28.4.11

Una scuola da rifare

UNA SCUOLA DA RIFARE. LETTERA AI GENITORI (Feltrinelli)
Giuseppe Caliceti

“Tre mesi di vacanza, eh? Bel lavoro l’insegnante!” Questa è la battuta che a
fine anno scolastico tanti docenti italiani sopportano. A inizio anno, invece:
“Le vacanze sono finite anche per voi, eh? Era ora che iniziaste a lavorare!”
Dal 2008 se ne è aggiunta un’altra: “Adesso ci pensa il Ministro all'Istruzione
a farvi lavorare!” Ti verrebbe da dire: come ti permetti? Poi lasci perdere. O
quasi. E’ vero, sono battute. Ma nascondono quello che pensa oggi la maggior
parte degli italiani. Quando iniziai a insegnare, più di venticinque anni fa,
non era così. C’era più rispetto per i docenti. C’era un patto di fiducia tra
insegnanti e genitori. Ora questo patto si è rotto. A volte ho tentato di
difendermi, di spiegare. “Le lezioni non si improvvisano, bisogna prepararle.
Il mio lavoro non inizia e si conclude in aula. Anche quando gli studenti sono
in vacanza, io continuo ad andare a scuola. E con la nuova riforma della scuola
io ci guadagno, sono i tuoi figli a perderci. E personalmente sono favorevole
al cartellino per i docenti: perchè tutti sappiano quanto lavoriamo”. E ho
tentato di parlare di responsabilità. Di autoformazione. Di psicologi,
assistenti sociali, medici, psichiatri, docenti: le professioni più usuranti
della nostra epoca. Cosa ricevevo in cambio? Sorrisi. Così ho deciso di
scrivere “Una scuola da rifare”. L'ho scritto sotto forma di una lunga lettera
ai genitori degli alunni. Per spiegare perchè i docenti non sono fannulloni.
Per raccontare un poco di quello che fanno oggi i loro figli a scuola. Per far
capire come è cambiata la scuola primaria oggi: Dal mio punto di vista, dopo la
scure infinita dei tagli sulla scuola, in peggio. Ma per parlare ai genitori
anche della scuola che abbiamo abbandonato. E di quella che vorrei. Nel 2008 le
piazze si sono riempite di migliaia di docenti e genitori che protestavano
contro lo smantellamento della scuola pubblica. A distanza di diversi mesi, mi
sono chiesto, cosa rimane di quella protesta? E – soprattutto – cosa rimane
della scuola pubblica? Ho cercato di rispondere a queste domande e di
analizzare lo stato di salute della nostra scuola. L'ho fatto alternando le mie
opinioni personali a quello dell'insegnante con il suo bagaglio di storie dove
i protagonisti sono gli alunni. Non si tratta solo di un libro sull'orgoglio
docente. Ho cercato di parlare anche di maestri come don Milani, Gianni Rodari,
Loris Malaguzzi, Mario Lodi. Ho cercato di difendere la scuola pubblica
italiana – una delle migliori al mondo per qualità di insegnamento prima della
controriforma Gelmini: la prima in europa (ora siamo al tredicesimo posto), la
quinta nel mondo. A tratti ho provocato anche i genitori degli alunni,
ricordando loro che l'istruzione primaria non è una bambinaia che tiene
impegnati i loro figli per qualche ora al giorno, ma è il momento fondamentale
della loro formazione. Una formazione che va oltre le continue riforme, i
ridimensionamenti di materie e personale docente, la fatiscenza delle strutture
scolastiche. Una formazione che da sempre deve insegnare la condivisione. Alla
fine ho pensato bene di scrivere un decalogo della scuola che vorrei. Eccolo:

La scuola che vogliamo
1 Laica, gratuita, libera, solidale
2 In cui si sta bene insieme
3 Che aiuti i nostri figli a diventare adulti felici e responsabili
4 Sulla quale lo Stato sappia investire come una risorsa
5 Che valuti l'apprendimento, ma che tenga conto anche delle emozioni
6 In cui i nostri figli imparino a lavorare insieme
7 Proiettata verso il futuro
8 Basata sul metodo delle domande e della ricerca
9 In cui i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini
10 Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di
diventare grandi

20.4.11

Un Paese senza politica energetica

di Federico Rendina

Politica energetica cercasi disperatamente, e molto disordinatamente. Fino a ieri il nucleare era una meta sicura, in nome di un mea culpa politico ma anche tecnologico da tributare ad un referendum (quello del 1987) sciagurato.

Oggi è una meta da abbandonare o quantomeno sospendere per scelta di Governo, in nome di un sentimento popolare nato con Fukushima esattamente com'era nato allora, con Chernobyl. Opportunismi forse comprensibili, prudenze politiche che ben si spiegano con una nuova consultazione elettorale alle porte, e non solo con i più che doverosi interrogativi su un disastro nato in un Paese citato dai nostri paladini del nucleare come un esempio quasi universale di sicurezza nell'uso dell'atomo.

Dibattito scientifico? Rigore programmatico? Siamo in Italia signori. Il Paese della politica energetica che, semplicemente, non c'è. Lo dimostrano, un po' paradossalmente, proprio i due accadimenti maturati insieme, forse casualmente, proprio ieri: la cancellazione delle (peraltro zoppicanti) norme che dovevano spianare la strada al nuovo nucleare italiano, la bozza (pare definitiva) del decreto che ridisegna i nostri super-sussidi alle energie rinnovabili cercando di calibrarne la spesa a carico di tutti gli italiani con l'indubbia esigenza di dare ossigeno ad un settore che rappresenterà gran parte del nostro futuro energetico, industriale, tecnologico.
Lo stop al nucleare arriva sull'onda delle emozioni, del sentimento popolare di cittadini che aggiungono comprensibili timori allo sconcerto di una politica energetica che, semplicemente, non c'è. Un fantasma che ha attraversato le ultime legislature (di destra, ma anche di sinistra) senza saper trasmettere né una rotta precisa né un obiettivo realmente comprensibile, né un quadro di regole coerenti né opzioni chiare.

Sì ai nuovi gasdotti e ai rigassificatori, ma no a vere corsie preferenziali per le autorizzazioni. Senza il coraggio (è solo un esempio) di cogliere la formidabile opportunità di regalare al nostro magnifico stivale un profittevole hub metanifero per l'intero continente. Sì alle rinnovabili, ma con elargizioni a pioggia senza alcun discrimine né tecnologico né legato a una corretta pianificazione territoriale che potesse evitare il fiorire, questo sì, della speculazione finanziaria piuttosto che dell'investimento sulla creazione di una vera filiera industrale nazionale (la Germania insegna, da tempo). Solo ora si tenta (qualche segnale c'è) di correre ai ripari.

Sì al "rinascimento" nucleare, ma con il sistematico mancato rispetto sia della tempistica che delle priorità promesse. Due anni di ritardo per la nascita dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che ad oggi è ancora senza una sede. Neanche l'ombra di una soluzione (e neanche un orientamento) per risolvere il problema delle scorie atomiche, non solo quelle che vorremmo produrre dal "rinascimento", ma perfino quelle vecchie che vagano nei siti delle nostre centrali chiuse 25 anni fa (lì ben piazzate e non ancora smantellate).

E che dire dei due mega-piani che da anni vagano nelle intenzioni senza prendere alcuna forma. Ecco, evanescente, il piano nucleare nazionale che doveva tracciare un percorso operativo coerente per la costruzione delle nostre nuove centrali. Ed ecco la "madre" della riscossa: il nuovo Piano energetico nazionale, che indicasse una strategia coerente nel mix tra atomo, energie verdi, efficienza energetica, ammodernamento delle reti e relative misure di politica economica e industriale. «Arriverà con una conferenza nazionale entro fine anno» promettono quest'anno (come l'anno scorso, quello prima, quello prima ancora) i nostri governanti. Che con un pizzico di doveroso realismo ammettono, loro per primi, la grande falla. Non basta.

18.4.11

Francia e Italia i due populismi

di BERNARDO VALLI

Da alcune settimane due populismi si scontrano in Europa offrendo uno spettacolo tutt'altro che edificante. Direi miserabile. L'aggettivo non è troppo forte, perché al centro della contesa ci sono quei profughi, economici o politici, la classificazione è spesso cancellata dal dramma umano, che ogni giorno approdano sulle nostre sponde dopo avere visto affogare non di rado nelle acque del Mediterraneo figli, genitori, amici. Nelle stesse acque nelle quali noi europei cominceremo presto a fare i nostri bagni estivi.

Il presidente del Consiglio ha definito quell'esodo uno "tsunami", cioè una catastrofe naturale, un fenomeno maturato nelle viscere del Mediterraneo e quindi senza volto. Insomma, una sciagura da scongiurare. Francia e Italia si comportano appunto come se quei profughi fossero un'onda di maremoto.
La tenzone tra i due populismi ha assunto toni grotteschi nelle ultime ore a Ventimiglia, al confine tra Francia e Italia, dove di solito transitano fortunati turisti o pendolari del posto tra la nostra Riviera e la Costa Azzurra, e dove hanno fatto irruzione gruppi di quei profughi reduci dalla spesso tragica traversata del Mediterraneo. Il governo italiano li ha dotati di permessi provvisori a suo avviso conformi agli accordi di Schengen. Ma il governo parigino, tramite il prefetto delle Alpi Marittime, ha impedito senza preavviso ai treni provenienti dall'Italia di varcare la frontiera, al fine di impedire il loro ingresso in Francia.

Due comportamenti che offrono, in egual misura, un'immagine non certo
nobile dell'Europa. Non è per motivi umanitari che il governo italiano ha dotato i migranti, per lo più tunisini, di permessi non riconosciuti validi, a torto o a ragione, dai francesi. Si tratta di una evidente, furba mossa per sbarazzarsene. Ed è per un'altrettanto furba mossa che il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo al suo ministro dell'Interno, ha adottato l'interpretazione parigina degli accordi di Schengen, o ha preso come pretesto la modesta manifestazione franco-italiana in favore dei migranti in corso a Ventimiglia, per respingere i tunisini, molti dei quali hanno parenti in Francia.

Da parte italiana ci si è risentiti anche perché autentici cittadini della Repubblica italiana non hanno potuto varcare il confine, per via dei treni sospesi. Al colmo dell'indignazione, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto al nostro ambasciatore di esprimere una ferma protesta al governo francese. Un incidente diplomatico prodotto da due meschine furbizie a confronto, che interviene in un momento di difficili rapporti tra Roma e Parigi, ed anche di isolamento di Roma nell'Unione europea, dove si evita spesso di familiarizzare con l'odierna Italia politica.

Una crescente ondata di populismo accomuna Italia e Francia e al tempo stesso inasprisce il loro dissenso. A Roma il governo dipende da un partito xenofobo, indispensabile alla maggioranza parlamentare, e solerte nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati. Un dirigente della Lega occupa addirittura il ministero dell'Interno.

A Parigi, a un anno dalle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy conosce i peggiori sondaggi. L'ultimo gli aggiudica il 28 per cento dei consensi, un quoziente che potrebbe annunciare un'impossibile riconferma alla testa della Quinta Repubblica, nel caso Sarkozy intendesse riproporsi. E che, in tal caso, non esclude neppure un'umiliante eliminazione al primo turno. Quest'ultima ipotesi potrebbe avverarsi se la candidata del Front National, Marine Le Pen, andasse al voto decisivo del secondo turno con il campione della sinistra, ancora da designare.
Nicolas Sarkozy cerca dunque di recuperare i voti dell'estrema destra. I quali decisero la sua elezione quattro anni or sono, ma che, stando ai sondaggi, sarebbero stati riassorbiti nel frattempo dal Front National, da quando la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore, ha rinnovato, modernizzato, il discorso dell'ormai vecchio padre. A differenza della Lega, xenofoba ma anche anti-nazionale, il Front National è xenofobo e nazionalista. Entrambi i partiti hanno in comune l'avversione per gli immigrati. Ed è insistendo su questo tema, sia pur nei limiti impostigli dalla carica, che Nicolas Sarkozy spera di recuperare i consensi perduti. Il suo discorso ha compiuto una sterzata in direzione dell'estrema destra. Il rifiuto dei profughi dirottati verso la Francia dal governo italiano è l'evidente conseguenza dell'attuale politica di Sarkozy. Non a caso il suo ministro dell'Interno ha appena proposto di ridurre anche il numero degli immigrati legali.

Cosi i due populismi giocano con i migranti come se fossero una calamità, come se fossero oggetti destinati a far perdere voti. La Lega governa a Roma e il Front National minaccia politicamente il presidente a Parigi. Umberto Bossi appoggia la ridicola idea di boicottare champagne e camembert; e il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo a ordini superiori, ferma i treni italiani alla frontiera.

16.4.11

L’Amaca del 16/04/2011 (Michele Serra).

Quel povero figlio ammazzato a Gaza da un paio di fanaticidi Allah lavorava con e per la gente della Striscia.Nemmeno il movente razzista (“era un occidentale”) riesce a rendere pienamente onore alla totale imbecillità degli assassini. Stupidità e ignoranza sono l’humus ideale di ogni violenza politico-religiosa. A confermarlo è anche la sordida eco che la morte di Arrigoni ha avuto in patria presso alcune teste vuote (abbiamo anche noi i nostri salafiti) che sul sito di un importante quotidiano di destra sghignazzano perché “i comunisti si ammazzano tra di loro”, più altre idiozie che una mano pietosa, si spera, provvederà presto a cancellare, come si fece con i muri lordati da scritte inneggianti alla morte di soldati italiani. Più dell’odio, sgomenta in quei commenti l’abissale ignoranza: qualcuno scrive che “l’ha ucciso Hamas”, un altro che “guadagnava un sacco di soldi”, è un parlare scardinato, un latrare pregiudizi, il gongolare osceno di chi non sa niente ma trova indispensabile parlare di tutto. Leggendo quelle righe disgustose e pensando che dietro ognuno di quegli sputi su un cadavere c’è una persona, sono stato male. Non perché ritenga che, in qualunque modo, la memoria di Arrigoni possa esserne lesa. Ma perché ne esce lesa la realtà delle cose, e senza realtà io non saprei come vivere, né come scrivere.
[La Repubblica]

13.4.11

Non c 'è più tempo

di Alberto Asor Rosa (il Manifesto)

Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur piace, mi persuadesse, - ma con seri argomenti – del contrario).
Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» » lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politi co se Vittorio Emanuele II, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hindrburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia; come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.

11.4.11

Pavia, a che gioco giochiamo?

di Giorgio Boatti

Pavia e la sua provincia sempre ai primi posti. Anzi, rispetto ai dati dello scorso anno, abbiamo scalato ulteriori posizioni, abbiamo raggiunto risultati da vertigine che polverizzano tutte le altre città concorrenti e ci piazzano ben tre volte sopra la media nazionale. Peccato che di questi risultati non possiamo proprio essere orgogliosi. Anzi, in un mondo che non fosse con le gambe all’aria, su questi “record” che abbiamo macinato nel corso del 2010 si dovrebbe porre un’attenzione e forse un allarme che non si scorgono affatto.
Di quali record stiamo parlando? Di quelli che abbiamo raggiunto in una specialissima industria nazionale che, quanto a fatturato, macina una sessantina di miliardi di euro: vale a dire quanto l’Enel, dieci miliardi più della Fiat, sei volte le Poste. Stiamo parlando dell’industria del gioco nella quale la provincia di Pavia, lo si era scritto qui lo scorso anno, si era già imposta come capitale italiana, con un investimento pro-capite di 1324 euro, riversato complessivamente su Enalotto, Gratta e Vinci, Bingo, slot-machine. Quei dati erano relativi al 2008. Due anni dopo, nel 2010, solo per le slot-machines, in provincia di Pavia siamo arrivati a spendere 1845 euro pro-capite.
Certo – mentre tante altre industrie e attività economiche conoscevano non poche difficoltà – l’industria del gioco ha macinato ulteriori risultati espandendosi, in un anno, di quasi il 12 per cento.
In valori assoluti il mercato italiano dei giochi, terzo a livello mondiale, è passato dai 54,4 miliardi ai 60,8 miliardi. Trasferendo nelle casse dello Stato quasi 10 miliardi tra entrate ordinarie e somme incassate dai concessionari, “una tantum”, per le nuove linee di gioco. Un modo apparentemente comodo, e indolore, per lo Stato di fare cassa evitando di tassare settori che potrebbero reagire male. Peccato che questa modalità si riveli sempre più complice della gravissima patologia sociale che attraverso l’industria del gioco sta avvelenando il Paese.
Per adesso si vedono solo i risultati da record macinati da un’industria, quella del gioco, che nonostante si sia messa in giacca e cravatta, occupi decine di migliaia di addetti, si innervi ormai in ogni ambito, gestisca qualcosa come 40 miliardi di euro distribuiti in vincite, non può evitare di correre a filo di frontiere quanto mai insidiose.
Però di tutto questo per ora non si parla. Si tace. Anzi, si celebra l’espandersi di questa “industria”. Si elencano i successi del 2010: con l’espansione del Bingo (+26.46%), con il boom del poker online (+33.94) e con l’impennata delle cosiddette Newslot, vale a dire gli apparecchi disseminati in ogni esercizio pubblico, dai bar alle tabaccherie. Le macchinette nel 2010 hanno macinato un fatturato di oltre 30 miliardi di euro, nonostante cominciassero ad essere insidiate dalla temibile concorrenza delle VideoLottery, le nuove venute che, pur operando da pochi mesi, si sono assestate appena sotto al miliardo di fatturato.
Metà dei soldi che girano nell’industria del gioco vengono dalle macchinette disseminate nei locali. Vale a dire dalla tipologia di gioco che gli esperti giudicano tra le più rischiose poiché determinano disastrose forme di dipendenza, capaci nel giro di poco tempo di frantumare equilibri personali e famigliari.
Come si è detto Pavia è la provincia italiana che si colloca al primo posto nella spesa in slot-machine con la cifra pro-capite di 1845 euro.
In altri termini, nel corso del 2010, la provincia di Pavia ha preso la bella somma di 931 milioni e 439.620 euro e l’ha giocata alle slot-machine. La spesa procapite di 1845 euro, con cui la provincia di Pavia si impone come la Las Vegas della penisola, è tre volte maggiore della media pro-capite nazionale. E’ di 700 euro superiore alla seconda classificata, vale a dire Como. E’ di 905 euro più alta di quanto spende Rimini, città che si colloca al terzo posto.
Anche sul “gratta e vinci” Pavia, con un giocato pro-capite di 201 euro, è nella pattuglia dei primi venti classificati che ha Brindisi come battistrada con 357 euro. In pratica, “grattando”… e sperando di vincere, gli abitanti di Pavese, Lomellina e Oltrepo hanno tirato fuori di tasca oltre 101 milioni di euro. Vale a dire quanto costerebbe costruire ex-novo, e in una versione super-avveniristica, il ponte della Becca.
Sempre Pavia ha speso, nel 2010, oltre 17 milioni in Bingo, 28 milioni in Superenalotto, 12 milioni in altre scommesse.
Però quel record di 1845 euro pro-capite giocati in slot-machine, distaccando di gran lunga tutte le altre località italiane, rappresenta un allarme ulteriore rispetto a quanto era stato evidenziato dodici mesi fa.
E’ il segno che qualcosa di rilevante, da capire e analizzare assieme, sta accadendo in questa provincia: forse non sposta solo equilibri dentro le famiglie coinvolte in numero sempre maggiore nelle ludodipendenze ma, anche, nella sicurezza e negli orizzonti dell’intera comunità.
I dati dello scorso anno erano stati accolti dalle istituzioni, dai pubblici amministratori, dalle forze politiche con sovrana indifferenza. Riusciranno a far finta di niente anche questa volta?

Quel patto (mancante) tra Ue e Africa

GIULIO SAPELLI (Corriere)

L’onda alta del dramma delle manifestazioni, e poi delle migrazioni, che dalle sponde africane giungono a lambire i lidi dell’Italia, sembrano sconvolgere il nostro Paese incapace di poter progettare un futuro fondato sull’inclusione sociale.

Questa incapacità investe tutta l’Europa ed è la prova di una comunità di destino con l’Africa assai più profonda di quanto non ci appaia a prima vista. Non è solo il destino dell’Italia che si mette alla prova sulle spiagge Nord Africane, ma è l’intera idea di Europa che si infrange sui flutti del Mediterraneo, incagliata nelle secche dell’egoistico interesse nazionale e nell’incapacità culturale e quindi economica di consentire la circolazione delle persone. Occorreva il dramma nord africano per far ricordare a tutti che la persona non è una merce e che la sua circolazione non è un fatto meccanico e neutrale, ma invece culturale e politico. Oggi è questa la sfida: garantire l’ordine sociale tanto al nord quanto al sud del Mediterraneo. Ho già ricordato sul Corriere che il dramma libico altro non è che la punta di un processo che si dipana a partire dal cuore stesso dell’Africa sub sahariana, come dimostra lo stesso intervento francese e inglese in Libia che ha come fine il controllo delle risorse della Costa d’Avorio, del Gabon e della Nigeria e poi, inevitabilmente dell’ex Congo belga attorno alla regione dei grandi laghi. Il disegno neo imperiale francese e inglese ha di mira la difesa degli intessi occidentali a fronte del tentativo di dominio cinese dell’Africa, secondo una strategia che è diversa da quella europea. In cambio delle risorse naturali che estrae grazie al lavoro forzato dei suoi sudditi, l’Impero di Mezzo lascia in Africa infrastrutture di ogni genere, che assicurano nel contempo la crescita dei territori e del consenso tra le popolazioni locali. A differenza del modello francese, che spartisce con i capi tribali locali le risorse. Ma tutto ciò provoca immensi spostamenti di forza di lavoro e crea un esercito industriale di riserva caratterizzato da dure lotte tra gli stessi lavoratori. Volete degli esempi? Eccone due: i lavoratori del settore petrolifero del Gabon hanno incrociato le braccia dall’ 1 al 4 aprile, sino a quando il governo non si è impegnato a espellere tutti i lavoratori irregolari immigrati. Il secondo esempio viene dalla stessa Libia. Nel bel mezzo della guerra le navi cinesi incrociano nel Mediterraneo per evacuare 36.000 cinesi che lavoravano in Libia: l’hanno fatto in circa una settimana. E la comunità cinese non era la più numerosa: veniva dopo quella bengalese e tunisina. Oggi sono i tunisini che ospitano più di 125.000 libici ivi rifugiatisi per sfuggire alla guerra. Insomma: la migrazione dal sud al nord del Mediterraneo e tra gli stati africani è un fenomeno destinato a intensificarsi. Non si riesce, quindi, a garantire né l’occupazione stabile in Europa né la migrazione controllata e regolare in Africa e tra l’Africa e l’Europa. Credere che tutto questo immenso processo possa essere compresso, ostacolato, deviato solo sulla base di quelli che ci si rappresenta come interessi nazionali è illusorio: il disordine non può che aumentare. Solo un patto tra Europa e Africa, senza estremismi e improvvisazioni, potrà lentamente creare un ordine che consenta di regolare e limitare i flussi migratori e nel contempo creare nuova occupazione. Un compito difficile e immenso. Occorre armarsi di ragionevole sopportazione e di sacrificio perché le nostre consuetudini saranno sottoposte a limitazioni e trasformazioni. Se non faremo così la democrazia diverrà incompatibile con lo sviluppo sociale ed economico e lo spettro della dittatura si affaccerà anche in Europa. In Nord Africa, del resto, ha — in realtà — solo cambiato volto, come ben sanno gli osservatori più attenti e consapevoli delle strutture di potere dei regimi in cui oggi dilaga un conflitto che da esplosivo è destinato a farsi intermittente e continuo. Nessuno è un’isola: la campana suona per tutti.

10.4.11

"Ora il mondo ha capito si rischia la catastrofe"

Günter Grass: una svolta dopo Fukushima

di ARMGARD SEEGERS, KAI-HINRICH, KLAUS STRUNZ

BERLINO - Günter Grass, crede che Fukushima abbia cambiato il modo di pensare della gente?
«Fukushima ha cambiato il mondo, perché è successo qualcosa di diverso da quanto finora avevamo vissuto, saputo e presunto. Molti sono diventati solo ora consapevoli dei pericoli dell'energia atomica. E' tema di conversazioni in ogni famiglia. Per i più anziani come me un'occasione di riflettere».

Ripensando alla sua vita, sul tema atomo cosa ricorda?
«Io divenni adulto dopo la fine della guerra. Il Reich aveva appena capitolato, ero ancora prigioniero degli americani, e caddero le prime bombe atomiche, e così finì la guerra col Giappone. Fu il mio primo "incontro" con la bomba atomica. Ero contro la bomba, ma a favore dell'uso pacifico dell'energia nucleare. Mi ci vollero anni per capire che uso militare e uso pacifico hanno qualcosa che li collega, e capire quale strappo della civiltà sia l'energia atomica».

Anche il suo uso pacifico?
«Sì. A molti il pericolo fu chiaro già allora. Ma durante la guerra fredda la corsa agli armamenti, contro cui io mi espressi sempre, catturò più attenzione. Allora la Repubblica federale cominciò a costruire centrali atomiche, una vicino casa mia».

Perché il movimento anti-nucleare conseguì così pochi risultati?

«La crescente dipendenza della politica dalle lobby è
il marcio di tutta la storia. Anch'io ho protestato contro la crescente dipendenza del Parlamento dalle lobby».

Fukushima insegna cioè che la politica deve riconquistare il suo primato?

«Sì.
La crescente dipendenza della politica dalle lobby è il marcio di tutta la storia. Andrebbe creata un'area a loro vietata attorno ai parlamenti
Deve porre limite al potere delle lobby. Si dovrebbe creare un'area vietata per i lobbysti attorno al parlamento, come per le dimostrazioni di protesta».

La Germania ha spento molti reattori e importa energia dalla Francia. Che senso ha dire addio da soli al nucleare?

«Il problema è che rinviando l'addio al nucleare, come il governo Merkel decise, molto prima di Fukushima, sono stati bloccati molti investimenti già avviati nelle energie rinnovabili. Senza quella decisione di prolungamento d'uso delle centrali ora rinnegata, potremmo essere molto più avanti. Il freno va smantellato. A causa di quella scelta adesso dobbiamo importare energia atomica dall'estero. Ma è insensato dire che se la Germania spegne tutti i reattori adesso va al blackout».

Come devono reagire i cittadini con la loro coscienza critica?

«Il cittadino deve impegnarsi. Pesa sulla mia generazione il pensiero della Repubblica di Weimar, che fallì tra l'altro perché non furono abbastanza i cittadini che s'impegnarono per difenderla. La democrazia va difesa ogni giorno».

L'atomo è oggi il tema più importante?

«Non c'è un solo tema prioritario. La fine delle risorse, la fine della crescita economica, la globalizzazione, la scarsità di acqua, tutto è ugualmente importante. Il pericolo è che nel prossimo futuro tutto ci esploda in mano insieme. Il caro-alimentari, che qui da noi colpisce poco, nel terzo mondo è tragedia esistenziale».

Che cosa teme, se ogni problema esploderà insieme?

«Il mio timore peggiore è arrivare in futuro a una dittatura ambientale. Cioè dover vivere con decreti d'emergenza continui per salvare quel che resterà dell'ambiente. La catastrofe atomica in Giappone non può essere affrontata come fu con Cernobyl in Urss. E' un assaggio del futuro che ci aspetta»

Cosa si aspetta dal movimento antinucleare?

«Vorrei fare il mio possibile per rafforzarlo. Ha bisogno di un respiro lungo. Quanto accade oggi in Giappone sparirà magari dalle prime pagine quando il pericolo immediato sembrerà venir meno. Ci sono politici che hanno fatto questo calcolo e puntano a successi promettendo moratorie».

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Hamburger Abendblatt
e La Repubblica per l'Italia

6.4.11

Nous ne vivons pas dans le meilleur des mondes (technologiques)

Marco Morosini, chercheur en développement durable à l'Ecole polytechnique fédérale de Zuric (Le Monde)

Le Japon est peut-être le seul pays capable de transformer – bien malgré lui – une catastrophe industrielle en un boomerang revenant dans le figure des prophètes des mégatechnologies. Il n'est donc pas improbable que le tragique tremblement de terre japonais – comme celui de Lisbonne en 1755 – ébranle la foi de ceux qui pensent vivre dans le meilleur des mondes (technologiques) possibles.

Celui qui se retrouve au bord de la catastrophe nucléaire, ce n'est pas un pays dysfonctionnel et approximatif mais un pays qui a envahi le monde avec des produits technologiques parfaits (les inventeurs du "zero défaut") et des voitures qui ont la plus faible proportion de pannes, le pays avec la plus grande connaissance des tremblements de terre et de tsunamis et avec la plus haute compétence antisismique, le pays avec le nombre le plus élevé de réacteurs nucléaires par habitant (après la France) et la plus ample expérience dans les dommages nucléaires. Donc, beaucoup de gens se demandent : si les meilleurs techniciens du monde ne savent pas contrôler leurs réacteurs, pourquoi devrions-nous croire à ceux qui nous promettent que d'autres seraient capable de le faire ?
Avec le bon sens dont certains experts semblent pouvoir se passer, certaines catastrophes technologiques et économiques semblent faciles à comprendre par la suite. Prenons par exemple le Concorde, l'avion passager supersonique qui est maintenant dans un musée. Dans l'an 2000 il aurait dû être l'avion le plus vendu au monde, disaient les fabricants. Aujourd'hui, il semble bizarre que tant de techniciens aient cru que dans un monde où les coûts et les effets climatiques du pétrole sont de plus en plus grands, on aurait pu vendre des centaines d'avions supersoniques qui consomment et polluent le triple des autres. Ou prenons les "tours jumelles". Selon leur concepteur elles auraient dû résister à l'impact mécanique d'un jumbo-jet ; en fait, le 11-Septembre ce n'est pas l'impact qui les a fait effondrer mais plutôt le stress thermique du kérosène incendié – que le concepteur n'avait pas calculé.
A Fukushima peut-être que cela a été pareil : les ingénieurs avaient pensé à de nombreuses hypothèses – mais pas à toutes. Les experts du risque le confirmeraient : avec les mégatechnologies la possibilité de l'événement le plus adverse est bien réelle, mais sa probabilité est si faible que certains d'entre eux disent au grand public qu'elle est "pratiquement" nulle, que les centrales atomiques "sont sûres". Or si c'était vraiment le cas, les compagnies d'assurance se battraient pour pouvoir assurer un risque, où il y aurait seulement à gagner et "certainement" rien à perdre. La réalité est bien différente.
En Suisse par exemple chaque centrale est assurée pour un maximum de 1 milliard de francs, contre une perte possible de 100 milliards, estimés par l'Office fédéral de la protection civile. Un projet de loi du "vert libéral" Martin Baeumle vise à introduire une assurance obligatoire pour dégâts de 500 milliards, ce qui conduirait à des augmentations de 5 à 50 centimes par kWh (ce denier coûte maintenant 20 centimes). En Allemagne, le maximum de dommages couvert est de 2,5 milliards d'euros par centrale, par rapport à un maximum de dégâts de 5 500 milliards estimé par des études fédérales. D'autres estimations parviennent à 11 000 milliards d'euros. C'est pourquoi un groupe d'organisations collecte des signatures en Allemagne pour introduire une vraie assurance obligatoire.

UN SIGNAL FORT DU MARCHÉ DE L'ASSURANCE
Selon ces chiffres, les centrales nucléaires, contrairement à la moindre mobylette, fonctionnent presque sans assurance. Il est intéressant de noter que si pour certaines élites, "le marché doit tout diriger", lorsqu'il s'agit des risques atomiques les mêmes ignorent le signal fort et clair du marché de l'assurance – qui généralement est en mesure de mettre un prix sur tout.
Constatons aussi que dans le cas des risques atomiques, les réponses des assureurs et du philosophe sont similaires. Le fait n'est pas que les assureurs calculent une prime trop élevée pour les centrales atomiques. Le fait est tout simplement qu'ils n'assument pas ce risque. Et ce à aucun prix. Normalement le prix pour couvrir un risque est basé sur la multiplication du montant maximum de dégâts par la probabilité qu'il se produise. Mais là où le dommage est irréparable et incalculable, le fait que sa probabilité supposée soit d'un millionième ou bien d'un milliardième, cela ne change en rien.
Lorsque le risque est la perte totale, il ne peut tout simplement pas être pris en charge. Dans l'âge des mégarisques il est donc sage de s'orienter vers la "heuristique de la peur", qui donne la préférence à considérer l'hypothèse la plus défavorables, quelle que soit sa probabilité, quand elle se réfère à une perte inacceptable. C'est bien là le message central du philosophe Hans Jonas, dans son ouvrage classique Le principe responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique (Flammarion, 1979), trop souvent caricaturé en France en mettant à toutes les sauces le principe de précaution, depuis son entrée dans la Constitution.
"To-cheap-to-meter" (trop-bon-marché-pour-être-mesurée) disaient il y a quarante ans les prophètes de l'électricité atomique, en promettant la disparition des compteurs électriques de nos maisons. "Trop chère payée" semble être le message qui vient du Japon.

4.4.11

La traccia di Zapatero

Concita De Gregorio

Ho ascoltato con attenzione il breve discorso con cui ieri Jose Luis Rodriguez Zapatero, capo del governo spagnolo, ha annunciato che non si presenterà alle prossime elezioni. Ho letto quelle otto cartelle scarse: ho sottolineato le parole errori, responsabilità, progetto politico, futuro. Zapatero è nato nel 1960, ad agosto compirà 51 anni. Ha assunto la guida del governo a 43, sconfiggendo il Partito popolare di Aznar. Ha ancora un anno da governare prima delle elezioni. Un anno, ha detto, è il tempo «che ci permetterà di assumere con naturalezza e responsabilità – a livello collettivo, di organizzazione di partito – la messa in moto di quei processi fissati dal nostro statuto per scegliere la persona che guiderà le nostre liste nel marzo 2012.

E perché questa persona possa a sua volta, dopo essere stata indicata, disporre del tempo sufficiente per esprimere un progetto politico ed illustrarlo ai cittadini». Questo processo passerà dalle primarie. Ho trovato notevolissima la chiarezza con cui il capo in carica dell’esecutivo ha parlato della crisi economica in corso, della sua gravità e complessità, senza mai derubricare a «disagio percepito» le sofferenze dei cittadini, senza illudere, senza nascondere, senza mistificare. Senza negare le responsabilità del suo governo che, ha detto, ha commesso certo errori ma sempre ci ha messo la faccia. Non ha mai nominato, Zapatero, le molte leggi emanate in specie nel suo primo mandato a ritmo di una ogni pochi giorni, leggi che hanno cambiato radicalmente il tessuto sociale del paese: contro la violenza domestica sulle donne, per l’assistenza gratuita alle persone con handicap, per il riconoscimento e l’insegnamento scolastico della lingua dei segni, per l’eliminazione della balbuzie come causa di esclusione dal pubblico impiego, per l’eliminazione del concetto di colpa dalle cause di divorzio, per le adozioni, per le unioni civili, per la non discriminazione delle persone omosessuali. Ne cito poche, a memoria e in ordine sparso, giusto per chiarire cosa intendo. E poi, più avanti, per l’Uguaglianza e la non discriminazione, per la morte degna.

Certo sul piano economico il grande errore dell’aver fatto dell’edilizia il quasi esclusivo canale di occupazione e di crescita ha prodotto molti danni il più grave dei quali è aver alimentato un’illusione tale per cui la delusione, infine, è stata enorme. I sondaggi implacabili, la popolarità in calo, le amministrative a rischio, per i socialisti. Una grande aspettativa infranta. Ma non è dell’inevitabilità dell’avvicendamento alla guida della coalizione che voglio parlare. È del modo e delle ragioni con cui Zapatero la espone. Non più di due mandati, dice. «Avevo detto al mio arrivo al governo, sette anni fa, che otto, due mandati, sono un periodo che un esponente politico non deve superare. Per il bene del partito, del paese, dell’idea che abbiamo di democrazia. Persino, se me lo consentite, della sua propria famiglia. Otto anni sono il tempo necessario per fare, oltre il quale è giusto lasciar fare ad altri». Mentre Zapatero parlava, nella riunione di partito, nessuno dei volti attorno a lui (i probabili successori seduti dietro, i compagni accanto) ha mostrato sollievo, disappunto, stupore. «E adesso, compagni, al lavoro. Il governo a governare, i candidati alle amministrative a difendere il proprio programma, il partito ad appoggiare i candidati e le riforme.

Dimostriamo ancora una volta chi siamo e come siamo. Una formazione politica storica e carica di futuro. Un progetto che ha radici nella società, tra i lavoratori, in quelli che non hanno abbastanza, nelle donne e uomini che aspirano all’uguaglianza. Un partito democratico che ama la libertà interna e il coraggio. È per questo che tra noi ci chiamiamo compagni. Ecco, compagni. Io vi ringrazio». Sono abbastanza sicura che il discorso di congedo di Zapatero, con qualche piccolo adattamento ai casi nostrani, diventerebbe il perfetto manifesto di un leader che volesse anziché lasciare la politica candidarsi, piuttosto, alla guida – da sinistra – di questo nostro sventurato paese. Almeno una traccia, se qualcuno volesse prendere spunto.

Quella mala revoluciòn

  LUIGI GENINAZZI  (Avvenire)
L’epitaffio più crudele gliel’ha dedi­cato El Paìs: ebbene sì, il giornale fiancheggiatore del Partito socialista spa­gnolo, fino a poco tempo fa sostenitore entusiasta del governo. «Zapatero aveva detto che non ci avrebbe deluso. Adesso sappiamo invece che ci ha deluso. E for­se ha deluso anche se stesso». Finisce nel­la polvere il sogno radical-socialista di u­na Spagna che si voleva modello per la si­nistra europea. Finisce l’era Zapatero, un’agonia ancor più penosa se si pro­lungherà fino alla scadenza della legisla­tura nel marzo del 2012. Di fatto, an­nunciando ieri la sua rinuncia a essere candidato premier alle prossime elezio­ni politiche, il leader spagnolo ha preso atto di un crollo, personale e politico, che non poteva più essere camuffato. In ca­duta verticale nei sondaggi, con l’81% de­gli elettori che recentemente hanno di­chiarato di non avere alcuna fiducia nel loro capo di governo, e sempre più in dif­ficoltà nel suo stesso partito, era ormai giunto al capolinea.
  A Zapatero è scoppiata fra le mani una devastante crisi economica, con il record di una disoccupazione al 20%, il doppio della media dell’Unione europea. Una cri­si aggravata dalla sua resistenza iniziale ad ammetterla e dalla fatica successiva a correggere il tiro, rimangiandosi molte promesse con le quali era riuscito a otte­nere un secondo mandato di governo nel 2008. Un brutto e brusco risveglio dai so­gni di gloria, dopo l’annuncio (precipito­so) del 'sorpasso' sull’Italia e l’ambizio­ne a raggiungere e superare anche Fran­cia
e Germania. Ma il fallimento di Zapatero non si ridu­ce al saldo negativo dell’economia. L’e­redità più pesante che lascia alla Spagna è quella che, parafrasando il noto film di Almodovar, potremmo definire come la «mala revolución», una serie di provve­dimenti legislativi che hanno trasforma­to il Paese iberico nella società più per­missiva d’Europa. Dal matrimonio omo­sessuale al divorzio-express, dalla libera­lizzazione della ricerca sulle staminali embrionali all’educazione scolastica che impone l’insegnamento della teoria del 'genere', dalla clonazione terapeutica al­l’aborto facile per le minorenni, gli otto anni di zapaterismo sono stati contras­segnati da una folle corsa ad abbattere princìpi etici e senso comune, in nome di un «progresso irrefrenabile» che este­nua i legami basilari e riduce l’individuo a un fascio di pulsioni. Molti analisti han­no notato che in questo modo il governo di Madrid è entrato in rotta di collisione con la Chiesa. Ma in gioco c’era qualco­sa persino di più profondo. Se i cattolici spagnoli hanno alzato la voce e sono ri­petutamente scesi in piazza a protestare non è stato per difendere chissà quali pri­vilegi ma per denunciare una deriva so­ciale e civile imposta dall’alto. Nessuno s’immaginava una cosa del genere quan­do nel marzo del 2004 un giovane socia­lista di nome José Luis Rodriguez Zapa­tero, al quale nessuno dava la minima chance, vinse inopinatamente le elezio­ni sull’onda dello choc emotivo per l’at­tentato di Atocha. Invece, con la sua aria da timido cerbiatto, ha portato avanti un’operazione spregiudicata e arrogan­te. Pochi lo rimpiangeranno, anche nel suo stesso partito dove il successore non ha per il momento né nome né identikit. Adesso per la Spa­gna si apre un capitolo nuo­vo. L’ideologia ultra-radicale ha lasciato il segno, e non sarà facile invertire la marcia. La deludente eredità di Zapatero rappresenta un fardello pesante. Prima gli spagnoli se la scrolle­ranno di dosso e meglio sarà.

Hermann Scheer, l’energia come questione etica

di Marco Morosini (Planext)

Il recente incidente nucleare di Fukushima e le sue ripercussioni in tutto il mondo circa il ruolo del nucleare nell’approvigionamento energetico riportano prepotentemente alla ribalta le teorie di Hermann Scheer, il politico tedesco che piu’ di ogni altro propugnava un’economia solare mondiale. Scheer, che e’ venuto a mancare nell’ottobre 2010, usava asserire che “chi non ha visioni, non dovrebbe fare politica”. In effetti, il suo maestro fu il visionario Willy Brandt e non il pragmatico Helmut Schmidt (“Chi ha visioni deve andare dal medico”).

Etica e sussidiarietà: questi furono i pilastri dell’approccio di Scheer alla questione energetica, un ambito in cui il perdurante dominio di economisti e tecnologi forse pare legittimo a più di un lettore. Eppure troppo alta è la posta energetica per lasciarla in mano ai tecnici. Le diverse opzioni energetiche hanno infatti tali conseguenze sulle generazioni presenti e future e sulla natura da farne una questione morale e politica, prima che tecnologica. Infatti, mentre i benefici delle energie fossili e dell’energia atomica si concentrano maggiormente nella parte più benestante della popolazione mondiale, i loro costi umani – per esempio il cambiamento climatico – ricadono sproporzionatamente su coloro che meno o punto profittano dei benefici, cioè sulla parte meno abbiente e più debole dell’umanità e specialmente sulle generazioni future.

La sussidiarietà (se un ente “più in basso” è capace di fare qualcosa, l’ente “più in alto” deve lasciargli tale compito e sostenerne l’azione) era la seconda idea guida che Scheer applicò alla questione energetica: mentre le fonti fossili (carbone, petrolio e gas) e atomiche implicano la concentrazione in grandi impianti centralizzati e in potenti oligopoli privati o statali, una buona parte delle energie rinnovabili (solari, eoliche, da biomassa, geotermiche) sono per loro natura decentrali, locali e polverizzate in milioni di piccoli produttori. Questa differenza ha profonde conseguenze politiche perchè nel primo caso è favorita la concentrazione di potere e ricchezza, mentre nel secondo caso è favorita la loro distribuzione diffusa tra i cittadini, sia in una nazione sia sul globo. Per questo l’opzione solare sarebbe importante anche per prevenire i conflitti, non solo per ridurre i danni ambientali. Secondo Scheer la politica ha un compito limitato ma fondamentale: quello di accelerare un cambiamento che è già in atto nella società ma che è troppo lento, creando sistemi di incentivazione individuale verso le opzioni che danno benefici collettivi o che riducono i danni e i rischi collettivi (per esempio l’alterazione del clima).

Proprio sulla velocità di questo cambiamento riemerge l’etica: ormai da molti anni la questione non è sul “se” ma sul “quando” la società umana passerà completamente alle energie rinnovabili. “L’imperativo energEtico” – questo il titolo del suo ultimo libro – sarebbe quello di attuare questo cambiamento in pochi decenni invece che in secoli, cioè prima che i rischi e i costi umani delle attuali tecnologie fossili e atomiche crescano in modo esponenziale. Già nel 1885 Rudolph Clausius, uno dei padri della termodinamica, scrisse che “l’umanità stava dilapidando il patrimonio naturale” e che nei prossimi secoli sarebbe stata costretta ad arrangiarsi con l’energia del sole. Anche tuttora molti di coloro che propugnano l’espasione delle tecnologie fossili e atomiche dicono che si tratta di “tecnologie ponte” verso una futura economia solare, in attesa che le tecnologie per questa diventino “mature”. Per Scheer invece il momento di questa trasformazione è adesso, cioè nei prossimi due o tre decenni. Non conosco un altro politico che ha svolto questa azione di catalizzatore più intensamente di Hermann Scheer. 1988: fonda Eurosolar, l’Associazione europea per le energie rinnovabili, che ha ora sedi in tredici Paesi europei e di cui era presidente. 2000: il Parlamento tedesco vara la storica legge per le energie rinnovabili (EEG) concepita da Scheer, a cui poi si ispirò la legislazione in cinquanta Paesi. Questa legge sancisce l’obbligo per i grandi produttori e distributori di acquistare con tariffa garantita per 15-20 anni dai piccoli produttori l’elettricità prodotta con energie rinnovabili. La tariffa si abbassa ogni anno per i nuovi impianti (degressione) in modo da generare una pressione verso tecnologie sempre più efficienti e da rendere un giorno superflua la sovvenzione; i sovracosti vengono distribuiti a tutti gli acquirenti di elettricità. 2001: fonda e presiede il World Council for Renewable Energy (WCRE), con l’obiettivo di favorire la creazione di un’agezia mondiale per le energie rinnovabili, con rango simile a quello della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA, fondata nel 1957); l’obiettivo è raggiunto nel 2009 con la fondazione dell’agenzia IRENA (International Renewable Energy Agency) a cui aderiscono i governi di 130 nazioni. Scheer scrisse quattro libri, tradotti in molte lingue, tra le quali l’Italiano: Strategia solare (1996), Il solare e l’economia globale (2004), Autonomia energetica (2006), L’imperativo energEtico (2010). Ricevette numerosi premi internazionali tra i quali il World Solar Prize (1998) e il premio Nobel Alternativo “Right Livelihood Award” (1998). Nel 2002 “Time Magazine” lo nominò tra gli “Hero for the Green Century”.

La peculiarità di Scheer fu quella di trattare la questione energetica come una questione eminentemente politica. A proposito dell’Agenda 21 – il programma d’azione per lo sviluppo sostenibile adottato da 180 nazioni a Rio de Janeiro nel 1992 – Scheer scrisse che “se si vogliono davvero affrontare tutti i temi dell’Agenda 21, dobbiamo arrivare a una sorta di Agenda 1, con un unico punto all’ordine del giorno: un’economia energetica solare globale”. Infatti quasi tutti i principali problemi ambientali sono collegati con il problema energetico: usiamo e sprechiamo troppa energia e la otteniamo in prevalenza dalle fonti meno benigne. Scheer non era un tecnologo nè un ecologo. Aveva la formazione e l’esperienza del politico purosangue e fu per 30 anni deputato della SPD. Si diplomò in scienze economiche, giuridiche e politiche e la sua tesi di dottorato si intitolava “Partiti contro cittadini? Il futuro della democrazia partitica”. Prima degli studi universitari fu soldato volontario per due anni con il grado di luogotenente e dopo gli studi lavorò per due anni al Centro di ricerca nucleare di Karlsruhe. Forse questa esperienza diretta dell’ambiente militare e di quello dell’energia atomica contribuì a orientarlo verso la politica estera e del disarmo, facendone uno dei giovani talenti intorno a Willy Brandt ed Egon Bahr ed un possibile futuro ministro degli esteri. La sua decisione di dedicarsi alla questione energetica non fu un cambiamento di terreno ma fu la continuazione della sua vocazione di politico del disarmo. A metà degli anni 80 si convinse che il controllo delle risorse energetiche era uno dei principali campi di conflitto tra i popoli. La svolta verso un’economia energetica solare, decentrata e locale gli sembrò uno dei compiti principali della politica per la pace.

1.4.11

Barbarie a Montecitorio

di Curzio Maltese (La Repubblica)

Come si sono ridotti così? Prima un po´ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un´agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l´isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin. La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un´esplosione schizofrenica. Nell´ora dei telegiornali milioni d´italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l´aula l´impressione era ancora più penosa. Da un momento all´altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all´improvviso un´arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po´ di normalità civile.
Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell´ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all´unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l´altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l´ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l´improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l´Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?
Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all´interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l´altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.
È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d´inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l´ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall´ultimo venduto, dall´ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d´angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po´ di civiltà.