29.6.15

Paul Krugman: la scelta di Atene di ricorrere alla consultazione popolare è da difendere - Thomas Piketty “Serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili”

“Una mostruosa follia aver spinto Tsipras fino a questo punto”
La troika sperava che il governo greco avrebbe ceduto o in alternativa si sarebbe dimesso
Non posso biasimare il premier ellenico per aver rimesso tutta la questione nelle mani degli elettori

di Paul Krugman (La Repubblica)

Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.
Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.
Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.
Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.
Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).
In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.
Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.

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“Europa in agonia sono i conservatori ad averla devastata”
“Quando sento dai tedeschi che i debiti vanno onorati, mi viene solo da ridere”
“La Merkel se vuole assicurarsi un posto della storia come Kohl, deve avere il coraggio di un nuovo inizio”

di Roberto Brunelli (La repubblica)

L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse — quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo “Il capitale del XXI secolo” — che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.
“I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci”.
Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. “Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale”. Niente a che vedere con “l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”.
Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. “La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia.
E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene”. Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. “Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione”. L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: “Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia”.

28.6.15

Referendum Grecia: Lettera di Tsipras ai greci e "Il tempo è ora". Documento politico approvato dal comitato nazionale Altra Europa con Tsipras del 21 giugno 2015

«Greche e greci,

da sei mesi il governo greco conduce una battaglia in condizioni di asfissia economica mai vista, con l’obiettivo di applicare il vostro mandato del 25 gennaio a trattare con i partner europei, per porre fine all’austerity e far tornare il nostro paese al benessere e alla giustizia sociale. Per un accordo che possa essere durevole, e rispetti sia la democrazia che le comuni regole europee e che ci conduca a una definitiva uscita dalla crisi.

In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.

Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.

La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia. Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.
Queste proposte mettono in evidenza l’attaccamento del Fondo Monetario Internazionale a una politica di austerity dura e vessatoria, e rendono più che mai attuale il bisogno che le leadership europee siano all’altezza della situazione e prendano delle iniziative che pongano finalmente fine alla crisi greca del debito pubblico, una crisi che tocca anche altri paesi europei minacciando lo stesso futuro dell’unità europea.

Greche e greci,

in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.

Poche ore fa (venerdì sera n.d.t.) si è tenuto il Consiglio dei Ministri al quale avevo proposto un referendum perché sia il popolo greco sovrano a decidere. La mia proposta è stata accettata all’unanimità.
Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.

Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.

Greche e greci,

a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.

La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale.

E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia.

E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.

In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.

Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci.

Per la sovranità e la dignità del nostro popolo».

Alexis Tsipras


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Abbiamo detto già molte – troppe – volte che “il tempo è ora”.

Dobbiamo dire oggi che “siamo già oltre”.

1. Per questo dobbiamo prendere noi, e dobbiamo chiedere a tutti i nostri interlocutori politici, sociali e a importanti personalità, un PUBBLICO IMPEGNO, solenne, convinto, a dare concretamente inizio al processo costituente di una forza e di una soggettività politica nuova che abbia – come abbiamo ripetuto fin dalla nostra nascita - l'ambizione di essere alternativa al quadro politico esistente, a quello delle larghe intese tra popolari e socialisti in Europa, e a quello italiano in cui il renzismo ha ormai cancellato non solo le figure ma il concetto stesso della tradizione di sinistra.

Spetta a noi, che ci siamo posti fin dall’inizio il problema della rappresentanza politica come nodo cruciale della crisi di sistema italiana, la responsabilità, grande, di lavorare per superare l’ostacolo dei molteplici progetti concorrenziali a sinistra e creare le condizioni di una coalizione politica e sociale capace di competere – come in Grecia e in Spagna - per una reale alternativa di governo.

Dovrà essere – pena un fallimento che sarebbe ora senza appello – un processo partecipato e democratico, ampio, includente, capace di coinvolgere la moltitudine estesa di chi non sopporta più lo stato di cose esistente e non vuole limitarsi alla testimonianza.

L’adesione a esso di tutte le esperienze organizzate che si muovono alla sinistra del PD ne è la condizione necessaria, perché senza un segnale di superamento dell’attuale frammentazione non c’è credibilità. Ma non sufficiente, perché senza la costruzione di una road map fatta soprattutto di lotte e mobilitazioni, e senza un radicamento sociale, non si uscirebbe dall’ambito penitenziale della irrilevanza.

Per questo il “tavolo” con cui lavorare dovrà essere ampio, molto più esteso di noi, di quello costituito dalle sole forze politiche organizzate e dei nostri tradizionali interlocutori. E non dovrà stare nel chiuso di una stanza, ma estendersi ai “luoghi della vita” e ai territori. In quella sede si definiranno le tappe e le caratteristiche del processo costituente, che non potrà ricalcare le forme verticistiche e pattizie di esperienze come "Sinistra Arcobaleno" o "Rivoluzione civile", ma riprendere l'ispirazione che ci ha unito nel progetto dell'Altra Europa con Tsipras.

Ma da subito la nostra parte la dobbiamo fare. Abbiamo il dovere di lanciare, ancor prima di agosto, un messaggio chiaro e forte: che ci siamo. Che partiamo. Che possiamo farcela. Lo dobbiamo ai tanti che aspettano da troppo tempo. Lo dobbiamo ai greci, lo dobbiamo ai migranti lasciati sugli scogli, lo dobbiamo a chi ogni giorno è umiliato da questo governo. Per questo lavoriamo perché già a luglio ci sia un segno tangibile che il processo si è messo in marcia.

Facciamo sì che sia un “percorso del fare”. Individuiamo fin d’ora nell’iniziativa referendaria sui temi e le lotte più vicini alla vita delle persone un terreno su cui impegnarsi da subito. Impegniamoci a costruire su ogni tema la più larga rete di soggetti, che già ci sono, e già sono attivi, in primo luogo sui temi della scuola e del Jobs Act, dello Sblocca Italia, dell'Italicum, delle controriforme costituzionali.

Costruiamo questo processo in una cornice esplicitamente internazionale: lo si dichiari fin d’ora inscritto nello spazio europeo in cui muovono forze che come noi si battono, a cominciare da Syriza e Podemos, con le quali giungere a esplicite dichiarazioni d’intenti comuni.

Pensiamo sia necessario costruire un unico soggetto alternativo al PD e che faccia riferimento al GUE sul terreno europeo. Anche per questo motivo riteniamo necessario avanzare una proposta sul terreno della forma politica. La nostra casa comune deve tenere insieme forme diverse del fare politica, dell'agire sociale e culturale, della costruzione della rappresentanza, della democrazia diretta, della partecipazione e costruzione del conflitto e delle pratiche mutualistiche. Dunque non un partito unico ma una casa in cui stiano insieme molteplici forme di attivazione e di adesione. Ci prefiggiamo di costruire una nuova modalità dell'agire collettivo e della costruzione della decisione sulla coalizione sociale, politica e culturale.

2. I nostri tempi di azione e di discussione sono drammaticamente inadeguati rispetto alla velocità vertiginosa con cui procedono le cose del mondo che ci sta intorno. Dell’Italia. Dell’Europa.

Dai giorni della nostra assemblea di Roma, lo scenario è già cambiato. In peggio.

Lo sapevamo che l’Europa – la quale da quando siamo nati è sempre stata lo spazio di riferimento della nostra identità e del senso della nostra azione politica – doveva essere cambiata alle radici. Che lì stava la radice della crisi, e dal suo rovesciamento dipendeva la possibilità di sopravvivere a quella crisi. Ma l’Europa come si rivela oggi – l’Europa finita che si mostra senza vergogna – va oltre ogni più cruda visione e pre-visione.

L’Europa che muore l’abbiamo vista a Ventimiglia, a Milano, a Roma Tiburtina – in quei mucchi di cenci trattati come rifiuti e che sono invece umanità.

La vediamo nelle immagini dei vertici di lusso, con le facce patinate dei Commissari che stringono la garrota al collo della Grecia.

Un continente che non sa più dare speranza a nessuno, né a quelli che vengono qui da lontano, né a quanti vi abitano e vi soffrono, è già morto. Comunica un senso di morte che cancella la storia. E la politica. E umilia il pensiero.

Dà il segno di una bancarotta insieme antropologica e politica.

Dobbiamo entrare in quest’ordine d’idee. Per la prima volta è diventato immaginabile, e forse anche possibile, un cedimento strutturale della costruzione europea – finanziario o politico. Viviamo una condizione eccezionale – uno “stato d’eccezione” e di pericolo come mai dopo la seconda guerra mondiale. Per il fallimento verticale delle élite. Per la dissoluzione, rapidissima, delle tradizionali culture politiche (particolarmente drammatico il dissolvimento delle socialdemocrazie). Per l’imbarbarimento antropologico che dilaga. Per il sadismo nei confronti della parte più fragile delle proprie popolazioni, imposto da un’applicazione ottusa e feroce del dogma neo-liberista.

A ogni tornata elettorale nazionale o locale la mappa si fa più chiara: un centro neoliberista che ha ormai assorbito quasi senza resistenza le tradizionali social-democrazie, circondato da un’ondata di protesta e di rifiuto in chiave populista che soprattutto a nord e a est assume il colore fosco della xenofobia e del razzismo. Solo sul versante mediterraneo, in Grecia e in Spagna (oltre che in Irlanda), la resistenza si esprime con forme di radicalità democratica e solidaristica.

Il che ci dice che l’unico antidoto in grado di resistere alla deriva fascistoide e alla mobilitazione del disumano dentro la crisi europea è l’esistenza di una sinistra forte, radicata e radicale, determinata e con chiarezza alternativa all’intero paradigma neo-liberista. Siamo convinti che la costruzione di una sinistra radicata, popolare e capace di raccogliere consenso, oggi si possa costruire nella radicale alternatività, a tutti i livelli e per ragioni diverse al PD e alle destre. Alternatività non solo a livello elettorale, a partire dalle prossime competizioni amministrative, ma anche nelle pratiche politiche, nella riconnessione di sociale e politico per modificare i rapporti di forza e sulla questione morale.

Per questo la nostra responsabilità è oggi enorme. Nel contribuire alla formazione di quella nuova coalizione sociale e politica a dimensione europea – a cominciare dall’asse Mediterraneo – capace di alimentare vere e proprie lotte di liberazione, europee e nazionali, contro l’austerità e la Troika, com’è nel nostro progetto originario. Sul terreno sociale, politico e culturale, per contrastare la deriva xenofoba, razzista e oscurantista che si registra sul terreno del consenso e del senso comune. La dimensione europea è e deve essere per noi fondativa della costruzione del soggetto unitario.

La costruzione anche in Italia di una AAA (Alleanza contro le politiche di austerità) è un punto fondamentale per la realizzazione della mobilitazione del prossimo autunno, così come pensiamo sia fondamentale. Che Altra Europa promuova iniziative unitarie sui nodi cruciali del rapporto Europa-Italia: dal TTIP che determinerebbe un ulteriore processo di deregolamentazione a scapito della sovranità popolare, alla questione dei/delle migranti, per noi cruciale perché si parla della possibilità o meno che questa UE resti umana, alla questione dei diritti di libertà e dei diritti civili di donne e uomini. È evidente che la nostra alternatività al socialismo europeo come responsabile delle politiche di austerità e al PD che le incarna in Italia, si fonda su questioni politiche dirimenti.

3. Renzi oggi è più debole. Ma proprio per questo più pericoloso (la vicenda della scuola insegna): da una parte continua a picconare quanto rimane dei residui culturali e istituzionali di quella che un tempo era la sinistra, dall’altra alimenta con la propria azione e i propri fallimenti in campo economico i peggiori sentimenti di chi risponde a una condizione sociale bloccata nella crisi accodandosi alla peggior destra fascistoide alla Salvini. E noi siamo spaventosamente inadeguati. Noi, TUTTI.

Se un dato è emerso chiaro dalle recenti elezioni amministrative è che oggi, a sinistra, non c’è salvezza per nessuno al di fuori di un processo unitario che superi, rapidamente – bisognerebbe dire istantaneamente – l’attuale frammentazione e il messaggio d’impotenza che trasmette. Le uniche realtà in cui si sono ottenuti risultati positivi – tali cioè da dimostrare che esiste una forza in campo, in grado di dire che “si può” senza rischiare l’assoluta irrilevanza, come la Toscana e la Liguria – sono quelle in cui si sono presentate liste chiaramente unitarie e anche, in qualche modo, capaci di comunicare qualche segnale, sia pur timido, di innovazione.

D’altra parte la geografia politica emersa da quel voto, e resa cogente dall’Italicum, in particolare dal sistema del ballottaggio, strutturata su un tripolarismo con PD, 5Stelle e destra ad egemonia salviniana tutti in competizione per il premio al ballottaggio, ci costringe a mettere in campo, in fretta, una proposta che faccia da quarto incomodo, pena l’evaporazione di tutta la nostra area nella logica del voto utile (questa volta non più tanto al PD quanto ai 5 stelle) o nell’astensione. Esigenza resa tanto più impellente dall’accelerazione in senso xenofobo e imbarbarito delle posizioni sui migranti, di cui la volgare e disgustosa uscita di Grillo è un segnale inquietante (la corsa all’elettorato di destra è partita, e sarà feroce, nel nome della difesa degli interessi degli italiani).

Abbiamo la responsabilità di costruire un’alternativa politica ed elettorale efficace e credibile al PD renziano che ha indubbiamente perso la propria “spinta propulsiva”, ma che continua a occupare prepotentemente lo spazio politico italiano e a proseguire l’azione di manomissione della democrazia e di disgregazione della società che l’ha caratterizzato fin dall’inizio. Sempre più chiaramente il renzismo è l'ultima tappa nella perdita di senso del Paese: per questo non solo va fermato, ma contrastato con un’alternativa chiara, di governo e di sistema.

Altra Europa con Tsipras

approvato dal Comitato Nazionale il 21/6/2015

24.6.15

L’ideologia che condiziona i risultati

Mario Deaglio (La Stampa)

Pensavamo che il rinvio sistematico delle decisioni politicamente scomode fosse una prassi tipicamente italiana; dobbiamo constatare che sta rapidamente diventando una prassi europea. E’ questa, infatti, l’ottava volta da febbraio che una riunione sul debito greco, indicata come «decisiva» alla vigilia, si conclude con un rinvio. Una simile lentezza su una questione nella quale le cifre in gioco, pur importanti, non sono colossali pare dovuta a tre motivi diversi.

Il primo è il «rischio finanziario», ossia il pericolo che il debito greco provochi un effetto-valanga, travolgendo le banche (greche e di altri Paesi) che detengono i titoli di questo debito. Il loro valore crollerebbe in caso di non pagamento, il crollo coinvolgerebbe anche gli operatori che hanno nel loro portafoglio i titoli di queste banche. Si innescherebbe una catena mondiale di forti ripercussioni negative, come successe per la banca americana Lehman Brothers, con il pericolo di nuova recessione mondiale.

In realtà, questo rischio appare ben controllato perché la maggior parte del debito greco è ora sottratta alle normali contrattazioni, essendo detenuta da grandi istituzioni europee e internazionali che, pur con un segno meno in bilancio, non sarebbero compromesse da queste perdite.

La vera paura, che attanaglia mercati e governi, è un’altra: visto il parziale condono alla Grecia del debito, altri Paesi indebitati potrebbero mettersi sulla stessa strada. Perché il Portogallo, che sopporta, senza contestare Bruxelles, misure economiche molto gravose, a causa dei suoi debiti, dovrebbe continuare a essere «virtuoso», visto che un grande accordo sul debito greco dimostrerebbe che la virtù finanziaria non paga? Perché, la Spagna - che tra qualche mese potrebbe essere governata da Podemos - non dovrebbe opporsi alla continuazione di pesanti misure di austerità?

Questo rischio - che si può definire «rischio politico» - non è facile da controllare e rende particolarmente inquieta un’Unione Europea che vede aprirsi così, la strada della propria disgregazione. Per questo si sta facendo strada l’idea che, anche nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro, dovrebbe essere fissato l’obiettivo del suo rientro: l’Unione Europea dovrebbe essere pronta, oltre ad accettare un lunghissimo prolungamento del periodo di restituzione, anche a finanziare trasformazioni produttive dell’economia ellenica, senza le quali, dentro o fuori dell’euro, l’economia greca rimarrebbe disastrata.

Il rischio che però intimorisce di più la comunità internazionale è quello di cui si parla di meno e che potrebbe essere definito il «rischio ideologico». Alcuni mesi fa, in diverse occasioni, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, definì come «ricatto alla democrazia» l’intimazione al suo Paese di restituire, alle date concordate, quanto ricevuto in prestito. Affermando implicitamente che «la democrazia passa davanti al debito», Tsipras ha sostenuto che uno stato democratico potrebbe legittimamente non pagare, specie se i creditori sono banche straniere.

Andando ancora più in là, non manca chi sommariamente invoca la distruzione della ricchezza finanziaria, che deriverebbe da una nuova crisi, e una «ripartenza da zero». In questo caso, la Grecia potrebbe diventare la testa di ponte di un nuovo movimento mondiale per il non pagamento del debito estero, finalizzato al superamento dell’attuale ordine economico. Le potenzialità «sovversive» di questa posizione spiegano, tra l’altro, il tentativo del cancelliere tedesco, Angela Merkel, di evitare a ogni costo uno scontro nel quale un sistema di mercato come l’attuale, che si vanta di aver superato le ideologie, sarebbe particolarmente vulnerabile

Nell’attuale crisi, solo alla minuscola Islanda è riuscito di non pagare il debito, ma ha dovuto ugualmente accettare dure misure di austerità che ne hanno rimesso in piedi l’economia. Prima dell’economia, però, il dilemma posto dalla Grecia è una questione di grandi scelte preliminari, di ideologia, appunto. Nell’«Edipo Re», una delle più importanti tragedie greche, rispondendo all’indovinello della Sfinge, Edipo diede il via ad avvenimenti terribili e luttuosi. Per questo, finché può, a Bruxelles si preferisce rinviare o rallentare, non rispondere agli indovinelli.


23.6.15

Intervista a Paolo Poli [Ndr: dedicato a tutti i giovani che nascono già vecchi]

Malcom Pagani per "il Fatto Quotidiano"

Privazioni: “Consumo un pasto al giorno, ormai ho uno stomachino”. Soprannomi: “Sa come chiamavano Visconti? Il mostro della Via Salaria”. Concessioni: “Niente caffè e niente frutta, bevo solo un liquorino”. Mezzogiorno è alle spalle e nel ristorante a pochi metri da Piazza Navona Paolo Poli lo chiamano maestro: “La gente mi vuol bene perché mi vede poco”.

Torme di turisti gli passano accanto senza far caso al papillon che stringe il collo ai suoi 86 anni: “Ho fatto un mestiere in cui travestendomi, dimenticavo la mia modesta esistenza borghese, ho lavorato sempre per conto mio, ho visto un’epoca bella e sono arrivato a un’età ragguardevole, cosa dovrei augurarmi ancora?”.

Da ieri, a 4 decenni dall’ultima volta: “Il programma era Babau 70, i democristiani non volevano uno sketch, i socialisti eccepivano su un altro e di veto in veto la trasmissione venne mandata in onda solo nel 1976” Poli è tornato in televisione. Su Rai 3, per otto settimane, con voluta citazione dell’amico Palazzeschi nel titolo:“E lasciatemi divertire” l’attore che diffida dei propri simili: “Sono terribili, non li frequento, ma faccio un’eccezione per il mio compagno di avventura Pino Strabioli che non ha i tipici difetti della categoria e non passa le giornate a parlar male degli altri” e non ama il narcisismo:

“Quando ero giovane e bella le foto non me le han fatte, escludo di mettermi in posa adesso” metterà in vetrina un viaggio tra vizi e virtù, peccati capitali e innocenti deviazioni biografiche. Moravia, Fellini, Maria Callas, Ave Ninchi, Sandra Mondaini, Laura Betti: “Laura diceva che Roma era una città di campagna”.

Aveva ragione?

A Pasqua si andava fuori porta a vedere i ciclamini. Eravamo poveri e si mangiava poco, ma quel poco ci bastava. Quanta fame ci ha tolto Mario Soldati.

Soldati sfamava lei e Betti?

Ci venne incontro in Via Condotti: “Povere piccoline, cosa fate in giro da sole?”, “siamo due orfanelle affamate”, “venite a casa mia”. Ci fece salire. Tirò fuori la pasta ed esplorò il frigorifero. Non c’era niente. Neanche un pomodoro. Mangiammo spaghetti al Whisky. Buonissimi. Mario, un grande artista, era innamorato pazzo di Alida Valli.

Una volta si nascose in un tappeto mentre Valli e Dino Risi ascoltavano un disco di Sinatra. Lo tradì la tosse: “Non so come sono finito qui dentro”.

Per descrivere la fantasia di Soldati basterebbero i suoi film. Piccolo mondo antico, Eugenia Grandet. Cose alte. Argute. Valli me la ricordo bene. Abitava qui dietro. La vedevo uscire vecchia, vecchia. Molto presto di mattina. Con la miseria di una pensione avara andava a comprare un po’ di pane.

È avara anche la sua?

Avarissima. Non c’è una lira, ma chi se ne frega. Tra una marchetta e l’altra qualcosa arriverà.

Poli non fa marchette.

Le facciamo tutti. Bisogna sopravvivere. Negli ultimi due anni ho recitato senza incassare un cazzo. Ho contattato un avvocato e provato a far valere le mie ragioni.

Risultato?

Alcuni comuni del sud mi hanno proposto di pagarmi un quarto di quanto avevano pattuito. Altri sono spariti.

In Aprile aveva annunciato il ritiro dalle scene.

Era un paradosso. È diventato titolo sensazionalistico. E si è infine trasformato in epitaffio. Di quei soldi non piglierò mai nulla. Per chi ti deve pagare, uno che si ritira è già bell’e morto. Ma non importa. Ho visto Giorgio Albertazzi partecipare a un talent. Mi ha fatto pena.

Lei a un talent show non parteciperebbe?

Esiste un limite. Comunque sono abituato a vivere in povertà. Ho visto una Guerra Mondiale. Ho vissuto nella miseria successiva al conflitto. Mi sta bene anche la miseria, purché mi permetta di rimanere signore. Un po’ di vino lo vuole?

Si è sentito signore a duettare con Strabioli in “E lasciatemi divertire”?

È stato un piacere, anche se i tempi, è ovvio, sono cambiati. Domina la fretta. Quando mi sembrava di aver fatto delle papere, chiedevo di ripetere la scena e mi sussurravano rassicuranti: “Ma no, non c’è problema, va benissimo”.

Buona la prima.

Sul set me lo diceva anche Alessandro Blasetti: “Buona la prima, ma la fica è meglio. Fammene un’altra”. Con lui girai un filmettino. Quando nelle pause raccontava la storia del comunista che si fa una sega e succhia il proprio sperma così mangia, beve e non spende, mi mandava via. Sapeva che ero comunista, ma ignorava che avessi l’orecchio lungo.

Storia tremenda.

Che le devo dire? Le maestranze ridevano senza ritegno. C’era un po’ di cameratismo. Blasetti diceva cose tremende, ma era antropologicamente interessante. Durante il regime si era potuto permettere qualsiasi libertà perché Mussolini lo adorava e gli lasciava fare quel che voleva.

Lei per il cinema ha lavorato poco.

Ero negata. Ma al cinema andavo sempre. Entrare in sala era una grande gioia. Quando alla cineteca di Bologna restaurarono La bellezza del diavolo di René Clair mi fiondai come mi fiondavo da ragazzo. Alla sede del fascio, dove non chiedevano il documento d’identità, avevo visto Clara Calamai con le poppe al vento e il culo stracciato proprio in un film di Blasetti.

Dopo il seno di Vittoria Carpi in La corona di ferro, Blasetti mostrò quello di Calamai ne La cena delle beffe.

Il film era un polpettone insostenibile, ma in America era piaciuto ai fratelli Barrymore.

Il cinema era un’occasione utile agli amori di contrabbando?

Ero bello, ero giovane, non avevo bisogno di espedienti. Però una volta in un cinemetto dei preti ho visto un signore con la chiusura lampo al contrario. Ce l’aveva sul buco del culo e in piedi, senza scomporsi, lo prendeva da dietro. Stratagemma geniale.

In certe epoche l’omosessualità era costretta al buio di una sala?

I miei amici finocchi si sposavano tutti. La famigliola ordinata. Le foto. I passeggini. L’utilitaria. Il televisore al centro del salone. Poi li incontravi in stazione in strani orari e in vesti più colorate. Vicino ai cessi. A Firenze il più famoso lo chiamavano latrin lover. Eravamo 6 fratelli, l’unico che ha trombato senza fare i figlioli sono io. Non me ne pento. Si morde e si fugge.

Lei da Firenze si trasferì a Roma.

Per fortuna. Laura Betti la incontrai presto. Sa la prima cosa che mi disse? “Sei una scema, una stupida e una cretina”. Mi parlava al femminile. Mi diede un frou frou che non so dirle.

Le piaceva?

Eravamo belle, giovani e magre. Una volta con Laura tirammo avanti per una settimana a Whisky e noccioline. Si andava dagli americani. Lei parlava in inglese e io in francese. Cercavamo di piacere in tutti i modi. Cantammo anche insieme. Avevo una parrucca bionda. Biondo Kessler perché tutto ciò che era biondo nell’immaginario rimandava solo alle gemelle.

Una parrucca bionda.

Buona per una donna di facili costumi come per un finocchio. Tingersi non era una nostra esclusiva prerogativa, anche se alla tintura io e Laura aggiungevamo una puntina di verde. Con il nostro preparato Milva esagerò. Uscì in scena a Bologna con la testa tutta verde. “Oh, rimani così per 3 o 4 giorni, cretina- le dissi- non ti andar subito a ricuocere di rosso”. Strehler le faceva tutte rosse. Tipo Rhonda Fleming. Maiale dalle dubbie capacità recitative, ma capaci di far sentire male gli uomini. Le rosse salivano sul palco e ai maschi diventava duro.

I ruoli definiti in certi spazi si confondevano. Al fondo Pasolini, Laura Betti dominava la scena apostrofando al femminile anche Emanuele Trevi: “Tu non esisti, zoccoletta”.

Trevi con Laura è stato schiava, io ero alla pari. A sua volta Laura era schiava di Pier Paolo. Ammirava Moravia per la sua cultura e lo chiamava “il ceppo”. L’altro ramo dell’albero era Pasolini. PPP era straordinario, ma non mi poteva soffrire. Dicevo sempre banalità e non sfioravo il genio di Moravia. Alberto non aveva studiato, ma sapeva tutte le lingue. Gli ebrei erano fenomeni di determinazione. Ho conosciuto Don Milani, non ha idea di che persona straordinaria fosse. Gente che le scarpe, scendendo dalla montagna, le indossava solo per entrare in città.

Chissà cosa avrebbe detto Don Milani della sua Santa Rita da Cascia interrotta dalla celere nella seconda metà dei 60 a Milano.

Erano i poliziotti di Scelba. Tutti piccoli. Meridionali. Poveri. Che a Valle Giulia fossero loro i disgraziati, ebbe il coraggio di dirlo solo Pasolini.

Gli anni a Milano furono importanti?

Tra il ’60 e il ’70 sono stato quasi sempre lì. Il mio vero amico vero era Missoni. Ottavio detto Tao e sua moglie Rosita. Si andava nelle bettole: “Ti ricordi quel verso?”. Si iniziava a cantare. Sembravamo fascisti.

E fascisti non eravate.

Ma in quell’epoca eravamo cresciuti. Mussolini non mi piaceva, ma nel ’35 la propaganda del regime la ascoltavo alla radio. Il sabato, a dito, si seguiva l’opera: “Mira o Norma à tuoi ginocchi”. Io chiedevo “Babbo, perché vuole ammazzare i suoi bambini?” e lui: “Perché li ha fatti con il nemico”.

Di romani e galli non sapevo nulla. Vogliamo Nizza e la Corsica si gridava. E loro, i cattivi francesi in coro: “Giamè, giamè, giamè”. “Jamais, Jamais, Jamais”. Il francese lo imparai poi con Victor Hugo. Les misérables. Il disegno in copertina. La figurina nera. Lessi come tutti, in un’edizione miserella, anche Pinocchio.

Lei sostiene che senza il peccato di Eva sarebbe stato noiosissimo anche l’Eden.

Ma certo. Senza peccato si muore di sbadigli e non accade niente. È cominciata così la storia. Prenda Pinocchio. Il peccato è foriero di ogni disgrazia, ma Collodi che era un genio, ha messo in ogni capitolo, in ogni puntata, uno spavento, un cattivone, un consiglio morale e una roba da ridere. Ci volevano tutti gli elementi. E lui lo sapeva. Come lo sapeva Comencini. Nel suo Pinocchio per la tv, per elevare il quadro, basta la presenza della volpe Ciccio Ingrassia. In quello di Benigni invece, nello stesso ruolo si ricorre all’accento milanese e alla comicità dei Fichi d’India. Lo scopo è far ridere. Il risultato diverso.

Benigni lei lo ha conosciuto bene.

È diventata tutta correttina. Forse è l’influenza della moglie. Lei ha un Papa in famiglia. Benigni è bravo, è artista, riesce a parlare dei Dieci Comandamenti e va a Sanremo a dire: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Io mi romperei i coglioni. Il più retorico tra i pezzi danteschi, tutto pieno di ossimori o ossimòri che dir si voglia. Una cosa che si recitava, per obbligo, ai tempi della scuola.

Benigni non le piace?

Era innamorato di mia sorella che non gliel’ha mai data. Lei aveva intorno bei giovanotti, sapeva scegliere. Amo Lucia. L’unica parente con cui sia in stretto contatto. È come fosse mia figlia. Una figlia di dodici anni.

Lei ha sempre detto che mantenere l’identità è fondamentale. Benigni non ci è riuscito?

Ma nasce in un campo. Nasce povero. Allora scopre all’improvviso il buffet e il controbuffet. La forchetta. Le buone maniere. La società. E perde l’equilibrio. Accadde anche a Mussolini con Angelica Balabanoff. A lavarsi i piedi e a suggerirgli il giusto contegno a tavola provvide lei. Per il resto che dire della Benigna? Uno che prende in braccio Berlinguer e tocca i coglioni a Pippo Baudo è diventato senza preavviso una maestrina di scuola media. E guardi che a quel topino di Berlinguer io volevo bene.

Anche Berlinguer ha avuto il suo ricordo cinematografico.

Lasci stare. Del cinema italiano di oggi non ho una gran considerazione. Youth, è vero, non è per niente male. Ha due grandi attori e le telefonate, alla nostra età, somigliano tutte ai discorsi che si fanno Caine e Keitel: “Oggi quanto hai pisciato? Due gocce?”. Per il resto non ho apprezzato per niente La grande bellezza e anche Garrone, adorato ne L’imbalsamatore, ha trasformato Basile fino a renderlo irriconoscibile. Sette re, 14 principesse e niente del divertimento che provai leggendo Lo cunto de li cunti. Si fa fatica a digerirlo. Sono abituato ad altre emozioni. Mia zia e mi madre mi portavano in sala. Quando Greta Garbo disse “dammi una sigaretta” una si pisciò addosso e l’altra si sentì male.

Alla sua analisi manca Nanni Moretti.

Mia madre non mi è piaciuto granché. È montato male. Non ci si affeziona ai personaggi. Invece di vedere una grande attrice come la Lazzarini, Moretti ci costringe a osservare il film della regista imbecille. Meglio l’effetto notte di Truffaut. Ed è un peccato. Moretti è mio nipote.

Perché è suo nipote?

Ero amico della madre, Agata Apicella. Agata veniva in questa piazza e mangiava all’altro ristorante. Preferiva la concorrenza. La chiamavo e lei faceva la frettolosa: “Ora non ti posso parlare, ho qui la signorina Silvia Nono”. Era strano chiamarla signorina. Con Nono, Moretti aveva fatto anche un bambino. Nanni comunque non c’era mai. Sfuggiva. Aveva paura. Tra lui e Monicelli preferivo Mario. Appena mi metteranno in clinica attaccato ai tubi, mi butterò dalla finestra anche io.

Con Monicelli eravate amici?

Si andava a mangiare insieme. Mario non metteva il sale, guardava alla bottiglia di minerale come fosse droga, ma stava bene. Trombava. Aveva ancora due belle gotine rosse. Negli ultimi anni a lui e alla mia adorata Palazzeschi, si erano avvicinati i preti. Insegnavano loro a morire secondo religione. Non c’è nulla da fare. A una certà età ci acchiappan tutti. C’è la preparation.

I suoi amici sono tutti vecchi.

Quando va bene. Non ho mai convissuto a lungo e quindi affetti a cui badare non ne ho. Ho avuto per qualche tempo un rappresentante di fiori olandesi che non c’era mai e quindi andava benissimo. Facevo la birichina in giro con Filippo Crivelli, che ora si trascina con le mazze. Mi viene a vedere in teatro, dorme per tutto lo spettacolo e poi mi dice “Bravo Paolo, molto bello”. È tutto un claudicare di bastoni, un tintinnar di dentiere.

Proprio qui venivo a mangiare con Natalia Ginzburg e Bassani. Prima di sedersi, Giorgio estraeva il ferro dalla bocca e lo poggiava incurante sul tavolo. Poi certo, subentra anche la noia. L’altra sera ho mangiato con Vittorio Sermonti. Ci siamo fatti entrambi due coglioni così, però che cultura. Che parlare. Ai nostri tempi si studiava davvero. Il San Tommaso, la Divina Commedia, tutto Aristotele. Almeno.

In “E lasciatemi divertire” passano anche Carmelo Bene e De Sica.

De Sica aveva come cognato Checco Rissone, il fratello della moglie, detto caccola. Era alto 20 centimetri, ma come tutti i nani aveva la terza gamba. Carmelo Bene l’ho visto spesso. Da giovane era bravissimo, straordinario. Con il tempo si ammalò. Non stava più ritto in scena perché prima dello spettacolo beveva una bottiglia di Whisky. L’ultimo Pinocchio era bruttino. Lui biascicava.

Del grande autodidatta, Alberto Sordi, che ricordo ha?

Odiosa persona. Omofobo. Dava la mano molle e guardava dall’altra parte. Bravo con Fellini, ma aveva già più di trent’anni perché Sordi, è utile dirlo, giovane non è mai stato. Trombava Andreina Pagnani che lui chiamava, non a caso, la vecchia. Lo conobbi a casa di Monica Vitti. C’era un compleanno. Io ero povero, ma mi sforzai e acquistai una testa di bambola della Lenci. Lui portò I maestri del colore comprato in edicola.

I soldi li ha chi se li sa tenere.

Un tempo quando incassavo bene, reimpiegavo il denaro nella mia attività. La prima volta che incassai 10 milioni nel ‘60 con il Carosello Campari comprai 13 proiettori e un tappeto per coprire le assi del palco. All’epoca si passava dal Regio di Parma alla sala Umberto dove Petrolini recitava dietro a un fondale con un finto Colosseo disegnato da Mario Pompei, uno strepitoso scenografo che come nuora aveva Paola Pallottino. La donna che scrisse 4/3/43, la prima canzone di successo dell’orribile pelato.

L’orribile pelato sarebbe Lucio Dalla?

In senso estetico. Ottimo cantante, ma per lasciare qualcosa al suo ragazzo, avrebbe dovuto scrivere tutto nero su bianco prima di andarsene. Non si può prevedere di campare. Io a nipoti e pronipoti, quel che dovevo lasciare, l’ho bell’e lasciato a suo tempo. Ho sempre avuto senso di responsabilità. Mio padre mi lasciava scegliere il nome dei miei fratelli. Sapeva di avere in casa una piccola artista e già mi diceva: “Di che colore dipingiamo la facciata?” “Rosa”. Avevo un villino in periferia con la facciata rosa e le stanze celesti. Rosa e celeste. I colori della madonna.

Rimaniamo in tema. Bergoglio la affascina?

Chi se ne frega di Bergoglio. Se io sono Biancaneve, Il Papa deve essere una strega. Altrimenti a che serve? Un grande Papa era Luciani. Lo avevo conosciuto bene a Venezia. “Dio non ha sesso” diceva. Pensi quanto era intelligente. Han fatto presto infatti a toglierselo dai piedi.

Ha mai avuto paura di qualcosa, Poli?

Fino ai 22 anni, del sesso. Ho avuto tutto quello che ho voluto, uomini e donne. Ma fino ad allora, legavo il sesso a un’impressione orrenda. A spavento e violenza. Durante la guerra, i tedeschi avevano trombato la mia mamma in tre. Volevo sapere. Capire. “Eh Paolo, via. Ci si lava e bell’ e finito tutto”. La mia mamma era montessoriana, non aveva paura di nulla. Da piccolo mi dava rudimenti in tema: “Paolo, quando nascono, i bambini sul sesso hanno tre cicciolini. Il maschio ha il pisello e due fagioli. La ragazza ha le labbra della vulva e il buco nel mezzo, il clitoride, dove la donna sente il solletico”.

Quanto l’hanno segnata i ricordi della guerra?

Mi ricordo la liberazione. C’era voglia di calore. Le donne si calavano dalle finestre che sotto ci fossero repubblicani o repubblichini. Io ero tappato in casa. “Non andar più a prendere cioccolato e sigarette dagli americani- mi dicevano-ché altrimenti le tue sorelle non si sposano più”. Chi era andata con i tedeschi veniva rasata, ma chi aveva ceduto agli americani rimaneva comunque maiala. Avevamo i buchi sulle pareti e un’ora di riscaldamento al giorno. Avevamo poco. Ma ero bella e piacevo lo stesso. Le altre non so.

Paolo Poli si sente cattivo?

Piango, rido e parlo come tutti, non son mica un mostro. Dite che ho detto male di qualcuno? Che cattive, che maligne, che stupide che siete.

19.6.15

Perché dobbiamo stare attenti ai doni digitali (e al business della pubblicità)

di Luciano Floridi [Professor of Philosophy and Ethics of Information at the University of Oxford, where he is the Director of Research of the Oxford Internet Institute]
(chefuturo.it)

Natale, e vostra zia ha fatto a maglia per voi una sciarpa. E’ bella, utile, e ne avevate bisogno. Infatti le volete bene. Avvertite che lei si preoccupa per voi e capisce i vostri desideri e le siete molto grato per un dono così premuroso. Sembra che tutti siano felici. Come ci può essere qualcosa di sbagliato in un tale scenario win-win?
Questa è la stessa domanda retorica posta da molti difensori dei servizi online gratuiti. La risposta dovrebbe essere più forte di un semplice “non c’è niente di sbagliato”. Si suppone che sia molto più positiva, in termini di “va tutto benissimo!”. In effetti, la nuova domanda retorica diventa “che cosa c’è di sbagliato con te, guastafeste?”.
Perché i regali digitali da parte di Baidu, Expedia, Facebook, Flickr (Yahoo!), Google, Instagram (Facebook), LinkedIn, Microsoft, Tencent, TripAdvisor, Tumblr (Yahoo!), Twitter, Yahoo !, YouTube (Google), WhatsApp ( Facebook) e di tutte le altre migliaia di zie digitali che ci ritroviamo online fanno si che noi che li riceviamo siamo parte della società dell’informazione, viviamo dal lato buono del digital divide, godiamo tutti i frutti sorprendenti dei nostri sviluppi tecnologici. E tutto questo gratuitamente.
I doni digitali ci fanno sentire ogni giorno come fosse Natale
cavallo-troia
Fine della storia? Non proprio. Se ci si pensa su più attentamente e criticamente ci si rende conto di quanto il famoso motto latino “timeo Danaos et dona ferentes” possa essere ancora attuale. Letteralmente significa “Temo i greci anche quando portano doni”. E’ una frase che Virgilio fa pronunciare nell’Eneide al sacerdote troiano Laocoonte, nel suo tentativo di mettere in guardia i troiani a non accettare il famoso cavallo di legno lasciato dai Greci come un dono apparente. Lo sappiamo bene come va a finire. Eppure, sembriamo essere caduti nella stessa trappola. Lasciatemi spiegare.

LE 3 CARATTERISTICHE DEI DONI DIGITALI

I doni digitali che stiamo ricevendo hanno tre caratteristiche che dovrebbero farci riflettere due volte prima di accettarli con gratitudine. Ho già menzionato il primo: effettivamente ci permettono di fare e godere di innumerevoli cose, molto più di una semplice sciarpa. E’ difficile immaginare che cosa sarebbe la nostra vita quotidiana senza di loro per chiunque sia così abituato a contare su di loro in maniera cosi regolare e diffusa. Questo è il motivo per cui funzionano, quando lo fanno: diventano una parte essenziale della nostra esperienza “onlife”. Tuttavia, come i regali, sono anche disenfranchising in un senso molto importante.
I servizi digitali come i regali non necessitano né di giustificazione né di legittimazione, tra cui la più antica forma di legittimazione, cioè la proprietà, ora sostituita da un uso autorizzato.
Quando utilizza un regalo digitale, Alice non è né una cliente né una cittadina: è soltanto una utente
Alice puo accettare o rifiutare, o magari mettere via un regalo, ma non ha alcun diritto di lamentarsene, perché non ha mai votato o pagato per esso. Non vi è alcun contratto, sia esso sociale o legale, ma solo termini di servizio che Alice deve accettare di rispettare per poter usufruire del “dono”. Se non le piace la sciarpa può sempre smettere di usarla; sarebbe assurdo se dovesse intraprendere un’azione legale contro la zia per la scarsa qualità della lana, la lunghezza imbarazzante, i colori orribili, o, sempre a proposito di colori, il fatto che siano come quelli di una squadra di calcio, che identificheranno Alice quale tifosa.
La zia sarebbe sinceramente stupita e sgomenta per la sua ingratitudine.
E’ un dono, e i doni, al contrario dei beni e dei servizi pagati (magari attraverso le tasse) e acquistati, hanno una particolarità: cancellano di fatto il diritto di lamentarsi o di scegliere.

IL MONOPOLIO DEI DONI

Se i doni digitali sono inutili o sgraditi, il mercato si prenderà cura di loro e magari ne seguiranno altri di migliori. Se sono utili, possono diventare essenziali, e generare sia dipendenza sia fedeltà, anche se la mancanza di ogni possibile reciprocità può trasformare la gratitudine nel risentimento per una dipendenza disuguale, e, quindi, per “avvelenare” i doni, quando i donatari si rivoltano violentemente contro i donatori (si pensi a quanto velocemente Google sia passato dall’essere amico a nemico).
Tutto ciò spiega anche il motivo per cui le nostre zie digitali sono determinate a creare monopoli. Il mercato della ricerca online (search) in Europa, interamente dominato da Google, è tipico. Quando fa freddo è l’unica sciarpa che Alice può portare, quindi è difficile che lei non sia felice e grato per questo.
I servizi online gratuiti, come i doni, sono quindi capaci defranchisizzare chi li riceve. Hanno inoltre la capacità di depotenziare chi produce e vende (a qualsiasi prezzo) prodotti alternativi, lasciando così la concorrenza fuori dal mercato.
Questa è la terza caratteristica importante che vorrei sottolineare. La zia di Alice e la sua capacità di lavoro a maglia minano il negozio che avrebbe venduto la sciarpa di cui Alice aveva bisogno. Regalando ad Alice una sciarpa gratuita, la zia toglie potere a un altro business. E a questo cambiamento di “business” segue un cambiamento di potere.
La zia è ora la fonte gratuita alla quale Alice ritorna, quella dalla quale dipende, forse per avere una nuova sciarpa e un cappello abbinato per il prossimo Natale. Dare via un servizio o un bene gratuitamente significa depotenziare qualsiasi altro agente la cui attività si basa sulla vendita di tale servizio o bene.
Questo spiega perché le nostre zie digitali tendono a rendere qualsiasi tipo di informazione gratuita.

LA MERCIFICAZIONE DEI NOSTRI DATI E DELLE NOSTRE SCELTE

La produzione e il controllo delle informazioni è stato il vecchio modello di business della società dei mass-media nonché fonte del potere di influenzare ogni nostra scelta. Nelle società dell’informazione mature, le informazioni sono diventate merce vendibile ma indifferenziata (cose vendibili in modo generico, dove i clienti percepiscono poca o nessuna differenza di valore tra le marche o le versioni), in particolare attraverso una maggiore concorrenza.
Tale mercificazione finisce per diminuire i prezzi fino a diventare economicamente più redditizio produrre e offrire informazioni gratuitamente in cambio di dati personali, basandosi su un modello di business fondato sulla pubblicità. Questa mercificazione assegna valore economico a cose non precedentemente considerate in termini economici (come i dati sul potere d’acquisto degli individui, i modelli e le preferenze ) che li schematizza dinamicamente in domanda-offerta e prezzo-valore.
Un importante effetto collaterale è che questo crea un circolo vizioso in cui il bisogno crescente di differenziare i prodotti alimenta ulteriormente lo stesso meccanismo che tende a mercificarli.
Tanto più il business digitale cannibalizza il business analogico quanto più il business analogico deve digitalizzarsi per assicurarsi che non sia del tutto cannibalizzato, aumentando le risorse spese per la pubblicità, ovvero, promuovendo campagne informative che cercano di resistere alla mercificazione dei prodotti pubblicizzati.
In termini metaforici, l’analogico è come un cavaliere o un re medievale che è costantemente catturato da un nemico digitale cui deve pagare un riscatto per essere liberato, fino quando non sarà catturato di nuovo.
Il digitale non riesce a credere a tanta fortuna. In questo processo, le aziende digitali possono alimentare ulteriormente la strategia della defranchisizzazione nei confronti dei loro utenti – beni dati come omaggio – depotenziando coloro che detenevano il potere nelle società di massa-media basandosi sulla produzione di informazioni piuttosto che sulla sua mediazione, gestione, ricerca, riconfezionamento, condivisione libera, e così via.
Apple ha indebolito l’industria della musica, Amazon quella della stampa, Google quella delle notizie, TripAdvisor e Expedia quella del settore dei viaggi, e così via.
Come si vede, ogni interpretazione manichea che vedrebbe i buoni contrapporsi ai cattivi è del tutto ingenua. I vecchi baroni analogici vengono sostituiti dai nuovi baroni digitali. Le forze del bene, come le biblioteche pubbliche e la professione di giornalista – che è emersa come conseguenza della rivoluzione della stampa – sembrano più danni collaterali. Sono nate come un modo di affrontare il rischio di monopolio sulla produzione di informazioni. Oggi che l’informazione è così mercificata, sono diventate soluzioni in cerca di un problema.

I QUASI REGALI

Non tutte le zie digitali sostituiscono una specifica attività e potere precedente dalla vecchia società dei mass-media. Alcuni casi sono border line: pensate alla politica di Amazon con la vendita sotto costo dei lettori Kindle. Quanto più essi sono sovvenzionati tanto più somigliano a dei regali per i loro clienti. Altri casi, come Facebook, sembrano aver individuato nuove fonti di mercificazione: in sostanza il gossip, la socializzazione e la comunicazione online. Altri ancora stanno entrando nel mercato dei doni in cambio dei dati personali, pensate ai servizi associati per l’Apple Watch.
In tutti questi casi, quando le zie digitali si scontrano con modelli di business precedenti, hanno il forte vantaggio di essere gratis. E’ inutile opporgli resistenza.
In alcune società, le economie del dono sono modi complessi e finemente sintonizzati di organizzare scambi disciplinati da norme sociali in cui gli oggetti di valore non sono venduti per denaro o barattati con qualche altra merce, ma vengono offerti senza un consenso esplicito per i premi immediati o futuri. Attraverso lo sfruttamento magistrale della logica dei “mercati a due lati” (two-sided markets, nei quali due gruppi di utenti diversi, che forniscono l’un l’altro con i benefici di rete, sono abilitati ad interagire da una piattaforma) la Silicon Valley ha traformato l’economia del dono in una strategia business di competizione.
Ho appena evidenziato tre caratteristiche principali di questa nuova “economia del dono digitale”. L’intero meccanismo è basato su due variabili. Uno è l’assenza di una vera concorrenza locale: c’è un solo Amazon, un solo eBay, un solo Facebook, un solo Google e così via. Per loro natura, i mercati a due lati tendono ad essere dominati da una piattaforma. La seconda variabile e’ la disponibilità di un’immensa risorsa rinnovabile, vale a dire la quantità di denaro spesa ogni anno in pubblicità in tutto il mondo. Secondo un recente rapporto di eMarketer, “la spesa pubblicitaria dei media a pagamento in tutto il mondo salirà del 5,9%, raggiungendo 577,79 miliardi di dollari nel 2015. La spesa per il digitale costituirà quasi il 30% del totale, mentre le spese pubblicitarie su dispositivi mobili stanno guidando la crescita a quota 11,9%”.

IL VENTUNESIMO PAESE DEL MONDO: LA PUBBLICITA’

Secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, se questo fosse il PIL nominale di un Paese, nel 2014 la pubblicità sarebbe stato il ventunesimo Paese del mondo, davanti alla Svezia (570.137 milioni di dollari). Circa Il 30% di questa somma è il riscatto che l’analogico paga per il digitale. La mancanza di concorrenza e l’aumentare della spesa pubblicitaria sono entrambi in gran parte auto-regolati e il mercato si prende cura sia del mercato analogico sia di quello digitale. Questo è anche parte della natura di defranchisizzazione dei servizi online gratuiti: i controllori controllano se stessi in un circuito chiuso di interazioni a cui le Alice di tutto il mondo sono invitate come semplici utenti, che non possono più permettersi di non accettare i doni offerti ed essere lasciate fuori dall’infosfera.
Il costo di questo meccanismo macroscopico è duplice
Da una parte, vi è una pressione crescente per acquisire ed elaborare sempre più dati personali, che sono l’unica cosa che il settore online vende a chi vuole pubblicizzare i propri prodotti e servizi. Un mercato di quasi 600 miliardi di dollari in annunci disponibili ogni anno, che vanno a erodere continuamente la nostra privacy. D’altra parte, vi è una crescente escalation dei budget pubblicitari. Questo porta ad una allocazione inefficiente e distorta di risorse, dove i pochi vincitori si spartiscono tutta la torta.

DIMINUISCE LA PRIVACY, AMUENTANO LE DISEGUAGUAGLIANZE

In breve, il risultato è meno privacy e più disuguaglianza, due dei più gravi problemi delle società dell’informazione mature, che ora si ritrovano ad essere connessi come due rami lontani tra loro ma appartenenti dello stesso albero.
Non esiste una soluzione semplice, ma le istituzioni socio-politiche potrebbero fare molto per migliorare la situazione, attraverso la promozione di una maggiore concorrenza, una migliore fiscalità e regolando più strettamente il settore della pubblicità, forse seguendo alcune delle lezioni apprese dai limiti imposti alla industria del tabacco. Non ultimo, affrontare il problema di quanti soldi possono essere sprecati in questa nuova corsa agli armamenti (immaginate per un momento come sarebbe la nostra vita se le pubblicità a pagamento fossero illegali).
Finché sarà razionale offrire doni in cambio di ricavi pubblicitari e sempre meno privacy non possiamo aspettarci molti miglioramenti in futuro.

7.6.15

Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti

Piero Ostellino (Il Giornale)

Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre.

La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia.

Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle.

La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.

La bufala dei padrini de Trastevere

 Giuliano Ferrara  (Il Foglio)

Si rubacchia, a Roma. Una retata via l’altra, si  scopre che si rubacchia. I grandi lavori sfuggono alla presa degli amici di Carminati e di Buzzi, come testimonia l’amministratore Zingaretti sul Corriere. Ma stavolta, al posto della raccolta delle foglie, c’è l’assunzione di un facchino all’Università RomaTre, per il resto appartamentini a Settecamini, che è un po’ diverso dal sacco di Palermo, appalti modesti, importi modesti in relazione alla media nazionale e internazionale, soprattutto se si pensi alla finanza, alle grandi opere, a certe banche, alla Fifa. Ma è mafia, mafia romana.

Sennò come fa il martiniano sindaco Marino, uno che non sa fare il suo mestiere come dovrebbe ma la spara grossa lambiccandosi la coscienza cattolico-progressista, a dire con sconcertante sicurezza da sbirro della Regina, da funzionario del peggiore Borbone, che i ladri vanno messi in galera (d’accordo) e poi “bisogna buttare via la chiave”? Non sarà che questo amministratore sfortunato, già miracolo della chirurgia a favore di telecamere, uno che a Pittsburg e a Palermo, dove ha lavorato come “eccellenza” mediatico-medica, non ce lo vogliono indietro nemmeno gratis, ha qualche problemino di coscienza e di memoria?

Che squallore emani dal romanzo criminale redatto da pm, giornalisti e origliatori professionali, dalla pigrizia delle paginate alla Francis Ford Coppola dedicate ai padrini de Trastevere, all’onorata società dei cravattari, alla cosa nostra che munge placida la vacca, lo si capisce senza difficoltà. Basta essere romani. Basta essere romani per capire la quantità di fregnacce iperboliche consegnate agli annali del grande crimine in un romanesco che dice tutto, dice molto più dei contenuti racchi delle indagini.

Non lo sono (romani) il procuratore capo da-tutti-stimato-e-riverito che annunciò elegantemente l’inchiesta imminente a un convegno del Pd, non lo è il giudice già operativo in Caltanissetta che ci querela perché le nostre critiche solitarie sono per lui uno scandalo, non lo è il pur bravo Ielo, spaesato da quando lasciò San Vittore per Regina Coeli, non lo è il fiorentino sindacalista militante dell’Anm.

Fossero romani capirebbero il senso delle intercettazioni che hanno ordinato e in base alle quali hanno squassato la Capitale e vorrebbero impressionare la Repubblica, procurandoci articolesse censorie perfino del New York Times (che dovrebbe dedicarsi di più alla mafia democratica dello stato di New York, prospera e potente a stare alle notizie recenti).

Vada per il giornalone ammerikano, ma su Repubblica le cronache di ordinaria corruzione trasformate da Carlo Bonini in romanzetto de borgata mafiosa e il commento di Francesco Merlo, che invoca leggi speciali e prigionia di stato per la città di Roma, veramente stupiscono perfino uno smagato e delinquenziale come me. Repubblica dice, per esempio,  che la ‘ndrangheta ha votato compatta per Alemanno. L’ex sindaco, poverino, non era né particolarmente brillante né particolarmente trasparente, ma quanti voti ha a Roma la ‘ndrangheta?

Non sanno o non capiscono che da sempre – me ne ricordo a Torino di riunioni del Pci per le comunali con i circoli della famiglia calabrese o del popolo pugliese immigrato – è in uso cercare voti anche nei gruppi organizzati di corregionali del sud insediati nelle città del centro nord; non tutti saranno puliti, c’è lobbismo e malizia e tanto folklore, ma non è precisamente mafia, non è la ghenga dei Pesce, non siamo a Gioia Tauro.

Merlo, che è pieno di talento, s’inventa una genialata, il keynesismo criminale. Ben detto. Avevamo suggerito che questi non sono crimini di mafia, sono i delitti dell’assistenzialismo, e che sono molto diffusi e che si tratta di associazioni benemerite e santi laici, più gente ci sta più bestie ce n’entra, tutta roba battezzata dalla mejo sinistra solidarista, tutta roba che piace immensamente alla chiesa della tenerezza e dell’accoglienza, ex carcerati in testa al vertice delle cooperative.

Ma al mago di Bloomsbury non ci eravamo arrivati, forse volevamo risparmiargli le conseguenze di tanto deliquio. E’ la spesa pubblica, bellezza, e non puoi farci niente. E’ keynesiana, forse, l’idea di chiedere un euro a immigrato, la storia che per mungerla la vacca la devi nutrire, se vuoi l’appalto del verde a Ostia poi devi fare il giardino, se vuoi fare business cooperativo sugli immigrati non li puoi far morire di stenti e di freddo.

Questo dicono quei cazzoni della corruttela romanesca, bulli della mazzetta che dovrebbero potersi difendere in un normale processo (loro pensavano, come dicono al telefono, di finire in caso tre mesi a Regina Coeli “a fumare”, che è una vacanziella, invece marciscono a Badu ‘e Carros con l’accusa non già di corruzione, che gli spetta, ma di unzione mafiosa, che è una boiata pazzesca, un instrumentum regni della peggiore ideologia manettara).

Non sto qui a ridire quello che ho già detto e confermo. No armi, no famiglie, no patti di sangue, no vittime sul selciato, no grandi progetti come la raffineria della droga o la ristrutturazione edilizia di un centro urbano importante, bazzecole, quisquiglie e pinzillacchere, naturalmente giudicate sulla scala generale della corruzione, che altrove è affare anche molto più serio.

Non dico che Roma è innocente, l’innocenza non sanno nemmeno da che parte stia, certi funzionari, certi eletti dei vari consigli, sono marrazzoni e ominicchi di una storia che di tutto sa, e certo non di olezzi primaverili, ma non del puzzo noto della cosca mafiosa. Non sto neanche a riperticare le intercettazioni, non mi piace questo tipo di pornografia (ho visto che la corsa senza fine del guardonismo assassino porta il cronista anche a entrare nella stanza d’albergo in cui Maroni si incontra con il suo “splendore”, ma che vaccata).

Se volete, le spiate via nastro ve le andate a cercare sugli organi delle procure. Ne troverete a bizzeffe, comprese tutte le millanterie evidenti, tutto lo spirito oratoriale, parrocchiale e da cortile carcerario con cui, fra una battuta sessista e una imprecazione vernacolare e una rivendicazione di finta potenza, si dipana una storia tristissima e minore spacciata per grande scandalo nazionale degli ultimi giorni di Pompei.

A vantaggio dei bru bru che al nord, dove si ruba sul serio, e nei meandri dell’antipolitica, dove non si fa nulla e si invoca la trasparenza a schiovere, aspettano nuove retate di voti sulla scia delle solite inchieste giudiziario-mediatiche romanzate. Sono proposte (di voto di scambio) che la società civile non può rifiutare, direbbe Marlon Brando.

4.6.15

L’Italia dei migranti è un patrimonio di 5 milioni di persone

La fotografia di Caritas e Migrantes: non solo un problema, ma una risorsa pari all’8,8%del Pil



Stefano Rizzato (La Stampa)

«E’ il cittadino che risiede nel nostro Paese da 30 anni, che attende la cittadinanza italiana o che l’ha già. È il ragazzo nato da cittadini immigrati e che viene chiamato straniero. Sono le coppie miste. Sono i migranti ricongiunti. I lavoratori sfruttati nei campi agricoli. Le donne sottopagate che curano i nostri anziani, i nostri bambini e le nostre case». È questo l’immigrazione in Italia, secondo il cardinale Francesco Montenegro, neo-presidente di Caritas italia. Non solo un problema da risolvere, ma una risorsa e una realtà già viva e consolidata. Un patrimonio fatto ormai di oltre 5 milioni di persone, distribuite in tutto il Paese, come emerge dal 24esimo Rapporto Immigrazione stilato da Caritas e Migrantes.

La Caritas: “No al muro tra noi e loro”
«Sono sceso dalla barca dei migranti per salire su quella della carità», ha detto il cardinal Montenegro, che ha visto da vicino anche i drammi del mare, da arcivescovo di Agrigento e “prete di Lampedusa”, come viene chiamato. «Non nego i problemi - prosegue - e L’Italia probabilmente non ha una sua ricetta per l’immigrazione. Ma le diverse regioni e città italiane hanno mostrato che la convivenza serena e pacifica è possibile. La storia non può e non deve rifare gli stessi errori. Siamo nell’era della globalizzazione e dell’immigrazione, ma ancora ci sono momenti in cui alziamo il muro del “noi e loro” e bisogna ricominciare da capo».



L’era delle migrazioni
Che sia davvero l’epoca dei migranti lo confermano anche i numeri dell’Onu, inclusi nel rapporto di Caritas e Migrantes. Nel mondo sono ormai 232 milioni, al 2013, le persone che vivono in un Paese diverso da quello d’origine. Nel 1990 erano 154 milioni. Sono soprattutto l’Europa e l’Asia ad ospitare i migranti, insieme con il 62 per cento del totale internazionale, seguite dal Nord America col 23 per cento. Gli 11 Paesi con il numero più alto di migranti mettono insieme il 54 per cento del totale: una lista che al primo posto - per distacco - ha gli Stati Uniti e all’ultimo proprio l’Italia.


In crescita i richiedenti asilo
Il numero ufficiale dei migranti registrati in Italia nel 2014 è di 4,9 milioni di persone. Ma la cifra è già cresciuta e secondo le stime Istat è arrivata a 5 milioni e 73 mila: l’8,3 per cento della popolazione. Un mondo fatto di lavoratori, che contribuiscono al PIL italiano - come mostra il rapporto - per 123 miliardi di euro, quindi circa l’8,8 per cento del totale. Nell’analisi delle richieste di permesso di soggiorno, restano largamente prevalenti i motivi di lavoro e di famiglia. Ma al terzo posto non ci sono più le ragioni di studio, ma le richieste di asilo e protezione umanitaria, che rappresentano il 4,8 per cento dei permessi di soggiorno.

Il rapporto, in sintesi, con le schede regionali