27.8.07

Alla ricerca della mossa vincente sulla scacchiera di Walter Tevis

Sostenuto da una incredibile tensione, il romanzo dello scrittore americano titolato «La regina degli scacchi», introdotto da Tommaso Pincio per minimum fax. Protagonista, una bambina prodigio, che sfida il caos con la forza del pensiero
Francesca Borrelli

È mai possibile che un intreccio letterario generi tensione affidandosi a sequenze di ragionamenti nei quali è pressoché inimmaginabile identificarsi? È plausibile che riesca nell'intento di trascinarci fino all'ultima pagina pur descrivendo azioni che non troviamo né attraenti né ripugnanti ma semplicemente indifferenti ai nostri interessi, ambientate in un contesto sufficientemente sterile da non catturare le nostre proiezioni mentali né attentare al nostro equilibrio psichico? E, per di più, tra personaggi che frequentano poco o nulla i sentimenti, che non hanno sogni ai quali aderire o dai quali ritrarsi, perché assorbiti da una unica ossessione di cui tutte le coordinate ci sfuggono e il cui nome a mala pena riusciamo a far combaciare con una immagine dotata di senso? Forse la questione è mal posta, certo è che un romanzo affidato a queste pregiudiziali sembrerebbe avere poche chances; eppure, la tensione che percorre, e quasi fa vibrare le righe della Regina degli scacchi, scritto dall'americano Walter Tevis nel 1983, è pressoché insostenibile. Ne è protagonista una bambina di nome Beth Harmon, la cui vita seguiamo fino alla fine della adolescenza, quando raggiunge il traguardo che si è imposta e finalmente potrebbe avviarsi a sperimentare tutto ciò che fino a allora si è negata.
Strategie esistenziali
Della sua prima infanzia non sappiamo nulla, non soltanto perché è preclusa dalla scena del romanzo, ma perché Beth sembra non avere ricordi ai quali risalire, né emozioni legate alla perdita prematura dei genitori, morti in un incidente stradale. Stordita e silenziosamente rassegnata al suo destino, vive per anni in un orfanotrofio dove somministrano tranquillanti ai bambini per controllarne la docilità, senza altra amica se non una ragazza nera patentemente invidiosa di lei, che le notifica la sua condizione di «povera sfigata, bianca come una mozzarella e pure stronza». Beth, tutto sommato è d'accordo, si trova effettivamente brutta e sgraziata, non è incline a stringere rapporti, sa su cosa può contare e quel qualcosa lo ha in sé anche se non basta a darle sicurezza; infatti ingoia ansiolitici e impara a metterne da parte una scorta per le notti più insonni: è la prima strategia che elabora, arriverà persino a scassinare l'armadio dove è contenuto il barattolo delle pillole agognate. Il senso della misura non le indica qual è la soglia, e lei la oltrepasserà più volte. Ma la fortuna in qualche modo le viene incontro, un giorno scende nello scantinato dell'orfanotrofio e si trova davanti una scena incomprensibile: il custode è chino su una scacchiera, il suo sguardo è inchiodato ai pezzi che ha davanti, ogni tanto ne muove uno, Beth lo osserva e impara. Ha solo otto anni, e quando chiederà di giocare si sentirà dire che quello non è affare per bambine, l'esordio di una lunga serie di manifestazioni di diffidenza, che lei demolirà con la sua bravura. Il primo a cedere è proprio il custode che, arreso all'evidenza, le dice «sei stupefacente»; così, è a lui che Beth chiederà i cinque dollari necessari a iscriversi al suo primo torneo quando, ormai adottata da una coppia che sta insieme solo per il tempo necessario a simulare una famiglia possibile, darà inzio alla sua carriera di scacchista.
D'ora in avanti le pagine si affollano di combinazioni, di strategie di attacco, di bilanciamenti di forze lungamente ponderati, e incredibilmente incollano la nostra attenzione, sebbene ignara di quel che si sta svolgendo. È probabile che chi è in grado di seguire il gioco degli scacchi abbia a disposizione una fonte ulteriore di godimento, ma è altrettanto possibile che la sua competenza lo induca a concentrarsi sulle mosse delle partite, allontanandolo dal congegno del romanzo; è quanto è patentemente successo a Yuri Garrett, scacchista e autore di una postfazione al tempo stesso ammirata e stizzita, ma comunque benvenuta in questa edizione di minimum fax, che ci regala apparati ormai latitanti dalla stragrande maggioranza dei libri.
Un rifugio oltre il mondo reale
Dunque, Beth Harmon ha trovato la sua strada, ha gettato l'unica bambola mai avuta in regalo nella spazzatura e in compenso ha imparato a soppesare i pezzi degli scacchi, rigirandoseli voluttusamente tra le mani e considerandone la qualità. Legge riviste specializzate sulle quali studia le partite dei Grandi Maestri, poi le memorizza e le riproduce introducendo le sue varianti. Conosce ben poco del mondo, negli scacchi ha trovato «un rifugio sicuro - scrive Tommaso Pincio nella sua introduzione, al solito puntuale e felicemente espressiva - se non addirittura l'illusione di poter dominare il caos con la forza del pensiero». Per potersi concentrare, Beth ha bisogno di eliminare dal suo spazio mentale la persona che ha davanti: raramente quell'individuo merita uno sguardo, e più raramente ancora lo sguardo, comunque sfuggito, coglie un dettaglio piacevole sul quale sostare. Quella persona non è che un avversario, Beth non vede in lui altro che una minaccia alla sua sete di vittorie. «È talmente prigioniera della sua capacità di pensare in termini astratti - scrive ancora Pincio - che i desideri non riescono a cristallizzarsi in alcunché di concreto.» Proprio così; infatti è drammaticamente sola, inchiodata con il pensiero alle linee di forza incise sulla sua scacchiera mentale, eppure starle dietro in quelle mosse, benché incompresibili, è enormemente più emozionante che non seguirla nei suoi primi passi di amante, o nel vortice che la inghiotte quando comincia a bere. Evidentemente, l'interesse di Walter Tevis per il gioco, sia quello degli scacchi che quello del biliardo, non a caso sfondo del suo primo successo titolato The Hustler, è contagioso.
Ma Tevis aveva anche familiarità con l'alcol e le tossicodipendenze, inoltre il suo fisico portava il segno dei danni alla cordinazione motoria derivatigli da una malattia infantile; sapeva dunque cosa vuol dire avere un brutto aspetto e una buona disposizione alla dipendenza da farmaci psicotropi, ma nessuna di queste peculiarità riversate nel personaggio di Beth è altrettanto trascinante della sua competenza scacchistica.
Una passione, certo, ma soprattutto la sua carta per avanzare da vincente nella vita, quella vita di cui lei scansa le poche occasioni emotive, neutralizzandole tramite esagerate bevute e altrettanto esorbitanti dosi di tranquillanti. Assaggia il deterioramento della sue facoltà percettive, le cadute di attenzione, l'appannarsi della lucidità, persino lo svanire della sua motivazione al gioco. Ma ha davanti un obiettivo per lei fondamentale, battere i Grandi Maestri russi, i più temibili, i migliori al mondo. Guadagnerà le tappe a cui aspira ritrovandosi ripetutamente sola; il fatto stesso che Beth sbaragli uno dopo l'altro i suoi avversari fa sì che nessuno sosti davanti a lei per un tempo maggiore di quello necessario a essere vinto. Così tutti la ricordano come un prodigio: di bravura non certo di simpatia, e sono rari quelli che si alzano dal tavolo con la generosità necessaria a stringerle compiaciuti la mano.
Sul filo dei nervi
Tutto ciò che accompagna il suo affaccio alla notorietà - le interviste, la deferenza che le viene tributata, i piccoli lussi finalmente possibili - è descritto da Tevis in modo da costruire al tempo stesso una cornice convincente e una serie di allentamenti della tensione, che riprende non appena Beth torna al tavolo da gioco. E proprio allora, quando le parole abbandonano il campo delle descrizioni in cui è possibile orientarsi, proprio quando tornano a nominare oggetti, azioni, ragionamenti estranei alla nostra capacità di comprederli e dunque di visualizzarli, scatta il contagio, e i nostri nervi si tendono insieme a quelli di Beth.

ilmanifesto.it

20.8.07

SOLDI E POLITICA

di SERGIO RIZZO e GIAN ANTONIO STELLA

Le casse già piene dei partiti

Il vecchio Orlando Orfei sfidava la sorte afferrando per la coda feroci iene che mulinava in aria per scaraventarle in gabbia e il mitico Patrick de Gayardon buttandosi dagli aerei senza paracadute. Ma anche Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, adora il brivido. Nel bel mezzo delle polemiche sui costi pazzi della politica ha infatti proposto di ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti. Che già oggi ricevono il doppio che in Germania. Per non parlare di Usa o Inghilterra. Che il deputato ds fosse di parola ruvida si sapeva. Ferroviere, funzionario del partito, da anni in politica, si è fatto, via via che entrava nella parte del ringhioso guardiano della cassaforte diessina, la fama del «signor No».
Brusco sui soldi con Prodi: «Tenga al guinzaglio i suoi cani». Rude con Veltroni: «Ho vissuto sei anni in mezzo ai debiti e ora non ho nessuna intenzione di farne per organizzare le primarie del partito democratico». Spiccio coi giovani che contestavano («troppi soldi») il contributo di 10 euro proposto per chi alle primarie voterà: «Quelli che alla loro età andarono in montagna non si posero il problema della paghetta». Aspro con chi come l'ulivista Salvatore Vassallo teorizza il superamento delle feste dell'Unità e di tanti simboli identitari post-comunisti: «Qualcuno dovrebbe mettergli la museruola». Muscoloso col coro di proteste per la decisione del suo amico sindaco di Tarquinia di prendere dalla cassa l'anticipo per le spese legali di un branco di bulli che aveva violentato una ragazza: «Una indegna gazzarra».
Non bastasse, era stato scottato da roventi polemiche per l'intercettazione di una sua chiacchierata telefonica con Giovanni Consorte. Chiacchierata nella quale l'allora capo dell’Unipol impegnato nella scalata alla Bnl gli diceva: «Non sa niente nessuno, lo sai solo tu come al solito, perché sei l'unico di cui mi fido...». E lui ricambiava mostrando di condividere la prudenza sulla necessità di raccontare come stavano le cose a Piero Fassino «senza dargli dettagli» : «Niente, niente Gianni, niente...» Raccomandazione non proprio coerente, diciamo, con quanto sostiene: "La democrazia è trasparenza, conti chiari, bilanci onesti".
Certo è che, fiero d'avere avviato il risanamento del partito, ha deciso di essere franco fino in fondo, sbuffando ieri mattina con Luca Telese, del Giorna le , contro le «animelle che storcono il naso» sui costi della politica e che secondo lui «o parlano per opportunismo o sono in malafede». Poiché «i costi della politica sono cresciuti all’inverosimile», infatti, «è ora di finirla con le chiacchiere. Basta con la demagogia, facciamo sul serio. E' giunto il momento di impegnarsi in una battaglia democratica per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti». Alla faccia dei giornali che «decidono tutto». Alla faccia di chi denuncia come insopportabile scoprire che un barbiere del Senato può arrivare a prendere 133 mila euro cioè il quadruplo di un dipendente medio di Buckingham Palace e 36 mila più del Lord Chamberlain della Regina Elisabetta. Ma alla faccia, dice lui, soprattutto di tanti colleghi che lo criticano «e invece dovrebbero farmi un monumento».
Ma il finanziamento pubblico non era stato abolito dal 90,3% dei votanti al referendum del ’93? Certo, risponde Sposetti, ma tutto questo accadde «un secolo fa. Adesso è tutto cambiato». Quanto alle perplessità sulla rapidità e sul modo in cui il bilancio diessino è stato aggiustato, il tesoriere fassiniano le liquida così: «frescacce». Quali saranno la reazione degli elettori di sinistra si vedrà. Certo è che la sfida del tesoriere ds rischia di essere un cerino buttato in un deposito di polvere da sparo.
Stando a uno studio elaborato proprio per la nostra Camera dei deputati, infatti, i soldi che i partiti italiani incassano sono già molti di più di quanti vengono distribuiti negli altri principali paesi occidentali. In Francia, dove chi non raggiunge almeno il 5% dei suffragi al primo turno non ha diritto a vedersi rimborsare neppure la metà di quanto ha speso (tanto che il glorioso ma ammaccatissimo Pcf potrebbe vendere parte delle opere d'arte avute in dono negli anni buoni da artisti amici) e dove i finanziamenti vengono tagliati a chi non rispetta le «quote rose» fissate, ogni cittadino versa negli anni elettorali circa 2,54 euro. In Spagna, dove i parlamentari sono 575 (metà dei nostri), la spesa pro-capite è di 2,13 euro. In Germania, dove esiste un tetto massimo (133 milioni l'anno) agli stanziamenti statali, la quota personale è di 1,61.
Da noi, nel 2006, di 3 euro e 38 centesimi. Il doppio. Per non dire dei confronti imbarazzanti con paesi come il Regno Unito dove, spiega il dossier, «Il finanziamento pubblico - se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali - è limitato ai contributi concessi ai partiti di opposizione in Parlamento». O degli Stati Uniti, dove «il finanziamento pubblico della politica è limitato al finanziamento della campagna presidenziale» e nel 2004 è costato 206 milioni di dollari, circa 50 centesimi di euro per abitante.
Eppure, a spulciare nella nostra storia recente, non solo ogni ciclo elettorale di cinque anni (politiche, europee, regionali, amministrative) ci costa un miliardo di euro ma una inchiesta del "Sole 24 ore" ha appena dimostrato che le finanze dei partiti non sembrano proprio aver bisogno di nuovi afflussi. Stando ai bilanci, vanno tutti bene. Sono in largo attivo, non fosse per i buchi del passato, i diessini (11 milioni e mezzo, pari al 27,6% dei proventi totali del partito) e i forzisti (più quasi 47 milioni grazie a introiti pubblici nello scorso anno per la cifra record di 134 milioni) e i nazional-alleati (più 3 milioni 850 mila euro) e i casiniani dell'Udc (25 milioni 182 mila euro!) e perfino chi sta maluccio, come la Lega, non è andata in rosso. E allora?
Non bastasse, vale la pena di sottolineare un punto: non sempre, quando sono in ballo i soldi, i nostri parlamentari decidono «a partire dalla legislatura successiva» come nel caso delle sforbiciate alle pensioni o ai privilegi. Certe volte fanno anche scelte «retroattive». Come quella, passata sotto silenzio, dell'ottobre 2002. Quando, dopo aver portato tutti insieme soltanto due mesi prima (unica eccezione: i radicali) i rimborsi elettorali da 2 a 5 euro per ogni elettore iscritto alle liste, ridistribuirono i soldi per le elezioni del 2001: 125.089.621,44 euro in più rispetto a quelli già stanziati proprio per il 2002. Un bel gruzzolo supplementare che, per fare solo due esempi, fu di oltre 9 milioni per gli azzurri e di 8 per i diessini. E quel giorno, accantonando le reciproche accuse di essere goebbelsiani o stalinisti, sorrisero finalmente tutti.
corriere.it

19.8.07

Aspiranti scrittori aprite le orecchie

È più facile che un grande scrittore si nasconda sotto i panni malconci del ladro di polli che dentro la giacchetta di un dandy ostentato, ex studente di liceo sempre seduto al primo banco
Camilo José Cela

Ignorano, i giovani apprendisti del mestiere sparsi per tutta la terra di Spagna, fino a che punto scrivo fremendo e con l'anima appesa a un filo questa lettera che oggi voglio dedicare loro. Né vecchio, ma nemmeno più giovanissimo, credo che i miei trentasei anni siano giusti per rivolgermi, con ancora fresco il ricordo di quell'età, ai giovani che, come bambini sonnambuli, si sforzano di seguire il duro e accidentato cammino della propria vocazione letteraria, questo sentiero per cui si procede pagando tutte le servitù di passaggio, e per il quale, a volte, non si va avanti se non a prezzo del fallimento; e, quel che è peggio, del dileggio dei più. Il ludibrio di quanti, deliziandosi della propria crudeltà, esclamano: «Lo vedi? Se almeno ti fossi preparato qualche concorso».
Per essere scrittore, è necessario essere capaci di sentirsi eternamente giovani. Samuel Ullman diceva che la gioventù non è una età della vita, ma una condizione dello spirito, e in questo senso parlo ora di quel mito dorato, di quel premio della lotteria a cui diamo il nome di «giovinezza». L'apprendista del mestiere, lo scrittore esordiente, di solito è giovane. Darsi, una volta trascorsa la giovinezza, alla letteratura, alla tauromachia, o all'amore, è un bisogno, né piacevole, né fecondo. Bisogna provare sia la letteratura che la tauromachia, per non essere privati di vigore e di virtù, parandosi con la «muleta» dell'audacia - arma difficile che pochissimi sanno maneggiare - e facendosi scudo di un'eroica rinuncia a tutto. Ammesso che si guadagni il successo, questo ci sarà dato come un di più, e né gli intrighi, né i temporeggiamenti potranno servirci se non da zavorra.
Il giovane che si senta conservatore farebbe meglio a sbarazzarsi di gran carriera del suo progetto di farsi strada con la penna in mano. Il saggio Castiglione diceva che troppo buon senso nei giovani è un cattivo segno. È più facile che un grande scrittore si nasconda sotto i panni malconci del ladro di polli, che dentro la giacchetta di un dandy ostentato, solito a sedersi, quando era studente di liceo, sempre al primo banco. È solo questione di sapere ciò che si vuole e di riuscire a capirlo in tempo.
L'apprendista scrittore non deve mai cercare di procacciarsi onori, meriti, gloria o denaro in cambio dell'avere dedicato tutta la sua vita alla letteratura. Non è infrequente imbattersi in chi vende il proprio onore in cambio di onorificenze, come diceva il tedesco Jacob, ed è bene tenere sempre a mente che, secondo il poeta Giusti, la gloria, il merito e l'onore sono elastici come la gomma.
L'apprendista scrittore farà bene a ricordare sempre che la letteratura nasce e muore in se stessa, che non ha nessuna influenza sulla vita dei popoli - di solito governati da commercianti, pirati, e gente che non ha trovato modo migliore di sfangare la vita - e né la cuccagna né la prosperità materiale le portano fortuna, inoltre non dà maggiore soddisfazione se non quel bene tanto aleatorio, obliato, umiliato che si chiama coscienza tranquilla, a cui solo alcuni folli come noi continuano ad attribuire una qualche utilità.
Coltivando l'idea che si scrive solo per scrivere e mai per più di una mezza dozzina di persona, l'apprendista del mestiere, a patto di non dimenticarlo mai, può diventare scrittore. Con gioia e mirando a traguardi molto lontani. Non serve a nulla essere il romanziere più quotato di una casa editrice, o il poeta più apprezzato di una certa provincia, obiettivo raggiungibile da qualsiasi idiota dotato anche solo di un po' di applicazione. Il nostro fine - il fine a cui bisogna tendere - è dire ciò che abbiamo dentro nella maniera migliore e più chiara possibile: lo stesso fine che si sono proposti, più o meno, Cervantes, Dostoevskij o Balzac.
Lungi da me l'intenzione di indottrinare chicchessia - e che Dio mi liberi dal volerlo fare in un paese in cui si trovano tanti volontari! Al mio proposito, calza a pennello ricordare le sagge e assai sagaci parole di Goethe, l'uomo che ha ribadito il principio per cui la gioventù preferisce essere stimolata piuttosto che istruita. Poiché penso che la dedizione alla letteratura sia una passione fatale, e, se profondamente sentita, nessuno la possa frenare, preferisco, piuttosto che offrire all'apprendista il triste calice della dolorosa e quasi quotidiana realtà, fargli un brindisi di incoraggiamento.
Ciò che vi è di più interessante, dice Ortega, non è la battaglia dell'uomo con il mondo, con il suo destino esteriore, ma piuttosto la battaglia dell'uomo con la sua stessa vocazione. In questa battaglia battaglia dell'uomo con se stesso, il giovane scrittore deve trovare il combustibile per alimentare perennemente il motore del suo spirito. L'apprendista deve essere giovane per principio: essere giovane all'anagrafe e nel cuore vuol dire sentirsi capaci delle più nobili e scapigliate imprese. Per Benjamin Disraeli, non c'è nulla di grande che non sia stato portato a compimento dalla giovinezza. L'apprendista scrittore, come il porcospino, deve rinunciare a ogni vana battaglia, a ogni battaglia perduta in partenza, per rifugiarsi, incorruttibilmente e ostinatamente, nel suo ispido mondo personale, dove a nulla gli gioverebbe ingannare se stesso, perché il suo inganno, come una maledizione fatale, travestito da fantasma terrificante, gli si ripresenterebbe davanti non appena l'aspirante scrittore bugiardo si ritrovasse veramente da solo con se stesso.
L'aspirante scrittore che si ritiene dotato di forza sufficiente per mantenersi a galla accada quel che accada, non ha nulla a che vedere con l'ipocrita, con l'uomo che si rifugia dietro una maschera di cautele. Questo di solito accade in seguito, anche se non è una regola ineluttabile. E se cerca, sin da piccino, di imbonire tutti con fole e fantasie, che tenerezza ispira col suo candore tinto di saggezza infantile! Il popolo, che spesso dice bene, sostiene che se il pane è buono lo si vede anche prima di metterlo in forno.
(Traduzione di Laura Pugno)

ilmanifesto.it

«Ammazza il bastardo!»

Omicidi anonimi in nome dell'eguaglianza
«Ammazza il bastardo!», noir francese che strizza l'occhio al surrealismo firmato da Colonel Durruti, pseudonimo in onore dell'anarchico spagnolo. Pubblicato da Spartaco, giovane casa editrice libertaria di Santa Maria Capua a Vetere che unisce saggistica e narrativa
Mauro Trotta

Secondo André Breton, l'atto surrealista puro sarebbe «scendere in strada con il revolver in pugno e sparare a caso nella folla». Probabilmente questa è stata la fonte di ispirazione per Ammazza un bastardo! di Colonel Durruti, noir anomalo, incalzante e avvincente, di recente pubblicato dalle Edizioni Spartaco (pp. 153, euro 14). Tutto ha inizio, infatti, il 18 marzo 1986, quando nelle strade di Parigi appare un manifesto viola che incita i cittadini, appunto, ad ammazzare un bastardo. Trovata pubblicitaria? Scherzo di cattivo gusto? Provocazione? Nessuno sa darsi una risposta e l'avvenimento viene sottovalutato. Fino a che, in perfetto accordo con quanto annunciato nel poster, un bastardo di livello nazionale viene ammazzato dai misteriosi autori della strana campagna comunicazionale. È il caos: ovunque una serie di bastardi vengono ammazzati in seguito ad azioni spontanee, compiute da persone insospettabili e «normali». Si arriva addirittura al suicidio di un bastardo, che si dà fuoco dopo aver esposto un cartello in cui confessa pubblicamente la propria bastardaggine.
Intanto, come in una vera e propria campagna di marketing, compaiono adesivi, altri manifesti, comunicati. E si scopre che tutto è stato organizzato dal Soviet, organizzazione sovversiva misteriosa ed efficientissima, strutturata in piccole cellule autonome. Così la descrive uno dei suoi membri: «Ci siamo messi insieme per combattere il potere, qualunque sia. Istituzionale o ufficioso. Non abbiamo struttura gerarchica, cioè piramidale. Funzioniamo per cellule, come alcuni clandestini, come la Resistenza francese durante l'ultima guerra. Potete sperare di disattivare alcune cellule, di contrastare certe azioni specifiche, ma non di smantellare il Soviet. Per la semplice ragione che non c'è niente da smantellare. Non si spezza una struttura così semplice».
Mentre la polizia fatica a raggiungere un qualunque risultato, soltanto un ispettore, Maistre, riesce ad entrare in contatto con il gruppo rivoluzionario. Questo, però, sarà per lui fonte di dubbi e di crisi interiore. Cercando di capire, sarà costretto a mettere in discussione tutte le proprie certezze, anche in seguito all'incontro con una dark lady davvero sui generis: Virginia Slapski, artista d'avanguardia e militante rivoluzionaria, cinica, fredda e decisa.
Primo romanzo del ciclo dedicato al Soviet, Ammazza un bastardo! coniuga una scrittura secca e precisa, che scandisce gli avvenimenti giorno per giorno, ora per ora, con un ritmo incalzante ed avvincente che toglie il respiro ed impedisce di staccarsi dalla lettura. Formidabile, poi, l'idea alla base della trama che fa venire in mente un altro libro di culto, Spinoza incula Hegel di Jean-Bernard Pouy, in cui veniva rivisitato il Sessantotto in chiave fantascientifica.
Vero e proprio romanzo sovversivo, il testo di Colonel Durruti (pseudonimo scelto evidentemente in omaggio al famoso anarchico spagnolo, dietro il quale si nascondono Emmanuel Jouanne, scrittore di fantascienza e traduttore di Philip K. Dick, e Yves Frémion, scrittore e critico di fumetti, ex-deputato europeo per i Verdi) da un lato richiama la rivolta del '68: del resto l'86, anno in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, non è il numero speculare di 68?
La sua carica sovversiva si rivela anche e soprattutto nel radicale sconvolgimento attuato nei confronti dei canoni classici del noir, attraversati, utilizzati e completamente rivoltati dalla scrittura degli autori. Una scrittura in grado di raggiungere in alcuni momenti livelli di comicità grottesca e surreale davvero esilaranti, come nel caso di questa uccisione di un bastardo: «"Vieillespèce, vecchia puttana!", mormora il tipo che lo spinge, prima che il suddetto precipiti. "Platch" risponde l'interpellato, non senza aver educatamente aspettato d'essere arrivato giù».
Libro inusuale ed affascinante, fuori dai soliti schemi cristallizzati, Ammazza un bastardo! rientra appieno nella linea editoriale della Spartaco, casa editrice di Santa Maria Capua Vetere, e risulta essere un perfetto esponente della collana di narrativa, non a caso intitolata «Dissensi». Laddove il dissentire richiama un gusto particolare, una voglia di sperimentazione, di fuoriuscita dai canoni consolidati, anche e soprattutto nell'utilizzo del linguaggio. E che non a caso ospita testi di autori come Albert Cossery, Maggie Gee, Antonio Rabinad, Lihn Dihn.
Una scelta che informa anche la collana di saggistica che, a partire dall'ispirazione libertaria della casa editrice, tenta di coniugarla in modo inusuale ed inaspettato, mettendo insieme opere di Malatesta o Lafargue con scritti di Mark Twain, Dos Passos, Silone o Carlo Levi e con testi storico-politici di giovani autori come Matteo Melchiorre e Luca Rossomando. E che presenta al proprio interno una sorta di piccola biblioteca di genere con autrici come Maria Lacerda, Mary Wollstoncraft, Flora Tristan, Jane Addams, Vera Brittain.
Nata nel 1995, con una dimensione legata al territorio, presente ancora oggi negli studi storici e di impronta meridionalistica della collana «La campana», Spartaco è una giovane casa editrice nata localmente, ma che aspira a diventare di livello nazionale: solo dal 2003, infatti, i suoi libri vengono distribuiti in tutta Italia. Il suo legame con il teritorio, comunque, non si è mai interrotto, anzi risulta ulteriormente rafforzato con l'apertura di una libreria a Santa Maria Capua Vetere nello scorso dicembre.
ilmanifesto.it

13.8.07

Significanti intrecci per trovare le vie d'accesso alle narrazioni del sé

A partire dell'opera filosofica di Georges Politzer, un saggio dello studioso italiano Aldo Pardi ripropone la «psicologia concreta» come progetto di ricerca per una teoria del soggetto. «Il sintomo e la rivoluzione» per manifestolibri
Fabio Raimondi

Nell'introduzione al libro di Aldo Pardi Il sintomo e la rivoluzione. Georges Politzer crocevia tra due epoche (manifestolibri, pp. 206, euro 22), Etienne Balibar afferma che questo «volume colma un vuoto sorprendente» anche all'interno della cultura francese, data la rilevanza del fautore della «psicologia concreta» (il cui manifesto è la Critique des fondaments de la psychologie del 1928) sia in ambito marxista (si pensi all'aspro scontro, alla fine degli anni Sessanta, tra Lucien Sève e Althusser attorno alla teoria della personalità o ai debiti di Sartre nei suoi confronti) che in quello psicoanalitico (Lacan) e fenomenologico, dove il confronto con Husserl e col concetto di intenzionalità diventa l'occasione e il luogo «per una lettura della psicoanalisi freudiana spostata sul versante delle categorie di senso e di vissuto, anziché sugli aspetti genetici e metapsicologici», a privilegiare «la vita e il lavoro, piuttosto che il linguaggio».
È proprio a ridosso del confronto tra psicologia e fenomenologia che il libro di Pardi affonda con efficacia la sua analisi, evidenziando l'importanza della nozione di «dramma», che per Politzer è «l'unico oggetto della psicologia» e pone «la persona nella sua vivente totalità» al «centro della ricerca». Si tratta di indagare la «storicità del soggetto», che si dà nelle «regolarità empiriche», alla base dell'interazione tra individuo e ambiente e che definiscono le traiettorie possibili di entrambi.
Patologia come racconto
Il metodo usato da Politzer, la «comprensione», non ha nulla ha che fare con «l'analisi introspettiva», perché consiste in un «percorso di riflessione del soggetto stesso sul suo vissuto, incarnato in un racconto, in una narrazione di sé, e dal riscontro dell'osservazione del comportamento esteriore, il gesto, che fa riferimento alla materialità del soggetto», al fine di «catturare le sequenze regolari che fanno di una vita questa vita e non un'altra». Si tratta di estendere la ricerca alla totalità del soggetto umano, che è «un continuo mediare le tensioni che su di esso vertono, amalgamarle e farne un insieme ordinato, che tenga fronte al mondo». La patologia, da questo punto di vista «via di accesso» privilegiata della psicoanalisi al suo «oggetto», cioè l'essere umano singolo definito dalla sua esperienza, «non è una costruzione immaginifica, ma la mediazione che il soggetto ha attuato per affrontare un delicato compito che gli era stato proposto e non necessariamente dall'esterno».
Contro la «psicologia classica» e la «metapsicologia», che hanno a modello le scienze naturali e il loro approccio quantitativo attraverso la misurazione di entità stabili nel tempo, Politzer cerca un modo per conoscere «l'essere proprio dello psichico». La psicoanalisi diventa così «scienza della vita», perché ha un proprio «contesto oggettivo, con proprie caratteristiche e proprie leggi: la soggettività attiva», irriducibile alla «componente fisiologica», per la presenza del «vissuto». Questa soggettività ha delle costanti (come mostra la pratica analitica), la più importante delle quali è la storicità, ragione per cui lo psicoanalista è lo «storiografo dei soggetti analizzati» e ogni analisi è «un fatto originale e irriducibile», anche se ciò non toglie che, essendo i «protagonisti dell'analisi individui, che vivono in una stessa organizzazione sociale, costituita da eventi che ciascuno può sperimentare, le analisi presentino analogie che permettono di produrre tesi generali e anche previsioni». La psicoanalisi diventa così «romanzo portato a livello della scienza».
Linee di condotta
La «psicologia concreta» si fonda dunque su due categorie principali: «dramma e significato», nel senso che «l'azione significante individuale è il dominio proprio della psicologia, perché ciò che fa di un atto un atto umano è l'intenzione significativa che lo muove». L'azione significante non è dunque esterna alla psicologia (realismo) né interna (apriorismo), ma sempre «già-fuori», perché immersa nello «spazio e nel tempo vissuti». Non si tratta, come nelle scienze della natura, di tentare una «ricostruzione concettuale arbitraria dello schema fenomenico di un oggetto», ma di provare a comprendere, attraverso il racconto e il gesto, «la condotta drammatica del soggetto in prima persona».
Il «racconto è la percezione che il soggetto ha di se stesso e delle sue azioni, è il render-conto di sé che il soggetto dà» e, dato che «la successione dei significati del racconto è omogenea a quella dei significati vissuti, il linguaggio non è che l'atto del farsi trasparente del soggetto a se stesso»; il «gesto», invece, è «l'esteriorità dell'atto vissuto» che rispecchia, in tutto o in parte, l'intenzionalità del soggetto agente. È solo l'intreccio tra interno (racconto) e esterno (gesto) che può indicare la via per la comprensione della totalità vivente e vissuta del soggetto.
Infatti, è l'interrelazione tra «narrazione e verifica empirica» che può rendere ragione del significato umano che un soggetto attribuisce alle proprie azioni e a quelle altrui, mentre il gesto «diventa fatto psicologico solo dopo esser stato chiarito dal racconto».
In questo modo la rigida dicotomia tra soggetto e oggetto viene fluidificata in un feedback continuo, a cui Politzer dà nome di dramma, dove «l'oggetto è colui che compie l'atto di oggettivazione su se stesso per effettuare l'atto conoscitivo e fornirlo allo psicologo», diventando così soggetto.
Il dramma rivelato
L'elemento propriamente drammatico, «il significato», non è allora «né interiore né esteriore, ma al di là o piuttosto al di fuori di queste possibilità» senza per questo essere irreale.
I problemi non mancano, e Pardi ne sottolinea molti. Ma se è vero che «la psicologia concreta è più che altro un abbozzo di teoria di un giovane studioso ricco di temperamento, che ha colto delle verità, ma che non le ha seguite fino in fondo», è altresì vero che a volte valgono di più incursioni coraggiose e lungimiranti, che inutili risciacquature accademiche.

il manifesto
del 07 Agosto 2007

Il gusto perduto della critica

Una idea imperfetta ha sempre un avvenire Elias Canetti
Quarta puntata dell'agosto letterario. Solo vent'anni fa - scrive Emile Zola in questo articolo inedito, datato 1865 e di amarissima attualità - i giornali davano alla politica e alla letteratura tutto lo spazio necessario. Il pensiero critico, in quel momento felice, era a proprio agio. Ora, invece, l'assioma di ogni direttore è che articoli troppo lunghi non si leggono L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. La gente vuole no
Emile Zola

In questo momento, in Francia, non abbiamo più critica. Questa è l'espressione che sento ripetere attorno a me, da quando è morto Sainte-Beuve. Formalmente, nulla da eccepire, il ruolo della critica, in letteratura, tuttavia, ha ancora una grande importanza. Certamente, non credo alla sua influenza, diretta o meno, sul piano letterario. Non siamo più ai tempi in cui si potevano richiamare gli scrittori al rispetto dei generi e delle regole, in cui la critica distribuiva colpi di bacchetta comportandosi come un maestro di provincia. Essa non si assegna più la missione pedagogica di correggere, di segnalare gli errori come nel compito di uno studente, di imbrattare i capolavori con annotazioni da retori e grammatici. La critica si è allargata, è diventata uno studio anatomico degli scrittori e delle loro opere. Prende un uomo, prende un libro, lo seziona, si sforza di mostrare attraverso quale meccanismo quell'uomo ha prodotto il tal libro, si accontenta di spiegare, di preparare un verbale. Il temperamento dell'autore viene approfondito, stabiliti i mezzi e le circostante in cui ha lavorato, l'opera vi appare come l'inevitabile prodotto, buono o cattivo, del quale si tratta unicamente di mostrare la ragion d'essere.
Il gusto di una generazione
In questo modo, ogni operazione critica si limita a constatare un fatto, passando dalle cause che l'hanno prodotto alle conseguenze che ne deriveranno. Un lavoro del genere contiene indubbiamente una lezione e osservandosi in uno specchio tanto fedele lo scrittore può riflettere, conoscere le proprie infermità, sforzandosi di mascherarle il più possibile. Un solo fatto, però: la lezione arriva dall'alto, fuoriesce dalla verità stessa del ritratto e non è più il compassato insegnamento di un professore. La critica espone, non insegna. Essa ha compreso da sé che la propria influenza sul piano letterario era pressappoco nulla, poiché gli umori rimangono poco addomesticabili. Allora, ha preferito interpretare il bel ruolo di scrivere la storia della critica contemporanea, esplicata e commentata. La sua attuale importanza è dunque quella di segnalare i movimenti letterari in corso. Deve esserci, essere sempre presente, come un innesto, a registrare i fatti nuovi, a constatare in quale direzione marcia una generazione di scrittori. Il pubblico, che l'originalità evidentemente getta nello sconcerto, ha bisogno di essere rassicurato e condotto per mano. Un critico che possieda autorità sui propri lettori può rendere i più grandi servigi. Si accetta tutto da lui, si attende che parli per credergli sulla parola. Perciò, se è di vedute abbastanza larghe, se accoglie anche i temperamenti più originali, lui solo ha il potere di imporli al pubblico esitante. Studierà questi temperamenti, mostrerà le rare qualità di cui sono portatori, educherà in questo modo il pubblico che finirà per addomesticarsi. Non c'è ruolo migliore da interpretare che quello di abituare la grande massa agli inquietanti splendori del genio. Andrò ancora avanti, dicendo che ogni generazione, ogni gruppo di scrittori ha bisogno di avere il proprio critico che li comprenda e li volgarizzi. Si capisce che il critico, così inteso, debba nascere con la generazione di scrittori che andrà a rivelare e a imporre. Gli serve il «gusto» di questa generazione, gli stessi amori e gli stessi disamori. (...)
Ho detto che Sainte-Beuve è stato, da noi, l'ultimo critico. Restringo qui il senso del termine «critico» a quello di critica letteraria, che giudica opere nuove, man mano che vengono pubblicate. Sainte-Beuve, dall'istinto classico, è però cresciuto in pieno movimento romantico. Viene da lì il suo intestardirsi nel non comprendere né Stendhal, né Balzac. Stendhal, in particolare, gli era completamente precluso. Quanto a Balzac, sappiamo che si è trattato di una delle sue bestie nere. Ma ciò che fa di Sainte-Beuve una delle più alte personalità di questo tempo sono le sua ammirevoli capacità di comprensione e di analisi. Sembrava fatto per comprendere ogni cosa. In questo modo, è lui che ha dato vita alla critica così come io la definivo poco fa. Si è sganciato dalla scuola di La Harpe, studiando l'uomo prima di studiare l'opera, preoccupandosi del contesto, delle circostanze, del taglio del carattere. E, cosa che sopra ogni altra bisogna notare, non ha mai avuto una dottrina, non si è mai rinserrato in un metodo o in una formula. Soltanto la natura del suo talento gli ha fatto scoprire lo strumento di cui si è servito. Nessuno ha ancora dispiegato una simile duttilità. In lui si riscontrava un tratto femminile, una maniera gentile e ammaliante di procedere, movimenti graziosi e raffinati che terminavano spesso con dolorose ferite.
Tutte le aspettative in Taine
Anche i suoi difetti derivavano da questa duttilità e da questa andatura obliqua. Si perdeva nell'incomprensibile per essere agile, finiva per incastrarsi in frasi troppo cariche di incisi, quando non voleva far passare che un abbozzo del suo vero pensiero. Altri hanno avuto la sua erudizione, la sua conoscenza sterminata della nostra letteratura, altri hanno potuto penetrare più a fondo nei libri, ma nessuno, per certo, si è addentrato così profondamente nel cuore e nell'animo di taluni scrittori.
I giovani romanzieri avevano riposto le loro speranze in Taine. Appariva loro come lo scrittore che stava per prendere la parola, in nome della verità e della libertà delle lettere. In quel momento, Taine sembrava dover ribaltare la filosofia. Portava un metodo, condensava in formule tante idee portate alla critica da Sainte-Beuve. La sua freddezza, la sua analisi ridotta a una sorta di operazione meccanica, seducevano i giovani estendendo alle cose dello spirito procedimenti usati fino a quel momento solo nell'ambito delle scienze naturali. Si trattava di una critica naturalista che marciava di pari passo con il romanzo naturalista. Si poteva anche credere che fosse finalmente arrivato il portabandiera di una nuova generazione letteraria, dal momento che Taine aveva scritto uno stupendo studio su Balzac, da lui equiparato a Shakespeare.
Oggi, quei romanzieri devono ammettere che si sono sbagliati. Taine non sarà mai il giudice che aspettano, per molte ragioni. Taine era prima di tutto un letterato: il suo occhio si chiude, soltanto la sua intelligenza funziona. Il suo ambiente ideale è una biblioteca. Fa meraviglie, scalando montagne di libri, prendendo note in quantità smisurata, traendo tutte le sue opere dalle opere altrui. È un compilatore che possiede il genio della classificazione. Ma, per la strada, non so proprio se riesca a scorgere le vetture che passano. La vita gli sfugge, la realtà non lo tocca nemmeno. Da questo fatto, forse inconsciamente, gli viene il disgusto per tutto quanto è vivo. Si è ritratto dalla bagarre contemporanea per rinserrarsi in considerevoli studi di storia e filosofia. Rimuove con amore la polvere dai vecchi documenti. Per intravedere uno scrittore, che vive e scrive accanto a lui, gli servirebbe uno sforzo considerevole. In poche parole, non respira più la stessa aria che respiriamo noi. Ripeto la frase con cui ho iniziato: nessun critico, in Francia, nell'ora presente.
Solo venti anni fa il giornale era uno strumento serio che dava alla politica e alla letteratura tutto lo spazio di cui avevano bisogno. I fatti di cronaca si trovano relegati in quarta pagina. Ci si abbonava per simpatia con questa o quella redazione, si attendevano gli articoli di questo o di quel giornalista, e li si leggeva con attenzione, fossero pure su cinque colonne. La critica, in quel momento felice, si trovava a proprio agio. Non faceva alcuna fretta, aspettava anche due mesi prima di parlare dell'ultimo libro apparso, fornendo dei giudizi seriamente motivati. Anche i lettori, da parte loro, non provavano impazienza. Domandavano, su tutto, coscienza, talento e giustizia. Ebbene, abbiamo cambiato tutto. Il nuovo giornale tende a mettere alla porta la letteratura. I fattacci di cronaca, in seguito a molteplici appelli, hanno invaso tutto. È nata la stampa per l'informazione, non si tratta più di analizzare un libro e, d'altronde, i lettori neppure lo chiedono. Occorre raccontare che cosa è successo il giorno prima in questo o quel salotto, raccontare il delitto in trecento battute, con un bel ritratto dell'assassino, cosa mangiava, cosa beveva. Bisogna ridurre tutto a piccoli fatti circostanziati e precisi, fatti bruti senza alcun ornamento. Se continuerà questo andazzo, fra cinquant'anni i giornali si saranno ridotti a semplici fogli di annunci.
Cinquanta righe, anzi due
Si può capire facilmente il colpo mortale assestato dall'informazione alla critica. Gli studi preparati con coscienza e scrupolo non sono più alla moda. Occupavano spazio. L'assioma di ogni direttore è quello che non si leggono articoli troppo lunghi. La prima parola di un caporedattore è diventata: «trattami questo argomenti in cinquanta righe, non di più!» Non è più questione di coscienza. Si pretende che l'articolo su un libro appaia il giorno seguente la pubblicazione del libro stesso o, meglio ancora, alla vigilia. Non è necessario alcuno studio, non si legge neppure. Il critico sfoglia e taglia le pagine, prendendo a casaccio una parola e, quando il libro è tagliato, ci si mette al lavoro per le proprie cinquanta righe. Spesso non parla neppure del libro, parla di qualsiasi cosa, a proposito di quel libro. Basta siano citati il titolo e il nome dell'autore. L'importante, infatti, è la notizia della messa in commercio che bisogna dare prima che la diano altri giornali. Quanto al resto, ai reali meriti dell'opera, alla sua originalità, alla sua influenza futura, poco importa. In queste condizioni, i critici improvvisati dovrebbero accontentarsi di annunciare l'uscita di un romanzo in due righe. La sfortuna è che non si è ancora giunti a questa concisione. I critici aggiungono allora a casaccio le proprie riflessioni. Lodano o biasimano per ragioni loro, nessuno ha un metodo. Ammucchiano errori, refusi, menzogne, enormità di ogni tipo. Niente di più penoso di un simile spettacolo, nei quotidiani, quando appare un libro. Non sono risparmiate banalità.
L'imperativo della fretta
La paura di annoiare ha ucciso gli studi seri. Si è data al pubblico l'abitudine di leggere in tutta fretta. Vogliamo che un uomo che vive la nostra vita frenetica trovi un quarto d'ora per leggere un articolo impegnato? Gli servirebbe riflettere, fare uno sforzo intellettuale, sarebbe disastroso. Gli bastano i luoghi comuni, le idee che tranquillamente si accomodano nel cervello. L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. Bisogna comodamente andare all'avventura, dicendo nero un giorno, e bianco il giorno dopo. I soli articoli lunghi tollerati dai giornali sono quelli fatti con estratti di opere in corso di pubblicazione. I redattori si procurano i libri, prima che vengano posti in vendita, prendono dei passaggi interessanti, vi aggiungono qualche riga, e adescano il pubblico sostenendo di essere i primi a offrire questa anticipazione. È la redazione a buon mercato. Rientra nel sistema dell'indiscrezione, che gode di grandi favori oggi giorno. Si evita ogni sforzo al pubblico, il giornalismo contemporaneo è basato sulla pigrizia dei lettori. La gente vuole notizie? Ingozziamola di notizie. I giornali di informazione sono agenti di perversione letteraria. Il male è tale che ha preso tutti. Nessuno sfugge al contagio. (Traduzione di Marco Dotti)

il manifesto del 04 Agosto 2007

10.8.07

Mutui Usa - Per saperne di più

Ipoteche pericolose
Subprime. I mutui Usa per 'poveri' scuotono la finanza mondiale

I subprime. Migranti. O cittadini non in condizione di garantire la solvibilità di un debito. Il subprime nasce come strumento ipotecario a metà degli anni '90, con la benedizione dell'allora governatore centrale della FED, Alan Greenspan che l'8 luglio 2005 sosteneva: “Dove un tempo ai clienti più marginali sarebbe stato semplicemente negato il credito, ora i prestatori sono in grado di giudicare con efficienza il rischio di quei clienti e di prezzarlo appropriatamente”. Un fenomeno quasi prettamente americano, che ha vissuto una stagione di boom, ma che si è dimostrato una vera e propria bomba a orologeria per gli indici finanziari statunitensi, e del mondo intero. Chi sottoscrive un subprime è legato a un tasso variabile e stringe un contratto con delle società di intermediazione finanziaria. Quelle società, poi, girano il contratto agli istituti bancari, che emettono delle obbligazioni, che dovrebbero 'rendere' nelle tasche di chi le compra, attraverso il pagamento delle rate ipotecarie.

Meccanismo inceppato. Il meccanismo, però, si era già inceppato alcuni mesi fa e ora è tornato a farlo per l'insolvenza di gran parte dei clienti e la conseguente chiusura e fallimento di numerose finanziarie negli Stati Uniti. Il percorso è semplice: i tassi di sconto della FED sono aumentati rapidamente, mentre parallelamente aumentavano i prezzi delle case. L'indebitamento di chi aveva sottoscritto, o stava per sottoscrivere, il subprime è aumentato a dismisura, provocando i mancati pagamenti. Che si sono riverberati sul mercato obbligazionario legato alla nuova formula ipotecaria.

Casa in affittoContraccolpi europei. Le obbligazioni, gli hedge found o fondi speculativi, legate al mercato ipotecario statunitense hanno radici anche nelle principali banche europee. Le difficoltà finanziarie legate a questo settore, nelle ultime settimane, hanno buttato giù i listini azionari. Fino a ieri, quando la Banca centrale europea ha deciso di immettere la un'enorme quantità di denaro per sostenere il mercato bancario della zona euro. La BCE, solo ieri, ha erogato prestiti per 94,841 miliardi di euro a 49 istituti di credito di Eurolandia. La più grande iniezione di denaro fatta finora dalla banca centrale di Francoforte in una singola manovra. L'unico paragone possibile ci riporta al post 11 settembre, quando in due azioni coordinate la banca europea sborsò 109 miliardi di euro.

Subprime ed economia Usa. Secondo la Mortgage Bankers Association i subprime rappresentano il 13,6 percento del mercato ipotecario americano. E i titoli di credito che hanno come base questi contratti sono il 14percento del totale dei titoli garantiti da mutui statunitensi. In Europa, i listini di Borsa sono andati sotto pressione dopo che Bnp Paribas ha annunciato la sospensione dei riscatti di tre hedge funds (fondi speculativi): al 27 luglio i tre fondi possedevano asset per 2 miliardi di euro di cui un terzo costituito da esposizioni subprime. Le turbolenze dei mutui al altro rischio Usa, dopo aver piegato la tedesca Ikb, hanno causato una perdita da inizio anno di 189 milioni di dollari per la banca olandese Nibc, che è stata aiutata dall'intervento della banca centrale olandese. L'effetto domino, le sofferenze di borsa, non si placheranno facilmente nel breve periodo.

Angelo Miotto
peacereporter.net