25.2.05

Intervista a Lévi-Strauss

Lévi-Strauss: biografia

«Presto saremo nove miliardi. Questo pianeta che esplode mi disorienta»
di VERONIQUE MORTAIGNE

Claude Lévi-Strauss non voleva accordare un’intervista che riassumesse la sua carriera e il suo pensiero, ma, in occasione dell’Anno del Brasile in Francia, che comincerà in marzo, voleva tornare sul suo rapporto con il «Paese dal legno color brace». Con estrema cortesia, ci riceve nella sua biblioteca, in abito scuro e cravatta con nodo metallico ornato di motivi indigeni - «un banale artigianato», dice. Fra i volumi rilegati, un totem dell’Oceania, molti oggetti asiatici, un rotolo di preghiere tibetane.

Amazzonia: Claude Lévi-Strauss accampato sulla riva del Machado con la scimmietta Lucinda aggrappata alla gamba destra. L'immagine è tratta dal libro «Saudades do Brasil»: la raccolta di foto che l'antropologo scattò in Brasile tra il '35 e il '39, gli anni delle ricerch

Dal 1935, ha insegnato sociologia proprio all’Università di San Paolo. Cosa significa per lei oggi il Brasile?
«Rappresenta l’esperienza più importante della mia vita: per la lontananza e il contrasto, ma anche perché ha determinato la mia carriera. Mi sento profondamente in debito verso questo Paese. L’ho lasciato all’inizio del 1939 e l’ho rivisto solo nel 1985, quando ho accompagnato il presidente Mitterrand in una visita ufficiale di cinque giorni. Sebbene brevissimo, quel viaggio ha suscitato dentro di me una vera e propria rivoluzione mentale: il Brasile era diventato interamente, totalmente, un altro Paese. La città di San Paolo, che avevo conosciuto quando raggiungeva a stento un milione di abitanti, ne contava già più di dieci milioni. Le tracce e le orme dell’epoca coloniale erano scomparse. Era diventata una città spaventosa, con chilometri di torri. Avevo deciso di rivedere, non tanto la casa dove avevo abitato - che probabilmente non esisteva più -, ma almeno la strada che avevo percorso per anni. Invece, ho passato la mattinata bloccato nel traffico senza potervi arrivare».

È tornato dai suoi amici, gli indiani Caduveos, Bororó o Nambicuara che aveva studiato in Brasile?
«Nel 1985 Brasilia era una delle tappe del viaggio presidenziale. Il quotidiano O Estrado de Sao Paulo mi ha proposto di riportarmi presso i Bororó, un viaggio che nel 1935 m’era costato molta fatica ma che, in aereo, si poteva fare in qualche ora. Un mattino siamo quindi saliti su un piccolo aereo che poteva portare solo tre passeggeri: mia moglie, una collega brasiliana ed io. L’aereo ha sorvolato i territori Bororó, e abbiamo addirittura potuto scorgere alcuni villaggi con ancora le loro strutture circolari, ma ciascuno dotato, adesso, di un terreno d’atterraggio. Dopo averli sorvolati, il pilota ci ha detto: potrei atterrare, ma le piste sono così corte che forse non potrei ripartire! Abbiamo quindi rinunciato e siamo rientrati a Brasilia, attraversando un temporale spaventoso. Ho pensato che mai la nostra vita era stata così esposta al rischio, neanche all’epoca delle mie spedizioni. Tutto questo mostrava quanto il Paese fosse cambiato. Quindi, non ho rivisto i Bororó in carne ed ossa, ma il loro territorio; ho sorvolato quel Rio Vermelho, un affluente del fiume Paraguay, che avevo impiegato parecchi giorni a risalire in piroga e che, adesso, era costeggiato da una strada asfaltata».

Si può essere segnati fisicamente e per sempre da un Paese?
«Sicuramente. Come le dicevo, quello che mi ha colpito di più arrivando in Brasile è stata la natura, come la si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando ho potuto addentrarmi nell’interno, di nuovo, fu una natura così totalmente diversa da quella che avevo conosciuto... Ma esiste anche una dimensione alla quale non sempre prestiamo attenzione e che per me è stata capitale: quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a San Paolo si diceva che veniva costruita una casa all’ora. E c’era una compagnia britannica che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori ad ovest dello Stato di San Paolo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni 15 chilometri. Nella prima, la più antica, c’erano 15 mila abitanti, nella seconda cinquemila, nella terza mille, poi 90, poi 40 e, nella più recente, uno soltanto, un francese. In quel periodo, uno dei grandi privilegi del Brasile era di poter assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Da noi, la città è il risultato talvolta di una decisione dello Stato, ma soprattutto di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni Trenta, tale processo era più breve, si verificava in qualche anno. Certo, poiché praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa esperienza urbana ha contato molto; un Brasile e l’altro coabitavano, però a debita distanza. Quando sono andato verso il Mato Grosso per la prima volta, Brasilia non esisteva ancora, ma c’era già stato un primo tentativo di creare una città dal nulla, Gioiania, che non è andato in porto. L’altopiano centrale, il Planalto, è magnifico: lì il cielo attrae più d’ogni cosa».

Mario de Andrade aveva immaginato con molto umorismo Macunaïma, un indiano Tapanhuma d’Amazzonia bugiardo e pigro: diventato con il matrimonio imperatore della foresta vergine, sbarcò nella città di San Paolo per recuperare un amuleto prima d’essere trasformato in costellazione, la Grande Orsa. Questo spirito indigeno, questo legame fra città, foresta e mito perdura ancora? Ha seguito la sua evoluzione?
«Seguo l’evoluzione degli indigeni, che allora avevo studiato regolarmente, con il pensiero, e grazie a colleghi molto più giovani di me, come quelli dell’università di Cuiaba, nel Mato Grosso, che fra l’altro lavorano presso i Nambicuara. Mi scrivono e mi mandano i loro lavori. Questi popoli hanno subito sofferenze terribili. Sono stati più o meno sterminati, al punto che solo il 5 o il 10 per cento della popolazione originale era sopravvissuta. Ma quel che accade oggi è d’immenso interesse. Questi popoli si sono messi in contatto fra loro. Ormai sanno quello che per lungo tempo hanno ignorato: non sono più soli sulla scena dell’universo. Sanno che in Nuova Zelanda, in Australia o in Melanesia esistono individui che, in epoche diverse, hanno attraversato le loro stesse difficoltà. Sono consapevoli della loro comune posizione nel mondo. Beninteso, l’etnografia non sarà mai più quella che ho ancora potuto praticare ai miei tempi, quando si trattava di ritrovare testimonianze di credenze, di formazioni sociali, d’istituzioni nate in completo isolamento rispetto alle nostre, che dunque costituivano un apporto insostituibile al patrimonio dell’umanità. Adesso siamo, per così dire, in un regime di "mutua compenetrazione". Andiamo verso una civiltà su scala mondiale, dove probabilmente appariranno certe differenze. Perlomeno, lo speriamo. Differenze che non saranno più le stesse, saranno interne e non più esterne».

La rapidità di spostamento, la velocità di propagazione delle culture, la comunicazione sono fattori determinanti...
«Una volta, con i miei colleghi prendevamo cargo misti che, dopo molti scali, impiegavano diciannove giorni per arrivare in Sud America, fermandosi lungo le coste spagnole, algerine, africane. Del resto, dell’Africa conosco soltanto i luoghi dove abbiamo sostato all’andata e al ritorno dal Brasile».

La fotografia, che lei ha praticato come testimoniano i suoi numerosi cliché pubblicati, può fissare questi mondi perduti?
«Non ho mai dato grande importanza alla fotografia. Fotografavo perché era necessario, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo, una perdita d’attenzione. Eppure, da adolescente, ho amato la fotografia. Mio padre faceva il pittore e si occupava molto di fotografia. Per me, è un mestiere a parte. Il mio, è stato un lavoro da fotografo di livello zero. Nel 1994, ho pubblicato un libro di foto, Saudades do Brasil , che si può tradurre "Nostalgia del Brasile", perché sollecitato. L'editore ha scelto, fra tanti altri, un po’ meno di duecento cliché. Durante la prima spedizione presso i Bororó, mi ero portato una piccolissima cinepresa. Mi è capitato ogni tanto di premere il bottone e di riprendere qualche immagine, ma ben presto ne sono rimasto disgustato perché, con l’occhio dietro all’obbiettivo, non si vede cosa accade e ancor meno si capisce. Ne sono rimasti spezzoni che in totale corrispondono a un’ora di film. Sono stati ritrovati in Brasile, dove li avevo abbandonati, e una volta sono stati mostrati al Beaubourg. Devo confessarle che i film etnologici mi annoiano enormemente».

Lei è un melomane. Mitologiche comincia con un’ouverture e si conclude su un finale. Il Crudo e il cotto , il primo dei quattro volumi di Mitologiche , comincia con il racconto di un canto Bororó, il motivo dello scopritore d’uccelli. Ha analizzato la loro musica?
«No, non sono un etnomusicologo; non ho studiato i loro canti. A volte mi hanno colpito, altre commosso. Una delle mie prime emozioni risale alle cerimonie in occasione del mio arrivo presso i Bororó. Accompagnavano i loro canti agitando certi gingilli con un virtuosismo simile a quello di un grande direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Mesi fa ho ricevuto la visita di due indiani Bororó in compagnia di due ricercatori dell’università di Campo Grande del Mato Grosso, dove insegnano. Di loro iniziativa, hanno voluto, nel mio ufficio al Collège de France, cantare e danzare. Ed ecco, appunto, uno dei paradossi in cui viviamo: quei colleghi Bororó conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità canti e musiche che avevo udito settant’anni prima. Era veramente commovente. Detto questo, la musica è il più grande mistero con il quale ci confrontiamo. Ai miei tempi, la musica popolare brasiliana era molto gradevole».

Cosa può dirmi sul futuro?
«Non me lo chieda. Siamo in un mondo al quale già sento di non appartenere. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva un miliardo e mezzo d’abitanti. Il mondo attuale ne conta sei. Non è più il mio. E quello di domani, con nove miliardi di uomini e donne - anche se ci assicurano, per consolarci, che si tratterà del punto più alto della parabola - mi proibisce di fare qualsiasi predizione».


Le Monde/The New York Times Syndicate/Agenzia Volpe
(Traduzione di Daniela Maggioni )

25 febbraio 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/02_Febbraio/25/levistrauss.shtml

L'originale

Claude Lévi-Strauss, grand témoin de l'Année du Brésil
LE MONDE 21.02.05 15h12
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A la veille des célébrations du "pays du bois de braise" en France, l'auteur de "Tristes Tropiques" revient sur sa relation essentielle à ce pays, où il a fait ses premiers pas d'ethnologue. Aujourd'hui, souligne-t-il, la civilisation à l'échelle mondiale a mis fin à ce type de découverte.
L'imbrication de la France et du Brésil n'est-elle pas très ancienne ?

Cette Année du Brésil intervient presque exactement cinq cents ans après le premier contact entre la France et le Brésil lors du voyage du Normand Paulmier de Gonneville. Ce dernier touchait, en 1504, les côtes brésiliennes au sud, quatre ans à peine après le Portugais Pedro Alvares Cabral, qui les avait abordées près de Salvador de Bahia. Ainsi les témoignages les plus anciens que nous possédons sur le Brésil datent du XVIe siècle et sont français.

En 1555, il y eut l'entreprise de l'amiral Villegaignon pour établir une France antarctique, dont a témoigné André Thevet dans son grand ouvrage - Les Singularitez de la France Antarctique, publié en 1557 -. En 1578, Jean de Léry livre l'Histoire d'un voyage faict en la terre du Brésil. Puis, au XVIIe siècle, il y a, plus au nord, les tentatives d'installation de missionnaires. Plus tard, au XVIIIe siècle et au début du XIXe siècle, quand le Brésil devient un empire, on note la présence de peintres français - la mission artistique dépêchée à partir de 1815 par Louis XVIII, où figurait notamment Jean-Baptiste Debret -, qui nous ont laissé beaucoup d'illustrations de ce qu'était la vie à Rio de Janeiro et à l'intérieur du pays.

Bien sûr, il y eut des conflits entre la France et le Brésil, par exemple à propos des territoires voisins de la Guyane française que revendiquaient les deux pays. Mais la fondation de l'université de Sao Paulo au XXe siècle a permis de renouer des contacts très étroits.

C'est précisément à l'université de Sao Paulo que vous êtes allé enseigner la sociologie, dès 1935. Que signifie le Brésil pour vous aujourd'hui ?

Le Brésil représente l'expérience la plus importante de ma vie, à la fois par l'éloignement, le contraste, mais aussi parce qu'il a déterminé ma carrière. Je ressens à l'égard de ce pays une dette très profonde. Cela étant, j'ai quitté le Brésil au début de l'année 1939, et je ne l'ai revu très brièvement qu'en 1985, quand j'ai accompagné le président Mitterrand, qui y faisait une visite d'Etat de cinq jours. Bien que très court, ce séjour a produit en moi une véritable révolution mentale : le Brésil était devenu entièrement, totalement, un autre pays.

Ce Sao Paulo, que j'avais connu à une époque où il atteignait tout juste 1 million d'habitants, en comptait déjà plus de 10 millions. Les traces et les vestiges de l'époque coloniale avaient disparu. Sao Paulo était devenue une cité assez effrayante, hérissée de kilomètres de tours, à tel point que, désireux de revoir non pas la maison où j'avais habité - elle n'existait sans doute plus -, mais la rue où j'avais vécu pendant quelques années, j'ai passé la matinée bloqué dans des embouteillages sans pouvoir y arriver.

L'urbanisation de Sao Paulo en a fait disparaître la nature ; le fleuve Tietê, qui fut fondamental dans la conquête de l'intérieur du Brésil à partir de Sao Paulo, est moribond... Ce relâchement des liens entre l'homme et la nature n'est-il pas une caractéristique de notre époque ?

Même de mon temps, la nature de Sao Paulo avait déjà beaucoup changé. Il y avait eu l'époque du café, et tous les territoires alentour avaient été consacrés à cette industrie agroalimentaire. Mais, de cette nature si forte, il subsistait les flans de la Serra do Mar, entre Sao Paulo et le port de Santos. Et il y avait là, sur quelques kilomètres, une dénivellation de 800 mètres, tellement abrupte que la civilisation avait dédaigné l'endroit, au profit de la forêt vierge. De sorte que, lorsqu'on débarquait à Santos pour monter à Sao Paulo, on avait un contact bref, mais immédiat, avec ce que le Brésil de l'intérieur, à des milliers de kilomètres de là, pouvait encore réserver.

Le lien entre l'homme et la nature s'est peut-être rompu et, en même temps, on peut comprendre que le Brésil, qui s'est développé de manière si considérable, ait à l'égard de la nature la même politique que l'Europe au Moyen Age, c'est-à-dire la détruire pour installer une agriculture.

Etes-vous retourné chez vos amis les Indiens Caduveos, Bororos ou Nambikwaras, que vous aviez étudiés au Brésil ?

En 1985, Brasilia était l'une des étapes du voyage présidentiel. Le quotidien O Estado de Sao Paulo m'a proposé de me ramener chez les Bororos, un voyage qui m'avait beaucoup coûté en 1935, mais qui, en avion, pouvait se faire en quelques heures. Nous sommes donc montés un matin dans un petit avion qui ne pouvait prendre que trois passagers : ma femme, une collègue brésilienne et moi. L'avion est arrivé au-dessus des territoires bororos, nous avons même pu apercevoir quelques villages avec encore leur structure circulaire, mais chacun doté maintenant d'un terrain d'atterrissage. Et, après les avoir survolés, le pilote nous a dit : je pourrais y atterrir, mais les pistes sont si courtes que je ne pourrai peut-être pas repartir ! Nous avons donc renoncé, et nous sommes rentrés à Brasilia en traversant un orage épouvantable.

J'ai pensé que notre vie n'avait jamais été aussi exposée, même à l'époque de mes expéditions. Finalement, nous sommes arrivés juste à temps pour que ma femme se mette en robe du soir et moi en smoking pour assister au grand dîner offert par le président du Brésil au président français. Tout cela montrait à quel point le pays avait changé.

Je n'ai donc pas revu les Bororos en chair et en os, mais j'ai revu leur territoire, j'ai survolé ce Rio Vermelho, un affluent du fleuve Paraguay que j'avais mis plusieurs jours à remonter en pirogue, et j'ai constaté qu'il était maintenant longé par une route asphaltée.

Peut-on être marqué physiquement et à jamais par un pays ?

Sûrement. Mon premier choc en arrivant au Brésil, je vous l'ai dit, a été la nature, telle qu'on pouvait encore la contempler sur les flancs de la Serra do Mar ; puis, quand j'ai pu m'enfoncer dans l'intérieur, ce fut de nouveau une nature si totalement différente de celle que j'avais connue... Mais il y a aussi une dimension à laquelle on ne prête pas toujours attention et qui a été pour moi capitale : celle du phénomène urbain.

Quand je suis arrivé à Sao Paulo, on disait que l'on construisait une maison par heure. Et, à cette époque, il y avait une compagnie britannique qui, depuis quatre ou cinq ans seulement, ouvrait les territoires à l'ouest de l'Etat de Sao Paulo. Elle construisait une ligne de chemin de fer et aménageait une ville tous les 15 kilomètres. Dans la première, la plus ancienne, il y avait 15 000 habitants, dans la deuxième 5 000, dans la troisième 1 000, puis 90, puis 40, et dans la plus récente 1 seul - un Français.

A cette époque, l'un des grands privilèges du Brésil était de pouvoir assister, de manière quasi expérimentale, à la formation de ce fantastique phénomène humain qu'est une ville. Chez nous, la ville résulte certes parfois d'une décision de l'Etat, mais surtout de millions de petites initiatives individuelles prises au cours des siècles. Dans le Brésil des années 1930, on pouvait observer ce processus, raccourci, se produire en quelques années.

Bien sûr, et puisque je pratiquais l'ethnographie, les Indiens ont été pour moi essentiels, mais cette expérience urbaine a tenu une très grande place, et les deux Brésil cohabitaient, mais à bonne distance.

Quand je suis allé vers le Mato Grosso pour la première fois, Brasilia n'existait pas encore, mais il y avait eu une première tentative de créer une ville à partir de rien, Goiania, qui n'a pas abouti. Le plateau central, le Planalto, est magnifique : le ciel y prend toute son importance. C'est un autre ordre de grandeur.

Des romanciers tels qu'Euclides da Cunha - auteur d'Os Sertoes, traduit en français sous le titre de Hautes terres - ont magnifiquement décrit ce Brésil.

J'ai bien connu aussi Mario de Andrade - musicologue, poète, fondateur de la Société d'ethnographie et de folklore du Brésil - : il dirigeait le département culturel de la ville de Sao Paulo. Nous avons été très proches. Son roman Macunaïma est un grand livre.

Mario de Andrade avait imaginé avec beaucoup d'humour Macunaïma, un Indien Tapanhuma d'Amazonie plutôt menteur et paresseux, devenu par son mariage empereur de la forêt vierge, débarquant dans la ville de Sao Paulo pour récupérer une amulette avant d'être transformé en constellation - la Grande Ourse. Cet esprit indigène, ce lien entre ville, forêt et mythe, perdure-t-il ? Avez-vous suivi son évolution ?

Je suis l'évolution des indigènes que j'avais alors étudiés de façon très régulière, par la pensée, et grâce à mes collègues beaucoup plus jeunes que moi, notamment ceux de l'université de Cuiaba, dans le Mato Grosso, qui travaillent entre autres chez les Nambikwaras. Ils m'écrivent, m'envoient régulièrement leurs travaux. Ces peuples ont subi des épreuves terribles. Ils ont été plus ou moins exterminés, au point que seulement 5 % ou 10 % de la population originelle subsistaient. Mais ce qui se produit actuellement est d'un immense intérêt. Ces peuples ont pris des contacts les uns avec les autres. Ils savent désormais ce qu'ils ont longtemps ignoré : ils ne sont plus seuls sur la scène de l'Univers. En Nouvelle-Zélande, en Australie ou en Mélanésie, il existe des gens qui, à des époques différentes, ont traversé les mêmes épreuves qu'eux. Ils prennent donc conscience de leur position commune dans le monde.

Alors, bien entendu, l'ethnographie ne sera plus jamais celle que j'ai pu encore pratiquer de mon temps, où il s'agissait de retrouver des témoignages de croyances, de formations sociales, d'institutions nées en complet isolement par rapport aux nôtres, et constituant donc des apports irremplaçables au patrimoine de l'humanité. Maintenant, nous sommes, si je puis dire, dans un régime de "compénétration mutuelle". Nous allons vers une civilisation à l'échelle mondiale. Où probablement apparaîtront des différences - il faut du moins l'espérer. Mais ces différences ne seront plus de même nature, elles seront internes, non plus externes.

La rapidité de déplacement, la vitesse de propagation des cultures, la communication sont des facteurs déterminants...

Auparavant, nous prenions, mes collègues et moi, des cargos mixtes qui, après beaucoup d'escales, mettaient dix-neuf jours pour arriver en Amérique du Sud, en s'arrêtant sur les côtes espagnoles, algériennes, africaines. De l'Afrique, d'ailleurs, je ne connais vraiment que les haltes que j'y ai faites en allant et revenant du Brésil.

La photographie, que vous avez pratiquée, comme en témoignent vos nombreux clichés publiés, peut-elle fixer ces mondes perdus ?

Je n'ai jamais attaché beaucoup d'importance à la photographie. Je photographiais parce qu'il le fallait, mais avec toujours le sentiment que cela représentait une perte de temps, une perte d'attention. Pourtant, j'ai beaucoup aimé et pas mal pratiqué la photographie dans mon adolescence. Mon père était artiste peintre et bricolait beaucoup la photo. Mais la photographie constitue un métier à part, si je puis dire. Ce que j'ai fait est un travail de photographe au degré zéro. J'ai publié un livre de photos - Saudades do Brasil, que l'on peut traduire par "Nostalgie du Brésil", paru en 1994 - parce que, autour de moi, on a beaucoup insisté. L'éditeur a choisi un peu moins de 200 clichés parmi tant d'autres.

Lors de ma première expédition chez les Bororos, j'avais emporté une très petite caméra portative. Et il m'est arrivé de temps en temps de presser sur le bouton et de tirer quelques images, mais je m'en suis très vite dégoûté, parce que, quand on a l'œil derrière un objectif de caméra, on ne voit pas ce qui se passe et on comprend encore moins. Il en est resté des bribes qui font au total à peu près une heure de morceaux de films. Elles ont été retrouvées au Brésil, où je les avais abandonnées, et ont été montrées une fois au Centre Pompidou. D'ailleurs, je vais vous faire une confession : les films ethnologiques m'ennuient énormément.

Qu'en est-il du Musée de l'Homme ?

Le Musée de l'Homme va vers un nouveau destin. Il a été conçu selon une formule très ambitieuse, mais qui je crois ne répond plus aux réalités du moment. Son objet était d'unir la préhistoire, l'anthropologie physique, l'ethnographie, qui chacune ont depuis pris des voies divergentes. Pour ce qui est de l'ethnographie, le Musée de l'Homme prétendait montrer comment vivaient encore en 1920 et 1930 les peuples lointains qu'allaient étudier les ethnologues.

Cela ne répond plus au présent. Si on veut montrer comment vit aujourd'hui une population mélanésienne, encore inconnue en 1930, il faudrait mettre dans la vitrine des sacs de café, des Toyota à côté de quelques ustensiles traditionnels. Et ce serait une image mensongère. L'idée directrice du futur musée du quai Branly est de recueillir tout ce que ces civilisations ont produit de grand et de beau, en prenant en compte que ce sont des témoignages du passé.

Cela répond très bien au rapport que ces civilisations peuvent et doivent entretenir avec leur passé, et que nous pouvons aujourd'hui entretenir avec elles.

Peut-on considérer qu'un objet coupé de son contexte rituel, communautaire, garde son sens ?

Un masque qui a une fonction rituelle est aussi une œuvre d'art. L'approche esthétique ne me trouble pas du tout. Le Musée du Louvre est avant tout un musée des beaux-arts. Il a donc un esprit, une fonction esthétisants. Cela n'a jamais empêché l'histoire ni la sociologie de l'art de se développer, ni les conservateurs de ce musée d'être de très bons savants. Le fait de susciter l'intérêt ou l'émotion du public à travers de beaux objets ne m'inquiète pas du tout. L'esthétique est une des voies qui lui permettra de découvrir les civilisations qui les ont produits. Et ainsi certains deviendront des historiens, des observateurs, des savants qui se consacreront à ces civilisations.

Vous avez aimé et collectionné des objets au point de comparer les mythes, sujets de vos recherches, à de "très beaux objets que l'on ne se lasse pas de contempler". Les aimez-vous encore ?

J'aime toujours les objets, depuis l'enfance, le bric-à-brac. A une époque, les objets que nous appelions primitifs étaient accessibles aux petites bourses. Avec André Breton par exemple, quand nous étions aux Etats-Unis, nous savions que ces objets étaient aussi beaux que ceux des autres civilisations. Et qu'on pouvait les acquérir pour presque rien. Tous les objets ont maintenant un cours si élevé qu'on ne peut plus que les contempler de loin sans penser les posséder. Si les conditions étaient restées les mêmes, très certainement, je collectionnerais toujours. En 1950, j'ai eu des problèmes personnels et je devais à tout prix acheter un appartement. C'est ainsi que j'ai dû me séparer de ma collection.

Je vois aujourd'hui passer des objets qui m'ont appartenu. Le Quai Branly a acheté un haut de coiffure d'Indien de la côte nord-ouest du Canada, qui se trouvait, je ne sais pourquoi, dans une collection en province. Il y a au Louvre un masque à transformation kwaktiul. On va en revoir d'autres dans l'exposition organisée en mars dans le cadre de l'Année du Brésil au Grand Palais.

Il y aura là aussi des objets que j'ai collectés pour le Musée de l'Homme au cours de mes expéditions. Ceux-ci ont beaucoup souffert pendant la guerre, puis des mauvaises conditions de chauffage. Les coiffures de plumes se sont beaucoup abîmées, les plumes étaient collées avec de la résine ou de la cire. A l'époque où je ramenais mes collections, on s'imaginait qu'il fallait inonder mes boîtes d'un désinfectant dont les vapeurs dissolvent précisément ces résines.

Vous êtes mélomane, Mythologiques commence par une ouverture et se clôt sur un finale. Dans Le Cru et le Cuit, le premier des quatre volumes de Mythologiques, vous commencez par le récit d'un chant bororo - l'air du dénicheur d'oiseau. Avez-vous analysé leur musique ?

Non, pas du tout, je ne suis pas un ethnomusicologue ; je n'ai pas étudié leurs chants. Quelquefois ils m'ont frappé, parfois ils m'ont ému. D'ailleurs une de mes premières émotions a été les cérémonies qui se déroulaient quand je suis arrivé chez les Bororos. Ils accompagnaient leurs chants avec des hochets qu'ils manipulaient avec autant de virtuosité qu'un grand chef d'orchestre sa baguette.

Il se trouve qu'il y a quelques mois j'ai eu la visite de deux Indiens Bororos en compagnie de deux chercheurs de l'université de Campo Grande du Mato Grosso, la plus proche de leur territoire, et où eux-mêmes enseignent. Ils ont voulu pour moi, dans mon bureau du Collège de France, de leur propre initiative, chanter et danser. Eh bien là, c'est précisément l'un de ces paradoxes dans lesquels nous vivons : ces collègues bororos conservaient dans toute leur fraîcheur et toute leur authenticité des chants et une musique que j'avais entendus soixante-dix ans auparavant. C'était très émouvant.

Cela dit, la musique est le plus grand mystère auquel nous soyons confrontés. La musique populaire brésilienne de mon temps était d'ailleurs extrêmement savoureuse.

Que diriez-vous de l'avenir ?

Ne me demandez rien de ce genre. Nous sommes dans un monde auquel je n'appartiens déjà plus. Celui que j'ai connu, celui que j'ai aimé, avait 1,5 milliard d'habitants. Le monde actuel compte 6 milliards d'humains. Ce n'est plus le mien. Et celui de demain, peuplé de 9 milliards d'hommes et de femmes - même s'il s'agit d'un pic de population, comme on nous l'assure pour nous consoler - m'interdit toute prédiction...

Propos recueillis par Véronique Mortaigne

• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 22.02.05
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3246,36-398992,0.html

23.2.05

Spiati dal telefonino

ITALIE Record d'Europe des écoutes téléphoniques
250 000 Italiens espionnés chaque année

Rome : Richard Heuzé
[23 février 2005]

Ne parlez pas de langoustes ou d'olives sur vos téléphones italiens ! La police pourrait croire à un langage codé et ouvrira une enquête. C'est la mésaventure survenue à des magistrats et à des hommes politiques de premier plan, dans ce qui s'avère être la plus vaste affaire d'écoutes téléphoniques. L'affaire a été dévoilée par la compagnie du téléphone portable Tim. Dans une lettre au ministère de la Justice, cette société, qui fait partie du groupe de télécommunications Telecom Italia, fait valoir que les lignes de crédit destinées aux interceptions téléphoniques ont été épuisées. La lettre révèle non seulement l'ampleur du phénomène, mais aussi sa croissance exponentielle au cours des dernières années. Les téléphones de 12 000 à 13 000 personnes sont placés chaque jour sous contrôle judiciaire, à raison d'un maximum de quinze jours toléré par la loi. Chaque année, quelque 250 000 personnes seraient écoutées. De quoi faire pâlir de jalousie la «cellule de l'Élysée» qui avait espionné cent cinquante journalistes, politiciens et vedettes du spectacle pendant trois ans sous François Mitterrand.


Ni la sécurité nationale, ni la lutte contre le terrorisme italien ou étranger, ni même les grandes affaires de mafia et de corruption ne suffisent à justifier cette prolifération. Officiellement la Tim met 5 000 lignes par jour à la disposition de la justice. Ses concurrents en font autant. Le législateur impose d'obtenir la signature d'un magistrat au bas de chaque demande. Si l'on en croit des opérateurs du secteur, le numéro de téléphone du suspect est souvent laissé en blanc. A charge pour la police de compléter le formulaire.


L'an dernier, la justice italienne a déboursé 2,6 milliards d'euros en interceptions téléphoniques. C'est pourtant insuffisant, comme en témoigne une lettre envoyée au ministre de la Justice et pour copie à ceux de l'Économie et des Télécommunications. Son auteur, Pietro Guindani, président de l'association Astel des opérateurs du téléphone, fait valoir que les impayés de l'administration s'élè- vent à 200 millions d'euros. Il réclame une rencontre «urgente» pour «ne pas compromettre la gestion des demandes provenant des parquets». Autrement dit : pour ne pas suspendre les services d'interception et de décryptage, techniquement exécutés par les opérateurs, sous couvert du secret judiciaire.


Ces écoutes donnent parfois de bons résultats. Elles ont permis de démanteler plusieurs cellules d'al-Qaida en Italie. D'autres fois cependant, elles sont à l'origine de mésaventures sans fin. Du temps où il était ministre de l'Intérieur, l'ancien chef d'État démocrate-chrétien Francesco Cossiga était écouté parce qu'il était cousin du leader communiste Enrico Berlinguer. Du temps de la guerre froide, le leader communiste Armando Cossutta se savait espionné par «au moins douze services secrets, de l'Est comme de l'Ouest». Quant à un député sicilien de la majorité qui enquêtait récemment sur un scandale en Serbie, il s'est vu accuser de participer à un pseudo-trafic international de stupéfiants à la suite d'un échange banal de mots au téléphone.

http://www.lefigaro.fr/international/20050223.FIG0045.html

La lingua batte dove l'Europa duole

IDA DOMINIJANNI
Da qualche giorno l'italiano non fa più parte del gruppo ristretto delle lingue stabili dell'Unione europea, nel quale restano solo l'inglese, il francese e il tedesco. Per decisione della portavoce di José Manuel Barroso, infatti, la nostra lingua è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del lunedì, unico giorno in cui è comunque garantita la traduzione nelle principali lingue dell'Unione) dei commissari della Ue. La notizia è di qualche giorno fa e ha suscitato sulla stampa nazionale grande scandalo e alti lai. Il presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, intervistato venerdì scorso dal Corriere della Sera che è stato il primo giornale a lanciare l'allarme, ne deduce che il prestigio dell'italiano è in picchiata e denuncia l'assenza di una politica linguistica dell'Unione e di una politica del governo italiano di sostegno all'italiano: stante che le lingue europee sono venti, la Ue, sostiene Sabatini, dovrebbe «compensare» quelle che non vengono usate nelle sedi ufficiali finanziandone l'insegnamento e le traduzioni, mentre il governo italiano dovrebbe investire nel sostegno della lingua nazionale all'estero. Gianfranco Fini gli ha risposto assicurandolo che la promozione della lingua e dell'identità italiana nella Ue e in tutto il mondo è in cima alle priorità del suo ministero e degli istituti di cultura all'estero, che l'italiano rimane una delle lingue usate nelle riunuioni del Consiglio europeo, che la domanda di studio dell'italiano cresce ovunque nel mondo. Ma il problema ormai è sul piatto, e non riguarda solo le politiche di sostegno all'italiano: riguarda il rapporto fra lingua e identità nazionale per un verso, fra lingue e costruzione europea per l'altro. E spiace in verità che venga sollevato solo in termini di difesa identitaria e solo sulla base di un risentimento per l'esclusione della nostra lingua da una sede istituzionale. E' vero che, come ha scritto Raffaele Simone sul Messaggero, la cancellazione dell'italiano dalle lingue ufficiali dell'Unione rischia di depotenziare la comunicazione politica dei nostri rappresentanti; ed è vero che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corsera, quella cancellazione è segno di una perdita di peso politico dell'Italia nella costruzione europea, a vantaggio del peso della Gran Bretagna, della Francia e della Germania. In questa prospettiva, l'unica politica possibile per la nuova Europa sarebbe quella di un plurilinguismo sostenuto dai singoli stati e dalle istituzioni comunitarie, a garanzia di una Europa pluriculturale e pluriidentitaria, in cui la comunicazione, politica e sociale, resta affidata fondamentalmente a una continua opera di traduzione (che attualmente occupa un terzo dei laureati che lavorano nelle istiutuzioni Ue). Ma questa ipotesi non mancherebbe di sollevare, se non subito di qui a pochi anni, le obiezioni che già circolano oggi nei confronti dei modelli multiculturali anglosassone e olandese: troppe identità autoreferenziali, troppa poca mescolanza, troppo comunitarismo garantito dalle barriere linguistiche. C'è invece la possibilità di ribaltare l'ostacolo del plurilinguismo europeo in una opportunità di ibridazione e contatto fra culture e identità diverse?

Questa possibilità passa in primo luogo per il riconoscimento del problema. Il quale invece è stato, fin qui e malgrado l'anno europeo della lingua celebrato pochi anni fa, ignorato o rimosso, nel corso di un processo di costruzione europea ridotto alla pura dimensione istituzionale e costituzionale. Eppure, che l'esistenza di 11 lingue diverse, diventate 20 con l'allargamento ai paesi dell'est, fosse un problema difficilmente superabile nell'universalismo del linguaggio giuridico avrebbe dovuto essere chiaro. Come dovrebbe essere chiaro che nessuna politica protezionista e nessuna salvaguardia identitaria può reggere l'impatto con i processi sociali e culturali attraverso i quali una lingua si impone più di un'altra, o le giovani generazioni imparano più e meglio delle vecchie a comunicare in più lingue, via via che il romanzo di formazione europea si sostituirà al romanzo di formazione nazionale. Serve di più resistere a questi processi difendendo le barriere linguistiche e identitarie, o spingerli in avanti a costo di perdere ciascuno qualcosa, compreso l'agio della lingua materna? O meglio ancora, si può ripensare l'agio della lingua materna come qualcosa di irrinunciabile, ma a cui si può tornare per andare e andare per tornare, aprendosi al rischio della lingua dell'altro invece che rinserrandosi nella propria? Non è questa apertura, che passa anche e in primo luogo, l'unica strada per la costruzione di un'Europa aperta alla differenza, invece che arroccata sull'identità? Non vale la pena, per questo obiettivo, di correre qualche rischio di fraintendimento, invece di contare su un'intesa fredda garantita dagli esperti in traduzione?
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Febbraio-2005/art102.html

22.2.05

«Non c’è rancore. Usa ed Europa oggi possono spartirsi i compiti»

Cancelliere Schröder, come descriverebbe il rapporto personale con George W. Bush? «Ho sempre detto che mi piace discutere con il presidente Bush, è una persona con la quale si riesce a comunicare bene, indipendentemente dalle divergenze d’opinione che abbiamo avuto in passato. Non c'è alcun tipo di riserva personale tra noi».
Secondo i sondaggi molti tedeschi non si fidano di Bush. Si potrà invertire la tendenza?
«Non sono i sondaggi a orientare le relazioni tra Germania e Stati Uniti. Il nostro rapporto di collaborazione deve fondarsi sulla fiducia: è un imperativo imprescindibile per qualsiasi governo razionale. Il nostro è un governo razionale».
A che punto sono le relazioni transatlantiche?
«Sono convinto che oggi ciascuno conosca le reali aspettative e possibilità dell'altro. Non capita più che qualcuno si aspetti troppo o sottovaluti l'impegno della controparte. È, questa, un’ottima piattaforma sulla quale intavolare una discussione sulla spartizione internazionale dei compiti, oggi più realizzabile che mai. Prevedo che la visita di Bush avrà successo».
Nel dopoguerra in Germania raramente c’è stato un atteggiamento così negativo verso degli Usa. L’avversione all’America favorisce la popolarità politica?
«Questo ragionamento non funziona... Pensiamo ai sogni dei nostri ragazzi, dove studierebbero se potessero scegliere? La maggior parte in America. Mia figlia ascolta le canzoni in testa alle classifiche americane. Equiparare opposizione alla guerra in Iraq e antiamericanismo è totalmente sbagliato».
Il prossimo banco di prova delle relazioni Usa-Ue sarà l’Iran?
«Condividiamo gli stessi obiettivi con gli Stati Uniti. Soltanto gli strumenti con i quali realizzarli restano oggetto di discussione. Le potenze europee contano sui negoziati, credo che questo sia l’atteggiamento vincente. Perché i negoziati abbiano successo, occorre offrire qualcosa. Nel nostro caso, sono in gioco cooperazione economica e sicurezza».
Per molti americani, gli europei devono essere pronti ad assumere posizioni rigide con Teheran in caso di mancato rispetto dei patti e a trasmettere la questione iraniana al Consiglio di Sicurezza Onu.
«Il grilletto automatico è sempre pericoloso. Credo nel successo dei negoziati, ma non escludo ulteriori passaggi».
In quali circostanze riterrebbe giustificabile un'azione militare contro l'Iran?
«Sono contrario all'intervento militare, ma non amo fare speculazioni».
Perché Berlino è favorevole alla revoca dell'embargo sulle armi alla Cina, quando Taiwan è ancora sotto la minaccia militare cinese?
«Occorre comprendere perché l'Unione europea abbia posto l'embargo. Non per ragioni di politica estera o di sicurezza. Si trattò piuttosto di una reazione al massacro di piazza Tienanmen nel 1989. Dobbiamo domandarci se l'embargo sia ancora opportuno, viste le trasformazioni interne alla leadership di Pechino e i moderati progressi nel processo di liberalizzazione. Noi crediamo di no: l’embargo potrebbe essere revocato nella prima metà del 2005. Resta il fatto che non abbiamo la minima intenzione di procurare armi alla Cina».
I piani europei incontrano forti resistenze del Congresso Usa. La revoca inasprirà le relazioni transatlantiche?
«In America il dibattito è aperto. Non riesco a immaginare che i rapporti transatlantici ne possano risentire seriamente».
Ritiene si stia assistendo a una deriva antidemocratica in Russia?
«L'Occidente farebbe meglio a sforzarsi di comprendere la situazione nella quale si trova il presidente russo Vladimir Putin. Da cosa è partito? 75 anni di regime comunista, una fase di declino statale durata dieci anni. Ecco perché il suo primo obiettivo è restituire allo Stato un ruolo di garante della sicurezza per cittadini e investitori. Parimenti, si trova a dover gestire un conflitto (in Cecenia, ndr ) che non ha iniziato. Non bisogna sottovalutare la necessità di un’evoluzione democratica. Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che Vladimir Putin abbia raggiunto risultati apprezzabili, più di quanto l’Occidente non veda».
L’Occidente confonde questi tentativi di ricostruzione dello Stato con tendenze dispotiche?
«Nessuno allude a tendenze dispotiche».
Ha cambiato opinione sul conflitto iracheno?
«No e non lo farò, ma la guerra è ormai un pezzo di storia. Ciò che conta è quel che ne è venuto. Europa e America nutrono un comune interesse allo sviluppo democratico dell'Iraq. Interesse che condivido, anche se mi accusano d’incoerenza. Mi chiedo quali siano gli interessi del mio Paese. Sono convinto che dobbiamo contribuire alla stabilità di tutto il Medio Oriente».
Sarebbe contrario all'apertura di un ufficio dell'Ue a Bagdad?
«Se la Commissione Ue giudicherà di dover assicurare la propria presenza a Bagdad, non avremo nulla in contrario».

The Wall Street
Journal Europe
(traduzione
di Maria Serena Natale)
Marc Champion

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George e Jacques insieme «Fuori i siriani dal Libano»

«Invitare Chirac nel mio ranch? Cerco un bravo cowboy» «Questa cena dimostra l’importanza del nostro rapporto»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES - Seduti uno accanto all’altro, davanti a un finto fondale di Bruxelles, i due presidenti fanno di tutto per sprigionare se non amicizia, almeno vera comprensione. Alla fine, dopo quasi due anni di recriminazioni reciproche, l’americano George Bush e il francese Jacques Chirac riescono addirittura a firmare una «nota congiunta». E’ un appello secco (Bush avrebbe preferito un’intimazione) alla Siria perché richiami le truppe dal Libano (oltre 14 mila soldati). L’inchiostro della Casa Bianca si riconosce nell’aggettivo «immediato» aggiunto alla parola «ritiro»; la penna dell’Eliseo, invece, è visibile in quel lungo riferimento alle Nazioni Unite, che avrebbe fatto venire l’orticaria al Bush I. «Sosteniamo l’inchiesta dell’Onu sull’attentato terroristico contro Rafik Hariri (ex premier libanese)», recita il comunicato, che, con tutta probabilità, oggi sarà sottoscritto dagli altri 24 capi di Stato e di governo europei. Ma Chirac si è preso la libertà di anticipare tutti, «rubando la scena» a Tony Blair e anche a Silvio Berlusconi, gli alleati del tempo di guerra iracheno, gli interlocutori privilegiati che solo oggi incontreranno, in privato, il presidente americano. Bush, rilassato e a suo agio nel salottino dell’ambasciata statunitense, a un certo punto se n’è uscito al naturale. Una giornalista chiede al presidente statunitense: «Visto che i vostri rapporti sono così buoni, inviterà Chirac nel suo ranch nel Texas?». Bush inclina leggermente la testa e accenna un sorriso: «In effetti sto cercando un buon cowboy». Sguardi interrogativi, mentre Chirac annuisce. E infatti, a fine serata, salta fuori che Washington e Parigi stanno preparando da tempo la visita di «Chirac-cow boy», negli Stati Uniti. Si stanno cercando spazi nelle agende, ma il viaggio dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Bush, in fondo, ieri lo ha preparato con queste parole: «E’ la mia prima cena sul suolo europeo da quando sono stato rieletto e la faccio con Jacques Chirac: questo significa qualcosa no? Significa quanto sia importante questo rapporto per me, personalmente, e quanto lo sia per il mio Paese». Fuori si gela, ma da qualche ora quattromila manifestanti gridano da ore slogan cattivi («Bush assassino»), reggendo striscioni e cartelli che, nel 2003 e nel 2004, avrebbe potuto confezionare lo stesso Chirac («Stop Bush», «Americani via dall’Iraq»). Ora, però, il capo di Stato francese non ha altre scelte: se vuole davvero tornare al centro del gioco politico europeo, non può che riprendere il dialogo con gli Stati Uniti. Sarebbe stato tutto più facile se gli elettori americani gli avessero spedito John Kerry, ci ha sperato fino all’ultimo. Ma c’è ancora Bush e con Bush bisogna rimettersi a fare i conti.
Il lavorio diplomatico bilaterale, perfezionato con la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, sembra aver dato i frutti attesi. I due leader scartano accuratamente i dossier controversi e valorizzano i punti di intesa (fino all’anno scorso avrebbero fatto esattamente il contrario). Al centro dell’universo di Bush ci sono le esigenze del dopoguerra iracheno: ci vorrebbe più impegno dell’Europa, soldati, armi, attrezzature. Ma Chirac dice di essere disponibile, come sforzo massimo, a spendere 15 milioni di euro per addestrare 1.500 gendarmi, non a Bagdad, sia chiaro, ma nel confortevole Quatar. Inoltre Parigi consentirà oggi al segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Sheffer di presentare come un grande successo il modesto aumento degli esperti (da 110 a 200-300) inviati per addestrare gli ufficiali dell’esercito iracheno. Anche Bush, per ora, si deve accontentare. Come dovrà fare pure per i programmi nucleari dell’Iran. Nel corso delle due orette passate a tavola, Chirac ha spiegato che i «negoziatori», cioè i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania, non hanno fretta, anche se gli americani vorrebbero tagliare corto. L’altra area di contrasto è l’embargo alla Cina. I due capi di Stato ne hanno accennato brevemente, poi hanno preferito prendere nota delle posizioni ancora distanti e «lasciare maturare» il confronto. Le visioni comuni, invece, «la musica» come l’ha definita Javier Solana, possono risultare efficaci altrove. Con la Russia, per esempio, nel Medio Oriente e, appunto sul nuovo fronte Siria-Libano. Le ricadute politiche del nuovo corso potrebbero dare una mano anche alla cooperazione economica, dove non mancano le grane, come l’ambiente, «lo sviluppo sostenibile». Bush e Chirac hanno solo elencato i titoli, rimandandoli al vertice G8 di luglio in Scozia. Si è fatto tardi: per Bush e Chirac è già andata bene così.

Giuseppe Sarcina
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=ESTERI&doc=CHIRAC

20.2.05

Manifesto per la storia

Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.

Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.


note:

* Storico inglese. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.

(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.

(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).

(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.

(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.

(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.

(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.

(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».

(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.

(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.

(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.

(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.
(Traduzione di E.G.)

http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0412lm01.02.html

Fotografare l'invisibile: ora si può con i muoni

L'annuncio alla conferenza annuale dell'AAAS di Washington

I laboratori americani hanno messo a punto speciali detector che utilizzano la tecnica definita «radiografia con i muoni»

La Piramide del Sole, a Teotihuacan (archivio Corriere)
WASHINGTON – Un contrabbandiere di armi nucleari. Un vulcano che si prepara silenziosamente all’eruzione. La Piramide del Sole, a Teotihuacan, vicino a Città del Messico, vecchia di Duemila anni, ma ancora un mistero per gli archeologi. I loro segreti potrebbero essere presto rivelati da una nuova tecnologia che permette di fotografare l’invisibile. I laboratori americani di Los Alamos, nel New Mexico, hanno appena annunciato alla conferenza annuale dell’American Association for Advancement of Science, in corso a Washington, di avere messo a punto prototipi di detector capaci di identificare un container che trasporta materiale nucleare. Altri gruppi, dal Messico al Giappone, stanno lavorando a questa tecnologia, che si può definire radiografia con i muoni, con obiettivi diversi.

RAGGI COSMICI - «La terra è continuamente bombardata da raggi cosmici che al contatto con l’atmosfera creano particelle chiamate muoni – ha spiegato Rick Chartrand, che lavora nei laboratori di Los Alamos che dipendono dal Ministero dell’Energia americano e hanno il compito di assicurare la sicurezza del Paese. - Ogni minuto un muone passa attraverso ogni singolo centimetro quadrato di tutte le cose che esistono sulla faccia della Terra, siano esse animate o inanimate, con un flusso costante che può essere quindi misurato». I muoni passano, con grande facilità, attraverso rocce e metalli e possono essere facilmente identificati.

ALLE FRONTIERE - «Noi misuriamo - ha commentato Chris Morris, fisico a Los Alamos - l’angolo con cui il muone colpisce un certo oggetto e l’angolo con cui se ne va. Siccome plutonio e uranio, materiali che servono per fabbricare bombe nucleari, sono densi e hanno un nucleo ricco di protoni, deviano più facilmente i muoni rispetto ad altri materiali come l’alluminio o la plastica. Misurando i muoni possiamo facilmente identificare la presenza di questi materiali. Molto più facilmente che con i mezzi oggi a disposizione, come i raggi X. E senza pericolo di assorbire radiazioni nocive, per il personale. Bastano sessanta secondi per esaminare un camion a una frontiera».

NELLE VISCERE DEI VULCANI - Kanetaka Nagamine del Muon Science Laboratory dell’Università di Tokyo, invece, usa questa tecnologia per scandagliare l’interno dei vulcani e cogliere segnali premonitori di una potenziale eruzione. «Alcuni muoni ad alta energia - spiega Nagamine - quando raggiungono la superficie della Terra viaggiano orizzontalmente. Se mettiamo una serie di detector attorno a un vulcano, possiamo identificare i movimenti del magma presente al suo interno: se quest’ultimo sale, abbiamo un indizio di una probabile eruzione».

LA PIRAMIDE DEL SOLE - La Piramide del Sole a Teotihuacan, cinquanta chilometri da Città del Messico, è un mausoleo o un monumento cerimoniale? Ancora non è chiaro. Così i ricercatori, guidati dal fisico messicano Arturo Menchaca-Rocha, hanno installato, in un antico tunnel sotto la piramide, un rilevatore capace di registrare il flusso di muoni in arrivo attraverso la superficie. Dal momento che i muoni passano con difficoltà attraverso un oggetto denso, un flusso maggiore di muoni, in certi punti, potrebbe essere indicativo della presenza di spazi vuoti, cioè di camere di sepoltura sotto la piramide. I messicani stanno rispolverando, con strumenti molto più sofisticati, una tecnica già proposta quarant’anni fa dal premio Nobel per la Fisica Luis Alvarez per esplorare la grande piramide di Chefren in Egitto. Allora non aveva scoperto alcuna tomba.

Adriana Bazzi
20 febbraio 2005

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17.2.05

Se questa è una donna

di Barbara Spinelli

Non so se sia giusto guardare e riguardare in un video quel che abbiamo visto nelle ultime ore: Giuliana Sgrena imprigionata dai terroristi in una cella con pareti bianche senza finestre, umiliata, dimagrita, i capelli in disordine, spaventata a morte, gli occhi sgranati sulla notte in cui è stata gettata. Non so quanto quelle immagini servano alla sua sopravvivenza, anche se sembrano fornir la prova che è viva. Il film del suo denudamento e del suo strazio è un calice d'ebbrezza offerto ai sequestratori terroristi, dilata il piacere speciale che essi traggono dal filmare la vittima e diffondere il volto e le mani imploranti di una Giuliana così forte ieri, così sfigurata e supplicante oggi. Questo è così insopportabile e torvo, nella diffusione del film e in noi che lo coviamo con occhi disperatamente avidi, ma pur sempre avidi.

È un piacere di duplice natura, quello dei terroristi. Da una parte essi possono compiacersi del potere senza confini che possiedono sull'animo d'un essere umano, e in particolare su una donna che sanno indipendente: un animo che vogliono mostrare di saper plasmare a piacimento, e che stanno degradando a grumo di sofferenza e lacrime. Dall'altro vedono noi tutti - padre, madre, fratello, uomo di Giuliana; e sullo sfondo noi cittadini e i politici italiani - che assistiamo impietriti, e abbiamo l'impressione d'un nulla trionfante, e siamo come complici di questo nulla fatto d'impotenza e non-pensiero. Nulla ha senso in quel che vediamo, se si considera che Giuliana era contro la guerra in Iraq ben prima della cattura. Nulla ha senso nel litigio tra politici sulle nostre truppe in Iraq, se ragioniamo serbando nella memoria tracce di quel filmato. Il film stesso è figura del nulla, verso cui tendono i mujahiddin-carcerieri e dentro cui precipitiamo tutti noi che procuriamo ebbro tumulto nei sequestratori, accettando di guardare la loro pornografia del terrore.

Comunque ora siamo di fronte al video, e con esso dobbiamo fare i conti provando nonostante tutto a pensare e capire, pur non giustificando. È una sensazione che non conoscemmo quando rapirono Moro, e leggevamo lettere e implorazioni scritte su fogli. L’irruzione di video trasmessi nel pianeta introduce un elemento d'intimità del tutto inerme, scardina l'ordine delle cose, le tramuta radicalmente. Osserviamo quel volto rimpicciolito, quelle mani che si torcono, quel sussulto di pianto, e tornano alla mente le immagini di Auschwitz. Giacché fu questo, Auschwitz: la degradazione dell'umanità, nell'uomo illimitatamente umiliato.

Se questo è un uomo. Se questa è una donna. Mentre Giuliana Sgrena supplica, non ci sono che le parole di Primo Levi, che possano aiutare a non perdersi nel nulla e a comprendere qualche scheggia del reale. Chi è stato ridotto così non pensa che a prolungare il giorno: «Oggi e qui, nostro scopo è di arrivare a primavera, e tutto è grigio intorno e noi siamo grigi». Il prigioniero si trova intruso in ambienti sconosciuti, intorno tutto gli è nemico. In quelle condizioni, «il primo ufficio dell'uomo è perseguire i suoi scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga». La notte «è tale, che si conobbe che gli occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere».

Ridotto a «merce di dozzina», ecco l'uomo: «In viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiù, verso il fondo». Se parlo di Auschwitz, è perché Giuliana Sgrena è oggetto di un crimine speciale: il crimine contro l'umanità, che annienta nell'uomo quel che di lui ancor ieri conoscevamo.
Tutto questo Giuliana Sgrena immagino lo sappia. Da quel che so di lei lo sapeva fin da quando condannò, in Algeria, un terrorismo cui essa stessa diede il nome di crimine, imprescrittibile, contro l'umanità. Ma conoscendo Giuliana so che il messaggio non è solo questo. Quel che ha scritto, quel che dice la sua attività di indagatrice del Manifesto in Iraq, è la sciagura seminata dalla guerra in Iraq, oltre al male assoluto imputabile agli integralisti violenti e al particolare odio che essi nutrono verso la donna, emblema dell'individuo libero. È il male di una guerra che ha dilatato l'accanimento granitico e la forza logistica del terrorismo in nome di Dio, e che dunque non è stata solo premessa necessaria anche se dolorosa delle elezioni irachene.

Ci sono momenti storici di svolta che individuiamo noi, e ce ne sono altri che son visti da altri occhi, altri animi. Per noi l'ora della svolta è nelle elezioni del gennaio 2005. Per un numero enorme di iracheni e musulmani il punto di svolta, di krìsis, è un altro: è nel maggio 2004, quando sugli schermi mondiali si vide la mortificazione sprezzante d'un popolo e d'una religione nelle prigioni di Abu Ghraib. Giuliana Sgrena ne parla nel video - anche se sembra recitare a precipizio un copione - ma ha descritto l'evento già prima, quando fece parlare le donne torturate e violentate da carcerieri occidentali. Noi tendiamo a scordare quel momento, in cui i coalizzati (compresi i soldati italiani, pur non coinvolti in torture) furono visti come occupanti e aguzzini. Tanti, troppi iracheni non lo dimenticano, e non lo dimenticheranno.

Questo non significa che l’agire dei terroristi sia giustificato, e neppure comprensibile: nulla di quello che hanno fatto angloamericani e alleati può essere neanche lontanamente paragonato a un crimine che ricorda Auschwitz proprio perché non vede niente, non capisce niente, non considera niente quando degrada o uccide. Se qui si sottolinea l’importanza di Abu Ghraib per molti iracheni è per penetrare una follia che si potrà nel futuro estirpare o addomesticare, a condizione di sfruttarne gli interni meccanismi.

La verità che Giuliana Sgrena ha cercato non possiamo far finta che non esista nella sua essenza complicata. È la verità d'un integralismo che non esita a commettere crimini contro l'umanità. Ma al tempo stesso - e senza assolutamente mettere sullo stesso piano soldati occidentali e terroristi - è la verità di eserciti di occupazione che stanno facilitando la democrazia ma che accrescono al contempo la febbre del crimine nel cuore dell’Iraq non ancora sovrano. Su tutto questo val la pena cominciare a pensare, in maniera intransigente verso i carnefici ma non semplificante. Siamo di fronte a una tragedia, e trovare il sentiero stretto che tenga conto della profondità del male e delle ragioni che esso pretende accampare è così difficile. Ma quel che è difficile va sempre di nuovo tentato, con la mente e con l’azione, se non vogliamo diventare noi stessi comparse del video che tanto diletta i carcerieri di Giuliana Sgrena.

http://www.lastampa.it/redazione/editoriali/ngeditoriale1.asp

E' viva

LUCIANA CASTELLINA

Avederla così smagrita, addosso un abituccio verde che nessuno le conosce, pallida e certo spaventata, il cuore ci si stringe, in redazione molti non trattengono le lacrime. Ma il video firmato da un'improbabile sigla - mujaheddin senza frontiere (quasi un'ironia verso le tante organizzazioni occidentali che si nominano così ) - è stato recapitato all'hotel Palestine a Baghdad: è un segnale che Giuliana è viva. Dopo due settimane di silenzio e incertezza totale è già qualche cosa. Di più di quanto non abbia fino ad ora ottenuto Libération per Florence Aubenas, sparita da quaranta giorni con il suo interprete Hussein Hanoun, senza che mai nessuno si sia fatto vivo. Ci chiedono se in questa immagine così drammatica la ritroviamo. Direi senz'altro di sì: le prime parole che pronuncia sono proprio sue, quelle che ha sempre detto: «Sono venuta qui per testimoniare di questo popolo che muore ogni giorno». E poi parla dei bambini, dei vecchi, delle donne violate, delle cluster bombs. Sono le stesse parole che ha scritto fino a quando non è stata rapita, ogni giorno dando voce a chi in Iraq non ce l'ha. Per far capire che a non voler l'occupazione è il popolo, tutto il popolo iracheno, quelli che hanno deciso di esprimersi con le armi, quelli che hanno scelto di dirlo con il voto, quelli che hanno perduto tutto e restano a piangere i loro morti nelle tende dove, a migliaia, sono stati collocati i rifugiati. Gli ultimi che Giuliana ha visto, prima di esser portata via nei pressi della moschea dove stanno ammassati quelli di Falluja. Ripete che la presenza straniera porta sofferenze e violenza, che occorre porre fine all'occupazione se si vuole porre fine alla violenza.

Nonostante il timbro turbato della sua voce, che a momenti rompe in un singhiozzo, è proprio la nostra Giuliana.

L'angoscia più forte ce la dànno le ultime frasi, quando si appella direttamente al suo compagno, Pier. Non perché non sia naturale - chi non lo farebbe in quelle condizioni? - ma perché in questa particolare richiesta di aiuto al suo uomo emerge con maggior evidenza la sua personale, umanissima condizione di donna prigioniera, sul collo il fiato pesante della condanna a pagare per le colpe di chi pure lei stessa ha sempre combattuto.

Le ultime frasi di Giuliana si rivolgono a chi è impegnato a preparare la manifestazione, per liberare lei e con lei la pace: quelli- dice - «con cui ho sempre lottato». Sembra quasi che Giuliana sappia di sabato 19. Da questo tristissimo video è lei stessa che ci invita tutti a raddoppiare gli sforzi per porre fine alle sofferenze del popolo iracheno e alle sue, per liberare ambedue.

Noi non possiamo decidere di ritirare le truppe italiane dall'Iraq, i rapitori di Giuliana lo sanno benissimo. Possiamo però dimostrare, con l'ampiezza della protesta, che la grande maggioranza del popolo italiano vuole porre fine all'occupazione.

L'Europa dei governi è divisa, o reticente. Ma l'Europa dei popoli - lo hanno dimostrato i sondaggi - è tutta, persino all'est dove i governi sono i meno autonomi dal ricatto americano - unita nel dire no alla guerra. Se non tutti i governi hanno recepito questa richiesta; se non hanno espresso quel che vuole la maggioranza dei loro cittadini; se solo una minoranza in alcuni parlamenti - ma in quello italiano una minoranza assai larga e per la prima volta unita - si è fatta interprete della propria opinione pubblica, vuol dire solo che c'è qualcosa che non funziona nella nostra democrazia.

15.2.05

UN COMUNISTA IRRECONCILIATO

Per Luigi

di Rossana Rossanda

Gli omaggi resi a Luigi Pintor giornalista e le lacrime sparse su di lui come figura morale sono stati autentici, un paio di generazioni hanno pianto lui e se stesse. Ma è come se l'emozione permettesse di non sottolineare che era stato comunista, parola oggi impronunciabile, se non criminale, ingannevole da sempre. Ma non si capisce Luigi se non si tiene a mente che è stato un comunista del Pci e poi del «manifesto». Se i suoi ultimi accenti sono stati amari è perché il presente andava per altre strade, segno della fatale sordità umana.
Era poco più che un ragazzo quando raccoglieva il messaggio che gli lasciava il fratello Giaime nell'autunno del 1943. Nella lettera, Giaime prendeva commiato dallo spazio che si era dato - il fascino dello scavare nella cultura e letteratura della Germania mentre precipitava nella tragedia nazista. La guerra tagliava i tempi personali; Giaime indossava la veste del combattente con tanta decisione quanto poca enfasi, bisognava smettere gli indugi brindisini, raggiungere le formazioni partigiane del Centro nord. Si mise in strada e saltò su una mina tedesca. Luigi ne avrebbe cercato il corpo nel dopoguerra. Si gettò intanto nella resistenza romana, e ne sarebbe scampato vivo per quella casualità che decide di molte umane cose.
Era naturale essere nel Pci quando la guerra finì, era la sola grande forza popolare che capiva quel che il fascismo ci aveva insegnato, che senza una forza socialista anticapitalista la stessa democrazia poco voleva e valeva. È naturale lavorare a «l'Unità»: la sua scrittura prodigiosa e asciutta ne faceva naturalmente un editorialista e notista politico, inchiodando con eleganza la debolezza dell'avversario e dando le parole giuste ai subalterni in via di diventare classe generale, portatori di speranza e di orgoglio. Luigi avrebbe lasciato il segno anche nella televisione appena si aprì all'opposizione, cosa che non avvenne (a proposito di consociativismo della Prima Repubblica) fino alla campagna elettorale del 1963: pareva nato per la domanda o l'obiezione fulminante quando ancora gli altri si impappinavano davanti al piccolo schermo. Chi blatera oggi del Pci come una selezione di burocrati al servizio del Pcus e masse al servizio dei capi non ha idea di che cosa sia stato essere comunista in quegli anni.
Chi non conosceva Pintor? Anche io, che lavoravo a Milano. Ma una sera forse Reichlin mi portò nella sua casa di via Tazzoli, in Prati. Saranno stati i secondi Anni Cinquanta. C'era molta gente, Marina dagli occhi brucianti, il gatto Matteo, una rosa rossa sul pianoforte. Quando Luigi suonò - non sapevo quel che la musica era per lui - gli dissi d'impeto: - Se sapessi suonare così non farei politica. Mi guardò malissimo.
Erano anni di grandi passaggi. Lo sbaraccamento dell'industria di guerra, le lotte per il lavoro, le schedature nelle fabbriche, la batosta alla Fiat andavano verso la fine, come le occupazioni contadine al Sud: l'economia riprendeva e con essa un nuovo movimento operaio. L'Italia si era industrializzata, la composizione sociale mutava, le città crescevano tumultuosamente. Il popolo meridionale sul quale il Pci aveva avuto suoi intellettuali e le sue masse cedeva il passo, dilagavano nuove idee e costumi. E contro ogni previsione nel migrare a Torino, Milano, Genova i contadini si facevano subito proletariato.
Il Pci ricominciava a crescere. Il 1956 era bene o male digerito - Luigi dovette essere di quelli che incassarono mettendolo in conto alla crudeltà dell'esistente - anzi l'VIII Congresso aveva aperto alcune porte. L'estate del 1960 sarebbe stata il crinale dopo il quale la Democrazia cristiana non avrebbe potuto più governare da sola. Il centrismo vacillava, i socialisti avevano iniziato una svolta che li rendeva compatibili con un governo moderato disposto a qualche apertura. E come l'Italia mutava la scena mondiale, la nuova frontiera di Kennedy - ma il Vietnam e Berlino restavano bollenti - le decolonizzazioni erano precipitose quanto dense di nuovi conflitti, la coesistenza pacifica prendeva la sua zigzagante strada e l'Urss e la Cina si dividevano. Con Giovanni XXIII cadeva il bastione conservatore della chiesa, non eravamo più scomunicati e l'ecumene parlava un linguaggio sorprendente.
Fu un periodo entusiasmante. Anche il Pci era spiazzato. Era sempre stato sulla difensiva, ora avrebbe potuto uscirne. Ma come leggeva l'`ora'? Nei primi anni Sessanta qualcuno nel gruppo dirigente, Alicata, Amendola - in preparazione del X Congresso - si chiesero se l'avere imposto la pace al capitalismo già presunto naturale portatore di guerra (Jaurès) non ne cambiasse la natura, se non si dovesse prendere atto di nuovi diversi capitalismi che forse depauperavano la lotta di classe - cominciava un uso disinvolto di Gramsci e dello `storicismo'. Si irrigidirono i conservatori ma si delineò anche un'opposizione di sinistra interna. Il capitalismo restava tale, anzi era l'ora di riscoprirlo dietro la questione nazionale, e doveva cessare l'idea che fosse incapace di crescita per cui toccava a noi riprendere le bandiere della democrazia lasciate cadere dalla borghesia; il capitale italiano prendeva la testa di alcune produzioni, innovava nel processo, nel prodotto, nelle relazioni industriali. Lo aveva capito il V Congresso della Cgil. Vi sbattevamo il muso a Torino e a Milano. Una linea di classe, aggiornata e intelligente, andava ripresa dopo anni di democrazia in generale. Il primo scontro avvenne a un convegno del Gramsci nel 1962.
Ne veniva anche un diverso giudizio sull'apertura dei Dc ai socialisti: li avrebbero ingoiati, sospettavamo noi, no era la sinistra che sfondava, obiettavano amendoliani e centro. Bisognava radicalizzare le lotte, dicevamo noi, l'occhio alle magliette del 1960 e al Natale degli elettromeccanici; no, la vecchia linea obiettava il gruppo dirigente. La differenza di sensibilità fra il partito delle grandi zone industriali e quello del Mezzogiorno, si articolava. Ma il sospetto che si andasse a uno sbocco compromissorio univa le sinistre di sud e nord. Questa è la discussione che segna la generazione mia e di Pintor. Il 1956 era stato in qualche modo fuori delle nostre responsabilità, mentre ora si trattava di noi, quel che il Pci voleva e doveva essere, qui in Italia. Tornava forse all'ordine del giorno la `rivoluzione italiana', come aveva accennato Togliatti? E quale rivoluzione?
Su questo si forma una sinistra del Pci. La divisione ha le sue icone: Amendola da un lato e Ingrao dall'altro, il primo spregiudicato nel servirsi di regole e poteri dell'apparato, il secondo corretto fino allo scrupolo nei rapporti interni. Il partito non era attrezzato a una discussione. Dalla fine degli anni '50 al 1964 la divisione corre sotto traccia.
Nel 1964 la morte di Togliatti privò il partito del solo in grado di mediarla, come allora si diceva, `spostandone il terreno in avanti'. Togliatti era stato appena sepolto che Amendola uscì con la proposta di unificazione del Pci con il Psi, chiudere la parentesi aperta dal Congresso di Livorno. Ingrao, Trentin ed io opponemmo la proposta di una unità trasversale fra le sinistre di ambedue i partiti e sindacati. Centro e destra si compattarono per mandar la nostra palla in corner, ma Pintor, Natoli e Occhetto, allora alla testa d'una Fgci scalpitante, ci votarono contro. Era il maggio 1965 e tutto fu silenziato.
Questa storia, che attraversò tutti gli anni `60, non è stata fatta e l'XI Congresso la chiuse ruvidamente: Ingrao pose la questione del dissenso e, nella formula non evidente del modello di sviluppo, quella dell'alternativa. Fu battuto e seguì lo sterminio dei sospettati di `ingraismo': io ero già stata sospesa dalla commissione culturale, Magri veniva messo fuori dall'apparato, Castellina separata dai suoi incarichi, Natoli isolato a Roma e Pintor, che non aveva taciuto a «l'Unità» fu mandato al confino in Sardegna. Lo stesso accadde nelle federazioni. Si può dire senza errore che il Pci individuò il futuro «manifesto» prima che si riconoscesse da sé.
Si cominciò allora a discutere fra noi con qualche frequenza, noi gli epurati veri e propri, e Ingrao e Trentin e Reichlin e Luporini, e alcune federazioni Genova, Torino, Venezia, Roma e, con Luigi, Cagliari. Si formava una posizione diffusa mentre precipitavano gli anni Sessanta. Il 1968 l'avrebbe fatta precipitare: le agitazioni studentesche erano cominciate dal 1967 a Venezia e a Trento, dilagarono alla fine dell'anno a Torino, e poi in tutti gli altri centri tra occupazioni e manifestazioni di strada. Nel febbraio 1968 ci fu anche qualche prima grande lotta operaia (Marzotto). Ardeva il Vietnam, si dubitava della pacifica coesistenza, dalla rivoluzione culturale cinese venivano eco sorprendenti assieme libertarie e rigide, antigerarchiche e asperrime - società e partito erano in fibrillazione. Il 1968 cominciò con un scontro nella direzione del partito sulle pensioni e gli studenti, ad aprile Dubcek inaugurava il nuovo corso di Praga e il solo determinato a sostenerla era Luigi Longo, poi il maggio francese dilagò - succedeva di tutto. E ci si divideva su tutto, potevamo dividerci senza andare a una spaccatura? Ancora una volta nella sessione del Comitato centrale di luglio 1968 vinse la prudenza e ad agosto, dopo l'invasione di Praga, Longo la definì un «tragico errore». Ma quale errore, Pintor e Natoli dissero no, non tragico errore, ma logica conseguenza di quel che era diventata l'Unione Sovietica. Fu, credo, il primo voto ruvido contro. Nell'autunno si prepararono le tesi del XII Congresso e gli schieramenti si definirono: Pintor, Natoli ed io, e Caprara e Milani, votarono contro e molte federazioni si divisero.
Al XII congresso arrivavo io sola con diritto di voto, Natoli e Pintor con diritto di parola come membri del Comitato centrale uscente. Ci dividemmo gli interventi: situazione internazionale, partito, movimento. Parlammo fra grandi applausi al mattino presto, scandalo e fragore. Proponemmo e poi depotenziammo poco gloriosamente una mozione. Fummo riconfermati nel Comitato centrale solo noi tre ma del tutto privi di incarichi e praticamente di parola.
Fu allora che decidemmo di fare un mensile. Luigi Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Ninetta Zandegiacomi ed io. Si sarebbe visto se osavano cacciarci. No, mi assicurò all'inizio Berlinguer, sì vi cacceranno, previde Ingrao. Molti che ci avevano incoraggiato ci lasciarono. E, più coerenti, coloro che il mensile non approvavano, lo stesso Ingrao, Trentin, Reichlin, Garavini, diversi intellettuali. Luigi Pintor aprì il primo numero del «manifesto» con un editoriale presago: Un dialogo senza avvenire. Quello con la Dc.
Il Pci chiese di sospendere la rivista, in discussioni durate quattro mesi e due Comitati centrali. Al secondo consegnò la questione alle federazioni le quali se ne appassionarono fin troppo. Il gruppo dirigente, contrariato, indisse un terzo Comitato centrale che ci radiò. Dopo Cucchi e Magnani, poi riammessi, eravamo i primi componenti del Comitato centrale espulsi. Era il 23 o 24 novembre del 1969, toccava in pieno l'autunno caldo.
Eravamo fuori. La speranza di inserire un polo critico all'interno del Pci era fallita. Molto falliva con questo. Formati in una grande organizzazione non prendevamo con leggerezza l'averla perduta: c'era un grande bisogno di cambiamento nel paese, e nella sua parte più vitale, le masse studentesche e quelle operaie, che parlavano in assemblee trascinanti. Quella che avevamo chiamato «Maturità del comunismo» produceva delle soggettività di cambiamento in tutti i settori, dai soldati ai giornalisti ai medici agli insegnanti. Ma apriva un conflitto, grande, e non lo avrebbe sostenuto senza organizzarsi, senza darsi strutture solide. In fondo avevamo sperato che una parte consistente del Pci sarebbe stata una di queste. Radiati non demmo la consegna di seguirci nella speranza che quel che avevamo seminato all'interno potesse esprimersi ancora; errore, tutto il Pci si rinchiuse, e gli `ingraiani' ci rimproverarono di averli messi, con la nostra forzatura, in difficoltà.
Il movimento comprava la rivista - mai un mensile aveva avuto il nostro successo, decine di migliaia di copie - ci leggeva ma dubitava dei quarantenni comunisti che eravamo, considerando il Pci e la Cgil come i primi nemici, quelli che tradivano il 1968. Noi ne eravamo vittime. Stimate ma troppo ragionanti, troppo poco antistituzionali, troppo diversi. Non so se il giudizio su di noi non contenesse delle verità, ma certo nessun altro dei gruppi nati dal 1968 riuscì ad esprimerlo e organizzarlo. Perché? La vera domanda, cui non rispondono gli ex sessantottini pentiti, che sono un esercito, è perché nessuno vi sia riuscito, restando, nella migliore delle ipotesi, una intelligente minoranza. Come se chi si muoveva con parole d'ordine e volantini fin estremi, e in forme sovvertitrici del linguaggio e dei metodi delle sinistre, affidasse contraddittoriamente ancora a loro la rappresentanza. Negli anni successivi il Pci capitalizzò i voti cresciuti sul 1968 che non lo amava affatto.
Se riandando a Luigi Pintor torna a galla tutta la nostra vicenda, è perché il segno suo e del «manifesto», è di non essersi contentato mai di essere minoritario, diversamente da altri gruppi, e diversamente da altri gruppi di non essersi mai estinto. Non riuscimmo ad avere la dimensione pari alle nostre ambizioni. Non ci premeva di essere noi il nuovo grande partito, ci premeva di fare in modo che si formasse un'organizzazione all'altezza della crisi della sinistra storica e delle dimensioni del movimento. E che unisse quella radicalità all'esperienza migliore dei comunisti, rivisitata, depurata dal politicismo. Non vi riuscimmo mai, ma non ci spegnemmo mai. Come una ostinata candela.
Quello fu l'obiettivo nostro e per diversi anni senza differenze. Lavoravamo assieme ogni giorno alla rivista, scrivendo e discutendo tutto quel che veniva steso. La sede a Piazza del Grillo era tutto un via vai. Fu un collettivo entusiasmante. Nell'estate del 1970 stendemmo, specie Natoli, Pintor, Magri ed io le Tesi sul comunismo - un comunismo che non era quello della presa del Palazzo d'Inverno. Non poche di quelle analisi risultano oggi giuste, tutte fuorché la capacità di farsi soggettività politica del disegno di cambiamento che riempiva facoltà, fabbriche e piazze. Uno solo dei gruppi del resto discusse con noi sul serio, Potere operaio, con il quale facemmo un convegno a cavallo del 1971 a Milano.
Pintor e Magri scalpitavano, occorreva un moltiplicatore. Decisero di lanciare un movimento-partito, la pressione dei compagni in periferia era forte. Qualcuno di noi - non Luigi - esitava. L'anno seguente la stessa pressione ci portò a presentarci alle elezioni del 1972. Intanto - eravamo su piazza da un anno - Pintor propose di colpo: facciamo un quotidiano. Un quotidiano? Dove avremmo trovato i soldi, la gente che scrivesse? Pareva una follia. Ma ci buttammo. Era una sfida, poi si sarebbe visto.
Il quotidiano è stato prima di tutto e specificamente lui, Luigi. Era uno strumento politico per i tempi nuovi, si sarebbe infilato agilmente nelle menti, sarebbe arrivato alle coscienze dove le organizzazioni non arrivavano. Bisognava reinventare il quotidiano, strumento che conosceva da vent'anni di pratica. Anzitutto un quotidiano povero, Pintor sapeva che «l'Unità» costava una barca di soldi. Ma era obbligatorio? No. I giornali erano una massa di carta, chiacchiere e pubblicità, manipolatori delle teste, induttori ai consumi, capaci anche di informare e di affogare nel brusio quel che c'è di importante. Noi avremmo fatto un giornale, che avrebbe detto tutta e sola la verità, intesa come verità politica, non reticente come nei giornali di partito e non affogata in mille scempiaggini come nelle testate dette indipendenti. Avremmo fatto a meno di un editore-padrone, neanche se avessimo avuto un vero partito il giornale ne sarebbe stato il bollettino. Avremmo fatto a meno della pubblicità, padrona indiretta, riportando il quotidiano al nitore di poche pagine. Un grande grafico, compagno e amico di Luigi, Giuseppe Trevisani, disegnò quattro pagine sobrie, nelle quali sarebbero state date le notizie, tutte, ma senza influenzare il lettore che consideravamo ormai adulto: i pezzi si sarebbero seguiti a nastro, come in un libro, su una colonna, con titoli spartani - un occhiello (lavoro o politica estera o lotte) e una notizia (chiara, se riguardava Nixon bisognava far seguire «presidente degli Stati Uniti», rispettando chi forse non sapeva ma nulla concedendo al populismo o agli ammiccamenti). Saremmo costati pochissimo. Saremmo stati pagati tutti come un metalmeccanico di quinto livello e senza differenze. Il regime sarebbe stato d'assemblea, la redazione avrebbe discusso di tutto con tutti, redattori e tecnici e fattorini. Niente burocrazia, autogestione. Un giornale comunista anche nel modo di essere. Bizzarramente, questo è quel che dura ancora, dopo trent'anni - un falansterio di uguali, non senza gli inconvenienti che ne seguono e sui quali sarebbe dilettevole scrivere.
«Il manifesto» uscì il 28 aprile 1971 senza l'assoluto rigore grafico di Trevisani: si mantenne la divisione fra le quattro pagine, ma ognuna ebbe un lungo sovratitolo, i titoli delle notizie si seguivano su una o due colonne. Doveva esserci ogni giorno un editoriale e presto ci fu un corsivo - terreno pintoriano per eccellenza. All'inizio vendemmo centomila copie, ma non per molte settimane. Poi scendemmo, di poco, di molto, a sbalzi. Non siamo morti mai.
Il primo «manifesto», perdipiù attento come nessuno alla politica internazionale, che allora su altri giornali aveva pochissimo spazio, incantò gli esperti, influenzò alcuni grandi giornali, attirò molti giovani ingegni che vennero a lavorare con noi per compensi irrisori, piacque ai nostri compagni che ci sostenevano e distribuirono. Dispiacque inizialmente a quella parte del movimento che avrebbe voluto non un giornale ma un foglio di controinformazione. (Quando in autunno mandai dal Cile, dov'ero stata invitata all'università di Santiago, diversi reportages e un'intervista con Allende, i calzaturieri del Brenta protestarono: che ce ne importa, parlate di noi).
Fummo il primo giornale senza padrone (e il solo rimasto su piazza). «L'Unità» ci attaccò: chi li paga? Ma noi pubblicavamo tutti i nostri miseri conti, e le sottoscrizioni, da mille a centomila lire. Non avevamo ispettori ma eravamo dovunque. Ma non è stato il moltiplicatore che speravamo. Arrivammo alle elezioni del 1972 - alcuni di noi poco persuasi, ma Luigi deciso - candidando Pietro Valpreda, eravamo un simbolo e sceglievamo il simbolo. Fra noi e il Psiup disperdemmo un milione di voti.
Il risultato elettorale colpiva il giornale e il partito. Non eravamo che un gruppo fra gli altri. Non fu molto più fruttuoso il tentativo di unificarci con il Pdup di Silvano Miniati, Vittorio Foa e Pino Ferraris, e il Movimento politico dei lavoratori di Giangiacomo Migone. Né il tentativo di presentarci alle elezioni nel 1976 con una lista comune anche con Lotta Continua - non disperdemmo i voti, ma non fu un risultato che segnasse la scena.
Non è questa la sede per seguire tutte le vicende del «manifesto», del manifesto-Pdup e infine del suo scioglimento in una pesante giornata all'Eur. Non che una riflessione non sarebbe interessante: attorno a noi si aggrovigliano tutti i problemi sui quali sarebbe andato alla sconfitta il Pci di Berlinguer, la Cgil sarebbe stata ricondotta all'ordine e il movimento sarebbe defluito o avrebbe prodotto le frange armate.
Negli anni `70 si giocarono tutti i tentativi di innovazione della tradizione comunista classica e di quella libertaria, che piacesse o no ne era una filiazione. È il decennio nel quale si riorganizza anche quella che si chiamò, un po' approssimativamente controrivoluzione, ed era la reazione capitalistica e dei poteri a una stagione mondiale di lotte senza precedenti, una specie di assalto al cielo: lo spirito `riformatore' degli anni `60 finiva nella crisi del sistema di Bretton Woods, dell'energia del 1973-74, nella Trilaterale, che avrebbe preluso alla controffensiva di Thatcher e Reagan. Quando Berlinguer morì, dopo il tardivo distacco dall'Urss, nei primi anni Ottanta, tutte le carte erano giocate e perdute per la sinistra moderata e quelli che avevano tentato una svolta rivoluzionaria. Gli anni '70 macinarono tutti.
Luigi Pintor sentì la sconfitta delle elezioni del 1972 come tutti e più di tutti. Vi aveva puntato molto. Avevamo avuto delle piazze piene e bellissime - operai, intellettuali, giovani, tutti. Ma non ci avevano votato, gli stessi che ci avevano applaudito e circondato, come se il voto dovesse andare a una lista più forte, anche se antipatica, come se tutti volessero cambiare ma pochissimi si fidassero di ricominciare. Questa contraddizione Luigi la sentì fortemente, la giudicò una specie di opportunismo degli oppressi - qualcosa che rigettava noi e le loro speranze in una marginalità. Stimata. Rispettata. Vi gettava anche il giornale, salvato sempre in extremis anche da chi non lo comprava tutti i giorni - che è il solo modo di far vivere un foglio senza padroni. Lo vendemmo fino a 50.000 lire, allora assai più di 50 euro oggi, nelle sottoscrizioni speciali. Gli italiani non ci acquistano ma preferiscono che esistiamo.
Luigi non se ne dette mai pace. Già nel 1973 mi scrisse (cfr. «il manifesto» 18.5.2003): il giornale che avrei voluto è impossibile. Non tanto per esterne avversità ma perché il movimento da cui è nato non accetta alcuna direzione, che gli è necessaria come a un'orchestra un direttore, pena non essere un'orchestra ma una somma di strumenti. Non accetta una direzione per una cultura spontaneista e poi individualista profonda, per il rifiuto di ogni delega, perché non si fida né di sé né di qualcuno fra i suoi - a lungo fu più facile affidare una direzione con riserva ai `vecchi', che si possono amare e odiare come i genitori, piuttosto che a un fratello. Era ed è rimasto un limite irrisolto. Anzi sempre più in quanto il corso delle cose terremotava non solo l'orizzonte dei `vecchi', ma anche quello dei giovani degli anni Sessanta e Settanta. E tuttavia quel giornale si poteva fare perché una cinquantina di quei giovani - sui quali passavano, suscitando speranze, delusioni, dubbi di fondo, gli anni '70 e '80 e'90 - restavano a farlo invece che migrare verso sponde più sicure. Luigi lo vide fin dal 1973.
Gli fu presto chiaro anche il limite del «manifesto» come partito o aggregazione, sul quale pur aveva puntato assieme a Magri e a me, e ai compagni delle periferie. Ci eravamo misurati con le elezioni e ne pagavamo il prezzo. Nel 1974 tentavamo un rilancio unificandoci con la sinistra socialista che era stata nel Psiup (si chiamava già Pdup, Partito di unità proletaria) e al Movimento politico dei lavoratori. Degli esiti ho già accennato. Luigi se ne discostò per primo, anche perché il nuovo partito si sentiva più debole del giornale, che stava su piazza con maggiore autorità, e gli rimproverava di aiutarlo senza esserne aiutato. Certo, le vicende interne, spesso penose, e i documenti spesso infiniti di un'organizzazione non erano ricevuti volentieri da un giornale che voleva parlare a un pubblico più vasto. E che era tutto figlio del «manifesto» iniziale, e quando il Pdup, dopo aver imposto la propria sigla come sottotestata, chiese di introdurvi Vittorio Foa, Pino Ferraris, Marianella Sclavi, altri - non li accolse come avrebbe dovuto. Non è difficile immaginare che si sentissero a disagio. Luigi a quel punto se n'era andato furibondo, perché gli accadeva di trovarsi come all'«Unità» - e se all'«Unità» aveva dovuto sopportare un grande partito, le pretese o bisogni di un piccolo partito non gli andavano proprio giù. Vittorio Foa e Pino Ferraris lasciarono, Foa accusandoci di essere una frazione manifestista (non avevamo pubblicato un enorme documento di Capanna). Ero direttore io, allora, e ne ricordo la presenza, diffidente e polemica, come un po' ostile ma vivificante: trovavo Vittorio Foa ogni mattina acuminato, pronto ad accusarci di moderatismo. Ma le sue sferzate lasciavano il segno. Pochi anni dopo avrebbe cambiato opinione. Ma le sinistre, radicali o no, non sanno stare decentemente assieme, specie quando le provenienze sono diverse e gli obiettivi confusi. Luigi sarebbe rientrato dopo due anni, quando il giornale si sarebbe separato dal partito, riprendendo la sua testatina di «quotidiano comunista».
Non si possono seguire qui le traversie seguenti - furono anni tremendi. Qualche distratto professore assegna ogni tanto agli studenti una tesi sulle vicende del «manifesto» e del suo quotidiano, nelle quali in genere i poveretti si perdono: il susseguirsi dei tamburini è indecifrabile. Né Luigi, né Valentino, né io, che fra i vecchi venivamo a sostituirci di volta in volta, riusciamo a tenerle in mente - né ce ne importa, era un servizio. Fra i più giovani, comprensibilmente, non sarebbe più stato così.
Nella turbolenza degli ultimi anni Settanta e degli Ottanta «il manifesto» si destreggiò come un collettivo politico, libero ma collettivo. Nei secondi anni Settanta vide con lucidità quel che accadeva, commentò la linea dell'Eur della Cgil per quel che era, un arretramento. Nel 1978 sbagliò pensando sulle prime che il sequestro di Moro fosse opera di congegni potenti, ma si corresse presto, vide la miseria del governo, sostenne - e credo che lo farebbe ancora - «né con le Br né con lo Stato», fu per la trattativa. Negli anni Ottanta seguì con grande pena e fatica il declinare delle lotte, più che non capisse il mutamento dell'organizzazione e della tecnologia del capitale: un quotidiano non è un laboratorio, e l'urgenza di uscire non lo aiuta a guardare a medio termine. Ma diede voce alla nuova sensibilità ambientale o al sorgere del secondo femminismo - grazie alle più giovani, le vecchie emancipate come Luciana Castellina e me arrancando in ritardo. Ma furono anni difficili, le vendite scesero, il giornale faceva fatica e la mascherava cambiando repentinamente di grafica, come per catturare con l'espediente della messa in pagina le idee che gli sfuggivano. Le pagine crebbero e così i titoli `gridati' per paura di non essere sentiti. Luigi seguiva, aiutava, impediva il peggio, convinto in cuor suo che nulla contasse granché più che la prima pagina e un editoriale azzeccato. Con il 1989 la differenza fra le generazioni divenne più esplicita. I vecchi parteciparono da fuori alle vicende del Pci: attaccarono Occhetto, sperarono nella riunione di Arco, tennero per una separazione che si rivelò insufficiente - dei giovani qualcuno se ne andò o di qua o di là, i più sentirono quella come una vicenda di un'altra stagione. Negli anni Novanta scelsero quasi senza dirselo di essere uno spazio della sinistra radicale e ragionante che si garantiva reciprocamente senza confronto - come ebbe a dire uno degli ex ragazzi più acuti, un libero mercatino dove ogni artigiano portava il meglio della sua produzione. Qualcuno di noi non lo sopportò. Luigi, disincantato e saggio, si contentò di tener d'occhio la prima pagina e, assieme a Valentino, `la macchina': che il giornale uscisse, che non venisse colto da un infarto. Dava ogni tanto un colpo di timone e scriveva. E il suo editoriale arrivava sempre a segno. Lui che si è dato molte colpe nei confronti dei suoi figli, per i ragazzi del «manifesto» è stato un padre buono.
Riflettendo su di lui colpisce la lucidità nel sentire quanto fossimo al di sotto, come giornale e movimento, di una soglia decisiva. Luigi non credette mai che il movimento si bastasse da solo, fu fra i meno inclini a suggestioni minoritarie. Gli interessarono le culture giovanili come rotture di questo o quel paradigma più che non gli interessassero i gruppi e i loro leaders. Non discusse la mia decisione di appoggiare la candidatura di Antonio Negri in galera, ma non gli interessò mai il professore, e viceversa. Non era disprezzo, se mai impazienza fra chi gli pareva inseguire obiettivi insufficienti, misurati più sul proprio metro che sull'avanzare degli avversari. Del mio tentativo di capire gli estremismi, come dell'ostinazione di Magri nel cercare un varco nell'area che continuava a gravitare attorno al Pci, pensava che fossero inutili. In politica gli errori si pagano. Noi e gli altri.
Tutto era assai meno di quel che sarebbe stato necessario. Quando il Pci lo invitò a presentarsi candidato della Sinistra indipendente alla Camera, sperò che intendesse cambiare strada. Fu un errore che commisero anche altri. Fece una campagna elettorale straordinaria, manifestista, in Toscana, e alla Camera fu acerbamente solo. Aumentava in lui la percezione che la sinistra era in caduta libera, e questo era anche la caduta d'una cultura e d'una morale della persona, cui non vedeva opporsi che il vuoto.
Negli ultimi anni, e specie nei suoi libri, fu pessimista, quasi nichilista, ma sul giornale non cessò mai di rilanciare. Su questa rivista proponeva ancora nel maggio 2000 che si incontrassero tutte le forze critiche rimaste sul terreno. Non funzionò neanche questo. Continuò a scrivere senza cedere d'un pollice, e senza illudersi finché la morte lo trascinò via in tre settimane. Pareva finita la guerra americana in Iraq, contro la quale si pronunciò quasi ogni giorno e nell'ultimissimo editoriale, proprio prima di conoscere la propria sorte, scrisse uno dei suoi pezzi più severi. Poi non gli fu lasciato neanche il tempo del commiato, del bilancio. Chi ha detto che si può morire sereni? Né Seneca né un cristianesimo aiutarono Luigi a chiudere i suoi giorni. La scommessa era stata alta ed era stata perduta. Si è spento irriconciliato.
larivistadelmanifesto.it (numero 41 luglio-agosto 2003)