22.9.12

Il Maometto di Voltaire che offese i cattolici

  Bernardo Valli  (La Repubblica)

Anche Voltaire se la prese con Maometto, ma a rimanerci male allora non furono i musulmani bensì i cattolici. Al punto che il filosofo fu costretto a sospendere le rappresentazioni della tragedia, una delle più politiche della sua ampia produzione teatrale, il cui titolo, Le Fanatisme ou Mahomet le Prophete, lasciava pochi dubbi sulla natura della trama. Il tenente di polizia Feydeau de Marville lo avvertì che se non avesse ubbidito poteva essere applicato il mandato d’arresto emesso contro di lui, e rimasto in sospeso, dopo l’apparizione delle Lettres philosophiques.
Insomma lo ricattò. Voltaire non ebbe scelta. Poi per anni si dette da fare, arrivando a falsificare le lettere papali, al fine di dissipare la voce sull’ostilità nei suoi confronti di Benedetto XIV per Le fanatisme ou Mahomet le Prophete.
Il filosofo che voleva «annientare l’infame », ossia l’intolleranza religiosa, aveva usato il profeta musulmano come metafora, per colpire la Chiesa cattolica? Il sospetto non era poi tanto infondato. Più di due secoli e mezzo fa (la tragedia è stata scritta nel 1736 e rappresentata prima a Lilla nel 1741 e l’anno successivo a Parigi) gli umori non erano ovviamente quelli della nostra epoca.
Il concetto di laicità, annidato nell’Illuminismo di cui Voltaire era uno dei massimi promotori, era ben lontano dal diventare uno dei principi della Francia repubblicana, del resto essa stessa ancora di là da venire. Poiché Voltaire era il polemico, insubordinato suddito di una Monarchia per diritto divino. Quindi a quei tempi le vignette irrispettose su Maometto di Charlie Hebdo (per non parlare del video americano) avrebbero subito sanzioni peggiori di quelle abbattutesi su Voltaire, essendo oltre che empie, irrispettose verso la religione, anche volgari. Voltaire era un grande autore di teatro. Era tra l’altro l’autore dell’Henriade, poema popolarissimo in dieci canti, dedicato a Enrico IV e alla tolleranza. Ed un ascoltato interlocutore di un sovrano come Federico II di Prussia.
A Lilla, al teatro della Vieille Comédie, il 25 aprile dell’anno precedente, la tragedia ha avuto un grande successo. Anche il clero ha applaudito e questo ha rassicurato Voltaire. Ma a Parigi, dove l’opera deve andare in scena il 9 agosto, le cose si complicano. Interpellato come censore, Prosper Jolyot Crébillon, autore di cupe tragedie, ha dato un giudizio negativo. Prevedendolo, Voltaire ha però mandato il manoscritto al cardinale de Fleury, il quale non ha fatto obiezioni. Il pubblico parigino è dunque, infine, ammesso allo spettacolo, e può cogliere facilmente le allusioni al fanatismo religioso in generale, e quindi anche a quello di casa. Gli spettatori, più avvertiti, meno bigotti di quelli di Lilla, sono entusiasti, avvertono l’audacia dell’autore, e sono al tempo stesso inquieti. Persino un prete, Le Blanc, trova «bella, forte, ardita e brillante» la tragedia. Ma i giansenisti, gli integralisti cristiani dell’epoca, reagiscono. Loro non si lasciano ingannare: «Hanno visto cose enormi contro la religione ». Voltaire non presenta il Maometto conquistatore, ma il Maometto Profeta, e lo tratta da fanatico. I ministri si consultano. C’è chi trova la tragedia «irreligiosa, empia, scellerata», e chi vorrebbe lasciar correre. Si arriva a un compromesso: si proibisce Mahomet ma ufficiosamente.
Voltaire presenta Maometto come un impostore, e glielo fa confessare, subito, al primo atto. Assedia la Mecca con il suo esercito e cerca di convincere l’avversario a unirsi a lui. Gli confida i suoi progetti che sono quelli di un politico, di un capo militare. Tutte le potenze orientali sono in decadenza ed è giunto il momento degli arabi. I quali possono conquistare il mondo. Ma per questo bisogna fanatizzare gli uomini con una nuova religione. «Bisogna creare un nuovo culto». «Ci vuole un nuovo Dio per l’universo cieco». Il Maometto di Voltaire inganna, tradisce, seduce, è sensuale, vuole imprigionare Palmire nel suo harem. La bella Mademoiselle Gaussin, l’attrice preferita di Voltaire, recita nella tragedia. Di lei l’autore dice che è debole e volubile, ed anche «incapace di tenere un segreto come di conservare un amante». È lei che seduce Maometto.
Il pubblico di Mahomet non è ancora quello del teatro di Beaumarchais, emblematico dell’illuminismo, ma è già un pubblico che intravede «i lumi » René Vaillot, autore di uno dei cinque volumi di un’imponente biografia («Voltaire en son temps», diretta da René Pomeau ed edita dall’università di Oxford) ricorda che al posto di
Mahomet, il 16 agosto 1742, alla Comédie Française andò in scena Polyeucte di Corneille. E la platea, offesa dalla censura imposta a Voltaire, si vendicò applaudendo l’imprecazione di un protagonista contro i cristiani. E manifestò il suo entusiasmo alle parole tolleranti di un altro protagonista: «Approvo tuttavia che ciascuno abbia il suo Dio e che lo serva come vuole».
Due secoli e mezzo fa Voltaire usa Maometto per denunciare la religione sanguinaria. Egli ricorderà in proposito Réné Clement, spinto da un prelato ad assassinare Enrico III. Ed è stato un difensore di Calas, un protestante accusato ingiustamente dai cattolici di avere ucciso il figlio che si era convertito. Se è severo con Maometto, non risparmia, nel Saggio sui costumi, gli elogi alla civiltà musulmana e all’Islam in quanto regola di vita.
Per evitare che accetti l’interpretazione dei giansenisti, manda al Papa una copia di Mahomet, con una lettera in buon italiano (Voltaire parlava e scriveva l’inglese e l’italiano) in cui dice che nessuno meglio «di un vicario e di un imitatore di un Dio di verità e di mansuetudine» può riconoscere la crudeltà e gli errori di un falso profeta. E poi esibisce un messaggio d’approvazione di Benedetto XIV che risulterà falso.

21.9.12

Da dove ripartire

  Rossana Rossanda, il manifesto

La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di «di chi è» ma «che cosa è» il manifesto. Anche per ragioni economiche. Un giornale è nel medesimo tempo una merce, se lettori non lo comprano fallisce. Occorre chiedersi perché da diversi anni abbiamo superato il limite delle perdite consentito ad una impresa editoriale, mentre i costi di produzione salivano. Direzione, Cda e redazione + tecnici hanno sottovalutato questo dato, pur reso regolarmente noto, illudendosi che avremmo recuperato lettori aumentando le pagine e i servizi con un restyling dopo l'altro. E' stato un errore imperdonabile. Se il giornale è di chi lo fa, il suo fallimento è di chi lo ha fatto. Cioè noi. Teniamolo presente. Altri giornali «politici» - cioè interessanti per un governo o una forza di opposizione o un gruppo sociale - hanno avuto problemi simili ai nostri: una tradizione da non perdere, una redazione rodata da decenni, vendite insufficienti e ricorso a finanziatori (nel nostro caso circoli o gruppi di lettori). Nessuno di questi tre attori è in grado di far uscire da solo un quotidiano. Perciò, per esempio in «Le Monde» la proprietà è ripartita un terzo i fondatori, un terzo la redazione e un terzo i finanziatori. Seil manifesto vivrà ancora, la sua proprietà potrebbe poggiare su un sistema analogo. Ma preliminare è che redazione, lettori e finanziatori siano d'accordo sul suo ruolo: «che cosa è», se ha un legame con la sua origine, se c'è un collettivo di lavoro che ci crede e un numero di lettori e sostenitori in grado di farlo uscire.
Le ragioni per rispondere sì o no a queste tre domande possono essere molte, ma tutte politiche. Su di esse è manifestamente diviso il «collettivo», mentre del gruppo dei fondatori siamo rimasti soltanto Parlato, Castellina ed io, e non è chiaro che cosa auspicano lettori e circoli di sostegno.
Il manifesto è nato nell'onda del '68 come quotidiano comunista libertario. I fondatori erano stati radiati dal Pci per questo e per la loro critica radicale all'Urss. Il riflusso del '68 assieme alla liquidazione da destra dei «socialismi reali» sono pesati sul collettivo non meno delle difficoltà materiali di tirare avanti. Il collettivo si è andato dividendo fra reducismi diversi, tentazioni di appoggio diretto o indiretto ai sostitutivi del partito comunista (Pds e seguenti o Rifondazione e seguenti), movimenti o «il movimento dei movimenti». Più di recente fra ecologia e teoria dei beni comuni.
Si riflettono nel suo specchio le difficoltà di una «sinistra» sempre meno omogenea nell'interpretare contraddizioni e bisogni d'un assetto sociale investito dalla crisi del socialismo reale e dal mutare della scena internazionale rispetto a quella ereditata dalla seconda guerra mondiale. Delle due superpotenze durate dal 1945 agli anni '90 una è sparita, l'Urss, la seconda, gli Stati Uniti, resta la più armata del mondo ma non ha più il primato nel ritmo di sviluppo che è passato alla Cina (partito unico e socialismo «di mercato») per il suo alto tasso di crescita, e per il fatto di detenere gran parte del debito americano. Nuovi per importanza anche i paesi «emergenti», il Brasile in ascesa con un modello politico democratico e socialmente progressista, l'India democratica e capitalista, mentre l'America Latina, sfuggita al dominio statunitense, sviluppa diversi progressismi a scarsa democrazia formale. La caduta dei socialismi reali ha frantumato il modello duale fra un «capitalismo imperialista» e i «socialismi reali», i secondi sono scomparsi e il primo vacilla fra crisi economica, sopravvento della finanza sulla «economia reale», incertezze del modello sociale, crisi della democrazia rappresentativa. Se vi si aggiunge la riaffermazione delle religioni monoteiste in polemica con il pensiero politico moderno, è evidente che i parametri con i quali si dovrebbe analizzare il presente non sono gli stessi di trenta anni or sono.
In Italia il suicidio del Partito comunista, non accompagnato da una analisi autocritica ma da elusivi cambi di nome e defezioni della sua base storica, e quello analogo della democrazia cristiana, ha portato a una crisi di identità della politica e dei partiti, che ha dato luogo alla consegna di tutto il parlamento alla priorità della «tecnica» rappresentata da Mario Monti. Ai margini si sviluppano dei movimenti o proteste qualunquiste al limite della legalità costituzionale. E' il solo paese che ha rinunciato a una fisionomia propria e articolata, seguendo i dettami liberisti della Unione Europea, fatti propri sfuggendo a ogni consultazione popolare.
Che può essere il manifesto in questo quadro? Direzione e collettivo si sono sottratti a un'analisi, fino ad arrivare a una dichiarazione di fallimento, dando voce senza discuterla a questa o quella posizione delle deboli sinistre come se fosse la propria. In particolare ad appoggiare la rinuncia ai partiti come forme della politica per una rappresentazione diretta di opinioni e interessi che si configurerebbero attraverso liste civiche più o meno legate ai comuni. Tuttavia l'assenza di una discussione lascia aperte anche altre ipotesi, come lo strutturarsi di un partito del lavoro per ora non ulteriormente definito.
Identità e finalità del manifesto non sono più quelle delle origini, ma il mutamento non è stato dichiarato. Così come sembra scomparsa, anche qui senza una argomentazione esplicita, la nostra ricerca di un marxismo critico. Le une e l'altra esigerebbero un lavoro analitico comune che non c'è stato, come se l'uscita quotidiana fosse incalzata e sommersa da eventi non previsti né dominati. Non a caso la sola priorità emersa dall'ex collettivo è stata la difesa del posto di lavoro.
Tale andazzo non è accettabile e il progressivo diminuire dei lettori e dell'ascolto lo conferma. Ammesso che la testata possa riprendere su un base economica sana e finché direzione e collettivo non avranno votato la decisione di rompere con la sua origine, il manifesto ha l'obbligo politico e morale di definirsi rispetto alla sua intenzione fondativa.
Nel 1969 dirsi comunisti non era puramente simbolico: le lotte degli anni sessanta, i movimenti studentesco e operaio del '68 e del '69, la vittoria del Vietnam che si annunciava, i problemi aperti dalla Cina sulla natura del socialismo reale, permettevano di puntare come a un obbiettivo realizzabile a un mutamento del rapporto di forze fra le classi, e all'interno delle medesime. Non solo fra di noi ma nel Psiup e in più d'uno dei gruppi che avrebbero tentato di dare vita alle forze extraparlamentari si era già riflettuto sui limiti di una rivoluzione dal vertice, soltanto politica, su quelli di una mera sostituzione del capitale pubblico al privato, e si erano fatti impetuosamente strada due temi di grande rilievo che erano assenti dall'agenda del socialismo, il femminismo e l' ecologia.
Questo processo è volto a termine in meno di un decennio, lasciando in piedi soltanto la tematica del movimento operaia in quanto fatta propria da alcuni sindacati, il problema sollevato dal femminismo e dall'ecologia. Ma le sinistre storiche - non solo per non rompere il legame con l'Urss, della quale non vedevano il declino - non si sono aperte alla inattesa spinta diffusa che emergeva in quegli anni, non hanno alimentato né si sono alimentate di questo movimento ma piuttosto vi si sono opposte. Isolato, quando non combattuto, esso è stato lasciato a una generosa ma immatura elaborazione, favorendo alcune derive, e infine la sua stessa dissoluzione. Ne è venuto un vuoto politico irrimediabile, dal quale è scaturita, più che in altri paesi dove la sinistra era pesata di meno, un disorientamento e poi una svolta dell'opinione verso una destra che Berlusconi - meno di cinque anni dopo il crollo del Muro di Berlino -esprimeva nella sua forma più volgare, e da questa sarebbe andata al nascere di un populismo distruttivo.
Non siamo stati capaci di occupare quel che poteva essere il nostro proprio terreno di lavoro, la crisi dei socialismi reali, che eravamo stati i soli ad annunciare, la ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale, le diverse soggettività che ne sarebbero seguite. Il trionfo dell'avversario ci ha debilitato e demotivato: non solo i lettori sono diminuiti ma è calato il peso che il manifesto aveva avuto nell'opinione anche in momenti difficili, come il sequestro di Moro, l'emergenza, la messa sotto accusa del '68. Gli anni '80 ne sono stati la prova. La caduta dell'Est, che per noi doveva essere un'occasione, è stata la cartina di tornasole sulla quale si è scoperta la debolezza delle sinistre storiche ma anche la nostra, che non l'ha affrontata ed ha finito con il considerarla uno scoglio da evitare. Eppure un vecchio slogan aggiornato dalle nostre Tesi del 1970, «socialismo o barbarie» diventava la vera alternativa: come chiamare altrimenti la soppressione progressiva di ogni diritto sociale cui siamo avviati? Non tanto il «potere ai Soviet», del cui fallimento storico abbiamo lasciato parlare le destra, ma la priorità della salvaguardia del fattore umano, della sua crescita e dei suoi diritti è andata svanendo a favore d'un affidamento al libero mercato come unico regolatore sociale, facendoci arretrare agli anni venti e all'orlo delle pericolose involuzioni che ne sono seguite. Su una scelta liberista, e contrariamente alle speranze dei suo primi padri, s'è fatta l'Unione Europea, avvitandola saldamente con il trattato di Maastricht, ai pii desideri del trattato di Lisbona, alla impossibilita di sottoporsi a un giudizio dei popoli. Assai lontana da una omogeneizzazione politica, la Ue non è, in sostanza, che la sua moneta, l'euro, sottoposto ad acerbe oscillazioni per la discrasia dei regimi fiscali, l'ingigantirsi della finanza, la deindustrializzazione del continente, la conseguente debolezza dei codici del lavoro, la crisi esterne, prima di tutte quella dei subprimes nel 2008. L'esorbitante aumento della finanza rispetto alla cosiddetta economia reale e la interdizione agli stati di intervenire a correggerlo, ha esposto l'euro a una oscillazione in tutti i paesi del sud, cui si impongono direttamente per via legislativa o indirettamente, tramite il gioco dei mercati enfatizzato dalle agenzie di rathing, crudeli cure di austerità, che li precipitano nella crescente disoccupazione e precarietà. In queste condizioni rinascono scetticismi antieuropei ridesta e di sinistra, e la legittimazione popolare sia d'una misura o di un governo è resa difficile.
La politica lamenta che l'economia la ha sopraffatta, come se essa stessa - e si tratta di governi di socialisti, laburisti o di centrosinistra - non se ne fosse liberata, rinunciando alla possibilità di intervento pubblico («meno stato più mercato») e accettando la riduzione dell'economia a pura contabilità della spesa dello stato, aggravata dai six pack successivi. Privi di risorse, per la disoccupazione crescente e il rifiuto d'una tassazione dei redditi e in particolare della finanza, gli stati sono paralizzati e le classi subalterne pagano prezzi sempre maggiori. Basta scorrere i pochi articoli del «fiscal compact» votato dai governi europei il 28 giugno a Bruxelles per rendersi conto che si tratta di puro obbligo monetario, che avrebbe addirittura favorito la speculazione dei mercati sul debito degli stati se la Bce non fosse intervenuta con prestiti illimitati a breve termine, evitando uno strangolamento immediato ma esigendo dai paesi che li richiedano che si accetti uno stretto controllo della Bce, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione. Il testo del fiscal compact appare difficile da sottoporre a un referendum, come chiedono alcune sinistre radicali, per il suo tecnicismo (tempi dei rimborsi e condizioni per i crediti) e il suo silenzio su tutte le richieste socialmente pressanti. Come osserva più d'uno dei commentatori politici (G. Rossi su «Il Sole 24 ore» o Adriano Prosperi su «Repubblica») il fattore umano è del tutto assente da questi accordi, che neppure notano l'aumento dei disoccupati (si calcolano 18 milioni in Europa), l'estendersi della deindustrializzazione crescente, la delocalizzazione verso paesi a costo del lavoro più basso che mediamente in Europa, la minaccia di evasione fiscale degli alti redditi in Francia.
Tale scelta dei governi, che rappresenta il massimo consenso alla tesi di un von Hajek e il massimo della contraddizione all'orientamento delle costituzioni dopo la seconda guerra mondiale, toglie spazio all'uso di quelle possibilità di difesa delle classi subalterne che esse avevano conquistato nel lungo periodo del compromesso keynesiano, prodotto dallo scontro fra capitale e lavoro, delineato per primo da Roosevelt come via d'uscita dalla crisi del '29, sicuramente rafforzato dalla potenza dell'Urss e teorizzato dopo il 1938 soprattutto in Gran Bretagna. Il movimento del '68 ne ha messo in luce i limiti politici e strutturali, ma è d'obbligo riconoscere che lo ha destrutturato, evidenziandone appunto gli aspetti di compromesso sociale, piuttosto che spingerlo in avanti. Accelerata dopo il 1989, la Unione Europea è nata sconfessando il modello «keynesiano» (e la nuova sinistra ne aveva dato alcuni argomenti) e una bozza di trattato dopo l'altra, malgrado i wishful thinkhing di Lisbona, hanno vincolato gli stati a un rigore di bilancio basato sulla riduzione del costo del lavoro e su una sua organizzazione che le nuove tecnologie permettono di ridurre nelle quantità della manodopera invece che nella riduzione dei tempi e delle cadenze, mentre la liberazione del mercato da ogni vincolo permette di mettere in concorrenza i salariati europei con quelli di paesi ex colonizzati, assai minori. Le classi subalterne sono spinte, come in Grecia e in Spagna, a votare il proprio annichilimento sindacale e politico. Non sorprende che dilaghi l'euroscetticismo soprattutto nelle ex roccaforti operaie e che in esse abbiano ascolto le destre estreme.
Quando l'ad della Fiat, Marchionne, parla di «un prima e un dopo Cristo» nelle relazioni sociali sottolinea una verità: le sinistre, non solo comuniste e socialiste ma socialdemocratiche, hanno lasciato nel disorientamento del 1989 la loro base e i loro principi, con ciò perdendo il loro potere contrattuale (salvo in alcuni paesi scandinavi) ed è quel che ne rimane oggi è il bersaglio della controparte. Non inganniamoci: non è il comunismo che oggi il padronato delle multinazionali ha deciso di distruggere, operazione che ha già compiuto da solo, ma quella legittimità degli opposti interessi sociali che i Trenta Gloriosi avevano dovuto riconoscere, che aveva permesso alle lotte operaie di esistere e di conquistare alcune condizioni che ancora oggi alcuni, anche fra noi, considerano diritti inalienabili. Non ci sono nei rapporti fra le classi diritti inalienabili. Essi vanno difesi metro per metro dalla possibilità di un arretramento, del quale nel recente passato lo strumento fondamentale è stata la utilizzazione esclusivamente padronale della tecnologia, e oggi la più volgare riduzione dell'economia a una contabilità dello stato, mutilata dalle entrate un tempo assicurate dalla più vasta platea occupazionale, e al suo regime comunitario. In questo senso la soggezione ai dettami liberisti, sulla quale è stata formata la Unione Europea, somiglia a un fatale combinato-disposto: è interdetto alla sfera politica di intervenire sul sistema economico, ed è permesso al sistema economico di intervenire nel continente, entrandovi e uscendone senza renderne conto agli stati, mentre le distruzioni, che queste razzie comportano sul tessuto sociale dei diversi paesi, costituiscono un aggravio finanziario per il relativo stato mentre ne minano le basi e il consenso.
La ricostituzione d'un potere di contrattazione sostenuto dalla legge e di conseguenza d'un controllo politico, statale o comunitario, sui movimenti di capitale, unitamente alla tassazione delle transazioni fiscali, è una misura che si va rivelando sempre più urgente. Ed è sostenuta non solo dalla manodopera industriale, che chiede di ricostituire le sue basi produttive, adeguandole nel contempo alle compatibilità ecologiche e ambientali, e quindi una politica economica esplicita e discussa in comune, ma anche dalle classi medie, il cui potere d'acquisto è in calo. L'allargarsi del ventaglio delle disuguaglianze sociali, come non mai nel secondo dopoguerra, ha portato a un affluire della ricchezza su un decimo della popolazione, e della grande ricchezza su un decimo di questo decimo (Gallino, Pianta).
E' una tendenza non sostenibile, e impone una inversione di rotta. Anche perché allo sbiadire dei rapporti di forza contrattuali si aggiunge l'affievolirsi del più generale sistema democratico, che si sconnette e contraddice, da una parte, sotto l'urto del mercato selvaggio e, dall'altra, di una antipolitica diffuso. La lezione di Federico Caffè è stata distrutta negli anni '70 e '80.
Essa è una condizione perché l'orizzonte di una trasformazione che investa alle radici la proprietà resti aperto, salvaguardandone anzitutto i soggetti. I tentativi di assegnare ad altri gruppi sociali il ruolo che era stato posto nella classe operaia non ha avuto esito. Esso non è durevolmente passato alla gioventù acculturata e/o marginale, come pensava Herbert Marcuse, malgrado i processi di proletarizzazione cui è sottoposta, né nelle popolazioni dei paesi terzi, come si è creduto nel primo postcolonialismo, né nella reattività delle moltitudini, difesa da Negri e Hardt.
In Italia, l'azzeramento di fatto del parlamento nella unanimità senza condizioni richiesta da Mario Monti per accettare l'incarico ha ottemperato di fatto alle condizioni poste dalla Bce, dal Fmi e dalla commissione europea. Quale partito o coalizione si presenta oggi esplicitamente contro Monti, garante di questa Europa? E di Monti, e ciò che rappresenta, è garante il presidente della Repubblica. Che questa soluzione sia stata promossa da un ex dirigente del Pci diventato Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è il segno più eloquente di ciò che è avvenuto nelle sinistre nel 1989. E anche dei limiti assai stretti nei quali potrà muoversi, se ci sarà, di una alternativa a questo governo.
Ma occorre tenere presente questi vincoli, dunque spostare l'orizzonte in Europa, se si vuol evitare che il primo passo già compiuto nella recessione diventi un cadere catastrofico in essa. E' la situazione di tutti i paesi europei del sud, dalla Grecia all'Italia alla Spagna, al Portogallo, e l'indice attorno allo zero crescita previsto in Francia sta mettendo anche Parigi su questa soglia. Negli Stati Uniti, l'esito della crisi del 2008 è violentemente impugnato dalle destre per corrodere i flebili risultati della presidenza Obama - dipinti come addirittura «comunisti»- in Francia per bloccare in partenza le modeste riforme di Hollande, dovunque per non disturbare il capitale finanziario, e per esso, soprattutto da noi, le banche tedesche. L'aggressione è totale.
Ma hanno ragione Stiglitz e Krugman a scrivere che questa strada è senza uscita, i livelli di disoccupazione e di «crescita negativa» non sono sostenibili da nessun paese, senza conseguenze politiche nefaste, ripetendo uno scenario da Anni Venti. I paesi del sud non vedono uscita dal tunnel, ma comincia a patirne anche la Germania che vendeva la maggior parte dei suoi prodotti sul mercato europeo, e lo vede restringersi. Una svolta appare a molti necessaria. Bisogna dimostrare che è ragionevole e possibile.
Mi pare indubbio che il manifesto, qualora resti in vita, debba lavorare sulla base di questa analisi e insistere sul riportare il fattore umano - occupazione e servizi sociali, redistribuzione delle imposte sui ceti più favoriti e sulla finanza - al centro di qualsiasi programma politico che si dica di sinistra. Argomentando modi e tappe e battendosi per spostare i vincoli europei che vi si oppongono. L'inquietudine è grande in vari paesi del continente, e il nostro giornale potrebbe darle argomenti e voce. Si tratta di un lavoro politico e culturale di lunga lena, rivolto senza equivoci a quella parte del paese che non intriga ma pensa e si interroga, smettendo di galleggiare su obbiettivi generici e a breve, nessuno dei quali è riuscito a realizzarsi ad oggi.

18.9.12

Rabbia, amore, sete di giustizia c’è ancora chi dice no

Rabbia, amore, sete di giustizia <br /> c’è ancora chi dice no
Di Ascanio Celestini
Verso la fine degli anni Sessanta iniziava un decennio o poco più di impegno politico. Un impegno che nasceva nelle sezioni dove si stracciavano le tessere di partiti e sindacati sognando una politica nuova, un paese libero dai burocrati che erano passati indenni dal fascismo alla repubblica, dalla Democrazia Cristiana che doveva stare al potere per legge tanto da sembrare una monarchia.
Libero dallo sfruttamento sul lavoro, dalla scuola fatta di tanti banchi di contenzione rivolti verso una cattedra che era posta sulla pedana per far sembrare ancora più grande l’insegnante. Negli anni Settanta si sognava una scuola dove il sapere era condiviso e non versato dall’alto sugli scolaretti trasformati in vasi vuoti da riempire. Sono gli anni dello statuto dei lavoratori, quello che Mario Monti ha recentemente indicato come un ostacolo alla creazione di posti di lavoro, delle leggi sull’aborto e sul divorzio, fino alla 180 che ha iniziato una lenta, ma inesorabile chiusura dei manicomi-lager dove i pazienti erano così poco curati che venivano stipati per comportamento (agitati, semi-agitati, tranquilli) invece che per patologia e finivano dentro per ciò che avevano fatto (pericolosi per se o per gli altri e di pubblico scandalo) e non per ciò che soffrivano.
In quegli anni c’è stata una guerra che il potere ha combattuto con i tentati colpi di Stato e con i tanti morti nelle strade, con il sostegno alla criminalità organizzata che iniziava dall’occhio chiuso sulla speculazione edilizia alla vera e propria collusione, con il finanziamento della destra eversiva e con le stragi. E tanti hanno cominciato a pensare che il PCI non aveva il copyright sulla rivoluzione, che stava con tanti piedi in tante scarpe, nelle sezioni e nei salotti, nelle fabbriche e nei palazzi del potere. In quegli anni molti hanno pensato che il capitalismo non può essere riformato perché è un tumore. Quando il tumore trionfa, l’organismo muore. E dunque andava colpito prima che dilagasse. Migliaia furono arrestati. Arrestati in massa secondo il cosiddetto teorema Calogero «visto che non si riesce a prendere il pesce, bisogna prosciugare il mare». Si inventarono nuove galere e nuove tecniche di detenzione, istituiti i Kampi dell’Asinara o di Trani dove il detenuto era il camoscio in gabbia.
Davanti ai sequestri e agli attacchi al cuore dello stato si videro reazioni diverse. Moro restò solo. Mentre per Cirillo, dalle cui mani passavano i soldi della ricostruzione dopo il terremoto campano, corsero politici e industriali. Le porte delle carceri divennero girevoli e le trattative coinvolsero tutti: stato, anti-stato e para-stato. Poi l’utopia si sgretolò. Accadde un po’ alla volta o tutto insieme, ma fatto sta che ad un certo punto non stava più in piedi. Arrivò anche una grande nuvola di eroina e gli anni Ottanta furono i veri anni di piombo. Gli anni in cui si guardava tanto la televisione e poco dalla finestra.
Non era solo l’intrattenimento delle tv commerciali. Abbiamo assistito alla trasformazione della televisione. Prima era intesa come elettrodomestico, uno strumento che accendi quando decidi tu quando ne hai bisogno o quando ti fa piacere usarlo. Negli anni Ottanta è diventata essa stessa una finestra che puoi aprire o chiudere, ma sta sempre lì ad occupare una parte del muro. Sempre aperta. Magari col vetro chiuso, ma con la persiana spalancata. E se oltre la finestra succede qualcosa, ci butti un occhio. Con la differenza che attraverso la finestra vedi solo quello che accade veramente, mentre quello che ti mostra la televisione non sai più se sta succedendo davvero.
Non lo sai e non ti interessa saperlo. Linguisticamente non ha più senso nemmeno chiederselo. La notizia del telegiornale è messa accanto al balletto televisivo, condivide la musica della pubblicità, si mescola alle facce del comico e del politico. Si mescolano immagini e cose e si mischiano anche i canali. In quegli anni, guardare la televisione non significava più seguire un programma o vedersi un film. La televisione è rimasta nel suo buco, magari col vecchio centrino e la gondola che c’aveva messo sopra la nonna, ma un pezzo fondamentale di quell’elettrodomestico è comparso nella nostra mano. Il telecomando è stato una rivoluzione pari allo schermo che avevamo davanti.
Oggi la televisione si guarda così. Passando da un canale all’altro. Se prima era un frullato nel quale non capivamo più gli ingredienti perché erano tanti e con tutti i sapori, ora è un frullato di frullati. È come mettere insieme cibo e vestiti, mezzi di trasporto e parole di lingue straniere. Non viene fuori un cibo che puoi indossare o un treno parlante, ma una pappa incommestibile che non veste, non dice e non porta da nessuna parte. Il passo avanti può essere solo internet che ti porta in giro per il mondo lasciandoti in mutande davanti al computer. Come internet anche la televisione è dispensatrice di invisibilità. Vedere senza essere visti è meglio che spiare dal buco della serratura. Non rischi che qualcuno ti apra la porta all’improvviso o ti arrivi alle spalle e ti scopra. E poi ti dà l’idea di vivere davvero in una democrazia. Tutti ugualmente invisibili. Una repubblica di spettri. Quei proletari che potevano unirsi per spezzare la proprie catene si sono riciclati in fantasmi che trascinano le proprie catene. Insomma gli italiani si sono abituati male.
Potevano odiare i politici restando seduti in poltrona o, al massimo, potevano tirare fuori la testa commentando i titoli dei giornali al bar. Poi è arrivata la crisi. Non una guerra che distrugge le città con la bomba atomica che trasforma centomila esseri umani in un unico mucchio di polvere, ma un grande evento che coinvolge soprattutto i paesi ricchi.
Quelli poveri non corrono rischi. Sono già stabilmente messi male. Ma sono i paesi che hanno inventato l’unione europea che corrono rischi. Quelli che hanno creduto alla macchina magica del capitalismo, quelli che se la sono inventata e che l’hanno brevettata. Che l’hanno sperimentata attraverso dittature e colpi di stato. Sono gli spagnoli che dopo decenni di dittatura s’erano presi il diritto di avere almeno un altro boom economico. Uno con la dittatura e poi un altro con la democrazia.
Sempre con la stessa famiglia reale impermeabile a qualsiasi regime e a qualsiasi opposizione. Sono gli irlandesi che hanno provato le contraddizioni di una guerra di religione antica, moderna e post-moderna allo stesso tempo. Sono i portoghesi che hanno assistito al salazarismo che inneggiava all’ignoranza di conoscere solo dieci parole perché la cultura era nemica dello stato. È la Grecia dei colonnelli, ma anche l’Europa spaccata in due, divisa da muri e accordi, cucita e scucita da servizi segreti. Fino alla Romania delle bandiere bucate, passando dall’Ungheria del ’56, dalla Cecoslovacchia del ’68, fino alla Jugoslavia smembrata, torturata e bombardata. E poi è l’Italia metà giardino e metà galera che s’è svegliata nell’estate del 2001 a Genova. Sì, mi pare che il presente che ci appartiene e al quale apparteniamo ricominci da lì. Da quei giorni s’è capito meglio che il mondo globalizzato è una grande truffa. Globalizzazione è solo un altro nome dell’imperialismo. Prima erano le caravelle a muoversi verso le presunte Indie, ora sono le portaerei. I cattivi avevano la pelle rossa, ora hanno la pelle scura, ma non troppo e in genere hanno la kufiya in testa o il passamontagna nero, a seconda dei casi.
Dopo Genova, sia chi c’era, sia chi non c’era, ha capito che il ventesimo secolo era davvero finito. Finite le sue lotte in cerca di una classe sociale e un partito che desse la linea. Finite le rivoluzioni che portano il paradiso in terra. Finite le democrazie che si chiamano rappresentative come in un felice ossimoro. Ma se sono democrazie, cioè sistemi nei quali il popolo ha il potere, perché questo potere deve essere consegnato nelle mani di rappresentanti? Finita l’Europa e i blocchi. Finita la capacità dei mezzi di comunicazione di portare la verità degli eventi direttamente nelle nostre case attraverso il giornale o la televisione, attraverso la radio o la magica rete di internet. L’informazione si trasforma in narrazione. Nell’impossibilità di raccontare tutto, si racconta e basta. Si narra per essere affascinanti, per riempire lo stomaco al fruitore.
E se ti capita di stare veramente lì dove le cose succedono, ti accorgi che quella cosa non viene mai raccontata abbastanza bene. Non viene mai detto tutto.
Così nascono le nuove lotte. Dopo i partiti e i movimenti si torna ai territori dove la democrazia è diretta. Dove l’informazione non conta. Dove il partito è una nostalgia per nonni. Si arriva alla Val Susa che non ha rappresentanti. Ai No DalMolin di Vicenza che si riappropriano almeno di un pezzo di terra strappandola alla base militare americana per farne un parco della pace. Ai coordinamenti contro l’inceneritore di Albano, le discariche di Riano, il ponte sullo stretto (che finalmente è stato decretato ufficialmente una stupidata)… fino agli occupanti dell’ex-cinema Palazzo, del Valle, di Cinecittà, del teatro di Ostia. E a chi li rimprovera di dire sempre no risponde il poeta, codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Da Pubblico del 18 settembre 2012

Chomsky: "Occupy Wall Street? Ora deve fare un salto di qualità"

Dialogo a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba
e alla libertà di opinione in Italia

CARLA RESCHIA

"Occupy Wall Street? “Se un anno fa mi avessero detto quello che volevano fare avrei risposto che era una follia. Non ci credevo e sbagliavo, sono incredibili. Ora però devono fare il passo successivo: una tattica non può diventare un movimento, deve fare un salto di qualità”. Noam Chomsky a Trieste fa il pieno di folla - 1400 persone al teatro Rossetti strapieno, dopo che le prime due sedi, più piccole, erano state abbandonate per il crescere delle prenotazioni – e dialoga a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba alla libertà di opinione in Italia, “Ne avete abbastanza, tutto sommato, ma pochi sanno usarla”. Senza dimenticare i temi economici e la dittatura delle multinazionali, suo cavallo di battaglia, con molti excursus storici, da Martin Luther King a Kennedy, e con uno speciale accanimento verso Obama, che voterà, dice con una metafora di montanelliana memoria, “turandosi il naso”, ma che intanto incolpa, con il suo stile sommesso, di colpe peggiori di quelle dei Bush padre e figlio e che definisce un ottimo pr, nulla di più: “Manca di sostanza, parla per slogan”. Dalla lectio magistralis del mattino alla Sissa, con il conferimento del dottorato honoris causa in Neuroscienze, al dialogo con i giornalisti, al confronto con il pubblico del pomeriggio, ricco di domande e generoso di risposte, Chomsky ribadisce punto per punto le tesi incendiarie che ne hanno fatto un’icona no global. Ma a un ragazzo che gli chiede che strategie usare durante le manifestazioni risponde in modo quasi pasoliniano, suggerendo il dialogo con i poliziotti: “Fanno parte del 99% dell’umanità sottomessa, e non dell’1% che ha in mano i soldi e il potere. Forse ricordarglielo può indurli a un modo diverso di vedere le cose”.

Ecco il Noam-pensiero
Obama v/s Romney

Non ho mai avuto nessuna particolare aspettativa su Obama, le elezioni negli Usa sono una farsa, una stravaganza, un fenomeno di pubbliche relazioni che non decide nulla. Obama ha vinto perché aveva un’ottima strategia di marketing, ecco tutto. Non è una mia opinione, è stato anche premiato per questo. Nel 2008 è stato nominato Advertising Age's marketer, votato da centinaia di addetti ai lavori riuniti nella conferenza nazionale dei pubblicitari”. Per il resto: “Il costo delle elezioni aumenta e diminuisce la loro credibilità, mentre Obama fa il peggio del peggio: arresta chi si oppone, fa ammazzare in giro per il mondo i “nemici”, nemmeno Bush aveva osato tanto, lui si limitava a farli sparire e a consegnarli a stati con leggi più elastiche.

Le emergenze globali
Sono indubbiamente la guerra e il disastro ambientale, ma ben lungi dal salvaguardarci i governi ci portano a questo, pensate solo a come viene gestita la crisi economica. E non solo. In passato ci sono stati innumerevoli allarmi atomici, disinnescati a pochi minuti dal passaggio alle vie di fatto, di cui nessuno ci ha informato. E questo negli Usa, nulla sappiamo, ad esempio, della Russia. Istituire, ad esempio un’area libera dalle armi nucleari in Medio Oriente sarebbe un passo in avanti , ma ne siamo più che mai lontani.

Primavera araba
Non fiorisce in Arabia Saudita, dove è stata subito repressa e non riesce in Egitto dove il potere dell’esercito resta intatto. Il Medio Oriente è l’ultima roccaforte del potere egemonico statunitense, in declino dalla fine della seconda guerra mondiale. Il Sud America è andato perso, il Medio Oriente è l’ultima roccaforte e gli Stati Uniti non vogliono la democrazia, appoggiano le dittature perché sono funzionali al loro controllo.

Iran
Ci sono studi e sondaggi che indicano come le popolazioni del Medio Oriente non vedano nell’Iran atomico un pericolo. Anzi, la bomba atomica iraniana è, per loro, un fattore di equilibrio verso quelli che considerano gli stati canaglia per eccellenza, Israele e Stati Uniti. E la bomba iraniana è vista come un legittimo diritto. Perché l’Iran non dovrebbe avere armi atomiche dato che è circondato da stati che le possiedono? Perché Israele dovrebbe rappresentare un’eccezione? Questo i media non lo dicono. Così come non dicono l’ovvio: Se l’Iran si comportasse come Israele può fare impunemente la reazione sarebbe ben diversa.

Social network
Non è una grande rivoluzione come, ad esempio, il telegrafo o il telefono. Non cambia il linguaggio, cambia solo la percezione. I social media creano l’illusione di avere tanti amici (vedi Facebook) ma non sono amici, solo conoscenze superficiali. Tecnologia: E’ neutra, né buona né cattiva, come il martello che può servire a costruire una casa ma anche a demolirla. Dipende dall’uso che se ne fa, può essere un grande strumento ma anche una trappola.

Cina Non credo che sarà il prossimo Paese egemone. Per quanto abbia fatto grandi progressi ha ancora grandi sacche di povertà e molti problemi interni. Inoltre non può né vuole competere con gli Stati Uniti sul piano militare, è impossibile perché le spese per gli armamenti degli Stati Uniti superano da sole, quelle del mondo intero. L’ecologia e l’aumento della popolazione sono i temi con cui dovrà fare i conti. La sua espansione in Africa è puramente economica, ma offre anche servizi, lavoro, in Libia, ad esempio, la guerra è stato il tentativo di reimporre il dominio occidentale su una realtà che stava sfuggendo.

Europa
Quello che si sta distruggendo, scientemente, è il welfare che rendeva peculiare il sistema europeo. L’ha dichiarato espressamente Mario Draghi al Wall Street Journal: è un modello obsoleto. Non avviene per caso, c’è un piano. Lo stesso che ha portato al declino degli Stati Uniti. Un declino autoinflitto perché causato da misure economiche che hanno provocato stagnazione e hanno azzerato i guadagni della classe media ma hanno moltiplicato quelli dell’elite dominante. Del resto, è folle pensare di poter risanare l’economia imponendo sacrifici e rinunce a paesi in recessione. Il risultato è che i giovani stanno perdendo la loro fiducia nel futuro. Davvero era necessario?

Mass media
Negli Usa la libertà d’informazione è straordinaria, ma anche in Europa non è male. Tutto sta ovviamente a volersi informare e a non dar retta ai mass media che fanno il loro lavoro, ovvero distrarre l’attenzione da quello che fa il governo. Il punto è che le informazioni non vengono diffuse, gli intellettuali sono complici e il lavoro di Wikileaks ha avuto la sorte che sappiamo.

La speranza
La storia ha tempi lunghi, cui non siamo più abituati. Rimpiango la scomparsa del partito comunista negli Stati Uniti perché i comunisti sapevano aspettare e non si arrendevano di fronte a una sconfitta ma, ostinatamente, perseveravano. Oggi la Norvegia che offre a un pluriassassino come Breivik un processo equo e la possiblità di una riabilitazione è un modello ma è una conquista recente, un tempo sarebbe stato ucciso. Questo per dire che non dobbiamo aspettarci miracoli o cambiamenti istantanei, ma lavorare per il cambiamento sapendo che non lo vedremo.

17.9.12

Inna Shevchenko. Un esprit sein (Libération)

Inna Shevchenko. Un esprit sein  (Libération)

Cette militante du Femen, mouvement féministe ukrainien qui manifeste poitrine à l’air, lance un «camp d’entraînement» à Paris.


Inna Schevchenko du mouvement Femen. - Photo Guillaume Herbaut Institute pour Libération
     «Nous étions jeunes quand nous avons commencé.» Inna Shevchenko a 22 ans. Elle croise les jambes et se redresse un peu dans son fauteuil étroit. Elle sourit. «Je ne suis plus jeune désormais.» Cette militante de Femen, ce mouvement féministe ukrainien devenu célèbre pour ses protestations seins nus, est arrivée en France fin août, en catastrophe, avec un visa de tourisme. Quelques jours plus tôt, à Kiev, cette grande et jolie blonde a découpé à la tronçonneuse une croix orthodoxe en soutien aux Pussy Riot. Scandale, évidemment, menace de prison. «Des hommes» la suivent dans tous ses déplacements. «Un matin, ils ont commencé à enfoncer ma porte, j’ai attrapé mon passeport et je me suis enfuie par la fenêtre», raconte-t-elle. D’abord Varsovie, puis c’est Paris, quartier de la Goutte-d’Or, au Lavoir moderne parisien (LMP). Cet «immense hangar, à plafond plat, à poutres apparentes, monté sur des piliers de fonte, fermés par de larges fenêtres claires» comme le décrit Zola dans l’Assommoir, est un théâtre de quartier menacé de fermeture. Ses gérants, sensibles à la cause, ont toutefois décidé de prêter gracieusement l’espace aux Femen pour qu’elles lancent un «camp d’entraînement international», qui ouvre officiellement ce mardi. Exercices psychologiques, théoriques, sportifs : le programme est chargé. Inna Shevchenko s’enthousiasme : «Nous voulons former des jeunes femmes à devenir des soldats pour la cause féministe à travers le monde.»Pour elle, le militantisme se résume en un mot : «Travail».
     La première manifestation des Femen a eu lieu à Kiev en avril 2008. Trois jeunes femmes se griment en prostituées. Elles savent déjà que leur militantisme, contre le sexisme et la prostitution, passera par des actions de rue. A l’université, menées par Anna Hutsol, 27 ans, la tête pensante, elles ont fondé une association exclusivement réservée aux femmes, Nouvelle Ethique. A l’époque, Inna Shevchenko est étudiante en journalisme, tout en étant employée au service de presse de la mairie de Kiev. «J’avais un bon boulot, je payais mon appartement sans problème, j’étais une jeune fille modèle.» Elle qui vient de Kherson, port sur les bords de la mer Noire, est séduite par le «pop-féminisme» des Femen. Son père est militaire, sa mère est employée dans un lycée, elle a une sœur aînée.
    En 2010, le mouvement décide de changer de stratégie. Certaines manifesteront désormais seins nus. La première est fixée un 24 août, jour de l’indépendance ukrainienne. «Nous avons eu une très longue discussion, se souvient-elle. Moi, je ne voulais pas le faire, mais aujourd’hui, je pense que c’était la meilleure des idées.» Des jeunes Ukrainiennes, belles et élancées, protestant en petite tenue ? Forcément, les médias accourent, plus intéressés par des plastiques réputées parfaites que par les revendications. «La presse est notre meilleure protection, explique-t-elle. Si nous sommes seins nus, notre message est beaucoup plus relayé et nous sommes moins en danger
    Elle assume : «Nous avons voulu montrer que les féministes ne sont pas que des vieilles femmes cachées derrière leurs bouquins.» Et, ce corps nu, ou presque, elle le défend vigoureusement. «En Ukraine, il n’y a pas de culture de l’activisme, nous avons dû tout inventer. J e serais incapable de me déshabiller à la plage, mais, quand je manifeste, j’ai l’impression de porter ce que j’appelle mon "uniforme spécial."» Elle mime quelqu’un en train de se déguiser. «Pour la première fois, le corps des femmes n’appartient plus aux hommes. Ils sont décontenancés, ils ont peur», continue-t-elle. Sa fierté est évidente.
    Manifestation contre la prostitution, la corruption, ou encore en France contre DSK… Les Femen sont sur tous les fronts. Si leurs manières d’agir détonnent, elles restent pour le moment sur des revendications féministes plutôt traditionnelles. La situation générale des femmes en Ukraine, «belles, pauvres et pas éduquées» comme les voit la jeune militante, y est sans doute pour beaucoup. Le plus souvent, elles sont plus ou moins violemment évacuées par la police mais, parfois, cela tourne mal.
    Soudain, Inna Shevchenko baisse la voix, elle hésite un peu, penche la tête, semble moins assurée. Le 21 décembre 2011, à Minsk, Biélorussie, elles sont trois à manifester en ce jour d’hiver contre le dictateur Loukachenko. Elle raconte qu’elles sont arrêtées par une quinzaine d’hommes. En garde à vue, elles sont longuement interrogées, insultées, menacées, frappées. Dans la nuit, elles sont encagoulées, puis remises à un autre groupe. Elles roulent longtemps, se retrouvent dans une forêt. Un instant de silence. Les hommes leur conseillent de bien respirer l’air frais, parce que «c’est la dernière fois». Et ils leur recommandent «de fermer les yeux et de penser au sourire» de leurs mères. Ils leur coupent les cheveux. Mais, finalement, ne les tuent pas. Ils les laissent là, au milieu de nulle part. Elles ne sont pas si loin de la frontière ukrainienne. Elles trouvent un petit village, appellent les médias. L’ambassadeur ukrainien est contraint de les exfiltrer. «Au départ, il ne voulait pas, mais Reuters était déjà arrivé, il était obligé.» Elle sourit un peu à nouveau.
    Le succès médiatique attire les soupçons sur les Femen. «On a dit qu’on était financées par Obama, Soros ou même Poutine ! Mais ce n’est pas vrai. On a une boutique en ligne où on vend des tee-shirts. On a des petits donateurs, et on essaye de se faire inviter tous frais payés quand on se déplace à l’étranger.» Inna Shevchenko est l’une des quatre militantes à percevoir un salaire, «environ 600 euros par mois». «La Biélorussie a été la pire expérience de ma vie et la meilleure en même temps. J’ai compris que je voulais m’engager totalement dans les Femen», juge-t-elle. Cette célibataire explique ne plus «avoir de vie» en dehors et que ses seules amies sont des militantes. Elle voudrait importer cette culture de l’engagement à Paris où elle imagine rester tant qu’un retour à Kiev est trop risqué. «Pour le lancement, les Françaises voulaient organiser une fête, raconte-t-elle, mais j’ai dit "non, il faut une conférence de presse. C’est sérieux, cela ne doit pas être amusant."» Elle se reprend un peu : «Bon, il y aura tout de même une soirée après.» Eloïse Bouton, passée par Osez le féminisme ! et le collectif la Barbe, est la représentante de la branche française des Femen. Elle le reconnaît : «Dans l’avenir, il faut faire attention à ne pas tomber juste dans le spectacle, l’entertainment.»
    Le soir, Inna Shevchenko dit avoir du mal à faire une pause. Elle lit et relit la Femme et le Socialisme d’August Bebel, l’ouvrage de référence du groupe. L’homme politique allemand écrivait ceci en 1883 : «La femme, dans la société nouvelle, jouira d’une indépendance complète ; […] elle sera placée vis-à-vis de l’homme sur un pied de liberté et d’égalité absolues».

    Inna Shevchenko en 5 dates

    23 juin 1990 Naissance à Kherson (Ukraine).
    Août 2010 Première manifestation seins nus.
    Décembre 2011 Enlèvement en Biélorussie.
    Août 2012 Fuite à Paris.
    Mardi 18 septembre. Ouverture du «camp d’entraînement international» des Femen, à Paris.
    Photo Guillaume Herbaut. Institute

    1.9.12

    «Chiesa indietro di 200 anni »

    L'ultima intervista: «Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»

    Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme , e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

    Come vede lei la situazione della Chiesa?
    «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».
    Chi può aiutare la Chiesa oggi?
    «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vede nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
    Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
    «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all'interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
    Lei cosa fa personalmente?
    «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

    Dieci cose che i Conservatori non vogliono che si sappiano su Ronald Reagan

    10 Things Conservatives Don’t Want You To Know About Ronald Reagan

    Tomorrow will mark the 100th anniversary of President Reagan’s birth, and all week, conservatives have been trying to outdo each others’ remembrances of the great conservative icon. Senate Republicans spent much of Thursday singing Reagan’s praise from the Senate floor, while conservative publications have been running non-stop commemorations. Meanwhile, the Republican National Committee and former GOP House Speaker Newt Gingrich are hoping to make a few bucks off the Gipper’s centennial.
    But Reagan was not the man conservatives claim he was. This image of Reagan as a conservative superhero is myth, created to unite the various factions of the right behind a common leader. In reality, Reagan was no conservative ideologue or flawless commander-in-chief. Reagan regularly strayed from conservative dogma — he raised taxes eleven times as president while tripling the deficit — and he often ended up on the wrong side of history, like when he vetoed an Anti-Apartheid bill.
    ThinkProgress has compiled a list of the top 10 things conservatives rarely mention when talking about President Reagan:
    1. Reagan was a serial tax raiser. As governor of California, Reagan “signed into law the largest tax increase in the history of any state up till then.” Meanwhile, state spending nearly doubled. As president, Reagan “raised taxes in seven of his eight years in office,” including four times in just two years. As former GOP Senator Alan Simpson, who called Reagan “a dear friend,” told NPR, “Ronald Reagan raised taxes 11 times in his administration — I was there.” “Reagan was never afraid to raise taxes,” said historian Douglas Brinkley, who edited Reagan’s memoir. Reagan the anti-tax zealot is “false mythology,” Brinkley said.
    2. Reagan nearly tripled the federal budget deficit. During the Reagan years, the debt increased to nearly $3 trillion, “roughly three times as much as the first 80 years of the century had done altogether.” Reagan enacted a major tax cut his first year in office and government revenue dropped off precipitously. Despite the conservative myth that tax cuts somehow increase revenue, the government went deeper into debt and Reagan had to raise taxes just a year after he enacted his tax cut. Despite ten more tax hikes on everything from gasoline to corporate income, Reagan was never able to get the deficit under control.
    3. Unemployment soared after Reagan’s 1981 tax cuts. Unemployment jumped to 10.8 percent after Reagan enacted his much-touted tax cut, and it took years for the rate to get back down to its previous level. Meanwhile, income inequality exploded. Despite the myth that Reagan presided over an era of unmatched economic boom for all Americans, Reagan disproportionately taxed the poor and middle class, but the economic growth of the 1980′s did little help them. “Since 1980, median household income has risen only 30 percent, adjusted for inflation, while average incomes at the top have tripled or quadrupled,” the New York Times’ David Leonhardt noted.
    4. Reagan grew the size of the federal government tremendously. Reagan promised “to move boldly, decisively, and quickly to control the runaway growth of federal spending,” but federal spending “ballooned” under Reagan. He bailed out Social Security in 1983 after attempting to privatize it, and set up a progressive taxation system to keep it funded into the future. He promised to cut government agencies like the Department of Energy and Education but ended up adding one of the largest — the Department of Veterans’ Affairs, which today has a budget of nearly $90 billion and close to 300,000 employees. He also hiked defense spending by over $100 billion a year to a level not seen since the height of the Vietnam war.
    5. Reagan did little to fight a woman’s right to choose. As governor of California in 1967, Reagan signed a bill to liberalize the state’s abortion laws that “resulted in more than a million abortions.” When Reagan ran for president, he advocated a constitutional amendment that would have prohibited all abortions except when necessary to save the life of the mother, but once in office, he “never seriously pursued” curbing choice.
    6. Reagan was a “bellicose peacenik.” He wrote in his memoirs that “[m]y dream…became a world free of nuclear weapons.” “This vision stemmed from the president’s belief that the biblical account of Armageddon prophesied nuclear war — and that apocalypse could be averted if everyone, especially the Soviets, eliminated nuclear weapons,” the Washington Monthly noted. And Reagan’s military buildup was meant to crush the Soviet Union, but “also to put the United States in a stronger position from which to establish effective arms control” for the the entire world — a vision acted out by Regean’s vice president, George H.W. Bush, when he became president.
    7. Reagan gave amnesty to 3 million undocumented immigrants. Reagan signed into law a bill that made any immigrant who had entered the country before 1982 eligible for amnesty. The bill was sold as a crackdown, but its tough sanctions on employers who hired undocumented immigrants were removed before final passage. The bill helped 3 million people and millions more family members gain American residency. It has since become a source of major embarrassment for conservatives.
    8. Reagan illegally funneled weapons to Iran. Reagan and other senior U.S. officials secretly sold arms to officials in Iran, which was subject to a an arms embargo at the time, in exchange for American hostages. Some funds from the illegal arms sales also went to fund anti-Communist rebels in Nicaragua — something Congress had already prohibited the administration from doing. When the deals went public, the Iran-Contra Affair, as it came to be know, was an enormous political scandal that forced several senior administration officials to resign.
    9. Reagan vetoed a comprehensive anti-Apartheid act. which placed sanctions on South Africa and cut off all American trade with the country. Reagan’s veto was overridden by the Republican-controlled Senate. Reagan responded by saying “I deeply regret that Congress has seen fit to override my veto,” saying that the law “will not solve the serious problems that plague that country.”
    10. Reagan helped create the Taliban and Osama Bin Laden. Reagan fought a proxy war with the Soviet Union by training, arming, equipping, and funding Islamist mujahidin fighters in Afghanistan. Reagan funneled billions of dollars, along with top-secret intelligence and sophisticated weaponry to these fighters through the Pakistani intelligence service. The Talbian and Osama Bin Laden — a prominent mujahidin commander — emerged from these mujahidin groups Reagan helped create, and U.S. policy towards Pakistan remains strained because of the intelligence services’ close relations to these fighters. In fact, Reagan’s decision to continue the proxy war after the Soviets were willing to retreat played a direct role in Bin Laden’s ascendancy.
    Conservatives seem to be in such denial about the less flattering aspects of Reagan; it sometimes appears as if they genuinely don’t know the truth of his legacy. Yesterday, when liberal activist Mike Stark challenged hate radio host Rush Limbaugh on why Reagan remains a conservative hero despite raising taxes so many times, Limbaugh flew into a tirade and demanded, “Where did you get this silly notion that Reagan raised taxes?

    Update
    Salon has more in their series “The Real Reagan,” including how he cared more about UFOs than AIDS and how Reagan destroyed respect for the social compact that rebuilt America after World War II.