28.11.08

Giorno per giorno ascoltando la musica dei miti

Enrico Comba

I cento anni compiuti da Claude Lévi-Strauss rappresentano lo straordinario traguardo di una delle figure più rappresentative della cultura europea del Novecento, ma costituiscono anche un singolare paradosso: il paradosso di uno studioso che rischia di sopravvivere alla sua stessa fama. Oggi è considerato un autore difficile, intricato, ma soprattutto superato dalle mode culturali, che hanno decretato l'oblio dello strutturalismo, visto ormai da molti come eredità di un'epoca tramontata. Eppure Lévi-Strauss è l'autore di un'opera come Tristi Tropici, un libro di riflessioni sulla ricerca etnografica e sull'incontro fra culture diverse, che ha emozionato intere generazioni di lettori e ha contribuito a forgiare numerose carriere di giovani antropologi. La motivazione di questa scarsa presa sul pubblico contemporaneo va probabilmente cercata nel fatto che l'antropologia è cambiata profondamente nell'arco di tempo che va dalla metà del Novecento ad oggi. L'antropologia al momento attuale vanta migliaia di professionisti, distribuiti in ogni nazione del mondo, la maggior parte dei quali ha spostato i propri interessi di studio e di ricerca dalle popolazioni indigene dei continenti extra-europei, che costituirono il principale polo di attrazione delle ricerche nella prima metà del Novecento, a temi più legati alle società contemporanee: le migrazioni, la globalizzazione, le trasformazioni socio-economiche, i conflitti e le negoziazioni del potere, le politiche identitarie. Problemi, certo, di rilevante interesse, che aiutano a comprendere il mondo in cui viviamo e le sue dinamiche, ma che hanno anche avuto l'effetto di creare un gergo a volte poco comprensibile per i non specialisti, e soprattutto di confinare ai margini del discorso antropologico la realtà dei popoli indigeni.
Questi piccoli gruppi umani, che ancora sopravvivono in alcune regioni del mondo, tentando disperatamente di difendere il proprio diritto a essere diversi e a non farsi inglobare e travolgere dai processi di modernizzazione, sono stati relegati ai margini dagli stessi antropologi contemporanei, un po' come i Guaranì nel bellissimo film La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, accampati sul bordo di una strada.
E tuttavia proprio queste sono le culture di cui Lévi-Strauss ha sempre rivendicato il ruolo cruciale per lo sviluppo di un sapere antropologico e all'analisi delle quali ha dedicato i suoi principali sforzi di studioso e di teorico.
Una umanità sconosciuta
La sua monumentale opera sulle mitologie dei popoli indigeni americani, i quattro volumi delle Mitologiche, più altre opere uscite successivamente, può scoraggiare il lettore non specialista per la quantità di pagine e per il percorso intricato che l'autore compie, analizzando centinaia di racconti mitici diversi. Da questi lavori, però, emergono due aspetti rilevanti. Innanzitutto, la dignità intellettuale delle creazioni mitiche dei popoli americani, che viene così posta sullo stesso piano delle grandi produzioni intellettuali del mondo antico o delle civiltà orientali. In secondo luogo, la passione dell'autore per questo mondo apparentemente lontano e inconsueto, a cui egli ha dedicato i suoi ultimi cinquant'anni di lavoro, immergendosi giorno per giorno in un universo di storie e di avventure fantastiche, assaporando la «musica che è nei miti».
Nei suoi primi lavori sulla mitologia, Lévi-Strauss ha posto l'accento soprattutto sul metodo strutturale: le sue analisi, egli afferma, ci fanno scorgere come dietro all'apparente varietà e confusione dei racconti più disparati si celano meccanismi rigorosi di trasformazione, che ci permettono di vedere nei miti un processo grazie al quale è possibile passare da una versione all'altra, applicando un certo numero di operazioni logiche. Diversi critici hanno appuntato le proprie osservazioni sull'aspetto eccessivamente astratto dell'opera, che non si preoccupa tanto dei miti e del loro contenuto, quanto di mettere in luce una serie di meccanismi generali del pensiero umano. È un'accusa in parte fondata, ma che trascura il fatto che se si leggono i volumi mitologici dell'autore, e non solo l'introduzione metodologica, ci si trova immersi e affascinati dalle storie sul giaguaro signore del fuoco, o sull'origine dei maiali selvatici e del tabacco, dal ruolo del fuoco come intermediario tra uomo e animale così come tra cielo e terra, tra il sole e la luna.
Si scopre allora che i miti ci dicono in realtà molte cose, ci fanno scoprire un'umanità sconosciuta che è al tempo stesso molto lontana e molto vicina a noi, un'umanità che non avremmo mai conosciuto se autori come Lévi-Strauss non ci avessero accompagnato alla sua scoperta, suscitando la nostra ammirazione.
Non si può non restare impressionati nel leggere il testo della prima lezione tenuta dall'antropologo francese al Collège de France, nel 1960, davanti a un pubblico composto dal fior fiore dell'intellettualità parigina (opportunamente riproposto in questi giorni da Einaudi, con il titolo Elogio dell'antropologia). Dopo avere presentato il contenuto essenziale degli studi antropologici, Lévi-Strauss richiama l'attenzione degli ascoltatori sui lontani popoli indigeni che, a migliaia di chilometri, conducono la loro vita lottando quotidianamente per la propria sopravvivenza, fisica e culturale.
Questi piccoli popoli, sparsi per il mondo e minacciati continuamente dalle forze devastanti della modernizzazione, sono i detentori di un «povero sapere» che costituisce tuttavia l'essenza dell'antropologia. Nel momento stesso in cui Lévi-Strauss consacra la propria carriera entrando a far parte di una delle più prestigiose istituzioni accademiche del suo paese, si presenta al pubblico non tanto come un interprete delle culture umane o un esploratore dei processi mentali, quanto piuttosto come l'«allievo e il testimone» di lontani popoli sperduti, nei confronti dei quali dichiara apertamente di aver contratto un debito di riconoscenza inestinguibile.
Celebrando il «secolo di Lévi-Strauss» dovremmo quindi accogliere il monito del grande studioso a non farsi trascinare dalle trappole della modernizzazione, a guardare con occhio critico e disincantato al lato oscuro della globalizzazione, che cancella le forme più deboli e più radicali di diversità culturale, e a prestare ascolto a quegli sparuti popoli indigeni, che hanno attirato l'interesse e l'ammirazione del grande antropologo francese e dai quali possiamo ancora apprendere il significato più profondo dell'espressione «essere umano».

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Il secolo di Lévi-Strauss - Il suo strutturalismo salva l'antropologia

Oggi compie cent'anni il più grande antropologo vivente, «allievo e testimone» di lontani popoli sperduti. Si è battuto perché l'antropologia ottenesse uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia
Francesco Remotti

Che lo si voglia o no, le celebrazioni di Lévi-Strauss che in questi giorni fioriscono sui mezzi di comunicazione, finiscono con l'essere un tentativo di valutazione di un'eredità: al di là della sua «inattualità» e della sua solitudine, che cosa è vivo del lavoro di Lévi-Strauss, che cosa è recuperabile, e che cosa invece si può o si deve tralasciare? A sentire per radio le dichiarazioni di alcuni antropologi (come per esempio Marc Augé) o leggerne i commenti sui quotidiani (come quello di Enrico Comba, qui accanto), si ha l'impressione che ciò che non è più proponibile sia proprio il nucleo metodologico della sua antropologia, cioè il suo strutturalismo. In effetti, sono talmente tanti, ricchi e profondi gli aspetti del pensiero di Lévi-Strauss da recuperare e riproporre, che si sarebbe indotti ad abbandonare al suo destino storico, come una sorta di relitto, proprio ciò su cui Lévi-Strauss ha giocato la credibilità scientifica della sua antropologia. Ebbene, nello spazio che mi è concesso, intendo compiere un'operazione di recupero dello strutturalismo di Lévi-Strauss (la parte più «inattuale» del suo lavoro). Per giungere a ciò, occorre ricordare in primo luogo la critica di Lévi-Strauss alle varie forme di storicismo, che vincola le potenzialità dell'antropologia alla considerazione esclusiva dei rapporti storici e al privilegiamento di società influenti o di civiltà storicamente dominanti. Contro lo storicismo, Lévi-Strauss ha sostenuto per l'antropologia la possibilità di stabilire connessioni di intelligibilità tra fenomeni e forme culturali anche lontani nel tempo e nello spazio e comunque a prescindere dall'esistenza di relazioni storiche. Fin dall'inizio del suo strutturalismo, Lévi-Strauss ha rivendicato la legittimità di un'analisi che ponga in connessione, per esempio, l'arte dei Kwakiutl della costa americana di nord-ovest con quella dei Maori della Nuova Zelanda. Ciò non significa negare l'importanza delle relazioni storiche là dove si sono verificate; significa invece ottenere per l'antropologia uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia.
Vale la pena a questo punto ricordare che è tipico dello strutturalismo di Lévi-Strauss rifiutare di far coincidere il concetto di struttura con quello di sistema locale, storicamente condizionato: la struttura viene invece intesa come l'insieme delle possibilità di connessione che collegano un sistema locale con una molteplicità di altri sistemi. Questo fascio di connettibilità è ciò che Lévi-Strauss ha più volte chiamato «gruppo di trasformazioni». La struttura, la fonte di intelligibilità antropologica, non è dunque in un sistema particolare, ma è fuori dai sistemi: ovvero per capire un sistema (un fenomeno, una forma) occorre uscirne, conoscere altri sistemi altrettanto particolari e porli in connessione tra loro, farli dialogare. La struttura perciò non è una realtà storicamente data: è invece il fascio di possibilità di cui i sistemi concreti e storici non sono altro che realizzazioni particolari. L'antropologia ha il compito di ricostruire questo quadro più ampio, non lasciandosi intrappolare dalla logica dei sistemi particolari. Per raggiungere questo obiettivo e per garantirsi una connettibilità strutturale più sicura e veloce, lo strutturalismo di Lévi-Strauss ha compiuto due passi: un lavoro di forte astrazione dei fenomeni e la chiusura del numero delle possibilità, passi che oggi gli antropologi non si sentono di compiere, o perlomeno non sempre e non del tutto. E allora il problema si pone in questi termini: con il suo strutturalismo Lévi-Strauss ha indicato una via di salvezza per l'antropologia, un modo per sfuggire alla morsa della profezia di Frederic William Maitland (1899): «ben presto l'antropologia dovrà scegliere di essere storia o di non essere niente». La soluzione di Lévi-Strauss è di praticare un'antropologia come sapere trasversale, un sapere che pone in comunicazione forme diverse di intendere famiglie, matrimoni, politica, arte, umanità.
Il compito di risalire la corrente
Oggi, queste forme ci appaiono assai meno nitide: si presentano ai nostri occhi come tentativi, abbozzi, brandelli di umanità, modelli appannati, sporchi, frantumati e che si situano in un orizzonte di possibilità più vago e indeterminato. In queste condizioni, è comunque proponibile la connettibilità transculturale? È lecito pensare ancora a un'antropologia come sapere trasversale, anche se si tratta di una trasversalità faticosa, rallentata da ostacoli e dal peso dell'esperienza vissuta dei soggetti che vi partecipano? Per chi scrive, la risposta è sì, se si vuole che l'antropologia sopravviva come sapere accademico e nel contempo come una sorta di paradigma per le nostre società interconnesse, per le quali la convivenza si gioca appunto sulla capacità e sulla disponibilità non solo a capire gli altri, ma a capire noi stessi attraverso e grazie agli altri, anche gli altri più lontani e miserevoli, i rifiuti della storia, come appunto direbbe Lévi-Strauss, quelle «periferie dell'umanità» (Marshall Sahlins), pattumiere e fogne «ai margini del mondo capitalistico e industriale» (Eric Wolf) frequentate dagli antropologi. Qui non si tratta semplicemente di possibilità «altre», da capire nella loro pura diversità. Si tratta invece di quelle forme di umanità che la nostra civiltà ha calpestato: la loro miseria e la loro marginalità, il loro stesso scomparire parlano non soltanto di loro; parlano di noi, si connettono a noi, facendoci vedere - secondo una celebre frase di Tristi Tropici - la «nostra sozzura gettata sul volto dell'umanità». Ma, oltre la denuncia di queste nefandezze, l'insegnamento di Lévi-Strauss si traduce in un atteggiamento che qualifica ulteriormente la ricerca antropologica: è un andare à rebours, un ricercare forme di umanità prima dello scempio e dello sfacelo, perché sarà pur vero che da sempre le società si sono ibridate e trasformate (Jean-Loup Amselle), ma ciò non deve farci dimenticare che il cataclisma antropologico contemporaneo non ha analoghi nella storia e che l'antropologia - se vuole salvaguardare la sua missione - ha il compito di risalire la corrente e, con il suo sapere etnologico, di conservare la memoria delle forme di umanità che abbiamo distrutto per sempre.

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27.11.08

I maestri del fare

L'ULTIMO LAVORO DELLO STUDIOSO RICHARD SENNETT

L'«Uomo artigiano», il nuovo libro dello studioso statunitense. Ritorna allo scoperto una figura del lavoro considerata estinta. Ma che ha i contorni postmoderni dei produttori del sistema operativo Linux
Benedetto Vecchi


Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.

Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animal laborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.

I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.

Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è dalla dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.

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25.11.08

Il declino del conflitto

di Giuseppe De Rita

In un cupo soliloquio della Tosca, Scarpia esprime con volgare voluttà il concetto che «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso».

È un concetto che gli amanti dell'opera lirica recitano spesso, anche se sempre più raramente lo mettono in opera.Ma è un concetto però cui restano affezionati i teorici e i militanti del conflitto sociale e politico, sempre convinti che la storia e il potere si conquistano facendo rivoluzioni o almeno esercitando la forza. E anche quando, com'è attualmente, la forza e le rivoluzioni sono solo mediatiche e virtuali, l'ispirazione resta la stessa: il conflitto innanzitutto.

Chi osservi invece le cose italiane di questi ultimi tempi scopre che di conflitto ce n'è poco: non ce n'è in fabbrica e nei campi come retoricamente si è spesso declamato; non ce n'è negli uffici pubblici, visto che neppure l'aggressività brunettiana è riuscita a far scattare rivolte anche minimali; non ce n'è in tutto il vasto settore dei servizi alle imprese e alle persone, ormai segnato da professioni (dal pubblicitario alla badante) che sono strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno, ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali.

Si potrà dire che l'affermazione è contraddetta dalle recenti agitazioni di piazza degli studenti e dai recenti scioperi del trasporto aereo; ma credo che un po' tutti abbiano avvertito la loro carica altamente corporativa e la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. Come potenziali minacce conflittuali sono stati «lasciati cadere»; e non solo dalle sedi del relativo potere decisionale, ma anche dalle sedi tradizionalmente di lotta e potenzialmente di alleanza (il sindacato, ad esempio). Tutto quindi è tornato nell'ordine.

Nell'ordine. Che significa oggi questo termine? In superficie sta a significare che abbiamo più voglia di istituzioni funzionanti che voglia di trasformarle, riformarle, rivoluzionarle. Vince il pragmatismo del quotidiano, non un’idea di futuro migliore; può esser triste ammetterlo, ma tutto ciò porta a una bassa popolarità anche del riformismo, del resto da sempre visto solo come alternativa pacata al conflitto, non come ideologia autonoma e autopropellente.

Resta allora il «mellifluo consenso». È probabile che alla parte più combattiva della nostra classe dirigente venga un attacco di bile di fronte a tale locuzione, magari nel sospetto che essa riveli una più o meno cosciente berlusconiana strategia di dittatura morbida. Ma nei fatti dobbiamo verificare che oggi il consenso si conquista facendo ricorso a emozioni blande e non violente; e anche quando si scende in piazza, le emozioni devono restare blande, come sono quelle dei megaraduni, dei tour elettorali, dei girotondi, delle false primarie, dove tutto è mellifluo, anche se a lungo andare falso, non affidabile.

Perché, come ha acutamente notato Natalino Irti, viviamo un tempo in cui non c'è più rappresentanza (di interessi, di bisogni, di opzioni collettive) ma «rappresentatività esistenziale», di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell'esistenza, senza passioni e spessori di essenza. Non a caso, limitando la riflessione al puro campo politico, hanno oggi più successo le formazioni che si rifanno al disagio esistenziale (il leghismo, il dipietrismo) che quelle che devono (per necessitata ampia consistenza) far riferimento alla rappresentanza di interessi, bisogni e opzioni di carattere collettivo, più che ai turbamenti o ai rinserramenti esistenziali.

Non c'è allora da far conto sull'illusione che torni il conflitto, grande oggetto del desiderio. Più utile sarebbe un impegno a ricostruire contenuti e strumenti della rappresentanza. E bisogna farlo sia nelle strutture del sociale come in quelle della politica, rompendo quell’autoconservazione corporativa che purtroppo le sta distruggendo, nel piccolo dell'associazionismo non profit come nel grande della dinamica partitica.

corriere.it

24.11.08

In principio fu il gesto - Le nostre parole servono a manipolare la realtà + Intervista all'autore

Lo psicologo neozelandese Michael Corballis nel suo saggio titolato Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, edito da Cortina, ripercorre in chiave evoluzionistica le abilità intrinseche al nostro comunicare
Marco Mazzeo

Imbottigliati nel traffico dell'ora di punta è facile assistere a una scena del tutto ordinaria ma che non cessa di provocare un momento di genuina perplessità. Possiamo imbatterci, per esempio, in una ragazza che gesticola in modo convulso, anche se nessuno le siede accanto. Il tempo di mettere a fuoco la scena e il mistero si dissolve: l'auricolare, nascosto tra i capelli, tradisce il carattere telefonico di una conversazione all'apparenza solitaria. A pensarci bene, però, anche ora questo comportamento non cessa di essere enigmatico: perché gesticolare quando il tuo interlocutore non può vederti? Un recente libro dello psicologo neozelandese Michael Corballis, titolato Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio (Raffaele Cortina, 2008, 26 euro) cerca di rispondere all'interrogativo, riformulandolo in termini più generali: siamo sicuri di sapere quale sia il ruolo svolto dai gesti nella vita degli esseri umani? Il testo offre una ricostruzione del problema in chiave evoluzionistica: confronta le capacità linguistiche e gestuali degli umani con quelle di altre specie, soprattutto scimmie e ominidi (dagli Australopitechi fino ai nostri cugini più misteriosi, i Neanderthal). Corballis non si limita alla ricostruzione, chiara e aggiornata, dei dati oggi a disposizione circa le abilità comunicative degli scimpanzè e della morfologia dei nostri antenati. Piuttosto illustra il problema cercando di sostenere due tesi di fondo. La prima è di ordine generale e riguarda lo status del linguaggio verbale: le parole non servono semplicemente a etichettare le cose, come marcaprezzi al supermercato (idea, purtroppo, ancora molto in voga) ma a manipolare, costruire e distruggere realtà. In questo senso, più che di un terzo occhio il linguaggio sembra dotarci della manualità multiforme della dea Khalì: prima che a contemplare, le parole servono a esplorare e modificare quello che ci circonda. La seconda tesi prova ad andare più nel dettaglio, circostanziando la proposta per mezzo di un rovesciamento. Ritorniamo all'esempio col quale abbiamo cominciato.
Come un sintomo
La sorpresa di fronte al gesticolare della ragazza al telefono tradisce un assunto: il nostro comportamento verbale quotidiano tende a mettere in primo piano quel che diciamo a voce e a lasciare sullo sfondo, come mero commento emotivo ed enfatico, i gesti che accompagnano le nostre parole. Al contrario, secondo Corballis, alzare il pollice mentre diciamo «sì, va bene domani andiamo al mare» o indicare con la mano dove si trova il bar più vicino quando si fornisce un'informazione stradale sono comportamenti di primaria importanza perché hanno il carattere vestigiale ma decisivo del sintomo. Tradiscono un luogo di origine: è con le mani che gli umani (e alcune specie preumane) hanno cominciato a comunicare. Circa due milioni di anni fa, con l'aumento delle dimensioni cerebrali dell'Homo erectus, i nostri antenati avrebbero cominciato a sviluppare capacità linguistiche simili a quelle possedute ancora oggi da alcuni primati allevati in cattività: gesti formati da due o tre movimenti-parola legati tra loro da una sintassi molto elementare ma in grado di distinguere il senso di una frase secondo l'ordine degli elementi che la compongono (è questo a fare la differenza, tanto per fare un esempio, tra l'enunciato «alla Diaz i poliziotti hanno torturato i manifestanti» e l'enunciato «alla Diaz i manifestanti hanno torturato i poliziotti»). Circa 170.000 anni fa, con la comparsa dei primi Homo sapiens, gli umani avrebbero cominciato a sviluppare vere e proprie lingue gestuali, simili alle lingue dei segni impiegate oggi da molte persone sorde. Il passaggio all'oralità sarebbe avvenuto solo più tardi. Si tratta di una ipotesi descritta nel dettaglio: è proprio questo a costituire il maggior punto di forza ma anche, paradossalmente, di debolezza del libro. Corballis propone due serie di argomentazioni. La prima si basa su alcuni dati empirici: le vocalizzazioni degli scimpanzè sono molto più stereotipate dei loro gesti manuali che manifestano, invece, maggiore variabilità di gruppo (in alcuni casi vere e proprie variazioni culturali) e un carattere più marcatamente sociale. Mentre la laringe degli scimpanzè è strutturata in modo tale che per i nostri cugini è fisiologicamente impossibile scandire consonanti e vocali, i loro arti superiori sarebbero molto simili a braccia e mani umane. Dopo secoli di discriminazioni, infine, le lingue dei segni sono state riconosciute come delle lingue a tutti gli effetti e non un semplice scimmiottamento della parola orale. Morale della favola, i gesti esibiscono la complessità necessaria per fare da ponte tra il protolinguaggio degli ominidi e le lingue attuali.
Un interrogativo aperto
Il secondo ordine di argomentazioni si concentra su una stranezza della nostra storia evolutiva che può essere riassunta nell'interrogativo: perché le prime raffigurazioni rupestri, gli utensili tecnologicamente più sofisticati e le migrazioni massicce dall'Africa verso il resto del pianeta sono eventi che si sono realizzati approssimativamente 50.000 anni fa, visto che l'Homo sapiens è comparso sulla Terra molto tempo prima? A tal proposito, la risposta di Corballis è netta: questa estenuante attesa, lunga 120.000 anni, sarebbe servita per passare dalle lingue segnate a quelle orali. Fino a quel momento la comunicazione manuale avrebbe inibito le capacità tecniche umane.
Nella prima parte della loro storia, i sapiens avrebbero impiegato le mani più per parlare che per costruire. Solo l'oralità le avrebbe liberate da un pesante fardello, il carico comunicativo di una specie culturalmente sempre più sofisticata. L'ipotesi di Corballis è suggestiva perché può contribuire all'elaborazione di una teoria della natura umana materialista che prenda le mosse dalla frase del Faust di Goethe «in principio era l'azione»: una teoria capace di comprendere meglio il rapporto tra dimensione percettiva (tattile innanzitutto) e pratica, oltre che politica e linguistica, dell'animale umano. Da questo punto di vista, in futuro potrebbe essere fruttuoso discutere e riflettere su alcune delle difficoltà teoriche dalle quali il libro stenta a sottrarsi. Sono però proprio queste difficoltà a fornirci il materiale più prezioso: possono contribuire alla redazione di una agenda di ricerca che non si sottragga al compito di entrare, volta per volta, nel merito delle singole questioni senza accontentarsi né di slogan, né di proclami. Parte dei dati empirici a cui il testo fa riferimento, per fare solo un esempio, è controversa: a uno sguardo più attento la morfologia e la funzionalità delle mani umane presentano somiglianze solo superficiali con il loro analogo scimmiesco, molto più resistente ma meno versatile da un punto di vista sensomotorio.
Una misteriosa latenza
Di certo le lingue dei segni sono lingue a tutti gli effetti ma Corballis in più di un'occasione sembra spingersi oltre: a suo giudizio, le lingue gestuali sarebbero più naturali di quelle vocali, cioè più facili da apprendere e più spontanee. Questo assunto, teoricamente molto forte, meriterebbe una verifica oltre che un approfondimento. In ultimo, la ricostruzione offerta dal libro purtroppo non riesce a sciogliere il mistero della latenza che sembra aver caratterizzato quella sorta di esplosione culturale dei sapiens risalente a circa 50.000 anni fa. Perché ci sarebbero voluti ben 120.000 anni, due terzi del tempo vissuto dai sapiens sulla terra, per passare dalle lingue gestuali a quelle orali visto che le prime sono così simili alle seconde? La partita, come si suol dire, è aperta.
ilmanifesto.it

Intervista all'autore

PARLA MICHAEL CORBALLIS
Nel linguaggio una miscela di voce e azioni proiettate oltre il presente
«Se devo intrattenere una conversazione significativa devo sapere che l'altro mi capisce e sa di capirmi»
Felice Cimatti

Secondo Michael Corballis il linguaggio umano è una forma di azione, è un fare più che una forma del comunicare. Come scriveva Ludwig Wittgenstein, le «parole sono atti». Il cuore di questa proposta è il superamento del dualismo fra mente e corpo, fra pensiero e azione. Il linguaggio è «embodied», è incarnato. Ma lasciamo che a spiegarcelo sia Corballis.
Secondo la psicologia cognitiva il linguaggio ha essenzialmente due funzioni: comunicativa e cognitiva. Il linguaggio è uno strumento esterno rispetto alla mente/corpo del parlante. Lei invece non la pensa così...
Penso che il linguaggio potrebbe avere avuto origine nei movimenti delle mani, ma naturalmente oggigiorno è articolato primariamente mediante la voce. Anche il linguaggio verbale è gestuale, implica movimenti delle labbra, della lingua, della laringe. È pertanto ancora un modo di agire, indipendentemente dal fatto se sia espresso con le mani o attraverso la bocca.
Qual è, nella sua teoria, il ruolo della scoperta dei neuroni specchio, quei neuroni che si attivano sia quando compiamo una certa azione che quando vediamo qualcun altro compierla?
Insieme ad altri ho sviluppato la teoria dell'origine gestuale del linguaggio prima che i neuroni specchio fossero scoperti. Nondimeno la loro scoperta è stata determinante: ha mostrato che le aree del cervello della scimmia, corrispondenti nel cervello umano alle aree linguistiche, sono primariamente dedicate alle azioni manuali, non alle vocalizzazioni; i neuroni specchio fanno vedere come le azioni corporee siano percepite e comprese nel modo stesso in cui sarebbero messe in atto dall'osservatore. La stessa conclusione era già stata raggiunta rispetto alla percezione del parlato, sulla base di una teoria in virtù della quale la comprensione di un suono linguistico altrui avviene attraverso la simulazione dell'articolazione di quello stesso suono. In altre parole, il sistema dei neuroni specchio suggerisce che non c'è una differenza fondamentale fra il parlato e il gesto - entrambi sono sistemi incarnati.
Gli scimpanzé hanno mani molto simili alle nostre, ma non mostrano nulla di simile al linguaggio umano. Perché questa differenza?
Gli esperimenti con gli scimpanzé e le altre scimmie antropomorfe mostrano che possono essere addestrate a comunicare in modo più efficace attraverso gesti manuali o mediante segni su una tastiera che attraverso la vocalizzazione. La ragione per cui non hanno un vero linguaggio ha probabilmente più a che fare con le loro capacità mentali che con i loro mezzi espressivi. Gli scimpanzé hanno qualche capacità di capire le intenzioni altrui, ma il linguaggio richiede di condividere le intenzioni, in un modo ricorsivo. Per esempio, se io devo intrattenere una conversazione significativa con lei, devo sapere che lei mi capisce, ma devo anche sapere che lei sa di capirmi. Questo significa che la comunicazione simil-linguistica delle scimmie antropomorfe è limitata al fare richieste. Gli esseri umani possono andare oltre questo limite in modo da realizzare discorsi condivisi. Un altro problema è che le scimmie antropomorfe non hanno l'abilità di «viaggiare mentalmente nel tempo»: credo che il linguaggio sia evoluto negli esseri umani in parte perché possiamo condividere i nostri viaggi mentali e parlare del passato e del futuro. Questa è, per esempio, la ragione che spiega perché il linguaggio richieda rappresentazioni di cose che non sono fisicamente presenti, e perché le lingue dispongano di meccanismi (ad esempio i tempi) che collocano gli eventi nel tempo e nello e nello spazio.
L'idea dell'origine manuale del linguaggio è valida solo da un punto di vista evolutivo, oppure ogni essere umano deve ripercorrere questa tappa?
Il lavoro recente di Michael Tomasello presso il Max Planck Institute mostra che i bambini imparano a comunicare attraverso i gesti (soprattutto l'indicare) prima di apprendere una lingua. Quindi sì, penso che ogni essere umano impari il linguaggio prima attraverso le proprie mani e il proprio corpo. Questo vale tanto per le lingue umane gestuali che per quelle verbali.
In ogni lingua ci sono espressioni metaforiche che esprimono nozioni incorporee mediante riferimenti corporei: ad esempio, «afferrare un pensiero». Ma una persona che non potesse muoversi sarebbe in grado di imparare ad usarle?
Penso che sarebbe molto difficile insegnare espressioni di questo tipo a una persona incapace di muovere il proprio corpo, forse anche impossibile, perché il linguaggio consiste essenzialmente di movimenti del corpo. Tuttavia, per esempio, lo scienziato Stephen Hawking mostra una straordinaria comprensione di profondi concetti della fisica acquisiti tardivamente nonostante la sua incapacità di muoversi; naturalmente, molti concetti basilari li ha introiettati prima di essere paralizzato.
Perché se il linguaggio nasce manuale poi è divento vocale?
Parlare ha molti vantaggi pratici. Lo si può fare di notte o quando la visione è impedita; libera le mani per altre attività come la costruzione di utensili; richiede uno sforzo minore e anche meno attenzione, dal momento che puoi ascoltare la voce senza dover guardare chi sta parlando. Non credo che il parlare porti un vantaggio linguistico, dal momento che le persone sorde comunicano in modo del tutto efficace mediante le lingue dei segni. Naturalmente usiamo le mani quando parliamo, sicché il linguaggio è realmente una miscela di vocale e gestuale.

ilmanifesto.it

23.11.08

Levi-Strauss, cent'anni di diversità

Barbara Spinelli

E’ durata quasi una generazione l’ubriacatura del pensiero unico e autosufficiente: l’idea che la strada del progresso sia una sola - la nostra - e che della diversità convenga diffidare. L’idea che la cultura occidentale sia assediata, e che per temprarla occorra non solo immaginare un nemico-distruttore esterno, ma darsi un’identità impenetrabile, densa come un muro. L’idea che chiunque sia radicalmente altro - per storia o colore, per stile di vita o impegno politico - abbia il profilo d’un sovversivo come ai tempi dei totalitarismi.

L’ubriacatura non è finita con l’elezione di Obama, anche se Obama incrina il muro. Non è neppure finita con la crisi economica, anche se il groviglio finanziario ha introdotto nel pensiero unico i veleni che esso voleva abolire: la sfiducia, lo scoraggiamento. Per uscire dall’ubriacatura sono opportuni farmaci forti. Urge una riflessione profonda sui limiti del monolitismo mentale, urge riscoprire i pregi della varietà, e seppellire infine la presunzione autarchica dello scontro di civiltà. Sono tanti i pensatori che aiutano a disintossicarci, e tra questi il massimo vive ancora tra noi: è Claude Lévi-Strauss, l’etnologo che venerdì compirà cent’anni e che quasi avremmo dimenticato, se non fosse ridivenuto indispensabile. Ci sono molti motivi per rimettersi a leggere Lévi-Strauss, ma il principale forse è quello che riguarda la diversità: il contributo che essa fornisce al progresso umano è infatti essenziale nella globalizzazione, e stranamente è trascurato. Gli scritti sulla razza (Razza e Storia nel 1952, Razza e Cultura nel 1971) sono preziosi per chiunque voglia capire l’attuale transizione e apprendere l’arte del pensare lungo.

Il progresso, dice Lévi-Strauss, non è qualcosa di continuo, necessario. Procede a balzi, per mutazioni e scarti, come la mossa del cavallo negli scacchi. Soprattutto non è appannaggio di genti privilegiate: non esistono culture infantili, primitive, cui si contrappongono civiltà sofisticate. «Tutti i popoli sono adulti, anche quelli che non hanno tenuto il diario della loro infanzia e della loro adolescenza» (Razza e Storia). La visione giornalistica fatica a comprenderlo: l’inviato arriva in terre inesplorate, e vede solo la coda d’una storia lunghissima che per mancanza di tempo non capisce. Il vizio s’è oggi esteso, rendendo giornalistica anche la politica estera: è significativo che Bush non sia ricorso - nei rapporti con Arabi, Asiatici, Russi - a esperti che queste culture le studiano continuativamente, senza mettere la propria al centro di tutto. Il giornalista in modo speciale deve pensare contro se stesso, perché le sue semplificazioni influenzano anormalmente le menti.

C’è una metafora con cui Einstein spiega la teoria della relatività, che Lévi-Strauss adotta spesso ma rovesciandola mirabilmente. È la metafora del treno in corsa. Per dimostrare che il movimento dei corpi nello spazio e nel tempo non è una verità assoluta, ma dipende dall’ottica dell’osservatore, Einstein racconta come il passeggero vedrà cose discordanti, a seconda che il treno parallelo guardato dal finestrino vada nella nostra direzione o in quella opposta. Se si sposta con noi, esso ci parrà immobile, molto più lungo del treno che va in senso contrario: solo quest’ultimo sembrerà muoversi. Tutt’altro accade nell’osservazione delle società, e nella suddivisione fra culture che si muovono e culture inerti. Solo quelle che camminano nella stessa direzione in cui camminiamo noi (essendo più visibili, condividendo costumi, valori) ci parranno in movimento. Le culture che corrono in senso opposto le vedremo appena: il treno «passa così rapido che ne conserviamo solo un’impressione confusa da cui persino i segni di velocità sono assenti». Sarà come immobile. «Non è più un treno, non significa più niente». Il viaggiatore al finestrino vede solo un segmento del mondo: «Noi appariremo l’uno all’altro come privi d’interesse, per il semplice motivo che non ci rassomigliamo». Lévi-Strauss evoca due figure - l’anziano, l’avversario politico - egualmente incapaci di vedere. Lontani dai centri di decisione, ambedue ritengono il mondo stagnante e vano anche quando non lo è (Razza e Cultura). Ambedue sono spesso incuriositi, meno ricchi di tempo, di spazio e di idee.

Studiare, scambiare informazioni, ascoltare: è uno dei rimedi, ed è il contrario dei conformismi che impregnano il pensiero sulle culture mondiali. La potenza di Lévi-Strauss è proprio qui: basta leggerlo, e lo scontro di civiltà che ha fatto la gloria di Samuel Huntington ingrigisce. Huntington passa, lui resta. Resta la sua idea fondamentale, secondo cui ogni progresso è una coalizione tra forze diverse che cercano una sintesi senza abbandonare la propria diversità. Se c’è una cosa aborrita dall’etnologo francese è il mondo unico, che cancella le differenze o soggiogandole con efferatezza coloniale, o ignorandole in nome di un antirazzismo falso perché disattento a forme di esclusione che penalizzano non solo le razze ma anche gli stili di vita. Il conformismo globale non è progresso: è «umanità ossificata, confusa in un genere di vita unico»; è entropia, energia che sfinisce. Il progresso non è nella difesa d’un particolarismo superiore ma in uno scambio col difforme che feconda il nostro pensiero trasformandolo. La divergenza non è scandalo: è la condizione perché la storia cessi di esser stazionaria, solitaria e diventi cumulativa, capace di combinazioni complesse. Ci sono epoche che Lévi-Strauss considera esemplari: il Neolitico, il Rinascimento, la Rivoluzione industriale. Edificando sulla differenziazione, esse avanzarono formidabilmente. Chi vede ovunque sovversivi s’adagia nell’inerzia storica.

Ogni coalizione con le diversità è minacciata da esiti paradossali. A forza di collaborare, le culture tendono alla consonanza, i particolarismi s’appannano, vivificano meno. L’omogeneità e il maggiore volume delle società accresceranno le diversificazioni interne, ma non subito né automaticamente. La sfida consiste nel trovare un equilibrio fra integrazione e differenza, e nell’evitare il «pigro, comodo riposo» che garantisce «l’immagine della somiglianza migliorata»: la storia non è fatta di somiglianze crescenti; è «piena di avventure, rotture, scandali». Quando le diversità non rifioriscono conviene cercarne di nuove, addirittura suscitarle, ridar spazio a minoranze, a avversari, anche a sistemi ideologici antagonisti. «Barbaro è solo chi crede nella barbarie». Se il progresso è sintesi fra culture occorre salvaguardare gli scarti, proteggendo quelle che l’antropologo chiama le micro-solidarietà, le società parziali; custodendo perfino le superstizioni. Uno dei più luminosi saggi è sul Babbo Natale Giustiziato, che narra l’intreccio sottile, involontario, tra cristiani e pagani. Ogni genitore o nonno, alla vigilia delle feste, ne scoprirà la delizia.

Lévi-Strauss è una mente veramente grande, e non solo per la visione cupa, dunque realista, che egli ha dell’occidente, delle sue crudeltà, delle sue megalomanie. È un grande perché, pur disperando, non cessa di pensare e credere. Tutta la vita l’ha spesa per dire che si può sempre scegliere un’altra via, che tutto poteva e può andare diversamente, solo che lo si voglia. La necessità è un muro, ma ha sue crepe. Il pianeta corre allo squasso, ma si può edificare un altro umanesimo, fondato non sull’uomo morale superiore ma sui diritti dell’essere vivente, sia esso uomo, pianta, specie animale. «I giochi non sono mai fatti. Possiamo ricominciare tutto. Quello che è stato fatto e mancato può esser rifatto», scrive in Tristi Tropici. Purché si ritrovi «l’indefinibile grandezza dei cominciamenti»: quella soglia in cui il nulla quasi non c’è più e già quasi iniziano l’essere, le parole per dirlo, l’azione per influenzarlo.

lastampa.it

22.11.08

La società dei senza fili

Un sentiero di lettura a partire da una inchiesta mondiale coordinata dallo studioso Manuel Castells su «Mobile communication e trasformazione sociale». Un pianeta dove blog, chat-room e sms possono far cadere e eleggere presidenti o dare vita a «comunità intime a tempo pieno»
Benedetto Vecchi

Matrix, ovvero il dominio delle tecnologie digitali sugli umani. La trilogia dei fratelli Andy e Larry Wachowski voleva essere solo una colta performance sulla pervasività della Rete nelle produzione delle relazioni sociali e interpersonali e sulla cancellazione del confine tra reale e virtuale in una realtà plumbea dove nulla era consentito se fosse in contrasto con i rapporti di potere e le gerarchie necessari all'accumulazione di ricchezza, simboleggiata dall'energia elettrica prodotta da cavie umane. L'unica resistenza era incarnati dagli abitanti di Zion, città sotterranea e simulacro di una forma di vita altera e antagonista all'intelligenza collettiva sussunta dalle macchine.
Ma ciò che rimane interessante dell'immaginario collettivo proposto da quei film, oramai datati a causa anche della crisi economica mondiale, è l'inquietante figura dell'homo cablato, cioè gli uomini e donne costantemente connessi alla Rete. Un tema, questo, che lo studioso Manuel Castells aveva a sua volta marginalmente affrontato in un'altra trilogia, questa volta cartacea, enfaticamente salutata, tanto dai suoi detrattori che dai suoi estimatori, come la summa di una prassi culturale critica delle tendenze ambivalenti presenti nella «società in rete».

Un medium universale
Il capitalismo contemporaneo - definito informazionale da Castells, a causa della centralità dell'informazione nel processo produttivo - è così mobile che anche gli uomini e le donne devono avere la possibilità di essere connessi alla rete ovunque si trovino. I volumi di Castells furono però pubblicati quando la tecnologia wireless non era molto diffusa, mentre erano connessi a Internet solo cinquecento milioni di uomini e donne nel pianeta. Ora, i «naviganti» della rete hanno superato la soglia del miliardo, mentre il telefono cellulare è diventata la tecnologia più diffusa nel mondo, al punto che le nuove generazioni di questi manufatti digitali possono consentire non solo di telefonare, ma mandare messaggi, fare fotografie e brevi video, connettersi alla Rete, scrivere brevi testi, scambiarsi e-mail. Il medium universale del ventunesimo secolo, dicono oramai studiosi, ingegneri e teste d'uovo delle imprese transnazionali, non è il computer, ma proprio quell'oggetto facile da usare, trasportare e (relativamente) economico che è il telefono cellulare: il manufatto tecnologico che rende attuale la figura dell'homo cablato. Il quale corre molti rischi - privacy messa in pericolo, possibilità di essere continuamente tracciato e dunque controllato in ogni momento, cancellazione di ogni confine tra tempo di lavoro e tempo di vita - ma anche molte possibilità di arricchire la sua socialità. Dunque, una condizione ambivalente, dove oppressione e rivolta sono realtà e prospettive entrambi presenti.

La comunicazione è mobile
Giunge quindi a proposito la pubblicazione dell'inchiesta mondiale condotta da Manuel Castells con Mireia Fernàndez-Ardèvol, Jack Linchhuan e Araba Sey su Mobile communication e trasformazione sociale dalla casa editrice milanese Guerini e Associati (pp. 318, euro 26,50). Castells, infatti, insegna in California; Mireira Fernàndez in Spagna, Jack Linchuan a Hong Kong, Araba Sey tra Washington e l'Africa. Ognuno di loro si è occupato di un continente e dopo oltre quattro anni di lavoro hanno elaborato i dati raccolti, proponendo ipotesi interpretative su come funziona socialmente la comunicazione wireless, cioè senza fili. Un lavoro che diffida dell'enfasi scientista sulle virtù miracolistiche del telefono cellulare nel favorire la socialità e lo sviluppo economico.
Già con lo rovinosa caduta delle imprese dot.come nel 2001 Castells aveva intravisto i limiti del libero mercato, individuando nelle esperienze avanzate di welfare state - la Finlandia - una possibile prevenzione a un possibile bailout non solo finanziario, come testimonia il saggio scritto con Pekka Himanen sulla Società dell'informazione e welfare state (Guerini eAssociati). Alla luce di quanto avvenuto, il determinismo di chi vede nel mercato e nella tecnologia la mano salvifica del capitalismo ha infatti la stessa tossicità di un mutuo subprime. Interessante a questo proposito la lunga intervista a Manuel Castells contenuta nell'ultimo numero della rivista «Millepiani» (Tecnometamorfosi della soggettività contemporanea, pp. 188, euro 17), nella quale lo studioso di origine catalana respinge con decisione ogni pretesa euristica di alcuni studi che fanno discendere la realtà sociale dal potere trasformativo della tecnologia, invitando semmai a considerare i rapporti di potere la chiave di accesso alla comprensione di quanto avviene dentro e fuori lo schermo. Un'attitudine critica che emerge anche in questa inchiesta, dove gli autori smontano molti dei luoghi comuni che accompagnano le tecnologie wireles, evidenziandone le ambivalenze.

La generazione txt
È indiscutibile, ad esempio, che il telefono cellulare non stia sostituendo la vecchia cornetta, sebbene il numero degli abbonati al telefono fisso sia, dal 2001, inferiore al numero dei possessori di un cellulare, strumento complementare alla comunicazione con il vecchio doppino telefonico, anche se viene usato in misura maggiore, condizionando così le strategie imprenditoriali, le quali stanno sempre più attuando una politica delle tariffe che rende i cellulari un costo «sostenibile» per tutti. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono preferiti dalle fasce delle popolazioni a basso reddito, come i migranti, i disoccupati e i precari, che scelgono le schede prepagate perché consentono una più accorta pianificazione delle spese destinante alla comunicazione. Da qui l'intensivo uso degli short message system, i famigerati sms che hanno attirato l'attenzione di semiologi e esperti della comunicazione per il linguaggio usato e perché viatico a «comunità intime a tempo pieno», dove ci si «tiene in contatto» anche quando si stanno svolgendo altre attività. Fattore, quest'ultimo, che non è solo prerogativa della cosiddetta generazione txt, come sono stati battezzati tutti quei giovani che usano i telefoni cellulari, ma anche da parte di chi fa un uso intensivo dei cellulari per lavoro. Le tecnologie wireless sono il manufatto digitale privilegiato per chi lavora senza fissa dimora, ma più che aumentare la produttività sono tecnologie che aiutano ad attenuare il senso di isolamento e di straniamento che il lavoro mobile alimenta. Allo stesso tempo, però, i telefoni cellulari sono da considerare come un «guardiano senza fili», perché il lavoratore può essere costantemente controllato, come dimostrano i progetti della Samsung Electronics di monitorare gli spostamenti dei suoi dipendenti.

Continua il digital divide
Altro luogo comune che viene analizzato è relativo alla leggenda metropolitana sui telefoni cellulari usati prevalentemente dalle donne per «ciacolare». I dati sostengono invece che vengono usati per parlare con il proprio partner, i propri amici o i collghi di lavoro allo stesso modo sia dai maschi che dalle donne. Anzi, la propensione a telefonare solo «per sapere come butta» è più spiccata tra i maschi che non tra le donne. Altrettanto evidente è il fatto che la diffusione del telefono cellulare segue le geografie e le gerarchie dell'economia globale, con buona pace di chi lo aveva indicato come lo strumento per colmare il digital divide, dato che i «palmari» consentono la connessione a internet. Le tecnologie wireless sono come Internet concentrate nel nord del mondo e in particolar modo nelle grandi metropoli. Certo la Cina, l'India e l'Africa hanno conosciuto notevoli «indici di penetrazione», ma si tratta pur sempre, nella maggioranza dei casi, di cellulari con basse potenzialità tecnologiche.
Una ricerca sulla comunicazione wireless che si rispetti deve inoltre fare i conti con le modalità d'uso dei «giovani», categoria spesso schiacciata a una contingenza biografica dove si consumano tutti i riti di passaggio all'età adulta. I giovani vanno intesi, semmai, come uno specifico gruppo sociale che manifesta modalità di consumo, di rapporto intermittente con il mercato del lavoro, che sviluppa forme di vita e produce manufatti culturali. Per quanto riguarda il rapporto con la tecnologia «senza fili», i dati della ricerca presentano un quadro molto unitario, perché i cellulari, come la rete, sono medium usati proprio per costituire spazi di socialità autonomi non solo dal mondo adulto, ma anche delle istituzioni delegate al controllo e la formazione dei giovani. Da qui le bizzarrie del linguaggio usato associate a un uso delle tecnologie per essere presenze attive negli «spazi dei flussi», cioè in quelle relazioni sociali che vengono costituite oltre i confini rigidi che delimitano gli «spazi dei luoghi». L'uso intensivo degli sms e degli mms vanno quindi considerati una tecnologica complementare alle chat room e ai siti Internet peer to peer usati per condividere musica e video.

Mobilitazioni mordi e fuggi
Lo sviluppo di forme di vita e sfere pubbliche «autonome» rendono altresì incongruente la distinzione tra virtuale e reale che ha frequentemente caratterizzato le analisi sulle tecnologie digitali. Lo spazio della comunicazione diviene quindi il contesto dove il virtuale si presenta come la concretizzazione delle potenzialità inespresse nella realtà al di fuori lo schermo. L'esempio più evidente sono i flash mobs studiati dal teorico statunitense dei media Howard Rheingold nel volume Smart mobs (Raffaello Cortina), cioè quelle mobilitazioni estemporanee decise con il cellulare, che diviene lo strumento per mobilitare un gruppo più o meno numeroso di persone per raggiungere un obiettivo. E se a Tokyo è accaduto che centinaia di giovani si siano dati appuntamento in un centro commerciale tutti vestiti come il Keanu Reeves nel film Matrix, nelle Filippine e in Spagna i telefoni cellulari sono stati gli strumenti per organizzare manifestazioni contro i governi di quei paesi. A Manila per cacciare un presidente corrotto, a Madrid per smascherare le bugie di un governo che voleva addossare all'Eta l'attacco terroristico alla stazioni della capitale che ha provocato centinaia di morti. Attacco da subito rivendicato da un gruppo islamico radicale affiliato a Al Qaeda.
In entrambi i casi, sono state mobilitazioni «vincenti», perché il presidente corrotto è stato cacciato, mentre in Spagna i flash mobs hanno avuto il potere di ribaltare i risultati elettorali, determinando la sconfitta del governo conservatore di Guy Aznar. Lo stesso , anche se non coronate da successo, è accaduto negli Stati Uniti durante le primarie del 2003 con i supporter di di Howard Dean, con l'attivismo di MoveOn a favore di John Kerry o il travolgente tam-tam per invitare al voto i giovani durante le elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Barack Obama.
Esempi non tutti citati in questa ricerca, anche se i suoi autori quando analizzano gli «eventi» di Manila e Madrid non indugiamo mai in un asfittico determinismo tecnologico. Anzi, sottolineano con forza che sono state mobilitazioni vincenti perché collocate in contesti dove la «memoria» dei movimenti sociali del passato è stata conservata proprio nello spazio intangibile e virtuale della comunicazione digitale, per poi essere usata nelle manifestazioni convocate attraverso il flusso di bit e sms. Come tuttavia scrive Manuel Castells scrive in un saggio apparso lo scorso anno nell'«International Journal of Communication» (consultabile in rete all'indirizzo www.manuelcastells.info/en/index.htm), la diffusione di telefoni cellulari, la proliferazione dei blog, l'entrata in campo di palmari e persino il primo meeting sull'«attivismo mobile» accelerano la formazione dello «spazio dei flussi» all'interno del quale l'homo cablato può prendere dimora.
L'homo cablato va quindi interpretato come una figura che viene prodotta dai rapporti sociali dominanti, ma che al tempo stesso viene destrutturata e reinventata dalle pratiche sociali di uomini e donne che intessono relazioni conflittuali con le modalità con cui vengono presentate le tecnologie digitali. L'homo cablato è quindi sempre l'esito di un conflitto tra le imprese hig-tech e la realtà sociali su come debba essere usata la rete, comprendendo in essa anche le reti di telecomunicazioni «senza fili». Un conflitto che non solo modifica la sua silhouette, ma anche i processi attraverso la quale l'intelligenza collettiva diviene la materia nelle imprese che garantisce un'innovazione permanente.
L'importanza di questa ricerca non va quindi ricercato negli aggregati statistici che presenta, ma nella tesi che, dando per scontate la diffusione e pervasività delle tecnologie digitali, considera lo «spazio dei flussi» il constesto in cui prende forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del suo monopolio esercitato dallo stato. La plasticità nell'uso della rete e della tecnologia delle comunicazione senza fili è da considerare espressione del nuovo panorama prodotto dalla diffusione di queste sfere pubbliche costituite dentro, ma anche contro le regole dominanti. Anche in questo caso, l'ambivalenza è il loro tratto distintivo, perché convivono tanto proposte avanzate in nome della tradizione che di rivolta e opposizione. Ma anche di come l'intelligenza collettiva lì sviluppata possa essere ricondotta alle logiche economiche capitalistiche. In fondo, come accadeva in Matrix gli abitanti di Zion scoprono che anche la loro rivolta è propedeutica all'innovazione delle forme di controllo e dominio. La scommessa è di usare le tecnologie ditiali affinché vengano recisi i fili del controllo. Affinché non venga solo garantita l'esistenza di zone autonome, ma di poter inventare altre istituzioni da quelle vigenti.

ilmanifesto.it

16.11.08

Tra l'India e la Cina - AL TRAMONTO DELL OCCIDENTE SEGUIRÀ LA NOTTE DELL ORIENTE?

Due romanzi di autori indiani ruotano intorno allo stesso asse geografico: Mare di papaveri di Amitav Ghosh per Neri Pozza e La tigre bianca dell'esordiente Aravind Adiga per Einaudi. In uno stordente calderone linguistico, il primo rievoca il legame che le guerre dell'oppio hanno stabilito tra Cina e India. Il secondo, costruito per via epistolare, porta questi storici presupposti al loro compimento

Tommaso Pincio

Il passato è passato, su questo non ci piove. Tuttavia, ben lungi dall'essere tracciata una volta per sempre, la mappa di quel che è stato è in costante mutazione. Il passato si muove con la stessa impercettibile ma inesorabile deriva che allontana i continenti. Eventi che in un dato momento emergono imponenti al centro della Storia vengono poco a poco sospinti ai margini, lasciando spazio a nuovi accadimenti o magari a vecchi fatti inaspettatamente risorti dal dimenticatoio nel quale erano stati anzitempo relegati. La Rivoluzione Francese, per esempio. I nostri manuali la presentano come un faro, eppure la luminosa origine del mondo in cui oggi viviamo potrebbe essere a breve oscurata da un paio di sporche guerre combattute in terre lontane. Sì, perché il passato non si muove soltanto nel tempo ma anche nello spazio, ed è ormai pacifico che l'ago della bilancia smetterà di pendere a occidente. Il cuore del mondo globalizzato non batte in Europa e nemmeno in America. È in India e in Cina che bisogna cercarlo, paesi dove gli echi della Rivoluzione Francese non sono mai giunti. I fermenti che hanno innescato il radicale mutamento di prospettiva si chiamano Guerre dell'Oppio. A scatenarle fu la rottura di un pernicioso equilibrio: l'impero britannico pareggiava il suo deficit commerciale con la Cina rispondendo alle massicce importazioni di tè, seta e porcellana con l'esportazione di oppio coltivato in India. Quando i cinesi cominciarono a porre drastici freni all'insalubre traffico, peraltro già illegale da tempo, gli inglesi trovarono un pretesto qualunque per dichiarare guerra in nome del libero commercio. Che l'oppio fosse una droga, interessava poco.

Il primo atto di una trilogia
Il capitalismo, si sa, non va troppo per il sottile: la priorità è salvaguardare il mercato, il come costituisce un aspetto secondario, molto secondario. Mare di papaveri di Amitav Ghosh (Neri Pozza, traduzione magistrale di Anna Nadotti e Norman Gobetti, pp. 543 euro 18,50), primo atto di quella che si annuncia come una trilogia memorabile, ruota attorno alla tesi che alle sorgenti del XXI secolo e del comune destino che unisce Cina e India ci siano proprio le Guerre dell'Oppio, ma soprattutto le perverse dinamiche che le hanno determinate. Il romanzo fotografa i mesi immediatamente precedenti alle colonne d'Ercole della storia asiatica, e lo fa scegliendo quale teatro dell'azione un microcosmo in movimento, una splendida goletta a due alberi che nella primavera del 1838 si profila al largo dell'isola di Ganga-Sagar dove il Gange sfocia nel golfo del Bengala. La Ibis, questo il nome dell'imbarcazione, è lì per i campi di papaveri che si distendono per miglia e miglia oltre le sponde fangose dell'isola e i boschi di mangrovie dove persino le scimmie paiono inebetite da un «miasma letargico». La nave non caricherà a bordo soltanto l'oppio destinato alla Cina, accoglierà nel suo ventre di legno anche i colori e le espressioni di un'umanità oltremodo variegata. Un raja sull'orlo della bancarotta, la vedova di un oppiomane che lavorava in uno stabilimento per la lavorazione dei papaveri a Ghazipur, un mezzosangue americano, una ragazza francese la cui madre è spirata nel darla alla luce, un armatore inglese privo di scrupoli e poi ancora una moltitudine di altri personaggi, danzatrici hindu, lestofanti, poveri diavoli e una ciurma multietnica di lascari, marinai che parlano una lingua tutta loro e navigano per l'Oceano Indiano con indosso soltanto una striscia di cambrì attorno ai fianchi.
È un microcosmo in movimento o, per meglio dire, un microglobo. Arca dei tempi moderni, la Ibis traghetta un ricco campionario di umanità da un'epoca in cui l'Inghilterra era «il solo posto dove valesse la pena nascere» a un'altra dalla geografia incerta e in divenire. Il libro è diviso in tre parti denominate Terra, Fiume e Mare, quasi a rimarcare il progressivo spostamento verso un mondo sempre più fluido. Il destino di ogni personaggio affiora dalle profondità del passato grazie a coincidenze e sogni, ricordi e visioni, intrecciandosi a quello degli altri fino a confondersi in un'unica grande storia la cui trama è il comune cammino verso l'ignoto.
Alla maniera dei grandi romanzi storici dell'Ottocento, Mare di papaveri ha un che di enciclopedico, descrive usi e costumi, dai riti funebri alle pratiche medicinali, raccontando fatti di avventurosa e romantica natura, ammutinamenti, banchetti suntuosi, stupri e rapimenti. Ma soprattutto è uno stordente calderone linguistico, dove i termini marinari si alternano all'inglese coloniale, alle parole indiane e alla miriade di nuovi dialetti e slang fioriti nei porti asiatici. La Ibis, oltre a essere l'arca per un tempo a venire, è quindi una sorta nave di Babele. E anche qui Ghosh dà un'indicazione significativa chiudendo tra virgolette soltanto le battute di dialogo scambiate sulla goletta, lasciando nude e crude, invece, quelle pronunciate a terra, conferendo così all'intero romanzo l'aura di un racconto mitico, fondante. Il lettore occidentale, pur ammaliato dalla meravigliosa prosa dello scrittore nonché dal turbinio serrato degli eventi narrati, non potrà non constatare che in questa alba di un nuovo mondo i colonialisti inglesi sono spesso figure caricaturali e di secondo piano. Il fatto, poi, che Mare di papaveri sia un libro fedele ai canoni della tradizione romanzesca anglosassone e nel quale riecheggiano forti le pagine di Scott, Dickens, Conrad e naturalmente Kipling, colora questa constatazione di malinconia: il testimone è ormai passato, l'Occidente è definitivamente tramontato.
Ne è ulteriore riprova il fatto che i primordi tanto mirabilmente ricostruiti da Ghosh trovano il suo ideale e odierno compimento nel notevole esordio di Aravind Adiga, La tigre bianca (Einaudi, trad. Norman Gobetti, pp. 232, euro 19). Caso vuole che entrambi i romanzi siano stati finalisti dell'ultimo Booker Prize e che uno dei due, il secondo, abbia vinto. Ma il vero denominatore comune è l'asse India-Cina, che Adiga stabilisce per via epistolare. Il protagonista, la Tigre bianca del titolo ovvero un certo Balram Halwai, avendo saputo dalla radio che il primo ministro del «paese di mezzo» sta per giungere a Bangalore, pensa bene di scrivergli una lunga lettera per offrirgli la verità riguardo il luogo che si appresta a visitare. Gliela offre gratuitamente e spontaneamente in segno del suo rispetto «per l'amore della libertà mostrato dal popolo cinese, e anche della consapevolezza che il futuro del mondo è affidato ai gialli e ai marroni adesso che i nostri ex padroni, i bianchi, stanno precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile». E quale potrebbe essere questa verità se non la storia della di lui vita? Il premier vuole recarsi a Bangalore perché è la culla del miracolo economico indiano, la culla che fa «andare avanti l'America» grazie alle società di outsourcing. In altre parole, il premier vuole carpire il segreto dell'imprenditoria indiana affinché in Cina si faccia altrettanto. Ebbene, quel segreto è per l'appunto lui, la Tigre bianca, un imprenditore autodidatta che, senza mezzi termini, si autodefinisce «il futuro».
Ma la verità che quest'uomo ha da offrire ha un suo lato oscuro. L'India è un paese a due facce: c'è quella luccicante dei centri commerciali, dei palazzi suntuosi e dalle auto tirate a lucido, e c'è poi l'altra, quella buia, il cuore nero dell'India rurale dove le buone notizie si tramutano in fretta in cattive notizie. Nei tempi andati c'erano mille caste, spiega Balram, oggi si sono ridotte a due: quella di chi la pancia piena e quella di chi ce l'ha vuota. Balram proviene per l'appunto dai bassifondi, è nato e cresciuto nelle tenebre, ma la storia della sua ascesa non è la bella favola di un uomo che, a prezzo di sacrifici e con un po' fortuna, si è fatto da sé.

Mangiare o essere mangiati
La verità che la Tigre bianca ha da offrire al premier cinese è molto meno edificante. Dopo poche pagine, infatti, rivela che il prezzo del successo si paga a suon di sangue versato e nefandezze. L'imprenditoria indiana si realizza con la corruzione, gli intrallazzi, i traffici sporchi, il furto e, talvolta, anche togliendo di mezzo qualcuno. La povertà genera mostri e lui è uno di questi: ha iniziato la scalata tagliando la gola al suo ex boss e mettendo in pratica quel ha appreso lavorando per lui. Al centro del romanzo emerge una brutale interpretazione della hegeliana dialettica servo-padrone: il servo uccide il padrone e ne acquisisce i privilegi. Ma non è il solo richiamo alla cultura occidentale. La tigre bianca può riportare alla mente un classico americano, Native Son di Richard Wright, che racconta la tragica parabola di un giovane afroamericano trasformato in assassino dall'abisso di privazione ed emarginazione in cui è costretto a vivere. Per altre vie discende anche da Dickens, che meglio di chiunque altro ha raccontato le ingiustizie di una società classista come quella dell'Inghilterra vittoriana. Agida è però consapevole che i problemi dell'India, come del resto della Cina, hanno una loro marcata specificità. Questi due colossi stanno per ereditare il mondo dall'Occidente ma la promessa della democrazia e di un riscatto fondato sulla dignità delle persone corre il serio rischio di restare disattesa. «Il giorno in cui gli inglesi se andarono» scrive la Tigre bianca al premier cinese, «le gabbie vennero aperte e gli animali presero ad aggredirsi e sbranarsi l'un l'altro, e la legge della giungla soppiantò la legge dello zoo». La giustizia della giungla si sa bene qual è: mangiare o essere mangiati. L'alba del nuovo millennio pare così metterci di fronte al seguente interrogativo: al tramonto dell'Occidente seguirà davvero la notte fonda dell'Oriente?

ilmanifesto.it

Abu Ghraib a Genova

Barbara Spinelli

Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001 a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu dell’84, non cambia la sostanza del delitto.

Nessuno nega ormai che a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati, minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate, braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.

Queste cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come - poco dopo - a Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere», è già accaduto.

Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a Abu Ghraib, a Guantanamo.

I massimi responsabili non hanno pagato, perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un «grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti, senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi - con Berlusconi - promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra. Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia al vertice del G8 di Genova.

Il questore Vincenzo Canterini ha scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier, anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita. Visto che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo: oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria) prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.

È una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati. (...) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti». Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato: «Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio, coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche quando non lo diranno».

Esiste dunque la possibilità di servire lo Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati (censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.

Quando cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce» di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove. Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per cominciare a far bene le cose.

lastampa.it

14.11.08

Università, due proposte

Giovanni Sartori

Il ministro dell'Istruzione non si è lasciato spaventare troppo dalle proteste, ma abbastanza da accettare ragionevoli rinvii e ripensamenti. Nel frattempo direi che la Gelmini, nel complesso, si sia mossa bene. Sulla scuola il ripristino del «maestro unico» non è una tragedia (se tagli ci debbono essere, e essere ci devono, questo non è esiziale), il ripristino dei voti espressi in numeri è una semplificazione utile, e quello del voto in condotta necessario. I maestri non debbono restare indifesi, gli studenti che vanno a scuola per studiare non devono essere danneggiati dai cattivi studenti; e poi nessuna organizzazione al mondo può funzionare senza incentivi e punizioni, senza premi e sanzioni. Invece la scuola è stata sfasciata da una pedagogia «senza punizioni» (quella, dicevo nel mio articolo precedente, divulgata dal dr. Spock) che oramai ha contagiato persino la magistratura. Vedi il recente pronunziamento di una Corte di Cassazione per il quale un docente commette un reato se «minaccia» uno studente di bocciatura! E vedi l'altrettanto assurda dilatazione del principio della privacy che consente a uno studente maggiorenne di chiedere che i suoi voti scolastici non vengano comunicati ai genitori (che di solito lo accasano)! Siamo matti? Sì, direi proprio che lo siamo.
Ma veniamo all'Università, che è ancora una partita largamente aperta. Primo problema: la qualità dei professori. È, purtroppo, mediamente bassa. I docenti bravi, anche bravissimi, ci sono ancora; ma sono schiacciati da una valanga di «baroncini» insediati in cattedra da una politica universitaria (di indistintamente tutti i governi post-68) miope e demagogica.
Quando io vinsi il mio concorso a cattedra, i posti di professore di ruolo erano, in tutta Italia, 3000; oggi i docenti a vita sono circa 65 mila. I «precari» protestano perché per loro non c'è posto. Già. Non c'è posto perché se l'Università viene imbottita a colpi di migliaia alla volta di 30-35enni docenti di ruolo, finisce che per 30-40 anni i posti li occupano loro. Elementare. Eppure si continua così. Su queste colonne Giavazzi ha giustamente protestato per i nuovi concorsi già banditi. Purtroppo sono già banditi. L'andazzo è demenziale; ma come si rimedia?
La mia proposta è di anticipare l'età della pensione da 70 a 60 anni. Non per tutti, si intende; ma per i «baroncini» che da quando sono andati in cattedra non hanno mai scritto un libro e anche per coloro che le lezioni le fanno sì e no.
Un secondo rimedio, oramai inderogabile (anche perché ci aspetta una istruzione regionalizzata da un federalismo incontrollabile), è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Che era dovuta sin da quando l'autonomia delle singole Università ha consentito una stessa laurea (legalmente tale) per corsi di studio completamente diversi. Ma che è dovutissima oggi per combattere la mala pianta delle Università cartacee che sono spuntate ognidove, e anche delle scandalose lauree «precoci» conseguite in due anni (e anche meno). Valga per tutti il caso della Kore di Enna, che laurea in anticipo il 79 per cento dei suoi iscritti. Qui il discorso si dovrebbe allargare alla laurea «breve », la cui introduzione ha prodotto effetti devastanti. Ma una cosa alla volta. Intanto onore al merito di chi cerca di rivalutare il merito.
corriere.it

Castells: «Ecco la sfera pubblica digitale»

Alessandro Lanni

«La mass self communication è stata uno degli elementi fondamentali per la vittoria di Obama». La lecture (13 novembre 2008) di Manuel Castells all’Università Bocconi inizia pescando nell’attualità e spiegandola con un’espressione all’apparenza complessa, almeno per chi non frequenta gli studi del sociologo catalano. Spiega l’autore della monumentale trilogia dedicata alla network society e arrivato a Milano per festeggiare i venti anni della casa editrice Egea, che con l’avvento della rete e in particolare della sua evoluzione in senso sociale e partecipativo, il cosiddetto web 2.0, la comunicazione è cambiata enormemente. Si è passati dalla logica dell’uno-a-molti (proprio della tv ma anche dei giornali e di alcuni siti internet) a quella del molti-a-molti e anche, in verità, al pochi-a-pochi (come capita nella stragrande maggioranza dei blog e delle reti di amici nei social network). «Nel nuovo scenario comunicativo orizzontale e di rete – spiega Castells – non serve raggiungere immediatamente milioni di persone, è necessario piuttosto essere in una rete nella quale sono presenti milioni di persone». Utenti che inseriti in quella rete possono amplificare un messaggio in maniera impressionante. Lo ricordava qualche tempo fa uno dei maggiori esperti della nuova cultura digitale, Kevin Kelly: bastano mille lettori per avere successo in rete.

Secondo lo studioso della University of Southern California, internet nella sua ultima figura relazionale e orizzontale ha creato un nuovo tipo di comunicazione, la mass self communication, la “comunicazione individuale di massa”, quella che milioni e milioni di persone sparse ai quattro angoli del mondo producono ogni istante nel nuovo spazio pubblico realizzando una nuova società civile che prende forma grazie alla tecnologia. A ciò contribuiscono anche scambi di file attraverso il p2p, connessioni wireless, blutooth, cellulari ecc. E’ arrivato il momento di ripensare la nozione di sfera pubblica definita da Jürgen Habermas quasi mezzo secolo fa, in virtù dello spazio digitale che si è costituito in questi anni, uno spazio comunicativo di nuovo tipo. E la politica non può non prenderne atto. Anzi lo ha già fatto con le ultime elezioni americane con il successo di Barack Obama.

Nella lunghissima campagna elettorale, spiega Castells, Obama ha fatto propria la logica della mass self communication in tre modi: «mobilitazione, partecipazione, finanziamento». Siti come mybarackobama.com hanno avuto decine di milioni di iscrizioni, hanno fatto crescere il sostegno al candidato democratico anche fuori dai confini americani con un effetto di rimbalzo nell’opinione pubblica mondiale. Ma il dato impressionante è quello della raccolta fondi. Ricorda Castells, che come il 67% delle donazioni raccolte dal senatore dell’Illinois sono arrivate via Internet, a differenza di Hillary Clinton che on line ha raccolto solo il 20% per le primarie e John McCain addirittura il 17%.

Partecipare, coinvolgere chi ti sta accanto ecco la carta vincente di Obama. Nel sito della sua campagna elettorale si legge: Find local events and groups, Contact undecided voters near you, Share your story on your blog. Più chiaro di così? Incontri a livello locale, comunità, convincere chi ti è vicino, condividere la tua storia attraverso i blog. Questa è la mass self communication, dice Castells, ed è stata la grande rivoluzione dal basso. Barack ha portato nel web la sua esperienza nel volontariato a Chicago. Creare comunità on line, di sostegno e discussione. Coinvolgere i giovani, che l’hanno infatti largamente sostenuto nelle urne.
«Eppure – ricorda il sociologo – il primo episodio in cui la mass self communication ha dimostrato la sua forza nella politica sono state le elezioni in Spagna del 2004. Quando, all’indomani dei terribili attentati di Madrid un passaparola via cellulare tra milioni di persone ha cambiato segno al voto. Ha perso Aznar e vinto Zapatero. La gente non sopportò le bugie del governo e creò una rete di sms che in 160 caratteri fece vincere a sorpresa il candidato socialista». E, ricorda Castells, anche Berlusconi ha usato lo strumento degli sms in occasione delle elezioni amministrative di qualche anno fa. «Ma fu un uso antico di una tecnologia nuova, one-to-many, molto diverso dall’attivazione dell’opinione pubblica avvenuta in Spagna». Anzi, quel tipo di comunicazione potrebbe avere l’effetto contrario. «Se un amico mi manda un messaggio – avverte Castells – per una mobilitazione può darsi che io faccia qualcosa, se lo fa qualcuno che non conosco e che non so come abbia avuto il mio numero è molto probabile che io mi indispettisca».

saggio di Castells sulla Società delle Reti pubblicato da reset.it
caffeeuropa.it

13.11.08

Che furbetto quel Brunetta

di Emiliano Fittipaldi e Marco Lillo

La trasferta a Teramo per diventare professore. La casa con sconto dall'ente. Il rudere che si muta in villa. Le assenze in Europa e al Comune. Ecco la vera storia del ministro anti-fannulloni

La prima immagine di Renato Brunetta impressa nella memoria di un suo collega è quella di un giovane docente inginocchiato tra i cespugli del giardino dell'università a fare razzia di lumache. Lì per lì i professori non ci fecero caso, ma quella sera, invitati a cena a casa sua, quando Brunetta servì la zuppa, saltarono sulla sedia riconoscendo i molluschi a bagnomaria. Che serata. La vera sorpresa doveva ancora arrivare. Sul più bello lo chef si alzò in piedi e, senza un minimo di ironia, annunciò solennemente: "Entro dieci anni vinco il Nobel. Male che vada, sarò ministro". Eravamo a metà dei ruggenti anni '80, Brunetta era solo un professore associato e un consulente del ministro Gianni De Michelis.

Ci ha messo 13 anni in più, ma alla fine l'ex venditore ambulante di gondolette di plastica è stato di parola. In soli sette mesi di governo è diventato la star più splendente dell'esecutivo Berlusconi. La guerra ai fannulloni conquista da mesi i titoli dei telegiornali. I sondaggi lo incoronano - parole sue - 'Lorella Cuccarini' del governo, il più amato dagli italiani. Brunetta nella caccia alle streghe contro i dipendenti pubblici non conosce pietà. Ha ristretto il regime dei permessi per i parenti dei disabili, sogna i tornelli per controllare i magistrati nullafacenti e ha falciato i contratti a termine. Dagli altri pretende rigore, meritocrazia e stakanovismo, odia i furbi e gli sprechi di denaro pubblico, ma il suo curriculum non sempre brilla per coerenza. A 'L'espresso' risulta che i dati sulle presenze e le sue attività al Parlamento europeo non ne fanno un deputato modello. Anche la carriera accademica non è certo all'altezza di un Nobel. Ma c'è un settore nel quale l'ex consigliere di Bettino Craxi e Giuliano Amato ha dimostrato di essere davvero un guru dell'economia: la ricerca di immobili a basso costo, dove ha messo a segno affari impossibili per i comuni mortali.


Chi l'ha visto Appena venticinquenne, Brunetta entra nel dorato mondo dei consulenti (di cui oggi critica l'abuso). Viene nominato dall'allora ministro Gianni De Michelis coordinatore della commissione sul lavoro e stende un piano di riforma basato sulla flessibilità che gli costa l'odio delle Brigate rosse e lo costringe a una vita sotto scorta. Poi diventa consigliere del Cnel, in area socialista. Nel 1993, durante Mani Pulite firma la proposta di rinnovamento del Psi di Gino Giugni. Nel 1995 entra nella squadra che scrive il programma di Forza Italia e nel 1999 entra nel Parlamento europeo.

Proprio a Strasburgo, se avessero applicato la 'legge dei tornelli' invocata dal ministro, il professore non avrebbe fatto certo una bella figura. Secondo i calcoli fatti da 'L'espresso', in dieci anni è andato in seduta plenaria poco più di una volta su due. Per la precisione la frequenza tocca il 57,9 per cento. Con questi standard un impiegato (che non guadagna 12 mila euro al mese) potrebbe restare a casa 150 giorni l'anno. Ferie escluse. Lo stesso ministro ha ammesso in due lettere le sue performance: nella legislatura 1999-2004 ha varcato i cancelli solo 166 volte, pari al 53,7 per cento delle sedute totali. "Quasi nessun parlamentare va sotto il 50, perché in tal caso l'indennità per le spese generali viene dimezzata", spiegano i funzionari di Strasburgo. Nello stesso periodo il collega Giacomo Santini, Pdl, sfiorava il 98 per cento delle presenze, il leghista Mario Borghezio viaggiava sopra l'80 per cento. Il trend di Brunetta migliora nella seconda legislatura, quando prima di lasciare l'incarico per fare il ministro firma l'elenco (parole sue) 148 volte su 221. Molto meno comunque di altri colleghi di Forza Italia: nello stesso periodo Gabriele Albertini è presente 171 volte, Alfredo Antoniozzi e Francesco Musotto 164, Tajani, in veste di capogruppo, 203.

La produttività degli europarlamentari si misura dalle attività. In aula e in commissione. Anche in questo caso Brunetta non sembra primeggiare: in dieci anni ha compilato solo due relazioni, i cosiddetti rapporti di indirizzo, uno dei termometri principali per valutare l'efficienza degli eletti a Strasburgo. L'ultima è del 2000: nei successivi otto anni il carnet del ministro è desolatamente vuoto, fatta eccezione per le interrogazioni scritte, che sono - a detta di tutti - prassi assai poco impegnativa. Lui ne ha fatte 78. Un confronto? Il deputato Gianni Pittella, Pd, ne ha presentate 126. Non solo. Su 530 sedute totali, Brunetta si è alzato dalla sedia per illustrare interrogazioni orali solo 12 volte, mentre gli interventi in plenaria (dal 2004 al 2008) si contano su due mani. L'ultimo è del dicembre 2006, in cui prende la parola per "denunciare l'atteggiamento scortese e francamente anche violento" degli agenti di sicurezza: pare non lo volessero far entrare. Persino gli odiati politici comunisti, che secondo Brunetta "non hanno mai lavorato in vita loro", a Bruxelles faticano molto più di lui: nell'ultima legislatura il no global Vittorio Agnoletto e il rifondarolo Francesco Musacchio hanno percentuali di presenza record, tra il 90 e il 100 per cento.

Se la partecipazione ai lavori d'aula non è da seguace di Stakanov, neanche in commissione Brunetta appare troppo indaffarato. L'economista sul suo sito personale ci fa sapere che, da vicepresidente della commissione Industria, tra il 1999 e il 2001 ha partecipato alle riunioni solo la metà delle volte, mentre nel biennio 2002-2003, da membro titolare della delicata commissione per i Problemi economici e monetari, si è fatto vedere una volta su tre. Strasburgo è lontana dall'amata Venezia, ma non si tratta di un problema di distanza. A Ca' Loredan, nel municipio dove è stato consigliere comunale e capo dell'opposizione dal 2000 al 2005, il nemico dei fannulloni detiene il record. Su 208 sedute si è fatto vedere solo in 87 occasioni: quattro presenze su dieci, il peggiore fra tutti i 47 consiglieri veneziani.

Il bello del mattone
LA MAPPA DELLE PROPRIETA' DI BRUNETTA
Brunetta spendeva invece molto tempo libero per mettere a segno gli affari immobiliari della sua vita. Oggi il ministro possiede un patrimonio composto da sei immobili (due ereditati a metà con il fratello) sparsi tra Venezia, Roma, Ravello e l'Umbria, per un valore di svariati milioni di euro. "Mi piacciono le case e le ho pagate con i mutui", ha sempre detto. Effettivamente per comprare e ristrutturare la magione di 420 metri quadrati con terreno e piscina in Umbria, a Monte Castello di Vibio, vicino a Todi, Brunetta ha contratto un mutuo di 600 milioni di vecchie lire del 1993. Ma per acquistare la casa di Roma e quella di Ravello, visti i prezzi ribassati, non ne ha avuto bisogno. Cominciamo da quella di Roma. Alla fine degli anni Ottanta il rampante professore aveva bisogno di un alloggio nella capitale, dove soggiornava sempre più spesso per la sua attività politica. Un comune mortale sarebbe stato costretto a rivolgersi a un'agenzia immobiliare pagando le stratosferiche pigioni di mercato. Brunetta no.
Come tanti privilegiati, riesce a ottenere un appartamento dall'Inpdai, l'ente pubblico che dovrebbe sfruttare al meglio il suo patrimonio immobiliare per garantire le pensioni ai dirigenti delle aziende. Invece, in quel tempo, come 'L'espresso' ha raccontato nell'inchiesta 'Casa nostra' del 2007, gli appartamenti più belli finivano ai soliti noti. Brunetta incluso. Un affitto che in quegli anni era un sogno per tutti i romani, persino per i dirigenti iscritti all'Inpdai ai quali sarebbe spettato. Lo racconta Tommaso Pomponi, un ex dirigente della Rai ora in pensione, che ha presentato domanda alla fine degli anni Ottanta: "Nonostante fossi stato sfrattato, non ottenni nessuna risposta. Contattai presidente e direttore generale, scrissi lettere di protesta, inutilmente". Pomponi ha pagato per anni due milioni di lire di affitto e poi ha comprato a prezzi di mercato, come tutti. Il ministro, invece, dopo essere stato inquilino per più di 15 anni con canone che non ha mai superato i 350 euro al mese, ha consolidato il suo privilegio rendendolo perpetuo: nel novembre 2005 il patrimonio degli enti infatti è stato ceduto. Brunetta compra insieme agli altri inquilini ottenendo uno sconto superiore al 40 per cento sul valore di stima. Alla fine il prezzo spuntato dal grande moralizzatore del pubblico impiego è di 113 mila euro, per una casa di 4 vani catastali, situata in uno dei punti più belli di Roma. Si tratta di un quarto piano con due graziosi balconcini e una veranda in legno. Brunetta vede le rovine di Roma e il parco dell'Appia antica. Un appartamento simile a quello del ministro vale circa mezzo milione di euro: con i suoi 113 mila euro l'economista avrebbe potuto acquistare un box.
GUARDA LO SFOGLIO: I documenti dell'acquisto della casa Inpdai

Un tuffo in Costiera Anche il buen retiro di Ravello è stato un affare immobiliare da Guinness. Brunetta, che si autodefinisce "un genio", diventa improvvisamente modesto quando passa in rassegna i suoi possedimenti campani. "Una proprietà scoscesa", ha definito questa splendida villa di 210 metri quadrati catastali immersa in 600 metri di giardino e frutteto. Seduto nel suo patio il ministro abbraccia con lo sguardo il blu e il verde, Ravello e Minori.

Per comprare i ruderi che ha poi ristrutturato ha speso 65 mila euro tra il 2003 e il 2005. "Quanto?", dice incredula Erminia Sammarco, titolare dell'agenzia immobiliare Tecnocasa di Amalfi: "Mi sembra impossibile: a quel prezzo un mio cliente ha venduto una stalla con un porcile". Oggi un rudere di 50 metri quadri costa circa 350 mila euro, e una villa simile a quella dell'economista supera di gran lunga il milione di euro. Il ministro ha certamente speso molto per la pregevole ristrutturazione, tanto che ha preso un mutuo da 300 mila euro poco dopo l'acquisto del 2003 che finirà di pagare nel 2018, ma ha indubbiamente moltiplicato l'investimento iniziale.

Ma come si fa a trasformare una catapecchia senza valore in una villa di pregio? 'L'espresso' ha consultato il catasto e gli atti pubblici scoprendo così che Brunetta ha comprato due proprietà distinte per complessivi sette vani catastali, affidando i lavori di restauro alla migliore ditta del luogo. Dopo la cura Brunetta, al posto dei ruderi si materializza una villetta su tre livelli su 172 metri quadrati più dépendance, rifiniture in pietra e sauna in costruzione. Per il catasto, invece, l'alloggio passa da civile a popolare. In compenso, i sette vani sono diventati 12 e mezzo. Come è stata possibile questa lievitazione? "Diversa distribuzione degli spazi interni", dicono le carte. La signora Lidia Carotenuto, che fino al 2002 era proprietaria del piano inferiore, ricorda con un po' di malinconia: "La mia casa era composta di due stanzette, al massimo saranno stati 40 metri quadrati e sopra c'era un altro appartamento (che misurava 80 metri catastali, ndr) in rovina. So che ora il Comune di Ravello sta costruendo una strada che passerà vicino all'abitazione del ministro. Io non avrei venduto nulla se l'avessero fatta prima...". A rappresentare Brunetta nell'atto di acquisto della dépendance nel 2005 è stato il geometra Nicola Fiore, che aveva seguito in precedenza anche le pratiche urbanistiche. Fiore era all'epoca assessore al Bilancio del comune, guidato dal sindaco Secondo Amalfitano, del Partito democratico. I rapporti con il primo cittadino è ottimo: Brunetta entra nella Fondazione Ravello. E quest'anno, dopo le elezioni, Amalfitano fa il salto della barricata, entra nel Pdl e lascia la Costiera per Roma dove viene nominato suo consigliere ministeriale.

Il Nobel mancato "Io sono un professore di economia del lavoro, l'ho guadagnato con le unghie e con i denti. Sono uno dei più bravi d'Italia, forse d'Europa", ha spiegato Brunetta ad Alain Elkann, che di rimbalzo lo ha definito "un maestro della pasta e fagioli" prima di chiedergli la ricetta del piatto. L'economista Ada Becchi Collidà, che ha lavorato nello stesso dipartimento per otto anni, dice senza giri di parole che "Renato non è uno studioso. È prevalentemente un organizzatore, che sa dare il meglio di sé quando deve mettere insieme risorse". Alla facoltà di Architettura di Venezia entra nel 1982, dopo aver guadagnato l'idoneità a professore associato in economia l'anno precedente. Come ha ricordato in Parlamento il deputato democratico Giovanni Bachelet, Brunetta non diventa professore con un vero concorso, ma approfitta di una "grande sanatoria" per i precari che gravitavano nell'università. Una definizione contestata dal ministro, che replica: avevo già tutti i titoli.

In cattedra Secondo il curriculum pubblicato sul sito dell'ateneo di Tor Vergata (dove insegna dal 1991), al tempo il giovane Brunetta poteva vantare poche pubblicazioni: una monografia di 500 pagine e due saggi. Il primo era composto di dieci pagine ed era scritto a sei mani, il secondo era un pezzo sulla riduzione dell'orario edito da 'Economia&Lavoro', la rivista della Fondazione Brodolini, di area socialista, che Brunetta stesso andrà a dirigere nel 1980. Tutto qui? Nel mondo della ricerca esistono diverse banche dati per valutare il lavoro di uno studioso. Oggi Brunetta si trova in buona posizione su quella Econlit, che misura il numero delle pubblicazioni rilevanti: 30, più della media dei suoi colleghi. La musica cambia se si guarda l'indice Isi-Thompson, quello che calcola le citazioni che un autore ha ottenuto in lavori successivi: una misura indiretta e certo non infallibile della qualità di una pubblicazione, ma che permette di farsi un'idea sull'importanza di un docente. L'indice di citazioni di Brunetta è fermo sullo zero.

Le valutazioni degli indicatori sono discutibili, ma di sicuro il mondo accademico non lo ha mai amato: "L'università ha sempre visto in lui il politico, non lo scienziato", ricorda l'ex rettore dello Iuav di Venezia, Marino Folin. Nel 1991, da professore associato, riesce a trasferirsi all'Università di Tor Vergata. In attesa del Nobel, tenta almeno di diventare professore ordinario partecipando al concorso nazionale del 1992. In un primo momento viene inserito tra i 17 vincitori. Ma un commissario, Bruno Sitzia, rimette tutto in discussione. Scrive una lettera e, senza riferirsi a Brunetta, denuncia la lottizzazione e la poca trasparenza dei criteri di selezione. "Si discusse anche di Brunetta, e ci furono delle obiezioni", ricorda un commissario che chiede l'anonimato: "La situazione era curiosa: la maggioranza del collegio era favorevole a includere l'attuale ministro, ma non per i suoi meriti, bensì perché era stato trovato l'accordo che faceva contenti tutti. Comunque c'erano candidati peggiori di lui". Il braccio di ferro durò mesi, poi il presidente si dimise. E la nuova commissione escluse Brunetta. Il professore 'migliore d'Europa' viene bocciato. Un'umiliazione insopportabile. Così fa ricorso al Tar, che gli dà torto. Poi si appella al Consiglio di Stato, ma poco prima della decisione si ritira in buon ordine. Nel 1999 era riuscito infatti a trovare una strada per salire sulla cattedra. Un lungo giro che valica l'Appennino e si arrampica alle pendici del Gran Sasso, ma che si rivela proficuo. È a Teramo che ottiene infine il riconoscimento: l'alfiere della meritocrazia, bocciato al concorso nazionale, riesce a conquistare il titolo di ordinario grazie all'introduzione dei più facili concorsi locali. Nel 1999 partecipa al bando di Teramo, la terza università d'Abruzzo. Il posto è uno solo ma vengono designati tre vincitori. La cattedra va al candidato del luogo ma anche gli altri due ottengono 'l'idoneità'. Brunetta è uno dei due e torna a Tor Vergata con la promozione. Un'ultima nota. A leggere le carte del concorso, fino al 2000 Brunetta "è professore associato a Tor Vergata". La stranezza è che il curriculum ufficiale - pubblicato sul sito della facoltà del ministro - lo definisce "professore ordinario dal 1996". Quattro anni prima: errore materiale o un nuovo eccesso di ego del Nobel mancato?

Hanno collaborato Michele Cinque e Alberto Vitucci