29.1.17

Pierre Dardot e Christian Laval: «Il populismo è la parola del nemico»

Intervista. L'analisi dei filosofi francesi sul cortocircuito tra sovranità nazionale e sovranità popolare rafforza il «sistema». L’appello al popolo presente nelle tesi di Ernesto Laclau conduce a pericolose derive politiche. Donald Trump e Marine Le Pen usano la collera contro le élite per contrapporre gli interessi nazionali alla globalizzazione 
 Roberto Ciccarelli (il manifesto)
Il populismo come dispositivo teorico emergente nella società neoliberale per rispondere alla crisi del capitalismo e ai conseguenti cambiamenti geo-politici e geo-economici in atto. È il tema dal quale Pierre Dardot e Christian Laval, coppia consolidata della filosofia francese, sono partiti per scrivere il loro prossimo libro sul momento populista della politica contemporanea. L’incontro è avvenuto a Roma dove hanno partecipato alla conferenza sul comunismo. La loro analisi distingue tre populismi: mediatico, nazionalista e teorico e parte da una tesi: «Il populismo è una parola del nemico – afferma Pierre Dardot – Siamo per l’uso della categoria di popolo, ma rifiutiamo quella di populismo».
Per quale ragione?
Christian Laval: Il populismo è una categoria che sintetizza fenomeni diversi. Da quando i media dominanti se ne sono impadroniti hanno fatto di tutta l’erba un fascio. Il populismo mediatico mette infatti insieme Le Pen, Trump, Farage, Corbyn, Grillo o Podemos. In questo modo si neutralizza ogni possibile opposizione al sistema.
Anche i populisti vogliono ripristinare la sovranità popolare. Non parlano anche loro di popolo?
Pierre Dardot: Fanno una deliberata confusione tra la sovranità del popolo e la sovranità dello stato-nazione. In Francia Marine Le Pen invoca il popolo perché vuole rafforzare le prerogative dello stato-nazione. La sua idea di sovranità consiste nel rafforzare il potere sul popolo. Vuole rafforzare in maniera autoritaria il potere dello stato a svantaggio proprio del popolo, ovvero la possibilità di tutti di partecipare alla vita politica e agli affari pubblici. Viceversa la sovranità popolare, il potere del popolo, è l’esercizio diretto del potere da parte del popolo.
Un capitalista come Trump può fare gli interessi del popolo alla Casa Bianca?
Laval: Trump è l’esempio di come una parte della classe dirigente ha giocato la carta della collera popolare contro il capitalismo e il sistema. Ha catturato questa collera mettendola a profitto di un rafforzamento del sistema. È una dimostrazione della flessibilità delle classi dominanti capaci di recuperare l’opposizione. Lo dimostrano i primi orientamenti del suo governo. L’élite dei miliardari che ne fanno parte ha deciso di dismettere la timida riforma sanitaria di Obama, deregolamentare la finanza, riarmare l’economia americana contro quella tedesca.
Il populismo può diventare una critica del capitalismo?
Laval: Al contrario, è una risposta neoliberale alla crisi del capitalismo. Accentua la guerra commerciale tra gli stati: guerra finanziaria e fiscale nel quadro di una concorrenza generalizzata. Le diverse configurazioni del populismo, da Trump alla Brexit, sono l’espressione di una politica che appare anti-sistema ma che rafforza il sistema.
Cresce invece il numero di chi crede nella possibilità di un «populismo di sinistra». Come lo spiegate?
Dardot: È la posizione del populismo teorico ispirato dal filosofo argentino Ernesto Laclau. Si riprende il populismo condannato dai media e dalle classi dominanti, lo si rovescia in una categoria positiva. Siamo in totale disaccordo con questo uso perché il populismo è inteso come il momento costitutivo della politica in quanto tale, non un’esperienza specifica come potrebbe essere il peronismo analizzato da Laclau. La valorizzazione del ruolo del leader è un altro problema. Laclau sostiene che sia uno dei fattori che costituiscono l’identità del popolo. Questa tesi mette in dubbio il principio stesso della democrazia perché istituisce un rapporto plebiscitario e paternalistico tra il leader e il popolo. Va fatta un’analisi accurata per distinguere la democrazia dal populismo. Altrimenti si rischia di entrare nella notte dove tutte le vacche sono nere.
Jean-Luc Melenchon, il candidato alle presidenziali francesi alla sinistra del partito socialista si definisce «populista». Come mai?
Dardot: Melenchon rivendica il populismo teorico di Laclau ed è ispirato da Chantal Mouffe. Sorvola sugli aspetti più criticabili del chavismo, il culto della personalità del capo. Il suo movimento si chiama La France Insoumise (La Francia ribelle). Non è un appello alla ribellione del popolo contro lo Stato, ma a un paese che si ribella ai poteri esterni che ne condizionano la sovranità. La componente nazionalista è presente sin dal nome che questo movimento si è dato. Il riferimento è alla pretesa della rivoluzione francese dove la nazione pretendeva di incarnare l’universale. Questo è il modello Robespierre.
Anche l’estrema destra di Marine Le Pen intende riarmare la nazione contro la globalizzazione. Come si spiega questo convergente disaccordo?
Laval: Questo discorso deriva dalla corrente neofascista del Front National. Nell’estrema destra francese la commistione con un discorso socialista non è nuova. Alla fine del XIX ha riscoperto un discorso di tipo socialista. Questa commistione non è nuova: Maurice Barrès alla fine del XIX secolo aveva definito il suo movimento come «socialista nazionale». Se Le Pen padre aveva un orientamento neoliberista puro alla Reagan, Le Pen figlia ha riscoperto il sovranismo e il protezionismo mescolandoli con alcune tesi del socialismo sovranista e gaullista di Jean-Pierre Chevènement. È una politica ambigua che invoca la protezione statale contro la deregolamentazione. Anche per questo persone di sinistra voteranno Front National alle presidenziali. In generale, esiste un orientamento nazionalistico tra chi sostiene che il prossimo presidente dovrebbe andare a Bruxelles per riorientare la politica europea a favore degli interessi francesi. La Francia si considera un paese del Nord Europa, quella dei dominanti. Nessuno pone il problema della cooperazione con i paesi dell’Europa del Sud, vittime dell’asimmetria che oggi premia la Germania.
Perché l’uscita dall’euro è considerata una bandiera?
Dardot: Si vuole restaurare il potere sovrano dello Stato: battere moneta. Chi a sinistra è ipnotizzato dall’uscita dall’euro la riprende e incorre nella confusione della destra che non distingue tra sovranità popolare e sovranità dello stato-nazione. È un’illusione perché lo stato-nazione costituisce una forma attraverso la quale oggi si esercita il potere delle oligarchie. Il loro potere non è sinonimo di sovranità dello stato-nazione, ma di poteri transnazionali che hanno interessi diversi dal popolo che intendono governare. Senza contare che da più di una generazione gli stati-nazione stanno privatizzando alcune funzioni della sovranità: quella militare, ad esempio. Dalla prima guerra del Golfo in poi è diventato evidente la sua cessione verso agenzie private.
Avete proposto una federazione internazionale composta di coalizioni democratiche. In cosa consiste?
Laval: Siamo favorevoli alla ripresa dell’ispirazione che ha fondato la prima internazionale nel XIX secolo. Non pensiamo a un’internazionale dei partiti sul modello delle altre internazionali che svilupparono la loro azione a livello nazionale. Pensiamo invece a una federazione di associazioni, sindacati, cooperative e anche di partiti.
Qual è la differenza con l’altermondialismo dei social forum?
Laval: Quelli erano luoghi di discussione, non di azione contro il sistema neoliberale mondiale. Il modello è quello delle società operaie il cui statuto garantiva a chiunque di aderire direttamente all’associazione internazionale saltando i livelli intermedi. Nessuna organizzazione può mediare la volontà dei singoli e i singoli possono partecipare direttamente, al di là della nazionalità. Questa soluzione potrebbe tutelare i migranti dal potere discrezionale degli stati, ad esempio.
Per federazione intendete anche un’istituzione politica?
Dardot: L’Unione Europea, così com’è, è detestabile. La federazione è un modello politico alternativo che potrebbe ispirare un’organizzazione internazionale aperta con l’obiettivo di federare i popoli europei nell’ottica di una co-partecipazione agli affari pubblici. L’Europa ha bisogno di una prospettiva internazionale per rifondare la democrazia in Europa su altre basi rispetto a quelle neoliberali, non per combattere per la sovranità dello stato-nazione.

La nuova ragione del mondo scritta a quattro mani

Pierre Dardot è ricercatore al laboratorio Sophiapol dell’Università di Parigi Ovest-Nanterre e professore nelle «classes préparatoires» a Parigi. Christian Laval insegna sociologia all’Università di Parigi Ovest Nanterre La Défense. Insieme hanno scritto «Marx, prénom: Karl» (Gallimard), «La nuova ragione del mondo», «Del comune», «Guerra alla democrazia», pubblicati in Italia da DeriveApprodi. Insieme a El Mouhoub Mouhoud, Dardot e Laval hanno scritto «Sauver Marx?: Empire, multitude, travail immatériel» (La Découverte) nato dai lavori del gruppo di studio «Question Marx». Di Christian Laval è disponibile in italiano «Marx combattente», (manifestolibri). Specialista del pensiero utilitarista e liberale, Laval ha scritto tra l’altro «L’Homme économique » (Gallimard).

Alla protezione civile non servono nuove regole ma più controlli

Roberta Carlini (Internazionale)

“Sarà una riforma storica”. Con queste parole il ministro Graziano Delrio aveva benedetto l’inizio dell’iter in parlamento della riforma della protezione civile. Era il 15 marzo 2015. Quel testo, approvato dalla camera il 23 settembre 2015, solo in questi giorni, a sei mesi dall’inizio dell’emergenza terremoto in Italia centrale, è arrivato in aula in senato.
Anche qualora vedesse la luce in poche settimane, occorrerebbe poi aspettare nove mesi per avere i relativi decreti delegati, insomma l’attuazione pratica. Motivo per cui i veri interventi legislativi “urgenti”, a ridosso dell’emergenza di queste settimane, arriveranno per decreto legge del governo entro la prossima settimana, come ha annunciato in senato il presidente del consiglio Paolo Gentiloni.
Avremo così il sesto intervento legislativo sulla materia dal 1992, anno in cui la protezione civile fu istituita, in attesa del settimo, la riforma storica (senza contare il codice degli appalti, che a sua volta incide sulla materia).
Come una fisarmonica
Si può dire, che a ogni inizio decennio lo stato italiano ha visto in modo diverso il concetto di protezione, tant’è che lo stesso campo d’azione della protezione civile si è allargato e ristretto come una fisarmonica: con la legge del 1992, che poneva come oggetto del nuovo servizio “tutelare la integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi”; all’inizio del primo decennio del duemila, con il decreto legge che aggiunge all’elenco i “grandi eventi”, aprendo la strada alla gestione in emergenza e con pieni poteri discrezionali anche della costruzione delle opere per eventi che potevano andare da un vertice internazionale a una gara sportiva; alla svolta degli anni dieci, con il ritorno della protezione civile al suo nucleo originario.
Si dà per scontato che sono le regole, e non la loro attuazione concreta, il problema: le leggi, non l’amministrazione
Che non è affatto ristretto, dato che nel concetto di protezione rientrano tre attività essenziali: previsione, prevenzione e soccorso (che dovrebbe durare fino al ripristino delle condizioni di normalità); e che la definizione di “calamità” non è limitata a quelle naturali ma anche a quelle derivanti dall’opera dell’uomo; ne derivano poteri di emanare ordinanze in deroga alle norme vigenti, per fronteggiare l’emergenza.
Da un terremoto a uno scandalo a un altro terremoto, il pendolo del legislatore nel regolare tutto ciò oscilla tra maggiore o minore rigore nelle procedure e nei controlli, e tra maggiore o minore accentramento dei poteri decisionali: ogni volta dimenticandosi dei problemi che avevano portato ai cambiamenti della volta precedente. E anche oggi, in seguito ai ritardi (anzi, secondo Gentiloni per “prevenire accumuli di ritardi”) nella gestione dell’emergenza del terremoto nell’Italia centrale, si rimette mano alla legge vecchia, in attesa di quella nuova.
Dando per scontato che sono le regole, e non la loro attuazione concreta, il problema: le leggi, non l’amministrazione. E, tra le regole, si torna a mettere nel mirino le odiate gare pubbliche: quelle che lo stato o un ente pubblico fa quando deve scegliersi un fornitore, e che sarebbero regola europea – soggetta però a numerose e sensibili eccezioni.
Gara versus trattativa privata
Ma siamo sicuri che, oggi come ieri, il nucleo del problema sia nella scelta, su cui si dibatte, tra la velocità della trattativa privata nell’affidamento dei lavori e le pastoie delle gare a evidenza pubblica?
È la questione che ritorna a ogni ritardo, a ogni opera e – purtroppo – a ogni scandalo. La straordinaria urgenza nella quale per definizione la protezione civile è costretta a operare è infatti, per ovvio buon senso, motivo di deroga alle norme generali. E anche motivo per cui, nel passato recente che ancora brucia, si allargò a dismisura la competenza della protezione civile fino a farvi rientrare tutta la ricostruzione e anche i grandi eventi, sotto la gestione Bertolaso. In modo da poter gestire gli appalti con totale discrezionalità e senza procedure a evidenza pubblica.
Nel 2012, con gli scandali dell’Aquila e dei Mondiali di nuoto ancora freschi, il governo Monti varò l’indietro tutta con il decreto 59, che delimitò il campo d’azione della protezione civile eliminando da questo i grandi eventi, oltre a fissare le procedure per il ritorno alla gestione ordinaria appena finito lo stato d’emergenza (che, secondo quella legge, non poteva durare più di 90 giorni, prorogabili per non più di 60: termine che poi è stato allungato a 180 giorni da un decreto successivo, del 2013).
Nella stessa legge si prevedevano anche ruolo e durata di eventuali commissari, e un rapporto con le istituzioni locali molto meno “accentratore” rispetto alla gestione precedente. Il tutto, sotto il segno prevalente del governo dell’epoca: un controllo più stretto dei saldi di bilancio. Insomma, contro il lievitare di spese incontrollate varate sotto la spinta dell’emergenza e poi destinate a crescere in corso d’opera. Emergenza che, sia pure su tempi ed eventi delimitati, consentiva poteri di deroga alle procedure burocratiche ordinarie.
La questione della trattativa privata e delle procedure non pubbliche né pubblicamente negoziate torna fuori, e sempre con la motivazione della fretta
Anche il codice degli appalti varato nell’aprile del 2016 dà pieni poteri per evitare le gare, in caso di emergenza, “nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati”: così recita l’articolo 63, e sarebbe difficile non far rientrare in questa cornice generale l’acquisto di beni e servizi, e anche la confezione di manufatti, necessari per fare fronte alla prima emergenza di un terremoto.
Va detto che il governo vuol farvi rientrare anche i lavori stradali per preparare il G7 di Taormina, e così ha disposto nel decreto per il Mezzogiorno varato alla fine dell’anno scorso: contro questa scelta si è schierato il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, dicendo che quella norma “concede una procedura iper-eccezionale” e temendo infiltrazioni mafiose nei lavori. Dunque, la questione della trattativa privata e delle procedure non pubbliche né pubblicamente negoziate torna fuori, e sempre con la motivazione della fretta. E, nel caso del terremoto, trova a suo sostegno lo stato di parte delle popolazioni e dei loro animali ancora al freddo e al gelo, a cinque mesi dalle prime scosse.
Le casette e le stalle
Dunque le norme per fare procedure d’emergenza, senza le gare, già ci sono nelle regole della protezione civile e anche nello stesso codice degli appalti. Ma nel caso del terremoto dell’Italia centrale le gare ci sono state, su richiesta dell’Anac di Cantone.
Solo che per quanto riguarda le strutture provvisorie per gli allevamenti (i Mapre, moduli abitativi prefabbricati rurali emergenziali) le ditte selezionate con le gare non hanno consegnato tutto il dovuto nei tempi previsti: la regione Lazio, alla quale era stata attribuita la responsabilità di questi acquisti per tutte le regioni colpite dal sisma, ha bandito una gara al massimo ribasso, suddivisa in quattro lotti (bovini da latte e da carne, ovini e fienili).
Ma l’impresa che ha vinto la gara per i bovini non ha consegnato i manufatti in tempo: e qui scattano altri ritardi, dovuti ai tempi di messa in mora necessari prima di interrompere un contratto (la diffida è partita solo il 5 gennaio 2017). Intanto, è partito tutto un altro iter, con il quale si è data agli agricoltori la possibilità di comprarsi da soli le stalle con un contributo pubblico totale, con altre complicazioni e passaggi burocratici. Mentre per quanto riguarda i prefabbricati abitativi (Sae, soluzioni abitative d’emergenza), la gara era addirittura stata fatta due anni prima, e la protezione civile ha messo a disposizione degli enti locali elenco delle ditte e protocollo dell’accordo: solo che è lo stesso accordo che prevede che i tempi di realizzazione siano di circa sette mesi… tempi lunghissimi per un’emergenza, anche se non ci fosse stato l’eccezionale maltempo di quest’inverno.
Più che la procedura delle gare – e l’alternativa sempre caldeggiata da una parte di costruttori, fornitori e politici, ossia la trattativa privata – sotto la lente dovrebbe stare la sua concreta attuazione. Il controllo del rispetto degli accordi, i contrasti tra amministrazioni (il fatto che le regioni coinvolte fossero quattro non ha aiutato, né ha semplificato le cose la diarchia tra protezione civile e il commissario alla ricostruzione), la loro maggiore o minore efficienza, la capacità di far fronte a impegni straordinari con organici e mezzi impoveriti da anni in cui nelle stesse amministrazioni ordinarie non si è più investito.
Invece di guardare a quel che non va sul terreno, l’invocazione di poteri e procedure straordinarie dall’alto può servire a coprire l’incuria dell’ordinaria amministrazione, se non peggio a rivitalizzare gli appetiti e le pratiche che nel passato sono costate tanto alle casse pubbliche e poco hanno portato al territorio.

26.1.17

Le scorciatoie da evitare

Massimo Franco (Corriere)

Era inevitabile che una legge elettorale modellata su un Parlamento composto da una sola Camera venisse picconata. La sentenza emessa ieri pomeriggio dalla Consulta è figlia legittima di una stagione di riforme scritte e imposte dal Pd in una realtà virtuale.
Una realtà virtuale smentita bruscamente dal referendum del 4 dicembre. La domanda, adesso, non riguarda solo le indicazioni che la Corte costituzionale ha dato per riplasmare il sistema del voto. Rimanda soprattutto a come i partiti le piegheranno ai proprio obiettivi, dopo avere atteso per mesi, passivamente, il responso. Il problema non è tanto quello di evitare a ogni costo le elezioni. Ma prima ancora che votare presto, l’esigenza è di votare bene. Significa dare al sistema una legge elettorale approvata col consenso di un insieme di forze più largo di quello governativo, perché altrimenti sarebbe condannata a essere effimera. E in grado di evitare la creazione di maggioranze diverse tra Camera e Senato, come ha segnalato nel discorso di Capodanno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: perché è sempre più evidente che a rallentare le decisioni e creare instabilità sono due rami del Parlamento con coalizioni sfalsate, non il bicameralismo in sé. Finora il sistema politico ha aspettato con una miscela di ansia e rassegnazione il responso della Consulta. Da oggi, però, dovrà assumersi la responsabilità di cercare un’intesa che cancelli la sensazione di un pericoloso immobilismo. Il Parlamento dovrà fare i conti con due spinte opposte. La prima è di chi vuole elezioni subito e corre contro il tempo. Lo confermano le prime reazioni degli uomini di Matteo Renzi e, con foga ma forse minore convinzione, di Beppe Grillo e di Matteo Salvini. Premono per un accordo comunque, e insistono sul voto anticipato: strana convergenza, che fa pensare. Quanti invece puntano a una riforma più meditata, affidata al Parlamento, e respingono l’idea di un governo già sull’orlo delle dimissioni, useranno la decisione della Corte per arrivare al 2018. Non è un gioco fra schieramenti, ma al loro interno. Attraversa la sinistra e il centrodestra. E nel momento in cui prefigura di fatto una spinta a dare al sistema un carattere più proporzionale, perché difficilmente un partito raggiungerà da solo il 40 per cento dei voti che garantisce il premio di maggioranza, rimette in discussione anche le leadership: non solo dal punto di vista dei nomi. Se la dinamica è questa, renderà naturale una interpretazione del governo più incline alla mediazione e ai compromessi; e la ricerca di capi partito maestri di compromesso e di alleanze. In fondo, alcuni dei pilastri dell’Italicum che sono stati sbriciolati dalla Consulta, portano in quella direzione. Avere ritenuto incostituzionali il ballottaggio e la possibilità di optare per il collegio per chi si presenta in più città, è un parziale colpo a oligarchie e segretari di partito tendenzialmente onnipotenti. Parziale, perché rimangono i capilista bloccati: una pattuglia di parlamentari iper-fedeli a leader che possono predeterminarne l’elezione. Ma lo spirito di un Italicum che la sera dopo il voto doveva permettere di sapere chi aveva vinto e chi no, è evaporato. E il premio di maggioranza alla Camera ma non al Senato riconsegna un’incognita vistosa, da sciogliere prima di tornare alle urne. È il momento di ricostruire un simulacro di credibilità istituzionale. Inseguire scorciatoie elettorali che porterebbero a leggi di parte e a ulteriori convulsioni, o allungare inutilmente i tempi, significherebbe sciuparla. E, oltre a tradire gli orientamenti così attesi della Corte costituzionale, vorrebbe dire sottomettere il sistema politico a una nuova, lunga stagione di subalternità a poteri esterni.

17.1.17

Joseph Stiglitz: La rabbia è già esplosa urgenti nuove regole su tasse, bonus e lobby

Il premio Nobel Joseph Stiglitz: “Se la maggioranza dei cittadini si sente esclusa dai vantaggi della crescita si ribellerà al sistema, Brexit e Trump lo dimostrano” 
(da La Repubblica)
Negli ultimi anni, incontrandosi a Davos, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale. Non vi è dubbio, infatti, che se i cittadini non hanno reddito e perdono progressivamente potere d’acquisto, le corporation non avranno modo di crescere e prosperare. Il FMI è della stessa idea e avverte che a funzionare meglio sono i paesi dove c’è meno disuguaglianza.
Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare a sufficienza dei proventi della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà col ribellarsi al sistema economico nel quale vive. In realtà dopo Brexit e i risultati delle elezioni americane, ci si deve chiedere seriamente se questa ribellione non sia già cominciata. Sarebbe d’altronde del tutto comprensibile. In America il reddito medio del 90% dei meno abbienti ristagna da 25 anni e l’aspettativa di vita ha mediamente cominciato ad abbassarsi.
Da anni, Oxfam fotografa i livelli sempre più accentuati della disuguaglianza globale e ci ricorda come nel 2014 fossero 85 i super ricchi – molti dei quali presenti a Davos – a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi di persone). Oggi, a detenere quella ricchezza sono solo in 8.
È chiaro dunque che a Davos il tema della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi abbia continuato a tenere banco. Solo per alcuni continua a essere una questione morale, ma per tutti è una questione economica e politica che mette in gioco il futuro dell’economia di mercato per come la conosciamo. C’è una domanda che assilla, sessione dopo sessione, gli Ad presenti al Forum: «C’è qualcosa che le corporation possono fare rispetto alla piaga della disuguaglianza che mette in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del nostro democratico sistema di mercato?» La risposta è sì.
La prima idea, semplice ed efficace, è che le corporation paghino la loro giusta quota di tasse, un tassello imprescindibile della responsabilità d’impresa, smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata. Apple potrebbe sentire di essere stata ingiustamente presa di mira tra tante, ma in fondo ha solo eluso un po’ più di altri.
Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali societari, siano essi in casa o offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere davvero sono i poveri in tutto il mondo.
È vergognoso che il Presidente di un paese si vanti di non aver pagato le tasse per quasi vent’anni – suggerendo che siano più furbi quelli che non pagano –, o che un’azienda paghi lo 0,005% di tasse sui propri utili, come ha fatto la Apple. Non è da furbi, è immorale.
L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super-ricchi: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.
C’è poi una seconda idea altrettanto facile: trattare i propri dipendenti in modo dignitoso. Un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli Ad intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione.
Infine c’è una terza idea, sempre facile ma più radicale: investire nel futuro dell’azienda, nei suoi dipendenti, in tecnologia e nel capitale. Senza questo non ci sarà lavoro e la disuguaglianza non potrà che crescere. Attualmente invece una porzione sempre più consistente di utili finisce ai ricchi azionisti. Un esempio su tutti viene dalla Gran Bretagna, dove nel 1970 agli azionisti andava il 10% degli utili d’impresa, oggi il 70%. Storicamente le banche (e il settore finanziario) hanno svolto l’importante funzione di raccogliere risparmio dalle famiglie da investire nel settore delle imprese per costruire fabbriche e creare posti di lavoro. Oggi negli Stati Uniti il flusso netto di denaro compie esattamente il percorso opposto. L’anno scorso, Philip Green, magnate britannico della vendita al dettaglio, è stato accusato da una commissione parlamentare di non aver investito abbastanza nella sua azienda e di aver inseguito il proprio tornaconto personale, arrivando alla bancarotta e a un deficit previdenziale di 200 milioni di sterline. Per quanto incensato e blandito dai governi succedutisi, promosso a cavaliere del regno e considerato faro dell’economia britannica, quella commissione parlamentare non avrebbe potuto scegliere parole più esatte, definendolo come «la faccia inaccettabile del capitalismo».
Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi dell’economia, ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti, il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo il proprio obiettivo. Ne sanno qualcosa i contribuenti costretti a pagare un conto salato per quanto accaduto in seguito. Negli ultimi 25 anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte col risultato di rafforzare il potere del mercato e far esplodere la crisi della disuguaglianza. Molte corporation sono poi state particolarmente abili – più che in qualsiasi altro campo – nel godere di una rendita di posizione – vale a dire nel riuscire ad assicurarsi una porzione più grande di ricchezza nazionale, esercitando un potere monopolistico o ottenendo favori dai governi. Ma quando i profitti hanno questa origine, la ricchezza stessa di una nazione è destinata a diminuire. Il mondo è pieno di aziende guidate da uomini illuminati che hanno capito quanto l’unica prosperità sostenibile sia la prosperità condivisa, e che pertanto non fanno uso della propria influenza per orientare la politica, al fine di mantenere una posizione di rendita finanziaria. Hanno capito che nei paesi dove la disuguaglianza cresce a dismisura, le regole dovranno essere riscritte per favorire investimenti a lungo termine, una crescita più veloce e una prosperità condivisa.

16.1.17

La modernità liquefatta

 Remo Bodei (sole24ore)
A incontrarlo nella vita privata, Zygmunt Bauman era un uomo gentile, che suscitava una sorta di tenerezza in chi aveva occasione di osservarne le premurose manifestazioni d’affetto per Janine, sua prima moglie, eroina dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, e per Aleksandra, sua seconda moglie, un’allieva dei suoi primi corsi di sociologia, ritrovata in tarda età. Era perciò difficile capire subito come la sua apparente serenità, la sua pacata saggezza nell’argomentare problemi complessi, la sua insaziabile curiosità rivolta a tutti gli aspetti della condizione umana potessero coesistere con l’esperienza dei drammi attraversati nel corso della sua lunga vita: l’invasione tedesca della Polonia, l’olocausto, la partecipazione alla guerra, da giovanissimo, nelle truppe polacche arruolate dall’Armata Rossa, la dura militanza politica e teorica, inizialmente da marxista, l’espulsione dall’università di Varsavia in seguito a un’ennesima ondata di antisemitismo, la temporanea attività didattica all’università di Tel Aviv, da cui si allontanò per dissapori sulla politica sionista, fino al pluridecennale insegnamento a Leeds e all’acquisto della cittadinanza britannica.
La sua fama viene normalmente associata all’idea di “società liquida” e di tanti altri fenomeni catalogati sotto l’etichetta della “liquidità”. Tale proprietà attribuita al mondo moderno e “postmoderno” costituisce, in effetti, uno dei suoi maggiori contributi alla comprensione del presente, la cui lontana origine può essere fatta risalire a una frase del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels (già ripresa da Marshall Berman in All that is solid melts into air, del 1985), in cui si afferma che, con la borghesia, tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria e tutto ciò che è sacro viene profanato. Bauman aveva acutamente articolato questo spunto isolato nell’ampia analisi delle società contemporanee nell’era della globalizzazione diffusa. Le aveva descritte come caratterizzate dall’indebolimento o dall’impotenza di quelle strutture (come lo Stato-nazione) che avevano in precedenza garantito le “strategie di vita” e l’orizzonte di senso dei singoli e delle collettività.
Da ciò faceva discendere una serie di fattori: l’individualismo di massa, per cui si allentano sia i legami tra persone e istituzioni, sia quelli delle persone tra loro (segnalava, a questo proposito, il fatto che negli Stati Uniti i divorzi dopo due anni di matrimonio fossero saliti al 50% e che si stesse diffondendo la moda dello speed-dating, degli- incontri-lampo e senza impegno per cuori solitari); l’affievolirsi nelle coscienze dei valori etici, che, a causa della rapidità dei mutamenti, non riescono più a sedimentarsi in abitudini e tradizioni; la solitudine degli individui, che trova una parziale compensazione nello sforzo di allontanare sempre più il pensiero della morte; il desiderio di consumare la vita al pari di ogni altra merce, alla ricerca nello shopping di una felicità da afferrare avidamente prima che sfugga l’occasione. Alla struttura si sostituisce così la rete, alla durata la provvisorietà, al culto della memoria la propensione all’oblio, alla padronanza di sé la preoccupazione per la propria incolumità di fronte a pericoli incontrollabili come il terrorismo.
Eppure, questo aspetto ’liquido’ che sembra onnipervasivo si restringe a quella parte del genere umano che vive nelle zone più fortunate e sicure del pianeta o nelle sparse nicchie ritagliate altrove dai privilegiati. Nel resto del mondo, l’ordine della modernità capitalistico-liberale, che si esprime attraverso la globalizzazione diffusa, ha invece creato un’umanità di esseri in esubero, i quali – analogamente ai rifiuti prodotti dalla società industriale – hanno le loro discariche e non sono più utilizzabili. La globalizzazione ha i suoi salvati e i suoi sommersi. Con un cambiamento di direzione rispetto ai flussi migratori dell’età del colonialismo, le “vite di scarto” invadono i paesi meno segnati da fame e da guerre, che si sentono perciò minacciati. Da quando la modernizzazione compulsiva ha permeato il resto del mondo, «gli effetti del suo dominio planetario sono ricaduti su chi li ha provocati»: «Loro sono troppi» e «Noi non siamo abbastanza» si dice allora nelle nazioni a natalità decrescente.
L’ordine è così diventato disordine, generando ulteriori paure e incertezze nei confronti del futuro. Queste ultime, tuttavia, s’innestano e si sommano a quelle da sempre comuni a tutti gli uomini. In qualsiasi società umana, in tutta la storia della nostra specie, la paura e l’incertezza sono, infatti, costanti ineliminabili. Hanno la propria sorgente nella consapevolezza, che ciascuno avverte, di dover morire, nell’orrenda prospettiva della putrefazione del corpo e del precipitare della vita nel nulla o nell’ignoto. Tutte le civiltà rappresentano pertanto delle reazioni all’esistenza effimera degli individui, “fabbriche di trascendenza”, ossia di superamento incessante di ciò che si trova prima che l’immaginazione della cultura si metta in moto nel creare l’illusione necessaria della permanenza e del senso delle cose. La civiltà trionfa sulla morte soprattutto quando essa non «appare sotto il proprio nome», là dove «riusciamo a vivere come se la morte non ci fosse o non ci importasse».
Quello che, per sua stessa ammissione, Bauman si è sforzato di fare è stato di indurci a guardare «con occhi un po’ diversi, il fin troppo familiare - o così si dice - mondo moderno che tutti condividiamo e abitiamo». Nell’assegnare alla nostra parte di mondo il carattere ineliminabile della “liquidità”, egli ha, tuttavia, sottovalutato i recenti sviluppi storici. Con il progressivo manifestarsi dei lati negativi della globalizzazione, si scopre oggi, sempre di più, la solida durezza e la spigolosità del reale, la difficoltà di oltrepassare i limiti di benessere e di sicurezza promessi negli ultimi decenni del secolo scorso. Inoltre, a causa del prolungarsi in molti paesi della crisi finanziaria del 2007/2008, anche la felicità data dallo shopping diminuisce nella stessa proporzione in cui lo shopping stesso è costretto a diminuire. Si direbbe che il nostro tempo cominci a somigliare, in misura inquietante, agli anni Trenta del Novecento, con il ritorno dei nazionalismi e del protezionismo e con la richiesta di chiusura delle frontiere. Anche l’Occidente si sente meno liquido. Avanza l’esigenza di un nuovo senso di responsabilità e aumenta la consapevolezza della drammaticità delle decisioni.

3.1.17

Il pericolo della libertà vigilata

Nadia Urbinati (La Repubblica)

La politica dell’odio e la politica della verità sono due problemi, all’ apparenza opposti ma in effetti speculari, che affaticano la vita civile delle società democratiche, avvelenando le relazioni pubbliche e, quel che è peggio, ostacolando la nostra capacità di comprendere, spiegare e correggere. Contro queste pulsioni assolute, sulle quali si è in parte soffermato il presidente della Repubblica, nessuna visione ragionata della politica sembra essere dotata di sufficiente forza di raffreddamento.

L’odio per il diverso, per i diversi (non importa quanto e in che modo, se per ragioni religiose o di scelte sessuali o, perfino, per appartenenze politiche) è l’ emozione che più deturpa in questo tempo segnato da una reazione massiccia contro le visioni ampie e gli ideali inclusivi. Un’ emozione che crea solchi e innalza muri e che, soprattutto, vuole avvalersi dell’ arma della ragione per essere giustificata, e non semplicemente sentita. Vilfredo Pareto sosteneva che gli esseri umani provano un sentimento di piacere nel dare alle loro azioni delle cause logiche che non hanno. È quel che sta succedendo in un continente ridiventato vecchio all’ improvviso, dove si assiste in molti, troppi, paesi alla rinascita addirittura delle filosofie della razza e all’ interpretazione dei confini come muri che servono a proteggere i “comuni valori cristiani”, come se tutti fossero davvero cristiani allo stesso modo, come se le differenze interne ai singoli paesi e alle regioni d’ Europa siano di colpo sparite o dimenticate. Unità nel nome dell’ interesse nazionale ed europeo (una nuova palestra del nazionalismo) riaffermata come un argomento che giustifica l’ esclusione (e l’ espulsione). La paura del terrorismo, la paura di perdere o non trovare lavoro, la paura di vedere trasformate le nostre tradizioni: queste emozioni, tutt’altro che spontanee e innocenti, trovano una sponda impensabile in argomenti all’ apparenza razionali, come quello che ci vuole far credere che i sentiment della repulsione e dell’ intolleranza siano non solo giusti ma addirittura saggi.

Dall’altra parte si fa strada, in apparente opposizione, l’idea che la distinzione tra verità e falsità sia tanto chiara e autoevidente da poter invocare la legge per mettere ordine, per discriminare tra le opinioni vere e quelle post-vere (o false), quasi ignorando che le opinioni non possono mai essere giudicate secondo la logica epistemica. Insidiosa non meno della politica dell’ esasperazione della paura, la politica dell’ esasperazione della verità non può che preoccupare, anch’ essa è una forma di razionalizzazione di un’ emozione che rabbuia la mente, quella dell’ ignoto, del non sapere, per esempio, come governare l’informazione e la comunicazione nell’ età della rivoluzione informatica. Non si dovrebbe dimenticare che se l’ invenzione della stampa nel Cinquecento ha aperto le porte al liberalismo politico e alla democrazia, ha anche suggerito l’ invenzione di nuove strategie di repressione, come il rogo dei libri (oltre che dei loro autori), l’ ostruzione violenta delle opinioni o, in tempi a noi più vicini, la creazione via propaganda del consenso unanime per rendere il dissenso un assurdo castigabile.

In nome della verità, anche la più vera, si possono creare mostri oscurantisti. Scriveva Alexis de Tocqueville, che la libertà di stampa è una di quelle libertà che non viene senza costi, perché per rendere conto del lavoro del potere essa si insinua nel privato esponendo la vita privata delle persone all’ occhio del pubblico. E tuttavia, nonostante le possibili non-verità che questa libertà può generare, si è abbondantemente dimostrato difficilissimo assoggettarla, in quanto l’ autorità finirebbe per essere censoria in una maniera intollerabile. L’ accusa contro l’ abuso di Internet, uno strumento orizzontale di comunicazione che consente a ciascuno di noi di commentare e fare opinione fuori dei tracciati deontologici del giornalismo professionale, non può non impensierire. Certo, la democrazia vuole pubblicità e trasparenza, non menzogna. Tuttavia crediamo davvero che essa possa sopportare autorità che vigilino sulla verità (o la post-verità) quando si tratta di opinioni, non di verità scientifiche? La politica della verità vigilata è preoccupante.

Non ci sono ricette sicure e certe per queste forme mai invecchiate di insicurezza e di intolleranza, sfide che mettono alla prova non tanto i cittadini (che di potere non ne hanno molto fuori dell’ urna) ma in primo luogo chi accetta di essere investito del compito della rappresentanza politica e chi opera nella settore dell’ informazione. Non è fuori luogo il richiamo alla responsabilità da parte di coloro che esercitano la politica e contribuiscono a creare l’ opinione. La democrazia non sopporta né le politiche dell’ odio né quelle della verità, ma neppure le azioni repressive che dovrebbero scongiurarle. Ha bisogno, in questi casi in modo particolare, di cittadini, di politici e di giornalisti capaci di virtù pubblica, di far affidamento al senso del limite e dell’ autolimitazione. Non è stata ancora escogitata una forma migliore per governare le emozioni senza pretendere di estirparle, una medicina che ucciderebbe il malato nell’ illusione di guarirlo.