro. Ed ha ammesso che "neanche il nucleare potrà contribuire al conseguimento dell'obiettivo, perché non arriverà prima del 2012". L'unica cosa che non ha spiegato è quanto costerà questa inadempienza agli industriali, che ora si preoccupano del futuro pacchetto europeo, e ai contribuenti italiani.

repubblica.it

20.10.08

L'uso bipartisan dei bambini in piazza

La polemica Il finto sdegno dei politici. Quando Togliatti disse del piccolo D'Alema: è un nano
Dagli «orsetti» leghisti ai minori in tuta bianca. E c'è chi li mette nei calendari

Giù le mani dai bambini. Ha ragione la destra, a scandalizzarsi per i piccini portati in piazza dalla sinistra a manifestare contro Mariastella Gelmini: non si fa. Che «la grande novità della contestazione studentesca stia proprio nei baby-scioperati», però, è una balla grande quanto la bolla di sapone da 32 metri con cui Alan McKey entrò nel Guinness dei primati. L'hanno sempre fatto, purtroppo, tutti. A partire da chi oggi si indigna.

Un esempio? Maurizio Gasparri. Ieri ha tuonato: «C'è molta malafede in queste contestazioni. Trovo sgradevole l'uso dei bambini nelle manifestazioni. È sbagliato strumentalizzare e disinformare i bambini portandoli nei cortei. È una cosa gravissima e chi lo fa è un cattivo genitore». Bene, bravo, bis. Peccato che una bella foto lo immortali con la figlioletta al «family day». Dirà: era un'altra cosa. Giusto. Ma al di là delle distinzioni, la bambina aveva un «pass» personale per l'accesso al «backstage » con la voce appartenenza riempita così: «Alleanza Nazionale ». Come fosse un'esponente politica (in miniatura) venuta lì a fare politica per un partito. Sia chiaro: non è una polemica solo italiana. Per citare un solo episodio, val la pena di ricordare la Marcia dei Bambini organizzata anni fa dal Children's Defense Found a Washington per protestare contro una serie di tagli. La Coalizione per i valori tradizionali fu durissima. E accusò gli organizzatori di essere dei «disonesti » che strumentalizzavano «l'amore per i bambini ai fini di gonfiare le dimensioni e il potere del governo federale ». Né si può dire che anche da noi le tradizioni non siano antiche. Ve li ricordate i pionieri comunisti? Erano così indottrinati che quando Palmiro Togliatti sentì l'infante Massimo D'Alema rivolgere il saluto al congresso sbottò: «Ma questo non è un bambino: è un nano! ».

E i manifesti elettorali della Dc nel dopoguerra? In uno, terrorizzante, una bimbetta scappava davanti ai cingoli del carro armato russo con lo slogan che barriva: «Salva i tuoi figli!». Un altro mostrava uno scolaretto col grembiulino che arringava i compagni di classe: «E se papà e mamma non andranno a votare noi faremo la pipì a letto!». Insomma, molto prima che Il Giornale sparasse ieri mattina il titolo «Che rabbia quei bimbi in corteo» e pubblicasse un commento sdegnato («Allora, mammine evolute che per le creature cercate la merendina "bio" e lo zainetto-trolley: siamo sicuri che l'esperienza del corteo sia così edificante?»), l'uso dei piccoli come testimonial politici di freschezza, gioventù, pulizia era già stato provato mille volte.

E se resta indimenticabile il corteo del 1˚ maggio 1969 per le strade di Milano, con decine di bimbi coi cappottini che portavano al collo il fazzoletto rosso e reggevano il «libretto rosso» maoista sotto le bandiere dell'Unione dei comunisti marxisti leninisti, sarà difficile scordare anche il «Baby club» azzurro fondato nel '94 dalla figlioletta di Maria Pia Dell'Utri: «Mi ha detto: "Mamma, posso essere anch'io presidente di un club di Forza Italia per bambini?" E io: "Ma certo amore, è una splendida idea, chissà come sarà contento papà" ». Strepitosa la motivazione: «La bambina ha voluto uno striscione con scritto "Silvio facci sempre vedere i cartoni", ha raccontato la mamma alla ragazza che la intervistava per il giornale dei quartieri, "Roma circoscrizione". La signora ha poi spiegato che i bambini temevano che se Berlusconi avesse perso le elezioni loro non avrebbero più avuto cartoni animati in tv». I Radicali, ad aprire un loro congresso, piazzarono una scricciola («tesserata di quattro anni», annotò ironico Filippo Ceccarelli) che si chiamava Altea: «In un bel vaso di porcellana/ era rinchiusa una bella cinesina/ che danzava una danza americana/ con il capitano della Marina». Quindi cinguettò in un diluvio di applausi: «Ciao e buon congresso». «Cari genitori, mi permetto di chiedere il vostro sostegno alla mia candidatura...», scrisse qualche anno fa ai papà e alle mamme dei suoi scolari Maria Paola Marinari, maestra elementare e candidata diessina. «È più bello nascere se si è desiderati», diceva un cartello sorretto da due bambine portate dalla mamma a una manifestazione a fav ore del l'aborto a metà degli anni Settanta.

E come spesso accade in politica, i casi di chi mostra di avere due pesi e due misure sono frequentissimi. Uno per tutti, quello di Alessandra Mussolini. Prima schifata dall'aver letto che Ugo Gregoretti ed Ettore Scola stavano preparando per il suo avversario, Antonio Bassolino, uno spot con una specie di «"talk show" con bambini e bambine». Poi soavemente serena nel dire a Klaus Davi che no, «non ci possono essere tabù» all'idea di portare le scolaresche in gita scolastica sulla tomba del Duce a Predappio: «I miei figli è chiaro che li ho portati». Sempre lì torniamo: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Vale per la sinistra radicale, che a una manifestazione contro il G8 arrivò a mandare incontro ai poliziotti schierati un bambino sul monopattino con la «tuta bianca » dei più accesi contestatori.

Vale per Silvio Berlusconi che non resistette alla tentazione di giocare con le scolaresche chiedendo: «Lo sapete l'inno di Forza Italia?». Vale per An che in polemica col Bossi secessionista fece sfilare bambini con la maglietta che diceva «Io sono italiano». Vale per la Lega, che si è inventata gli «orsetti padani» e fa sfilare i figlioletti con le bandiere col sole delle Alpi e sul palco di Pontida affidò il microfono alla piccola Jessica perché, foulard verde al collo, intonasse il Va pensiero. Vale infine per la destra fascista, che nel solco della propaganda mussoliniana, la più spregiudicata di tutte con quella bolscevica nell'uso dei fanciulli, è arrivata a fare il nuovo calendario 2009 di Forza Nuova con un balilla che fa il saluto romano. O a girare un video, finito su Youtube, in cui un baby squadrista di sei o sette anni, teso il braccio fascista, canta: «Le teste rosse cominciano a cadere / sono tornate le camice nere / sono tornate con spranghe e manganelli / son tornati per l'amor dei miei fratelli / boia chi molla, un grido di battaglia / boia chi molla, là dove si scaglia / questa è la storia di un piccolo fascista / che ammazzò quel bastardo comunista ». Si dirà, a sinistra e a destra e al centro, che ogni papà ha diritto a educare il figlio come vuole. Contro Mariastella Gelmini o contro i «terroni», contro i sindacati o contro i comunisti. E c'è chi in nome della libertà educativa ha teorizzato perfino l'apertura di scuole di destra per i bambini figli di genitori di destra e di sinistra per i bambini figli di genitori di sinistra. Ma non sarà il caso che, su questo punto, facciano tutti un passo indietro?

Gian Antonio Stella
corriere.it

Tutti al capezzale dell'economia

di PAUL KRUGMAN
L'indice Dow Jones sta salendo! No, precipita! No, sale! No, sta scendendo... Non importa. Mentre il mercato azionario in fase maniaco-depressiva domina sulle prime pagine dei giornali, l'avvenimento più importante è la deprimente notizia che riguarda l'economia reale. È chiaro ormai che il salvataggio delle banche non è che l'inizio: l'economia non finanziaria è anch'essa in disperato bisogno di aiuto.

Per fornire quell'aiuto, dovremmo accantonare alcuni pregiudizi. È accattivante da un punto di vista politico adirarsi contro le spese di governo ed esigere la responsabilità fiscale, ma per il momento l'accresciuta spesa del governo è come la medicina ordinata dal dottore, e le preoccupazioni per il deficit di bilancio dovrebbero essere lasciate in sospeso per qualche tempo.

Prima di arrivare a questo punto, parliamo un po' della situazione economica. Proprio questa settimana siamo venuti a sapere che le vendite al dettaglio sono precipitate, e così pure la produzione industriale. Le indennità di disoccupazione sono a livelli da forte recessione, e l'indice dell'attività manifatturiera nel distretto della Federal Reserve di Philadelphia sta rallentando con il ritmo più rapido degli ultimi venti anni. Tutto, insomma, indica una recessione economica che sarà tremenda, spietata e lunga.
Quanto tremenda? Il tasso di disoccupazione ha già superato il 6 per cento (e gli indici complessivi di sotto-occupazione sono nell'ordine delle due cifre). È ormai praticamente sicuro che il tasso di disoccupazione supererà il 7 per cento e forse addirittura l'8 per cento, facendo di questa la peggiore recessione degli ultimi 25 anni.

Quanto lunga? Potrebbe essere davvero molto lunga. Occorre tenere presente ciò che è accaduto in occasione dell'ultima recessione, che fece seguito allo scoppio della bolla tecnologica della fine degli anni Novanta. A prima vista, la risposta politica a quella recessione pare quasi un gran successo. Quantunque fosse alquanto diffusa la paura che gli Stati Uniti avrebbero sperimentato un "decennio perduto" in stile giapponese, non è accaduto niente di simile: la Federal Reserve è stata in grado di concertare una ripresa da quella recessione tagliando i tassi di interesse.

La verità è che per qualche tempo siamo sembrati davvero giapponesi: la Fed ha avuto le sue belle difficoltà a fare da traino. Malgrado i ripetuti tagli dei tassi di interesse - che alla fine hanno fatto scendere addirittura all'uno per cento il tasso dei fondi federali - la disoccupazione non ha fatto altro che salire. Sono occorsi più di due anni perché la situazione del mondo del lavoro iniziasse a migliorare. E quando finalmente è arrivata una ripresa convincente, è stato soltanto perché Alan Greenspan era riuscito a sostituire alla bolla tecnologica la bolla immobiliare.

Adesso è toccato alla bolla immobiliare scoppiare a sua volta, lasciando il panorama finanziario disseminato di detriti. Anche qualora i tentativi in corso di salvare il sistema bancario e scongelare i mercati creditizi dovessero funzionare - per quanto si sia ancora agli inizi e i primi risultati siano già deludenti - è difficile presumere che in un immediato futuro il mercato immobiliare possa ripartire. Non è chiaro se c'è un'altra bolla ancora in fase di formazione. Quindi la Fed questa volta riscontrerà più difficoltà che in passato a intervenire con successo.

In sintesi: non c'è molto che Ben Bernanke possa fare per l'economia. Potrà e dovrà tagliare i tassi di interesse ancora di più, ma nessuno si aspetta che tale mossa possa incidere in modo considerevole, oltre a fornire un modesto impulso economico.

D'altro canto, però, c'è molto che il governo federale può fare per l'economia. Può assegnare benefit più consistenti ai disoccupati, il che servirà sia ad aiutare le famiglie in difficoltà ad affrontare i problemi, sia a mettere denaro nelle mani di coloro che hanno maggiori probabilità di spenderlo. Può assegnare aiuti di emergenza ai governi statali e locali, così che questi non siano costretti a procedere a drastici tagli di spesa che declassano i servizi pubblici e al tempo stesso cancellano i posti di lavoro. Può comperare mutui in blocco (ma non al valore nominale, come ha proposto John McCain), e ripianificarne condizioni e scadenze per aiutare le famiglie a tenersi le proprie case.

I tempi sono altresì buoni per impegnarsi in spese per realizzare qualche seria infrastruttura, di cui il Paese ha terribilmente bisogno in ogni caso. La motivazione di norma addotta da chi è contrario ai lavori pubblici intesi come stimolo economico è che per portarli a termine occorre troppo tempo e che quando si sarà riusciti a riparare quel ponte là e a migliorare quel tratto di linea ferroviaria lì, la recessione sarà ormai giunta al termine e gli incentivi non occorreranno più. Beh, questa tesi ora come ora non è plausibile, in quanto le chance che questa recessione possa dirsi finita nel volgere di poco tempo sono pressoché nulle. Prepariamo quindi quei progetti e realizziamoli.

La nuova Amministrazione farà quanto è necessario per affrontare la recessione economica? No, se McCain metterà a segno un risultato a sorpresa. Ciò che ci occorre in questo momento è una più apprezzabile spesa governativa, ma quando a McCain è stato chiesto in uno dei dibattiti come gestirebbe la crisi economica, ha risposto: "Beh, la prima cosa da fare è mettere sotto controllo le spese".

Se Barack Obama diverrà presidente, non avrà la medesima opposizione istintiva nei confronti della spesa pubblica, ma dovrà affrontare un vero e proprio coro di abitanti della Beltway che gli diranno che deve dimostrarsi responsabile, che gli enormi deficit di cui il governo dovrà occuparsi l'anno prossimo - se farà la cosa giusta - sono inammissibili.

Obama dovrebbe ignorare quel cicaleccio. La cosa responsabile da fare, per il momento, è dare all'economia tutto l'aiuto di cui ha bisogno. Questo non è proprio il momento di preoccuparsi del deficit.
(c. 2008, The New York Times -Traduzione di Anna Bissanti)
repubblica.it

19.10.08

Costi, strumenti e il ruolo della Cina. Ecco perché Roma e Ue non si capiscono

Le cifre e le convinzioni dietro lo scontro tra Italia e Europa sul clima
Due visioni diametralmente opposte che torneranno a confrontarsi già domani

di VALERIO GUALERZI

Dopo il duro scambio di accuse dei giorni scorsi, una scheda per capire punto per punto i temi al centro dello scontro sul clima tra Roma e l'Unione Europea. Un duello che si annuncia ancora lungo e che vivrà una nuova tappa in occasione del Consiglio dei ministri dell'Ambiente che si terrà lunedì a Lussemburgo.

I COSTI

Per il governo. Secondo il governo adempiere agli obiettivi previsti dalla direttiva 20-20-20 costerebbe all'Italia una cifra compresa tra i 18 e i 25 miliardi l'anno, pari a circa l'1,14 del Pil. Dati che secondo Palazzo Chigi si desumono da valutazioni della stessa Unione Europea nei suoi studi preliminari. Risorse superiori a quelle chieste ad altri stati dell'Unione e che avrebbero l'effetto di frenare la ripresa economica nazionale. Posizione questa, in sintonia con quella di Confindustria, grande sponsor dell'indietro tutta nella lotta ai cambiamenti climatici.

Per l'Unione Europea. Secondo Bruxelles i conti vanno fatti però in maniera diversa. "La stima dei costi aggiuntivi - spiega il commissario all'Ambiente, il conservatore greco Stavros Dimas - secondo la Commissione, è pari infatti al massimo allo 0,66% del Pil. E questo dato prende in conto tutti gli elementi del pacchetto su clima ed energia: non solo gli obiettivi per la riduzione delle emissioni di gas serra e per lo sviluppo delle rinnovabili, ma anche i 'meccanismi flessibili' che si possono utilizzare per raggiungerli".

Per gli ambientalisti. Gli ambientalisti insistono poi affinché parlando dell'agenda 20-20-20 il discorso venga allargato alle ricadute positive che il governo italiano sembra non voler contabilizzare. "Per l'Italia - spiega Edoardo Zanchini di Legambiente - l'Ue stima un risparmio di 7,6 miliardi l'anno nel taglio delle importazioni di idrocarburi e di 0,9 miliardi di euro nei costi per contrastare l'inquinamento. I costi effettivi pertanto scendono fino a trasformarsi in un guadagno netto di 600 milioni di euro l'anno. Questo senza contare i benefici di lungo termine sul piano dello sviluppo di un settore innovativo come quello delle rinnovabili e di crescita occupazionale".

Per gli industriali. Posizioni almeno in parte simili sono condivise anche da larghi settori dell'industria europea. Il Gruppo europeo dei dirigenti di impresa, che raggruppa i vertici di grandi società come Phillips, Shell, Tesco e Vodafone, ha inviato recentemente a ogni membro dell'Europarlamento una lettera in cui esprimeva il proprio favore nei confronti delle misure proposte. "Siamo dell'idea - si leggeva nella missiva - che i benefici di un intervento deciso e tempestivo sul cambiamento climatico siano superiori ai costi dell'inazione. Riconosciamo che le questioni legate alla competitività europea e le preoccupazioni europee riguardo alla recessione economica globale influenzeranno il dibattito, ma siamo certi che l'adozione di un pacchetto legislativo deciso ed efficace alla fine avrà effetto positivo sulle imprese europee".

I MECCANISMI FLESSIBILI

Secondo il governo. Altro tema di scontro tra Roma e l'Europa è il mercato delle emissioni di CO2 (Ets, Emission trading scheme). Si tratta in poche parole di una speciale "Borsa", la cui creazione era già prevista dal Protocollo di Kyoto, che permette agli operatori virtuosi (coloro che hanno ridotto le proprie emissioni) di vendere i tagli in eccesso alle imprese rimaste invece indietro. Un meccanismo che dovrebbe permettere di incentivare l'innovazione che migliora l'efficienza e il risparmio energetico. Secondo il presidente del Consiglio la compravendita di questi titoli assomiglia a un mercato dei derivati simile a quello dei mutui subprime e pertanto va assolutamente abbandonata.

Secondo l'Unione Europea. In questo caso da Bruxelles nessuno si è scomodato per rispondere in maniera diretta a Berlusconi, tanto il mercato delle emissioni (che gode anche della benedizione delle Nazioni Unite) è ritenuto uno strumento chiave. "Il commercio dei diritti di emissione - ha ricordato ancora il Commissario Dimas - consente alle industrie dell'Ue di scambiarsi le quote di CO2 assegnate loro, garantendo che le emissioni siano ridotte laddove è meno costoso farlo". Recentemente il meccanismo Ets è uscito tra l'altro rafforzato (anche se con delle modifiche sgradite agli ambientalisti) dal voto della Commissione Ambiente dell'Europarlamento.

USA E CINA

Secondo Berlusconi. Altro elemento portato dall'Italia a sostegno dello stop alla direttiva 20-20-20 è l'obiezione che l'Europa da sola non è in grado di ottenere nessun risultato di rilievo nel contrastare i cambiamenti climatici, mentre Stati Uniti e Cina continuano ad inquinare senza freni.

Secondo gli altri leader. Si tratta di un'affermazione vera solo in parte. I leader dell'Unione più impegnati nella lotta ambientale come Angela Merkel hanno presente il problema e non hanno esitato ad ammettere la questione, ma hanno più volte ribadito che il miglior modo per convincere i paesi emergenti recalcitranti (Cina, India e Brasile innanzitutto) è dimostrare che chi sino ad oggi ha fatto i danni maggiori (ovvero l'Occidente) sia credibile nel dare il buon esempio.

Cosa accade in Cina. Inoltre non è esattamente vero che Cina e Stati Uniti non intendono impegnarsi. Pechino, che sicuramente non vede positivamente l'idea di sottostare a vincoli internazionali, non ha però escluso del tutto un'adesione al rinnovo del Protocollo di Kyoto (dal 2012 in poi) e al momento sta mercanteggiando per ottenere aiuti tecnologici dall'Occidente. Allo stesso tempo la Cina internamente sta portando avanti obiettivi ambiziosi quanto quelli dell'Ue (rinnovabili al 19% entro il 2020) e il risparmio energetico è divenuta una delle priorità di governo indicate dal Partito comunista.

Cosa accade negli Usa. Anche negli Usa le cose non sono così statiche come descritte da Berlusconi. Pochi in questi giorni hanno sottolineato che tra i provvedimenti inseriti nel piano di salvataggio del ministro del Tesoro Henry Paulson è stato inserito anche il rifinanziamento degli incentivi alle fonti rinnovabili. Inoltre, seppur tra contraddizioni e ambiguità, tanto Obama quanto McCain, hanno ammesso la necessità di regolamentare in maniera stringente le emissioni di anidride carbonica. Aperture dettate sia dal fatto che chiunque vinca la Casa Bianca dovrà vedersela sicuramente con una maggioranza democratica (un disegno di legge in proposito è già stato depositato), sia dal fatto che molti Stati stanno andando avanti per conto proprio. A fine settembre, ad esempio, si è svolta la prima asta organizzata da una coalizione di 10 stati del Nordest, la Regional Greenhouse Gas Initiative, per l'acquisto dei diritti d emissione. Un'iniziativa che si richiama all'Ets europeo.

repubblica.it

15.10.08

La verità tra virgolette

Tutto è interpretazione, la realtà oggettiva non esiste

GIANNI VATTIMO

Non esagerava Richard Rorty quando, nel dialogo con Peter Engel uscito in italiano presso il Mulino (A cosa serve la verità?, pp. 90, e8), dichiarava di non sentirsi interessato dalla discussione su realismo e antirealismo che ancora agita una parte della filosofia contemporanea. La discussione, cioè, sul senso da dare al famoso principio di Tarski secondo cui «P» è vero se, e solo se, P. Che tradotto vuol dire: «piove» è vero se e solo se piove. Le virgolette sono decisive, ovviamente - o non troppo ovviamente, fuori dall'ambito degli interlocutori interessati al dibattito. Anzi, il famoso principio di Tarski può essere per molti, non solo profani ma anche filosofi, come mostra l'esempio di Rorty, una ennesima prova della inutilità di un certo tipo di filosofia.

In effetti, anche leggendo il recente lucido libro intitolato significativamente Per la verità (Einaudi, pp. 172, e10) di Diego Marconi, della cui serietà come filosofo non dubitiamo, non si può evitare una certa sensazione di noia, e in fondo non si può sfuggire alla domanda «a che serve», che sta alla base della citata discussione tra Rorty e Engel. Ma prima ancora che la domanda sull'utilità della discussione, il libro di Marconi ci pone di fronte a un problema ancora più radicale: davvero la seconda P sta fuori delle virgolette? Chi lo dice? Rispondere a questa domanda serve anche e soprattutto a delineare la risposta alla domanda di Rorty. Che P stia fuori delle virgolette lo dice, sostiene, afferma, qualcuno a cui serve che si dica così...

È possibile che la seconda P stia fuori da ogni virgoletta? O comunque, perché decidere fin da principio che non ha senso porre una simile questione? In fondo, la sola ragione che Marconi adduce per escludere la seconda P dalle virgolette è che altrimenti gran parte dei nostri discorsi su vero, falso, affermazioni giustificate o ingiustificate, razionalità o irrazionalità dei nostri comportamenti, decisioni politiche ed etiche, sarebbero vani - non avrebbero a loro volta alcun senso. Ogni volta che ci opponiamo a una tesi, che affermiamo qualcosa contro qualcos'altro, usiamo la distinzione tra «P» e P. L'argomento a favore del principio di Tarski è dunque che abbiamo bisogno di quel principio. Ma sempre di nuovo: chi ne ha bisogno? E soprattutto, un tale argomento opposto al «relativismo» pragmatista di Rorty è chiaramente autocontraddittorio. La tesi di Tarski dovrebbe essere accettata solo perché vera, non perché detta da o a un uditorio specifico, quel «noi» dell'esperienza comune a cui anche Marconi si richiama per mostrarne la validità.

Come vede chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare fin qui, ci avviluppiamo già in una serie di questioni di cui si può solo dire che non vengono a capo di nulla. O che si possono evitare solo rinunciando alla domanda sul «chi lo dice». Domanda a cui però non si sfugge, ci pare, a meno di non volerselo vietare d'autorità, con un atto certo assai poco filosofico.

La questione, come si sarà capito, è quella che Nietzsche risolve brutalmente scrivendo che «non ci sono fatti, solo interpretazioni. E anche questa è un'interpretazione». Anche Marconi raccomanda di accettare la tesi di Tarski perché non possiamo farne a meno per spiegare la nostra comune esperienza. Ma la nostra comune esperienza - quella che lui chiama anche spesso la massima evidenza disponibile qui e ora - è una interpretazione. Che noi tendiamo a non chiamare tale solo per distinguerla da opinioni più marcatamente individuali, di cui diciamo che sono «solo» interpretazioni. Persino della storia dell’universo prima di noi possiamo parlare solo in quanto in qualche modo ne «sentiamo» gli effetti.

Rivendicare il carattere interpretativo di ogni affermazione sui fatti vuol dire sostenere che le cose non ci sono se non le inventiamo noi (idealismo empirico)? Oppure che l'ordine in cui ci appaiono è un ordine che stabiliamo noi, più o meno arbitrariamente (una sorta di idealismo soggettivistico-trascendentale)? Kant, che non è proprio un cane morto, sosteneva che delle cose in sé non sappiamo se non quello che ci appare fenomenicamente nel quadro dei nostri a priori (tempo, spazio, categorie dell'intelletto), e che non per questo si dovesse cancellare ogni distinzione tra chiacchiere e enunciati «veri». Se noi diciamo che la differenza tra vero e falso è sempre una differenza tra interpretazioni più o meno accettabili e condivise manteniamo questa stessa distinzione; e non abbiamo bisogno di immaginare un fatto che «ci sia» fuori da ogni lettura umana.

Chi non è soddisfatto di questa soluzione? A che, a chi, serve la «verità» senza le virgolette? Forse, come suggerisce Marconi, serve per mettere in discussione l'ordine esistente - illuminismo e rivoluzione, diritti umani contro totalitarismi, progresso del sapere contro oscurantismo? Ma ci facciano il piacere, direbbe Totò. Chi ha sempre tuonato contro Kant e il suo perverso soggettivismo è stata la Chiesa, e spesso anche i principi e i governi. Certo, questo non sarebbe una «prova» dal punto di vista di un tarskiano. Prendiamolo solo come un «segno» che ci richiama a stare attenti. E a scoprire una «verità» sulla verità? Diremo cioè che «è vero» che la tesi di Tarski serve a chi detiene il potere per imporre la propria interpretazione come unica vera? No; da buoni pragmatisti, magari con una verniciatura di critica marxista dell'ideologia, diremo soltanto che questo è ciò che «a noi» suona come verità - quella capace di farci liberi. Non possiamo mai pretendere di identificarci con il punto di vista di Dio. Possiamo solo riconoscere che vediamo le cose in base a certi pregiudizi, a certi interessi, e che se mai è possibile la verità, essa è il risultato di un accordo che non è necessitato da alcuna evidenza definitiva, ma solo dalla carità, dalla solidarietà, dal bisogno umano (troppo umano?) di vivere in accordo con gli altri. Dire tutto questo - amare il prossimo è un dovere, la solidarietà è meglio che la lotta - significherebbe che, come una P fuori dalla virgolette, lo crediamo perché è un fatto? Forse neanche Tarski in persona lo sosterrebbe.
lastampa.it

La nuova società degli uguali

di Marco Morosini, senior scientist al Politecnico federale di Zurigo

La Svizzera punta a ridurre di due terzi i suoi consumi energetici entro il 2050. Una sfida tecnologica, politica e culturale. Ma è davvero possibile?

È un obiettivo ambizioso, da realizzare entro il 2050: garantire a un paese industrializzato tutti i beni e servizi di cui ha bisogno usando la stessa quantità di energia per abitante che usava negli anni sessanta. Dieci anni fa, adottando l’idea-guida di una “società a 2.000 watt”, la Svizzera ha accettato la sfida: la Confederazione punta ad abbattere i consumi energetici passando dall’attuale uso continuo di energia (non solo elettrica) di 6.000 watt per abitante a 2.000 watt nel 2050, pari a 18.000 chilowattora o due tonnellate equivalenti di petrolio all’anno. Di questi 2.000 watt, cioè un terzo dell’energia primaria usata oggi, 1.500 verranno da energie rinnovabili e 500 da combustibili fossili, in modo da ridurre le emissioni di CO2 a una tonnellata per abitante.

Ma l’obiettivo dei 2.000 watt è realistico in un mondo che consuma sempre più energia? In un’epoca in cui quasi tutti gli economisti, e i mezzi di comunicazione che gli fanno eco, sono convinti che per garantire il benessere delle persone si debba per forza aumentare i consumi energetici, anche dei paesi più ricchi? In Svizzera sono in molti a pensare di sì: i due politecnici federali, cinque dei più importanti istituti di ricerca della Confederazione, la società degli ingegneri e degli architetti, l’ente federale dell’energia e molti enti locali, tra cui le città di Berna, Basilea e Zurigo. Anche il governo federale, che ha redatto la sua Strategia di sviluppo sostenibile 2002 sulle linee guida della Società a 2.000 watt, pensa che la sfida si possa vincere.

In realtà l’obiettivo dei 2.000 watt implica tre sfide: una tecnologica, una politica e una culturale. Riportare la Svizzera ai livelli di consumo energetico degli anni sessanta senza perdere benessere vuol dire ridurre gli sprechi d’energia primaria usando le tecnologie migliori. Oggi nel mondo l’uso medio di energia pro capite è di 2.000 watt: in Bangladesh è di 500, in Europa di 6.000, negli Stati Uniti di 12.000 watt. Il tetto di 2.000 watt esprime indirettamente la necessità di perequare i consumi energetici a livello mondiale: una grande sfida politica. Infine, associare la riduzione di un bene materiale all’idea di progresso ribalta quella mentalità di accrescimento su cui, nell’ultimo cinquantennio, abbiamo costruito la nostra società.

L’ostacolo principale sulla strada dell’autolimitazione dei consumi energetici è di tipo culturale: la contraddizione tra efficientismo ed edonismo. Per ora, l’idea di una società a 2.000 watt si basa molto sui watt e poco sulla società. È un progetto nato in una scuola d’ingegneria, ideato da scienziati che sanno come migliorare le tecnologie e ridurre i consumi. Ma l’aumento della domanda di servizi, che fa crescere i consumi energetici, dipende da fattori psicologici, culturali e commerciali. La promessa di una società a 2.000 watt “senza rinunciare al benessere” sembra implicare la stabilità dei desideri umani. I desideri, invece, crescono sull’onda di due spinte diverse. Da un lato c’è il miglioramento delle tecnologie e la loro maggiore ecoefficienza, che rendono accessibili a sempre più persone servizi prima impossibili o riservati a pochi.

Dall’altro c’è la pressione culturale: la moda, la tendenza generalizzata a emulare i ricchi, un’industria pubblicitaria da mille miliardi di euro all’anno che pervade la vita quotidiana. Gli scienzati potranno anche rendere i viaggi spaziali dieci o cento volte più efficienti di oggi, ma se questo svilupperà un turismo spaziale di cui prima non si sentiva il bisogno, i consumi energetici continueranno ad aumentare. Senza ecosufficienza, cioè senza rinunciare non solo ai viaggi spaziali ma a una parte dei servizi a cui oggi siamo abituati, l’ecoefficienza non basterà e in certi casi sarà addirittura controproducente.

Se vogliamo raggiungere l’obiettivo dei 2.000 watt nei paesi industriali, dobbiamo smettere di investire miliardi per creare desideri e trasformarli in bisogni. Se vogliamo affrontare davvero la questione della sostenibilità, nei prossimi quarant’anni dovremo imparare a essere felici senza pretendere più energia degli altri nove miliardi di abitanti del pianeta.

Società da 2000 watt: www.novatlantis.ch/

Strategia per uno sviluppo sostenibile 2002: http://www.are.admin.ch/dokumentation/publikationen/00014/index.html?lang=it

Edilizia sostenibile “Minergie”: www.minergie.ch/it/

internazionale.it
n.765

14.10.08

Gli errori di Washington

di Paul Krugman
Il primo ministro britannico Gordon Brown ha salvato il sistema finanziario mondiale? La domanda forse è prematura: non conosciamo le modalità precise di intervento del piano di salvataggio in Europa né di quello negli Stati Uniti, e non abbiamo nemmeno la più pallida idea se funzioneranno davvero. Sappiamo però che Brown e Alistair Darling, il Cancelliere dello Scacchiere, hanno delineato il modello di intervento di salvataggio mondiale e le altre nazioni ricche lo stanno adottando.
E' una svolta a dir poco inattesa. Il governo britannico dopotutto è un partner di recente acquisizione per ciò che concerne gli affari economici mondiali. Londra è sì uno dei centri finanziari più importanti al mondo, ma l'economia britannica è di gran lunga più piccola di quella statunitense, e la Banca di Inghilterra non ha nemmeno lontanamente l'influenza della Fed o della Bce.
Non ci si aspetterebbe di vedere la Gran Bretagna assumere un ruolo leader. Il governo Brown ha mostrato di aver riflettuto con chiarezza e di voler agire sollecitamente in base alle conclusioni raggiunte. Nessun altro Paese, tantomeno il nostro, ha saputo abbinare chiarezza e determinazione con analogo successo.
Come fare per attenuare la crisi? Gli aiuti ai proprietari di case, per quanto auspicabili, non servono a precludere forti perdite per i cattivi prestiti, e in ogni caso avranno effetto troppo lentamente per risultare utili nell'attuale panico. L'intervento più naturale è affrontare il problema dell'inadeguatezza di capitali facendo sì che i governi forniscano agli istituti più capitali in cambio di una quota di proprietà.
Questa temporanea seminazionalizzazione è la soluzione alla crisi caldeggiata da molti economisti. Secondo alcune fonti questa era la formula segretamente preferita da Bernanke, presidente della Fed. Eppure, quando Paulson ha annunciato il programma di salvataggio ha respinto questo ovvio iter dichiarando: "Ciò è quanto si fa quando si fallisce".
Egli al contrario ha esortato il governo ad acquistare pessimi titoli garantiti da prestiti ipotecari, basandosi sulla teoria che... beh, non è mai stato molto chiaro a quale teoria facesse riferimento. Nel frattempo il governo britannico è andato direttamente al nocciolo del problema e lo ha affrontato con strabiliante velocità.
Mercoledì i collaboratori di Brown hanno annunciato un piano mirante a iniettare ingenti capitali nelle banche britanniche, sostenuto dalle garanzie sul debito bancario, che dovrebbe consentire alle banche di ripristinare il sistema di prestito reciproco di denaro, parte critica del meccanismo finanziario. A distanza di cinque giorni dall'annuncio arriva il primo grosso impegno di finanziamento, e le più importanti economie d'Europa si dicono pronte a seguire l'esempio della Gran Bretagna iniettando centinaia di miliardi nelle banche e a garantirne i debiti.
Guarda un po', dopo aver sprecato parecchie settimane preziose, anche Paulson adesso ha cambiato idea: sta meditando di comperare partecipazioni azionarie invece di nocivi titoli garantiti da prestiti ipotecari, anche se risulta che si stia muovendo con una lentezza esasperante.
Questa politica economica pare ispirata da una chiara visione di ciò che occorre fare. Il che ci porta inevitabilmente a formulare la seguente domanda: perché mai questa chiara visione è dovuta arrivare da Londra, invece che da Washington? È difficile eludere la sensazione che la reazione iniziale di Paulson sia stata distorta dall'ideologia. Non dimentichiamo che Paulson lavora per un'Amministrazione la cui filosofia di governo potrebbe essere sintetizzata in questi termini: "Il privato è bene, il pubblico è male".
Da tutto il ramo esecutivo sono stati allontanati i professionisti esperti e competenti e può anche darsi che al Tesoro non sia rimasto nessuno con la levatura e il background necessari a dire a Paulson che ciò che stava facendo non aveva senso. Per buona sorte dell'economia mondiale, Gordon Brown e il suo staff hanno preso una decisione sensata e opportuna. Forse ci hanno indicato come uscire da questa crisi.
Traduzione di Anna Bissanti
Copyright The New York Times
repubblica.it

L'Europa ritrova la credibilità

L'unità ha fatto la differenza: per la prima voltai mercati del Vecchio continente hanno trainato quelli Usa

di Federico Rampini

L'Europa unita ha fatto la differenza. Il suo piano di salvataggio ha superato il primo esame dei mercati. E' prematuro cantare vittoria contro l'epidemia virale della malafinanza. La volatilità isterica delle Borse non è un indicatore su cui costruire grandi teorie, e neppure previsioni di medio termine. I rialzi euforici di ieri del resto non cancellano le perdite accumulate nelle settimane precedenti. L'incubo non si è dissolto in una seduta: non si può escludere che questo fausto lunedì 13 sia stato un rimbalzo tecnico, l'afflusso di investitori "mordi-e-fuggi".
Ma la giornata di ieri è stata comunque a suo modo storica. Per la prima volta non è Wall Street ad avere condizionato le piazze finanziarie del nostro continente. E' successo invece l'esatto contrario. Gli indici Dow Jones, Nasdaq e Standard&Poor hanno ricevuto l'impulso fondamentale dalle decisioni del summit domenicale di Parigi e dall'impetuoso rialzo mattutino di tutte le Borse europee. Dopo settimane di angoscia, in cui dai palazzi del potere di Washington non usciva una cura che convincesse i mercati, quella cura è stata partorita in un vertice dell'Eurozona, "ispirato" a sua volta dalla ricetta del premier britannico Gordon Brown.
E' uno schiaffo all'Amministrazione Bush e al suo segretario al Tesoro Henry Paulson, che hanno estorto al Congresso 700 miliardi di dollari senza riuscire a invertire l'umore catastrofico che prevaleva sui mercati fino a venerdì scorso. La terapia europea non è radicalmente nuova né troppo diversa dalle varie "toppe" usate da Washington: gli americani per primi hanno nazionalizzato diversi colossi finanziari (Fannie Mae, Freddie Mac, Aig); anche la Federal Reserve ha inondato le banche di liquidità; anche i depositi dei risparmiatori Usa hanno ricevuto assicurazioni addizionali. L'aggiunta decisiva, che sembra avere fatto la differenza, è l'ombrello "nucleare" che gli Stati dell'Eurozona hanno steso a protezione di tutto il mercato interbancario, garantendo contro i rischi d'insolvenza anche le operazioni di finanziamento tra gli istituti di credito, il vitale mercato interbancario che era paralizzato. Inoltre i mercati sono stati favorevolmente colpiti dall'unità d'intenti, dalla strategia comune, dal fatto che improvvisamente l'Europa ha reagito compatta di fronte all'emergenza.
La vittoria di ieri - forse temporanea - contro lo tsunami finanziario è stata pagata carissima. Tirando le prime somme dei numerosi piani nazionali che hanno applicato le direttive del vertice di Parigi, si arriva a un costo che in dollari raggiunge i 2.400 miliardi di dollari. E' più del triplo di quanto hanno stanziato gli Stati Uniti, che pure sono l'epicentro originario di questa crisi. Se i mercati sono stati impressionati dal sussulto di decisionismo europeo, i cittadini contribuenti dell'Unione saranno altrettanto colpiti quando comincerà ad arrivare il conto in termini di pressione fiscale.
Anche perché il poderoso aumento dei deficit pubblici provocato dai salvataggi bancari si sovrappone a una congiuntura economica disastrosa, una recessione che a sua volta deprime le entrate fiscali degli Stati. E dopo avere dissanguato le casse pubbliche per rimediare agli errori dei banchieri, bisognerà trovare risorse per sostenere la crescita, alleviare le sofferenze di settori industriali in crisi, fronteggiare l'aumento dei disoccupati. Il tutto in un continente europeo già afflitto dall'invecchiamento demografico e da squilibri finanziari strutturali nei sistemi previdenziali.
Una giornata di tripudio nelle Borse non deve fare abbassare la guardia neanche sul fronte della crisi bancaria. I suoi costi possono ancora lievitare. Gli stanziamenti decisi ieri nelle capitali dell'Unione sono una stima di quel che servirà, ma il vero onere lo conosceremo solo alla fine. Dopo lo scoppio della bolla speculativa di Tokyo nel 1989, la crisi bancaria degli anni Novanta costò al Giappone il 24% del suo Pil. Le grandi crisi finanziarie del passato negli Stati Uniti in media costrinsero a interventi pubblici dell'ordine del 16% del Pil. Gli interventi straordinari annunciati ieri da Berlino e Londra, Parigi e Roma, rischiano di essere solo un acconto preliminare.
Senza prematuri trionfalismi, l'Europa ha comunque l'opportunità di usare questo momento di credibilità per imporre agli Stati Uniti profonde riforme di sistema. E' questa la fase per avviare la Bretton Woods II di cui si è parlato, spesso a sproposito, nei giorni scorsi. I suoi compiti sono chiari. Al primissimo posto c'è la regolamentazione del mostruoso mercato dei titoli derivati: 55.000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli Stati Uniti. Le lobby dei banchieri hanno sempre neutralizzato ogni tentativo di disciplinare la "finanza ombra". In un momento in cui la credibilità dei banchieri è precipitata agli inferi, e le loro colpe saranno pagate dai contribuenti per diverse generazioni, è urgente cambiare le regole del gioco.
L'Unione europea deve anche riportare al centro dell'attenzione - coinvolgendo le superpotenze Cina e India - lo squilibrio macroeconomico fondamentale che è all'origine di questa crisi: l'eccesso di debiti dell'America, favorito da politiche monetarie lassiste, e politiche fiscali irresponsabili. L'accumulo di disavanzi commerciali col resto del mondo da parte degli Stati Uniti è l'altra faccia di quei debiti delle famiglie americane che rappresentano ormai il 140% del Pil Usa.
Ci sono altre lezioni che ogni paese può cominciare a trarre da questa crisi. La deflazione che ha ridimensionato pesantemente i valori di tanti beni capitali, dalle case alle azioni, ha degli effetti sui modelli di sviluppo. Finita l'èra della finanza creativa, finito il boom dei titoli esoterici, le banche sono costrette a ridurre il loro ruolo. Si stima che nell'ultimo decennio in America dietro ogni dollaro di aumento del Pil - l'aumento di reddito dell'economia reale - c'erano cinque dollari di crediti. Una montagna di attività finanziarie sovrastava la produzione di cose, di beni e servizi reali. Il Pil nazionale era solo una frazione, rispetto alla bolla dei debiti che c'era dietro.
Quell'epoca è finita con i crac bancari del 2008. "Bucata" la bolla, l'economia globale è in fase di atterraggio: bruscamente ritrova l'impatto con il suolo. E' realistico prevedere che per una lunga fase il baricentro delle attività economiche tornerà a spostarsi in favore della produzione di cose, di beni reali, di servizi utili alle persone. La finanziarizzazione del capitalismo ha toccato il suo limite, e assisteremo a una retromarcia. Un mondo dove la vocazione manifatturiera e il lavoro produttivo vengono rivalutati rispetto alla finanza, è un mondo dove anche le priorità delle politiche economiche nazionali andranno riviste.
repubblica.it

Caute previsioni

di Michele Salvati

Se da questa crisi finanziaria usciremo in tempi ragionevoli e con danni limitati — è un esito possibile, forse il più probabile, nonostante la gravità della situazione — quale sarà il modello di capitalismo nel quale entreremo dopo la crisi? Circolano in questi giorni le previsioni più estreme: nuove Bretton Woods, vincoli alla libera circolazione dei capitali, ri-regolazioni incisive dei singoli capitalismi nazionali. Insomma, un modello di capitalismo radicalmente diverso. Per quel che vale (è una previsione, non un auspicio) la mia è più cauta: il modello in cui ci ritroveremo a vivere dopo la fase acuta della crisi non sarà molto diverso da quello che è prevalso in quest'ultimo quarto di secolo, un modello neoliberale, come alcuni lo chiamano.

Nella sua forma più estrema, si tratta di un modello nel quale i capitali sono liberi di cercare i massimi rendimenti scorrazzando per il mondo intero; i mercati dei prodotti e dei fattori sono deregolati quanto è possibile; le imprese si fanno una concorrenza intensa e i grandi investitori istituzionali premiano quelle che garantiscono nel breve periodo il massimo valore per gli azionisti; le banche e le istituzioni legali e finanziarie assecondano questa «creazione di valore» — chiamiamola così — con strumenti sempre più sofisticati; i grandi manager sono pagati come calciatori e stelle del cinema, perché, al pari di loro, fanno guadagnare molto chi li impiega; la politica, come sempre, è legata a filo doppio all'economia, da cui ricava risorse per campagne elettorali sempre più costose, e non si sogna certo di contrastare il modello prevalente, finché le cose vanno bene. Insomma, è il modello che Robert Reich descrive nel suo recente Supercapitalismo.

Perché una previsione così cauta di fronte a una crisi così grave? Non certo perché ritenga che il capitalismo abbia giocato o debba giocare sempre con le stesse regole. O che quelle con le quali ha giocato negli ultimi anni, soprattutto in America, siano in qualche modo regole ottimali, se giudicate per i loro esiti di benessere. Di fatto, a livello mondiale, il capitalismo ha giocato con regole molto diverse: per rendersene conto basta confrontare i trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale — l'«età dell'oro» — con la fase di deregulation e globalizzazione che è seguita alla presidenza Reagan, il modello neoliberale, appunto. E poi tuttora esiste una grande varietà di «capitalismi» nazionali: quello che abbiamo sommariamente descritto prima, il capitalismo anglosassone, è sicuramente il modello dominante, ma non è affatto esclusivo, neppure tra i Paesi occidentali o a questi assimilabili. Ed è infine controverso quale di questi modelli sia «migliore» dal punto di vista del benessere dei cittadini: quello americano è sicuramente eccellente dal punto di vista della libertà, dell'innovazione, dell'efficienza, della creazione di occasioni di lavoro. Lo è anche dal punto di vista della sicurezza e della distribuzione del reddito?

Il motivo che mi induce ad una previsione cauta, pur nel contesto degli aggiustamenti di cui si sta discutendo in questi giorni e del ruolo che i poteri pubblici stanno (provvisoriamente?) assumendo, è presto detto: non sono in discussione reali alternative nelle modalità profonde di regolazione del capitalismo. Per quanto fosse prevedibile, questa crisi ha preso in contropiede sia gli economisti, sia le classi dirigenti, economiche e politiche, dei principali Paesi occidentali: persino le sinistre si erano rassegnate a convivere col supercapitalismo e la globalizzazione. Se invece guardiamo all'esperienza del secolo scorso, ai due grandi cambiamenti di modello che allora avvennero — dall'economia liberale all'economia keynesiana negli anni 30 e 40; e poi da questa all'economia neo-liberale e alla globalizzazione negli anni 70 e 80— ci rendiamo conto che essi sono stati accompagnati/ provocati sia da crisi economiche profonde, sia da ri-orientamenti ideologici, culturali, teorici e, da ultimo, politici, altrettanto profondi. Quella keynesiana fu una vera rivoluzione, teorica e culturale ancor prima che politica; e fu una rivoluzione (alcuni direbbero una controrivoluzione) anche quella monetarista e neo-liberale, negli anni 70 e 80 del secolo scorso, anch'essa teorica e culturale, prima che politica. Nulla di questo è visibile oggi, anche se uno degli ingredienti di un cambiamento di modello — la gravità della crisi — sembra essere presente. Si potrebbe obiettare che anche nel '29 le risposte politiche e teoriche non furono subito a portata di mano e si dovettero aspettare i Roosevelt e i Keynes. Faccio però fatica ad assimilare quella congiuntura storica a quella attuale e a vedere in Barack Obama, nel caso dovesse vincere, un nuovo Franklin Delano Roosevelt. Per non dire dell'assenza di un nuovo Keynes. E dunque ricordo, a chi prevede (o auspica) radicali mutamenti, la risposta della sentinella di Isaia a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un'altra volta».
corriere.it

13.10.08

La seconda morte degli yuppie

La crisi finanziaria vista dallo scrittore di «LE MILLE LUCI DI NEW YORK»
La parabola degli anni Ottanta si rispecchia nel crollo di oggi

di Jay McInerney

Ho sentito per la prima volta la parola «yuppie » nell'83, quando vivevo nell'East Village. Allora dividevo un appartamento con il mio miglior amico, scrivevo il primo romanzo e mi guadagnavo da vivere come lettore di dattiloscritti a Random House. Mi stavo godendo una prima colazione a mezzogiorno, da Veselka, sulla Second Avenue, ancora in preda alla sbornia della notte prima (...). In precedenza, mi fermavo da Binibon, ma proprio sul marciapiede Jack Henry Abbott aveva pugnalato il cameriere-drammaturgo Richard Adan e dopo il fattaccio il locale era stato chiuso per mancanza di avventori. Seduto accanto a me al bancone c'era un pittore, che viveva nel quartiere e amava pavoneggiarsi con gli abiti schizzati di vernice, e a un tratto l'ho sentito borbottare, «Yuppie di merda ». Ho alzato lo sguardo e ho visto una giovane coppia elegante, ovviamente di buona famiglia, del tipo preppy per intenderci, che aspettava che si liberasse un tavolo. I due ragazzi sembravano provenire dai quartieri alti dell'Upper East Side, pantaloni cachi e camicia di cotone. Noi invece eravamo tutti uniformemente anticonformisti nei nostri jeans neri, Ramones nere ai piedi e T-shirt con i logo delle TV. (...) Questo «yuppie» mi suonava nuovo.

Pare che il termine sia apparso per la prima volta nel 1983, quando l'opinionista Bob Greene scrisse un articolo sull'ex leader yippie Jerry Rubin, che organizzava incontri sociali allo Studio 54. In quel giro, a detta di Greene, c'era un tale che giurava che Rubin, da capo degli yippie, era diventato capo degli yuppies. Il neologismo stava per Young Urban Professionals (giovani professionisti metropolitani) e sarebbe passato alla storia come yup, se non fosse stato per Rubin. Il termine yuppie suggeriva una certa traiettoria evolutiva — o involutiva — rispetto a hippie e yippie. E vantava una storia avvincente: la duplice ironia del perditempo rivoluzionario che si trasforma in imprenditore e capitalista convinto; sullo sfondo, un'atmosfera fascinosa screziata di fatuo edonismo, per non parlare dell'acronimo arguto, che descriveva a puntino una nuova minoranza immediatamente riconoscibile(...).

Il tono con cui si pronunciava la parola yuppie sulla East Fifth Street si caricava progressivamente di odio e disprezzo man mano che i prezzi immobiliari nell'East Village schizzavano verso l'alto. Nel corso di decenni di relativa stabilità, la zona era diventata il bastione degli immigrati dall'Europa orientale e dei giovani artisti. È facile dimenticare, a distanza di tanto tempo, che questa era anche una zona di guerra, dove scippi e stupri erano all'ordine del giorno e non facevano nemmeno più notizia. Gli Hells Angels imperversavano sulla East Third Street, e al calar della notte si andava a est della Second Avenue a proprio rischio e pericolo. I poliziotti non ci mettevano piede. La East Tenth, oltre la Avenue A, era un supermercato della droga, con spacciatori minorenni che sgattaiolavano dentro e fuori da palazzi fatiscenti. In realtà, vasti settori della città erano invasi dalla sporcizia e in mano alla criminalità. Persino il West Village era assai deprimente in confronto a oggi e a Times Square regnava uno squallore spettacolare. Andate a rivedere Taxi driver o The French Connection se volete rivivere l'atmosfera di queste zone, allora ridotte a un deserto urbano.

Ma non si trattava solo di estetica. A quei tempi New York era una città, nel complesso, molto più provinciale di oggi, suddivisa a seconda dell'etnia e del ceto sociale. A Little Italy abitavano in preponderanza gli italiani, mentre l'East Village contava per lo più ucraini. I ricchi Wasp (bianchi anglosassoni protestanti) vivevano invece nell'Upper East Side, a ovest della Third Avenue, e Harlem, ovvio, era al 99 percento nera. Molti bianchi avevano il terrore mortale di appisolarsi in metropolitana e di svegliarsi in corrispondenza della 145a Strada. La classe media bianca defluiva poco a poco dalla metropoli, dove imperversava la criminalità e l'eroina dilagava come un'epidemia (...). Questa era la Manhattan prima dell'arrivo degli yuppies, una città, oserei dire, alla disperata ricerca di riscatto e di rilancio (...).

Reagan spiana la strada agli yuppies
Il mondo artistico dell'East Village, inaugurato dall'apertura della Fun Gallery di Patti Astor nel 1981, era già lanciato alla grande per la fine dell'83. Le gallerie attiravano i clienti danarosi, ovviamente disprezzati proprio dagli artisti dell'ambiente. Gli yuppies, appena identificati come tali, incarnarono subito la principale contraddizione del settore artistico, che oggi diamo quasi per scontata: sono proprio gli esponenti della borghesia i consumatori finali di tutto quello che l'arte produce al fine di épater la bourgeoisie.

Basquiat certo non vendeva le sue tele da cinquantamila dollari agli amici tossicodipendenti.
Sin dall'inizio, si percepiva una certa confusione soggetto/oggetto nel concetto di yuppie, quasi una riflessione sul fenomeno, del tipo «abbiamo conosciuto il nemico ed è dentro di noi». A parte gli occupanti abusivi del centro città, era difficile talvolta trovare un abitante di Manhattan che non avesse adottato il nuovo stile di vita in qualche sua sfumatura. L'iscrizione alla palestra ti qualificava come yuppie? E sniffare cocaina? O mangiare pesce cru do? Quando ho sentito un agente cinematografico che scagliava sprezzante quell'epiteto contro un gruppo di banchieri all'Odeon, mi sono chiesto che fine avessero fatto i classici oggetti di lancio, quali pentole e piatti.

Ronald Reagan (Ap)
A livello nazionale, il terreno era stato preparato dall'elezione di Ronald Reagan alla presidenza, l'ex attore con il sorriso Colgate accompagnato dall'imperiosa Nancy, sua moglie. La signora Reagan sborsò 25.000 dollari per il guardaroba dell'inaugurazione, mentre per rinnovare gli arredi dell'appartamento presidenziale alla Casa Bianca non esitò a spendere 800.000 dollari. Pare che a quei tempi fossero un sacco di soldi, a giudicare dallo stupore con cui la cifra passava di bocca in bocca. Per il servizio di porcellana, la fattura fu di 209.508 dollari, che sembrano tanti ancora oggi. Che lusso! Dopo gli anni di Jimmy Carter, che compiangeva il malessere nazionale e ci raccomandava di ridimensionare le aspettative e trasportare da soli le nostre valigie, i Reagan irruppero sulla scena come fautori inconsapevoli della bella vita. I consumi sfrenati erano una buona cosa. In America era spuntato finalmente il sole, secondo Reagan, quasi a voler dire che gli anni Sessanta erano davvero finiti.

All'epoca non lo sapevamo, ma la nascita della nuova specie potrebbe risalire al 22 settembre del 1982, con la prima puntata di Family Ties (in Italia «Casa Keaton ») e l'apparizione di Michael J. Fox nei panni di Alex Keaton, il giovane repubblicano con la ventiquattrore in mano. A ripensarci, sì, Keaton era proprio il proto-yuppie. Nato in Africa da genitori hippie impegnati in interventi umanitari, Keaton porta la cravatta anche in casa, adora la ricchezza, il successo negli affari, Ronald Reagan, e sogna di far carriera a Wall Street. La serie conobbe sette stagioni, dall'82 all'89, e illustrò una strana inversione culturale in cui una nuova generazione conservatrice accantonava tutti i valori liberali dei padri. Gli ideatori della serie, invece, intendevano focalizzare l'attenzione sui genitori, ma il giovane repubblicano ben presto si accaparrò le luci della ribalta. Se sulle prime Keaton poteva apparire un'anomalia, nel giro di brevissimo tempo si trasformò nell'avatar dello Zeitgeist.
«Chi sono tutti questi tipi ambiziosi, con le bottigliette d'acqua firmata, scarpette da corsa, parquet anticato e appartamenti da mezzo milione di dollari in quartieri degradati?» chiedeva la rivista Time il 9 gennaio del 1984. «Gli yuppies», ci veniva spiegato, «si dedicano al duplice obiettivo di fare un mucchio di soldi e di raggiungere la perfezione, grazie alla cura del fisico e della mente, con palestra e psicoanalisi»

La cocaina, droga simbolo di un'epoca
Come gli hippie, gli yuppies erano anch'essi figli del dopoguerra, pronti a ribellarsi contro i genitori. Ma gli yuppies non rifiutavano tanto la politica dei padri, quanto i loro gusti e le restrizioni finanziarie. Gli yuppies erano apolitici. Vivere nelle metropoli, per loro una condizione essenziale, era forse la reazione alle periferie, dove molti erano cresciuti. L'epicureismo di cui andavano fieri rinnegava probabilmente i cibi pronti, in scatola o surgelati, della loro infanzia. E in quanto ad ambizioni, beh, le Bmw e i loft da 450 metri quadrati non costavano certo poco, nemmeno nel 1984. Ma ovviamente si trattava di ben altro, malgrado le caricature, poiché l'etica del far sempre di più e sempre meglio si estendeva anche al campo fisico. Sembra incredibile, ma nel 1979 c'erano davvero pochissime palestre a Manhattan.

Il mio primo romanzo, Le mille luci di New York, fu pubblicato nel settembre del 1984, anche se ambientato qualche anno prima, in una New York più sporca e meno ricca. Quale non fu la mia sorpresa quando il Wall Street Journal mi definì portavoce degli yuppies. Il protagonista del romanzo è un anonimo impiegato e aspirante scrittore sempre sull'orlo della povertà, ma se non vado errato non mangia pesce crudo. Il suo miglior amico, Tad Allagash, è più simile a uno yuppie, un pubblicitario con accesso a tutti i posti giusti, un ragazzo dei quartieri alti che bazzica anche in quelli bassi. E i due insieme sniffano cocaina, conosciuta come «Polvere boliviana per la marcia», che sarebbe diventata la droga emblematica degli anni Ottanta, come l'Lsd lo era stato per i Sessanta.

Per un breve periodo, la cocaina era parsa la droga perfetta per i giovani brillanti e ambiziosi. Tutti sapevano che l'eroina provoca assuefazione e che le anfetamine uccidono, ma la cocaina sembrava innocua. Ti aiutava a star sveglio di notte, e anche il giorno dopo, e se ti sentivi un po' giù, ti rimetteva in sesto meglio di un caffè doppio. Un amico mi fece notare nel Village Voice l'annuncio di un'associazione chiamata Cocaina Anonimi. La scoperta provocò grande ilarità. Era come se ci fossimo imbattuti in una pubblicità per Soldi Anonimi, o Caviale Anonimi. (A quei tempi, l'idea dei sessodipendenti ci avrebbe fatto stramazzare a terra dalle risate). Semplicemente, non credevamo fosse possibile esagerare con una sostanza talmente congeniale. In parte, questo dipendeva dalle nostre limitate risorse, dato che tutti gli amici del mio giro lavoravano nel campo artistico ed editoriale, assai poco remunerativo. Non potevamo permetterci quantità esagerate. Ma anche chi poteva, pensava di aver scoperto il segreto del moto perpetuo. A causare la morte di John Belushi, nel 1982, era stata l'eroina, ci ripetevamo, non la cocaina, anch'essa presente nella tremenda miscela che gli aveva stroncato il cuore.

Sarebbe trascorso quasi l'intero decennio prima di renderci conto che anche con la cocaina c'era un limite. Per qualche motivo, eravamo sicuri che non ci sarebbero stati conti in sospeso da pagare.
E all'improvviso, la coca era dappertutto: a Wall Street, Madison Avenue, Seventh Avenue.
La coca è stata la metafora perfetta per la cultura del consumo incontrollato, una cultura fondata sul credito e convinta che sia possibile rimandare all'infinito ogni conseguenza spiacevole. La cocaina è letteralmente un cane che si morde la coda: in nessun momento si raggiunge mai la pienezza, la realizzazione, in rapporto al consumo dell'esatto numero di righe. La soddisfazione è sempre dietro l'angolo, una riga più avanti. Ed è stato così che molti di noi hanno imparato che tutto quello che va su, prima o poi torna giù, una lezione ribadita il 19 ottobre del 1987, con il tonfo della Borsa americana dopo un lungo periodo di rialzi pazzeschi.

Qualche mese dopo quel Lunedì Nero, Newsweek dichiarò che gli yuppies erano ormai estinti e da allora vari commentatori ne hanno stilato il necrologio. Il più sconvolgente è stato un romanzo dal titolo American Psycho, pubblicato nel 1991 da Bret Easton Ellis, in cui il commiato al materialismo di quell'era è talmente esauriente da apparire definitivo. Patrick Bateman è il super- yuppie, con in più l'hobby della tortura e del delitto. I suoi gusti sono impeccabili, e il buon gusto è appunto prerogativa di questa specie.

Se qualcuno chiede, come ha fatto di recente mio figlio, «Che cos'è uno yuppie?», basta gettare uno sguardo a Bateman: «Ho sudato come un pazzo in palestra dopo aver lasciato l'ufficio, ma la tensione è tornata, allora faccio 90 addominali, 150 piegamenti e poi corsa sul posto per venti minuti mentre ascolto il nuovo cd di Huey Lewis. Una doccia calda e subito dopo applico sul viso il nuovo scrub dermolevigante Caswell-Massey e spalmo sul corpo il tonificante Greune, poi l'idratante Lubriderm e per finire la crema addolcente per il viso Neutrogena. Sono in dubbio tra due completi: giacca-pantaloni in crepe di lana Bill Robinson comprato da Saks, con la camicia di cotone stampato Charivari e la cravatta Armani. Oppure giacca sportiva in lana e cashmere a quadri blu, camicia di cotone e pantaloni di lana con la piega Alexander Julian, con una cravatta Bill Blass di seta a pois».

Gli yuppies di oggi
Con Patrick Bateman, Ellis aveva creato il gemello malvagio di Alex Keaton, ormai adulto, l'uomo che crede di più a un completo Armani che alla persona che lo indossa. Fusioni e acquisizioni? Omicidi ed esecuzioni? Facili da confondere, come lo sono gli amici, amanti, colleghi e vittime di Patrick, tutti pressoché intercambiabili.

Per quanto il termine richiami alla mente gli anni Ottanta, lo yuppie non è stato ancora consegnato alla storia. Nel 2000, David Brooks ha cercato di raffinare il concetto, creando il «bobo» (bourgeois bohémien) per descrivere un consumatore presumibilmente più illuminato, capace di abbinare agli interessi personali degli anni Ottanta l'idealismo liberale di un'era precedente; i riferimenti agli yuppies stanno a indicare invece una sottospecie più grezza. Nel frattempo, dall'albero genealogico della famiglia yuppie è spuntato un nuovo ramo, l'hipster. Gli hipster sono convinti di essere gli anti-yuppies per eccellenza. A differenza dei loro antenati, non vogliono farsi conoscere per la professione o l'ambizione, bensì per l'indifferenza verso entrambe. In questo sottogruppo, il culto della competenza e del buon gusto è ancor più esasperato. Il loro codice, illustrato con sferzante ironia nel Manuale dell'hipster da Robert Lanham, pubblicato nel 2003, è fondamentalmente elitista e in controtendenza rispetto alla moda. Il consumismo hipster ha valorizzato tutto ciò che è alternativo e autonomo, scartando le marche predilette dagli yuppies a favore delle proprie. Allora ecco ricomparire le vecchie magliette, a rimpiazzare le camicie eleganti Turnbull Asser da portare con il colletto aperto, e la birra Pabst Blue Ribbon ha scavalcato lo chardonnay. Ma alla fine, che vi piaccia o meno Starbucks, una società in cui veniamo identificati per la scelta dei jeans e del caffè rispecchia molto di più Alex Keaton che Abbie Hoffman (...).

Esiste ancora probabilmente qualche manipolo di operai sindacalizzati a Brooklyn e nel Queens, che tracannano birra e se la ridono di chiunque frequenti una palestra o vada a chiedere un caffè in un locale che non sia la latteria dell'angolo, ma in generale la cultura yuppie si è tramutata nella cultura comune, se non nella realtà, quanto meno nelle intenzioni. I baccelli degli alieni hanno invaso il mondo. L'ideale della raffinatezza, la venerazione delle grandi marche e dei capi griffati, il culto della perfezione fisica attraverso ginnastica e chirurgia, vi sembrano forse le pittoresche abitudini di un clan ormai estinto?

(Traduzione di Rita Baldassarre)
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