28.11.10

«Società offshore per gli appalti gonfiati»

I pm: «Le cordate amiche hanno moltiplicato per 20 il fatturato». Timori per l’eventuale pubblicazione sul sito Wikileaks di contratti esteri del gruppo di Guarguaglini] «Società offshore per gli appalti gonfiati»
I pm: «Le cordate amiche hanno moltiplicato per 20 il fatturato». Timori per l'eventuale pubblicazione sul sito Wikileaks di contratti esteri del gruppo di Guarguaglini


Fiorenza Sarzanini

Appalti moltiplicati per favorire sempre le stesse società. E così alimentare la contabilità occulta, spesso trasferita all’estero. Il primo esame della documentazione sequestrata negli uffici della Selex sistemi integrati e delle aziende che poi ottenevano i lavori delinea il meccanismo illecito che sarebbe stato utilizzato al fine di creare «fondi neri» per versare tangenti a manager e politici. Il meccanismo svelato dal consulente di Finmeccanica Lorenzo Cola trova riscontro nelle carte portate via da carabinieri del Ros e finanzieri. Rivelando come sia stato lo stesso Cola, grazie alle imprese che controllava attraverso prestanome, ad accaparrarsi la fetta più grossa. Basti pensare che in appena quattro anni era riuscito a far lievitare di venti volte i guadagni. Le fatture rivelano anche l’esistenza di consulenze affidate a società offshore che, dicono i magistrati, sarebbero servite a veicolare il denaro in Svizzera e in numerosi paradisi fiscali. Un meccanismo che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati dell’amministratore di Selex Marina Grossi e di quello di Enav Guido Pugliesi per corruzione e frode fiscale, del presidente dell’Ente di assistenza al volo Luigi Martini, del suo predecessore Bruno Nieddu, del componente del consiglio di amministrazione dello stesso Ente Ilario Floresta, del capo delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni, dei dirigenti di Selex Letizia Colucci e Manlio Fiore, oltre a numerosi imprenditori. La doppia cordata Le verifiche del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dei sostituti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli ora si concentrano sui lavori effettuati in numerosi aeroporti italiani come Palermo, Napoli, Lamezia Terme, ma anche Malpensa e altri scali. Costruzione delle torri di controllo, manutenzione dei radar, sistemi di controllo del vento: Enav passava gli appalti a Selex, che a sua volta individuava le ditte per i subappalti. La maggior parte venivano affidati a Techno Sky, a sua volta controllata da Enav. Gli altri finivano a pochi privilegiati scelti a trattativa privata che così ricevevano un fiume di denaro. L’accusa, confortata dalle rivelazioni di Cola e del suo commercialista Marco Iannilli, individua due cordate che di fatto si spartivano la torta. La prima, riconducibile appunto a Cola, comprende la Arc Trade, la Cogim, la Print Sistem e la Trs. La seconda, invece, include ditte che i magistrati definiscono «riferibili ad attività di Lorenzo Borgogni», cioè La Renco, la Simav sistemi di manutenzione avanzati, la Chorus services e architecture e la Aicom. Cola accusa Borgogni di aver preso «almeno 300mila euro in contanti e altre utilità». Lui stesso ammette di aver guadagnato svariati milioni per le sue consulenze. Ora si cercano gli altri beneficiari della politica e dell’imprenditoria. Intanto sono le cifre a fornire il volume degli affari. Il record del 2009 Nel 2004 Enav dà a Selex lavori per 341 milioni di euro. Le due aziende di Cola, Trs e Print Sistem, si aggiudicano lavori per 2 milioni e mezzo di euro. L’anno dopo al vertice di Selex arriva Marina Grossi, la moglie di Guarguaglini, nominata amministratore delegato, ed Enav «gira» appalti per 314 milioni. Cola questa volta fa il salto e alle due ditte che controlla arrivano subcommesse per 8 milioni e trecentomila euro. Nel 2006 e nel 2007 gli incassi tornano a essere modesti. Mentre il 2008 è l’anno dell’ascesa con appalti Enav che ammontano a 397 milioni di euro e subappalti che superano i 14 milioni di euro. Il vero boom arriva nel 2009, esattamente il periodo nel quale, contestano i pubblici ministeri, Selex «emetteva fatture relative a operazioni in tutto o in parte inesistenti per un valore non inferiore a 10 milioni di euro, per consentire a Enav l’evasione delle imposte dirette o indirette». Il dettaglio dei numeri appare eloquente. A bilancio vengono iscritti appalti concessi da Enav per un totale di 490 milioni di euro. L’analisi dei subappalti mostra la divisione della torta: Print Sistem ottiene lavori per 34 milioni di euro, Techno Sky per 12 milioni e quattrocentomila. Ma in scena compare anche Arc Trade, che se ne aggiudica per un valore di otto milioni e mezzo. A conti fatti, soltanto le società di Cola gestiscono in quei dodici mesi 43 milioni di euro. Le percentuali dei mediatori «Per lavorare, me dovevano paga’», ha detto Cola ai magistrati riferendosi alle ditte che aveva segnalato. Non era l’unico. Nell’elenco degli indagati i magistrati romani hanno inserito anche Paolo Prudente, direttore generale di Selex fino all’arrivo della Grossi, e Antonio Iozzini, amministratore delegato di Techno Sky fino a luglio scorso. In realtà il manager fu sostituito, insieme ai componenti del consiglio di amministrazione, perché accusato dai vertici di Enav di aver commesso «irregolarità gestionali e procedurali» che avevano poi determinato l’avvio di un audit che si è conclusa qualche giorno fa. In particolare si parla di commesse pagate prima dell’esecuzione e di costi gonfiati. Nel provvedimento eseguito due giorni fa che disponeva perquisizioni e sequestri negli uffici e nelle abitazioni degli indagati, viene specificata la necessità di acquisire la documentazione relativa a «inchieste interne e audit in ordine alla regolarità dell’assegnazione dei lavori, nonché copia dell’organigramma e delle relative modifiche dei dirigenti di Enav e Selex negli ultimi cinque anni, per la ricostruzione dei singoli procedimenti». I magistrati sono infatti convinti che l’esame di quella documentazione possa fornire elementi utili a individuare altri beneficiari del sistema. Manager che avrebbero rivestito il doppio ruolo di committenti e nello stesso tempo, percettori di mazzette. L’esame delle carte rivelerà eventuali altri illeciti. Ma la fibrillazione di queste ore riguarda anche contratti esteri siglati da Finmeccanica che potrebbero essere rivelati nei dettagli dal sito Wikileaks.] MILANO - Appalti moltiplicati per favorire sempre le stesse società. E così alimentare la contabilità occulta, spesso trasferita all'estero. Il primo esame della documentazione sequestrata negli uffici della Selex sistemi integrati e delle aziende che poi ottenevano i lavori delinea il meccanismo illecito che sarebbe stato utilizzato al fine di creare «fondi neri» per versare tangenti a manager e politici. Il meccanismo svelato dal consulente di Finmeccanica Lorenzo Cola trova riscontro nelle carte portate via da carabinieri del Ros e finanzieri. Rivelando come sia stato lo stesso Cola, grazie alle imprese che controllava attraverso prestanome, ad accaparrarsi la fetta più grossa. Basti pensare che in appena quattro anni era riuscito a far lievitare di venti volte i guadagni. Le fatture rivelano anche l'esistenza di consulenze affidate a società offshore che, dicono i magistrati, sarebbero servite a veicolare il denaro in Svizzera e in numerosi paradisi fiscali. Un meccanismo che ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati dell'amministratore di Selex Marina Grossi e di quello di Enav Guido Pugliesi per corruzione e frode fiscale, del presidente dell'Ente di assistenza al volo Luigi Martini, del suo predecessore Bruno Nieddu, del componente del consiglio di amministrazione dello stesso Ente Ilario Floresta, del capo delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni, dei dirigenti di Selex Letizia Colucci e Manlio Fiore, oltre a numerosi imprenditori.

La doppia cordata
Le verifiche del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dei sostituti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli ora si concentrano sui lavori effettuati in numerosi aeroporti italiani come Palermo, Napoli, Lamezia Terme, ma anche Malpensa e altri scali. Costruzione delle torri di controllo, manutenzione dei radar, sistemi di controllo del vento: Enav passava gli appalti a Selex, che a sua volta individuava le ditte per i subappalti. La maggior parte venivano affidati a Techno Sky, a sua volta controllata da Enav. Gli altri finivano a pochi privilegiati scelti a trattativa privata che così ricevevano un fiume di denaro. L'accusa, confortata dalle rivelazioni di Cola e del suo commercialista Marco Iannilli, individua due cordate che di fatto si spartivano la torta. La prima, riconducibile appunto a Cola, comprende la Arc Trade, la Cogim, la Print Sistem e la Trs. La seconda, invece, include ditte che i magistrati definiscono «riferibili ad attività di Lorenzo Borgogni», cioè La Renco, la Simav sistemi di manutenzione avanzati, la Chorus services e architecture e la Aicom. Cola accusa Borgogni di aver preso «almeno 300mila euro in contanti e altre utilità». Lui stesso ammette di aver guadagnato svariati milioni per le sue consulenze. Ora si cercano gli altri beneficiari della politica e dell'imprenditoria. Intanto sono le cifre a fornire il volume degli affari.

Il record del 2009
Nel 2004 Enav dà a Selex lavori per 341 milioni di euro. Le due aziende di Cola, Trs e Print Sistem, si aggiudicano lavori per 2 milioni e mezzo di euro. L'anno dopo al vertice di Selex arriva Marina Grossi, la moglie di Guarguaglini, nominata amministratore delegato, ed Enav «gira» appalti per 314 milioni. Cola questa volta fa il salto e alle due ditte che controlla arrivano subcommesse per 8 milioni e trecentomila euro. Nel 2006 e nel 2007 gli incassi tornano a essere modesti. Mentre il 2008 è l'anno dell'ascesa con appalti Enav che ammontano a 397 milioni di euro e subappalti che superano i 14 milioni di euro. Il vero boom arriva nel 2009, esattamente il periodo nel quale, contestano i pubblici ministeri, Selex «emetteva fatture relative a operazioni in tutto o in parte inesistenti per un valore non inferiore a 10 milioni di euro, per consentire a Enav l'evasione delle imposte dirette o indirette». Il dettaglio dei numeri appare eloquente. A bilancio vengono iscritti appalti concessi da Enav per un totale di 490 milioni di euro. L'analisi dei subappalti mostra la divisione della torta: Print Sistem ottiene lavori per 34 milioni di euro, Techno Sky per 12 milioni e quattrocentomila. Ma in scena compare anche Arc Trade, che se ne aggiudica per un valore di otto milioni e mezzo. A conti fatti, soltanto le società di Cola gestiscono in quei dodici mesi 43 milioni di euro.

Le percentuali dei mediatori
«Per lavorare, me dovevano paga'», ha detto Cola ai magistrati riferendosi alle ditte che aveva segnalato. Non era l'unico. Nell'elenco degli indagati i magistrati romani hanno inserito anche Paolo Prudente, direttore generale di Selex fino all'arrivo della Grossi, e Antonio Iozzini, amministratore delegato di Techno Sky fino a luglio scorso. In realtà il manager fu sostituito, insieme ai componenti del consiglio di amministrazione, perché accusato dai vertici di Enav di aver commesso «irregolarità gestionali e procedurali» che avevano poi determinato l'avvio di un audit che si è conclusa qualche giorno fa. In particolare si parla di commesse pagate prima dell'esecuzione e di costi gonfiati. Nel provvedimento eseguito due giorni fa che disponeva perquisizioni e sequestri negli uffici e nelle abitazioni degli indagati, viene specificata la necessità di acquisire la documentazione relativa a «inchieste interne e audit in ordine alla regolarità dell'assegnazione dei lavori, nonché copia dell'organigramma e delle relative modifiche dei dirigenti di Enav e Selex negli ultimi cinque anni, per la ricostruzione dei singoli procedimenti». I magistrati sono infatti convinti che l'esame di quella documentazione possa fornire elementi utili a individuare altri beneficiari del sistema. Manager che avrebbero rivestito il doppio ruolo di committenti e nello stesso tempo, percettori di mazzette. L'esame delle carte rivelerà eventuali altri illeciti. Ma la fibrillazione di queste ore riguarda anche contratti esteri siglati da Finmeccanica che potrebbero essere rivelati nei dettagli dal sito Wikileaks.

27.11.10

Nella rete della stroncatura

Mentre i libri dei mostri sacri della scrittura scalano le classifiche e producono lenzuolate di encomi, le comunity online dei lettori bistrattano e maltrattano le opere dei venerati maestri

Gli antipatizzanti di Umberto Eco, che non hanno digerito le lenzuolate di encomi in mondovisione per il suo Cimitero di Praga (unica voce fuori dal coro, l’Osservatore Romano) e si rodono a vederlo svettare nella lista dei best-seller, possono trovare conforto nelle recensioni dei lettori su Internetbookshop (www.ibs.it). “Finalmente ho finito di leggerlo – si sfoga per esempio Giorgio G. – è una sensazione di sollievo. Dopo una prima parte abbastanza accettabile, almeno per quanto riguarda la spedizione dei Mille, il lunghissimo periodo parigino ha destato in me un moto di repulsione. È mai possibile che uno scrittore colto e preparato si lasci andare a scrivere simili fandonie (anche se lui dichiara che tutti gli avvenimenti sono accaduti realmente)? Fandonie che sfociano nel cattivo gusto più becero, come la descrizione della ‘messa nera’? Avevo apprezzato alcuni dei libri di Eco, ma questo mi ha proprio dissuaso dal comprarne altri, se mai ne scriverà” (voto: 2 su 5 punti complessivi, quindi insufficiente).

Riccardo confessa: “È la prima volta che non riesco a finire un romanzo di Eco. Peccato, perché l’inizio sembrava interessante… Se non si è proprio lettori onnivori, lo sconsiglio” (2/5). Guglielmo parla di “operazioni di montaggio da inserire, magari un gradino più in su, nella stessa categoria di Dan Brown”. Ancora più drastico uno che si firma, nientemeno, Alexandre Dumas: “Ennesima riproposta, noiosa e stiracchiata all’inverosimile, di una storia presentata da Eco nel volume Sei passeggiate nei boschi narrativi nel quale, fra tanta confusione di fatti e situazioni, collegava lo sterminio degli ebrei a una scena del Cagliostro di Dumas” (voto 1). Naturalmente ci sono anche gli entusiasti come Enrico (“Formidabile!”, 5/5) o Roberto (“Grazie, professore! Un capolavoro!”), ma non bastano a risollevare la media, che resta bassina: 3,21. Molto al di sotto del suo diretto competitore Giorgio Faletti (Appunti di un venditore di donne, Baldini Castoldi Dalai) che sia pur presso un’audience forse meno esigente raccoglie un autentico plebiscito: 4,4. Un bello smacco per la Bompiani, con gran giubilo di Alessandro Dalai.

Più diviso il pubblico di un’altra star delle classifiche, Niccolò Ammaniti (Io e te, Einaudi). Non tutti sono d’accordo con Antonio D’Orrico che su Sette ha sparato la consueta iperbole: “Mi fa schifo tanto è bravo”, paragonandolo a Manzoni. Accanto all’orgasmo dei fan più acritici, “Un gioiellino che ti cattura dalla prima all’ultima pagina. Grazie AMMA!” (Mikarlo), “Letto in meno di due ore… stupendo e commovente” (Ianì Valastro), spuntano parecchie voci dissonanti. Come uno che si nasconde dietro il nickname Saxsoul: “E così anche Ammaniti, dopo aver scritto una serie di romanzi di qualità, si è ridotto a fare le marchette per il periodo di Natale”. O il perfido Maurizio, che pur lodando il libro mette il dito su una castroneria indegna del figlio di uno psicoanalista: “I bambini delle elementari non si stendono sul lettino per le psicoterapie, ma giocano con il terapeuta”.
O il più spietato di tutti, tale Rupert: “Racconto stiracchiato fino a diventare libretto, caratteri giganteschi, spaziatura che un tir ci può fare inversione di marcia in una sola manovra, prezzo (10 euro) del tutto immotivato. La quarta di copertina, inspiegabilmente, parla della irruzione di una ‘sconosciuta’ nella cantina dove il protagonista Lorenzo si è rifugiato: salvo poi scoprire che si tratta della sorellastra del protagonista (quindi tanto sconosciuta non è, ma di certo fa più Hitchcock parlare di ‘sconosciuta’ al posto di sorellastra). Nell’ultima pagina del libro, quattro righe di nota esplicativa di cui non si sentiva assolutamente la mancanza: ma evidentemente Ammaniti ritiene così stupido (e giustamente) un lettore che sgancia dieci euro per questo suo nuovo libro, da sentirsi in obbligo di spiegare anche l’evidenza. ‘Io e te’, ovvero ‘You and me’, come le tariffe promozionali per i cellulari. E infatti, più telefonato di così…”. In ogni caso, l’ex ragazzo prodigio riesce a portare a casa un eccellente 4 di media.

Ben più misera la pagella del meno giovane Andrea De Carlo (Leielui, Bompiani) che non raggiunge la sufficienza (2,47 su 5), sommerso da un diluvio di giudizi negativi e a volte ingenerosi, come il seguente di tale Sonim: “Questo sarebbe un libro per cui spendere venti euro? me l’hanno prestato e nonostante ciò mi vergognavo nell’approfittare dell’ingenuità di chi l’ha acquistato. Definirlo bellissimo, coinvolgente, commovente, il migliore di Andrea, significa aver capito zero della letteratura che ci circonda e di quanto De Carlo ha composto fino al 2002, anno del suo ultimo libro decente I veri nomi. Mi insospettisce il ritmo di autori troppo prolifici (tipo 3 libri in 4 anni) a meno che non si tratti di Philip Roth o King (che pure qualche granchio lo prendono), perché le storie che propongono sono troppo raffazzonate e compilate in fretta. In questo caso allungate pure di almeno 200 pagine inutili, giusto per garantire il prezzo pieno di copertina. Consiglio ad Andrea De Carlo un amaro esame di coscienza al di là delle vendite e un riposo rigenerante per le idee con un arrivederci almeno al 2013. Questo libro vende e venderà perché titolo, copertina e sinossi richiamano il pubblico degli adolescenti o dei consumatori avidi di film sentimentali di serie b che cercano storie rassicuranti e calde in vista dell’inverno. Chi vuole leggere un autore italiano con una bella storia da raccontare, si rivolga a Piperno o Veronesi”.

Mah, io non ne sarei tanto sicuro. Dì la verità, Sonim, non è che per caso sei amico di uno dei due citati? O peggio, non sarai tu stesso un loro pseudonimo? Peraltro, se andiamo a vedere le pagelle, XY di Veronesi (Fandango) riesce a racimolare un magro 3,2 e il bravo Piperno (Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi, Mondadori) lo supera di poco con una media del 3,4: “Non ho aspettato cinque anni il tuo nuovo libro per poi ritrovarmi a leggere una sorta di compitino”, scrive un certo Slapsy che si professa suo ammiratore.
Più che una grande rete, il Web è un gigantesco mattatoio che non risparmia neppure gli animali sacri. Ma è anche un sismografo che registra gusti e sbalzi d’umore del pubblico ben più fedelmente delle classifiche di vendita. La domanda è: in che misura possiamo e dobbiamo affidarci a questo strumento, per capire se un libro merita di essere comprato e letto? I recensori online sono per lo più anonimi o schermati da un nickname.
Come si fa a distinguere i lettori autentici da quelli fasulli? Chi ci garantisce che certi commenti non siano dettati dall’editore, o dall’autore, o dai suoi rivali? Come possiamo smascherare le zie premurose, gli amanti delusi o le ex mogli vendicative?

Nel suo seguitissimo blog Pierre Assouline, critico letterario di Le Monde, parlava giorni fa di “morte della prescrizione, nascita della raccomandazione e agonia del critico”.
Lo spunto, un’inchiesta del sito Nonfiction.fr che ha cercato di far luce su chi orienti oggi le scelte dei francesi in libreria: al primo posto resta l’inserto letterario per eccellenza, Le Monde des livres, seguito dal settimanale Télérama e da alcune trasmissioni radio del mattino. Ma cresce l’influenza di blog, siti multimediali e librerie online come Amazon. La “raccomandazione” numerica, il clic del mouse, il passaparola elettronico sta soppiantando la “prescrizione” del critico tradizionale. Calma però, avverte Assouline: è troppo presto per annunciare la Rivoluzione Culturale, espressione peraltro che fa rizzare i capelli in testa a chiunque abbia un po’ di memoria. Ve li immaginate gli intellettuali col cappello dell’asino mandati a zappare la terra, e le Guardie Rosse degli uffici marketing che arringano le folle dei lettori imbestialiti al grido di “morte alle élite, viva la democrazia letteraria”?

Se l’unica alternativa alle conventicole accademico-editoriali è il populismo del click, stiamo davvero freschi. Certo, finché nelle pagine culturali i romanzi di Eco o di Ammaniti raccolgono solo applausi, è inutile poi lamentarsi che il mercato abbia ammazzato una critica già defunta.

25.11.10

L’aiutino (pubblico) non si nega a nessuno

GIAN ANTONIO STELLA (CORRIERE DELLA SERA)

Per il muratore Fernando S., 42 anni, due figli, è troppo tardi: licenziato, si è impiccato a Manduria. Anche per il carpentiere Roberto M. è troppo tardi: licenziato, si è impiccato a Col San Martino. E così è troppo tardi per l’operaio dell’indotto Fincantieri Giovanni M.: licenziato, si è impiccato a Castellammare. E la lista, raggelante, potrebbe andare avanti a decine e decine.

Ci sono però alcune centinaia di migliaia di nomi di persone che hanno perduto il lavoro in questi mesi che ci permettiamo di segnalare al buon cuore di Sandro Bondi. Si chiamano Arturo, Giovanni, Armanda, Salvatore, Gennaro, Pino, Rosalba, Giorgio, Giacinto, Roberto, Claudia, Mauro... Andiamo avanti? Inutile: non basterebbe il giornale intero a contenere tutti i nomi degli italiani che negli ultimi anni, a dispetto dell’intimazione all’ottimismo («i media e l’opposizione, invece di dire che "il peggio è passato" preferiscono essere "catastrofisti", alimentando così una crisi che ha origini soprattutto psicologiche», spiegava Berlusconi già il 16 maggio 2009) sono stati buttati fuori dalle loro aziende in crisi. E a tutti loro dovremmo aggiungere uno sterminato elenco di giovani che cercano disperatamente da mesi o da anni un angoletto, fosse pure precario, in un mondo del lavoro inespugnabile.

Ecco: il ministro potrebbe dare una consulenza a tutti? Nel cinema, nel teatro, nei musei, nei siti archeologici... Ovunque. Dirà: purtroppo non è possibile, il ministero non ha soldi, i tagli sono drammatici, il governo non è la San Vincenzo... Giusto.

Ma proprio per questo tutti quelli che sono tagliati fuori dagli «aiutini» hanno buone ragioni per essere scossi dall’indecenza delle parole dette dal coordinatore del Pdl al Fatto.

Scusi, ministro, gli hanno chiesto Malcom Pagani e Luca Telese, come spiega il fatto che il suo ministero, oltre a dare un posto, una scrivania e un telefono a Fabrizio Indaco, il figlio della sua compagna Manuela Repetti, già benedetta dalla elezione alla Camera, abbia dato una consulenza da 25 mila euro (tema: «Teatro e moda») anche all’ex marito della signora, Roberto Indaco? Risposta imbarazzatissima: «Non ho fatto altro che aiutare una persona che si trovava in una drammatica difficoltà. Aveva le competenze professionali per usufruire della consulenza, quindi non ho violato leggi, né norme». In fondo «si tratta di importi molto modesti. Nel caso di Roberto Indaco, al netto delle trattenute, poco più di mille euro al mese».

Insomma, solo un gesto d’amore. In perfetta coerenza col partito dell’amore. Ciò che sfugge a Sandro Bondi è che, al di là del personale destino del figlio e dell’ex marito della sua compagna, proprio la «drammatica difficoltà» di milioni di persone rende insopportabile l’aiutino coi soldi pubblici ai parenti. Perché mai i cittadini dovrebbero pagare gli alimenti all’ex marito dell’onorevole Ripetti?

24.11.10

L'osceno normalizzato

di BARBARA SPINELLI

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l'ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell'Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s'è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi - futuro Premier - aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent'anni, almeno fino al '92. Dell'Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell'incontro a Milano della primavera '74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest'ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d'un "uomo di garanzia".

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell'87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s'aggiunga il "regalo" a Riina (5 milioni) per "aggiustare la situazione delle antenne televisive" in Sicilia. Fu Dell'Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l'allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe "finito sotto i ponti o in galera per mafia" (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell'Utri, in un'intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: "A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera".

C'è dell'osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell'Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: "Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale".

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l'influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.
Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L'1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell'economia: "Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d'indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un'afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni".

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell'illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l'atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: "Se non vi adeguate ve li scateno contro". Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l'ordigno infine non funzionerà: l'atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il "ciarpame senza pudore" del Cavaliere, e le "guerre per bande" orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all'astio che suscita per il solo fatto che impersona un'Italia che ama molto le persone oneste, l'antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell'osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l'apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C'è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l'assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre '92 - condividendo le opinioni del ministro dell'Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all'ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L'universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch'essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell'osceno. Osceno è l'accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per "concorso esterno in associazione mafiosa". Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s'intesero con la Mafia per liberare l'Italia. L'accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l'effetto di rendere "antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d'influenza". Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa "di sinistra", ma di ben più essenziale: l'era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.
Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con "vocazione maggioritaria", ma l'essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l'anima, ma l'Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il '45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre '44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: "È un mostro col capo d'idra. Non crediate d'averlo ucciso".

21.11.10

Il premier sotto ricatto

di GIUSEPPE D'AVANZO

Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli. Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti. Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia. La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti
inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino). Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti. Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza. A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino. Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza. Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia. L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi. È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare. Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.

20.11.10

Il ruolo di Marcello Dell’Utri

da Il fatto quotidiano

Il ruolo del senatore Marcello Dell’Utri è stato ricostruito dai giudici a partire dai rapporti con Gaetano Cinà. Nelle motivazioni della sentenza di condanna in secondo grado è indicata la rete gestita da Dell’Utri, compreso lo stalliere Mangano, per “difendere” e far crescere Fininvest adoperandosi con cosa nostra “almeno fino agli inizi degli anni 90″ affinché la Fininvest “pagasse cospicue somme di denaro alla mafia” così “agganciando una realtà imprenditoriale che sarebbe diventato un vero e proprio impero”, scrivono i giudici.

“Può dunque ritenersi provato, all’esito dell’analisi delle risultanze probatorie acquisite sul tema in esame, che anche dopo la morte di Stefano Bontate e l’ascesa al vertice dell’associazione mafiosa di Salvatore Riina, gli imputati Marcello Dell’Utri e Gaetano Cinà mantennero costanti rapporti con cosa nostra in particolare adoperandosi, almeno fino agli inizi degli anni ’90, affinchè il gruppo imprenditoriale facente capo a Silvio Berlusconi pagasse cospicue somme di danaro alla mafia”, si legge nelle motivazioni di condanna di secondo grado.

“Entrambi hanno dunque consapevolmente posto in essere condotte dirette a procurare al sodalizio mafioso ingenti illeciti profitti costituiti da somme di denaro percepite a titolo estorsivo. L’avere agito quale tramite tra l’organizzazione criminale mafiosa e la vittima dell’estorsione, percependo personalmente il danaro e consegnandolo nelle mani dei mafiosi, ha indubbiamente integrato per il Cinà, come fondatamente ritenuto dal Tribunale, una tipica condotta punibile ai sensi dell’art. 416 bis c.p. avendo procurato per diversi anni all’intera organizzazione mafiosa il rilevante vantaggio costituito dalla riscossione di ingenti somme di denaro che hanno consolidato e rafforzato le singole famiglie mafiose, ed il sodalizio criminoso nel suo complesso. Quanto all’imputato Marcello Dell’Utri, va ribadito che egli all’epoca dei fatti non era socio di Berlusconi, nonostante fosse divenuto sin dal 1983 consigliere delegato di Publitalia, società che costituiva il polmone finanziario della Fininvest, ed uno dei manager indubbiamente più vicini all’imprenditore milanese assieme a Fedele Confalonieri. Egli ha operato ponendo in collegamento l’estorto con i mafiosi che intendevano costringere la vittima a corrispondere loro ingenti somme di denaro”.

“Ciò Dell’Utri ha potuto fare proprio perché ha mantenuto negli anni, mai rinnegandoli ed anzi alimentandoli, i suoi amichevoli e continuativi rapporti con esponenti mafiosi, in stretto contatto con i vertici di cosa nostra, che hanno accresciuto nel tempo il loro peso e spessore criminale in seno al sodalizio proprio grazie alla possibilità, loro assicurata dall’imputato, di accreditarsi come tramiti con quel facoltoso imprenditore divenuto nel tempo uno dei più importanti esponenti del mondo economico-finanziario del paese, prima di determinarsi verso un impegno personale anche in politica”.

Secondo i giudici “Deve dunque ritenersi provato che l’imputato Marcello Dell’Utri, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà ed alle sue autorevoli conoscenze e parentele, ha svolto la contestata attività di ‘mediazione’ operando come specifico canale di collegamento tra l’associazione mafiosa cosa nostra, in persona di Stefano Bontate, all’epoca uno dei suoi più autorevoli esponenti, e Silvio Berlusconi, imprenditore milanese in rapida ascesa economica in quella ricca regione, così ponendo in essere una condotta che ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento ed al rafforzamento del sodalizio mafioso consistito nel procurare, con l’iniziativa dei due imputati, l’appetibile occasione di acquisire una cospicua fonte di guadagno ‘agganciando’, come si vedrà per molti anni, una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico. E’ certamente configurabile pertanto a carico del Dell’Utri (e del Cinà) il contestato reato associativo, non potendo condividersi la tesi difensiva secondo cui l’imputato nell’occasione avrebbe agito non con l’animus dell’’agente assicurativo’ di Cosa Nostra, bensì esclusivamente allo scopo di trovare una soluzione in grado di garantire la sicurezza dell’amico e dei suoi familiari pesantemente minacciati. Si trascura di considerare infatti che la condotta di Marcello Dell’Utri è risultata decisiva nell’apportare consapevolmente all’organizzazione mafiosa un contributo al suo rafforzamento avendo consentito a Vittorio Mangano e quindi a cosa nostra di avvicinarsi a Silvio Berlusconi avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni”.

13.11.10

Pompei crolla, loro mangiano

di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni

Invece di occuparsi del patrimonio archeologico, Bondi e Bertolaso hanno speso milioni di euro per 'eventi' e 'progetti' sull'area dei loro amici. E per una visita del premier, che poi ha pure bidonato

Per Pompei le risorse ci sono, si tratta di saperle spendere", affermava due anni fa Sandro Bondi, annunciando che il 28 ottobre 2008 Berlusconi avrebbe visitato il sito archeologico più famoso del mondo. Chissà se il ministro per i Beni culturali sapeva che per quella visita il commissariato straordinario voluto da lui medesimo stava bruciando un pacco di soldi. "Sessantamila euro per la visita del presidente del Consiglio", recita la voce della contabilità del commissariato, cui vanno aggiunti 11 mila euro per la "pulizia delle aree di visita del Presidente del Consiglio" e 9.600 euro per "l'accoglienza". Giustificazione dell'uscita: promozione culturale. Lavoro e migliaia di euro sperperati, visto che il Cavaliere a Pompei non ci metterà mai piede.

I soldi destinati alla visita del premier non sono gli unici, incredibili "investimenti" che i due commissari straordinari voluti da Bondi (prima il prefetto Renato Profili, poi Marcello Fiori della Protezione civile) hanno autorizzato durante la loro gestione per rilanciare il sito. "L'espresso" ha trovato l'elenco di (quasi) tutte le spese effettuate dalla struttura, denaro che forse sarebbe stato meglio utilizzare nella manutenzione e nel restauro dei templi e delle Domus degli scavi. "Ora è tardi, la scuola dei Gladiatori è crollata e non si può tornare indietro", dice un tecnico che chiede l'anonimato: "È una roba vergognosa, pazzesca, ha ragione il presidente Napolitano".

Tra stipendi da record, consulenze, operazioni di marketing e bizzarrie in odore di Cricca, a Pompei ci hanno mangiato in tanti. La lista comprende di tutto: ci sono 12 mila euro pagati per rimuovere 19 pali della luce; 100 mila per il "potenziamento dell'illuminazione" delle strade esterne al sito; 99 mila finiti a una ditta che ha rifatto "le transenne". Oltre 91 mila euro sono andati a un Centro di ricerche musicali per l'installazione di planofoni (strumenti per la diffusione del suono nello spazio), e 665 euro sono serviti a cambiare le serrature di un punto di ristoro. Quasi 47 mila euro sono serviti per metter in piedi l'evento "Torna la vite"; 185 mila per il progetto PompeiViva: soldi dati alla onlus romana CO2 Crisis Opportunity fondata da Giulia Minoli, figlia di Gianni e Matilde Bernabei, che ha avuto Gianni Letta come testimone di nozze. Lo sposo? Salvo Nastasi, direttore generale del ministero dei Beni culturali. Al piano di valorizzazione è stata chiamata anche Wind: importo previsto, 3,1 milioni di euro.

Le convenzioni, a Pompei, costano caro: 547 mila euro sono stati spesi per un progetto intitolato "Archeologia e Sinestesia" curato dall'Istituto per la diffusione delle Scienze naturali, altri 72 mila sono state dati all'associazione Mecenate 90 (presidente onorario il solito Gianni Letta, presidente Alain Elkann) per un'indagine conoscitiva sul pubblico, e ben 724 mila all'Università di Tor Vergata "per lo sviluppo di tecnologie sostenibili".

Qualche maligno sostiene che ci possa essere un conflitto d'interessi: Fiori, si legge nel suo curriculum, è stato docente universitario del corso "Pianificazione degli interventi per la sicurezza del territorio" proprio a Tor Vergata. Supermarcellino, come lo chiamano gli amici, fedelissimo di Guido Bertolaso, ex vice-capogabinetto di Rutelli, è l'uomo-chiave degli ultimi 18 mesi, l'esperto che afferma di aver speso il 90 per cento dei 79 milioni di euro a disposizione "per la tutela e la messa in sicurezza". Sarà, ma sono molte le spese che stonano. Passi per i 1.668 euro per i nuovi arredi del suo ufficio, ma forse i 1.700 euro per la divisa del suo autista o i 4 mila per la sua "parete attrezzata" poteva risparmiarli. Come i 10 mila per un altro ufficio presso l'Auditorium, i 113 mila per lo spettacolo "Pompei in scena" o i 955 mila per il "progetto multimediale" alla casa di Polibio.

A sei giorni dai crolli, sulle pietre della scuola dei Gladiatori sgambettano tre cani randagi, nonostante la Protezione civile abbia deciso di dare alla Lav ben 102 mila euro per "l'arresto dell'incremento" dei quadrupedi. La città antica è deserta, diluvia. "Stia attento alla pioggia, perché l'acqua qui uccide", raccomanda l'unico guardiano che si incontra in un'ora e mezza di visita. "La colpa di chi è? Dico solo che vedo sprechi, e troppa gente che litiga su cosa fare. E si sa che mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more".

Mentre il medico "sturéa", studia, mentre si puntano fiches su progetti di comunicazione, Pompei va in pezzi. Gli esperti che hanno tentato diagnosi e cure sono decine, e hanno fallito tutti. Sbagliato cercare un unico colpevole.

Qualcuno ha puntato il dito su Francesco Rutelli, che quando era ministro accorpò la sovrintendenza di Pompei con quella di Napoli eliminando la figura del city manager. Altri ricordano le scelte "non consone" di ministri come Giulio Urbani e Rocco Buttiglione. Il primo nominò come manager responsabile un generale dell'Aeronautica suo vicino di ombrellone; il leader Udc puntò su un archeologo, Luigi Crimaco, che non aveva avuto incarichi di grande rilievo: prima di occuparsi della villa dei Misteri era direttore onorario del museo civico di Mondragone.

Negli ultimi due anni il luminare che si è affaccendato intorno al lettino del malato è stato Bondi, l'uomo che ha accettato, senza fiatare, i tagli-monstre imposti da Giulio Tremonti. "Vorrei vivere", diceva un mese fa "in un Paese dove un uomo pubblico viene giudicato per quello che fa. L'idea di affidare a un commissario straordinario della Protezione civile la rinascita di Pompei ha perfettamente funzionato". Infatti. La Corte dei Conti, già ad agosto, aveva criticato la decisione di consegnare gli scavi al dipartimento di Bertolaso ("Pompei non è un'emergenza"). Ora, i dati scovati da "L'espresso" indicano, forse, che non ci si è impegnati a dovere sulle priorità. La mostra "Pompei e il Vesuvio" promossa da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (uno degli imprenditori del settore più amati dai Bertolaso boys, che gli concedono spesso incarichi senza gara) è costata oltre 600 mila euro, mentre per l'illuminazione della casa di Bacco sono stati usati 1,2 milioni.

Con l'avvento di Fiori la struttura commissariale, inoltre, è lievitata come un pan di Spagna. Dai cinque uomini di staff che affiancavano Profili (260 mila euro in tutto, il 20 per cento al prefetto) si passa a dodici. Viene pure incrementata, con un'ordinanza, la percentuale di risorse dedicata alla "copertura degli oneri della struttura commissariale". La dotazione prevista passa da 200 mila a 800 mila euro, ma non basta. A fine missione, la voce "funzionamento" sul bilancio del commissariato segna una spesa complessiva di oltre 2milioni e 300 mila euro. Numeri alla mano, si va dai 149 mila euro per Fiori, risorse che si aggiungono al suo già profumato stipendio da dirigente apicale del ministero, ai 125 mila per quattro co.co.co. di fiducia, ai 250 mila per il personale distaccato. Per tutti, il 22 ottobre 2009 il commissario autorizzava la ricarica di carte di credito "superflash" per "rimborsi spese di missione" per un importo pari a 185 mila euro.

La Uil Beni Culturali è da mesi che attacca la gestione commissariale. Lo scorso luglio il segretario generale Gianfranco Cerasoli ha presentato persino un esposto alle procure di Napoli e di Torre Annunziata. Il sindacalista, oltre alla questione stipendi, ha duramente criticato anche i lavori di restauro effettuati da Fiori. "In primis quelli per il Teatro Grande, dove la cavea è stata ricostruita con mattoni di tufo che nulla c'entrano, e dove si è lavorato con martelli pneumatici, scavatori e bobcat, in una zona dove bisognerebbe camminare a piedi nudi", spiega Cerasoli.

L'impresa affidataria è la Caccavo srl di Pontecagnano (Salerno): Profili chiude con loro un appalto da 449 mila euro, ma dopo un anno Fiori affida a loro altre "opere complementari al progetto" per 4,8 milioni. A cui vanno aggiunti altri incarichi, per un totale di 16 milioni di commesse in due anni. Altre presenze fisse nei lavori sono la ditta Maioli di Ravenna, quella di Vincenzo Vitiello (pare assai vicino alla curia) e di Alessandra Calvi, che ha lavorato vicino alla scuola crollata. In pochi la conoscono. "Io dico pure che dei 79 milioni che avevano i due commissari, l'importo destinato agli interventi di messa in sicurezza è pari appena al 52 per cento del totale", ragiona il sindacalista: "Mentre a tutti gli interventi di valorizzazione e comunicazione, su cui procura e Corte dei Conti dovrebbero guardare con attenzione, è andato il 48 per cento, pari a 38,2 milioni".

Bondi e Fiori fanno spallucce. Siamo gli unici, dicono, che hanno destinato 2 milioni alla manutenzione ordinaria. Verissimo. Ma a questi si sarebbero potuti aggiungere i 500mila euro destinati ai servizi per la stagione teatrale 2010-2011 (il San Carlo ne prende altri 142 mila, sempre giustificati dalla dicitura "messa in sicurezza"), i 275 mila girati a Legambiente per "la formazione di volontari", i 42 mila spesi per alcuni volumi di storia, o i 17 mila investiti in televisioni Lcd. Senza dimenticare i mille euro usati "per sfoltire" un pino vicino agli uffici della sovrintendenza. I rami, forse, impedivano la vista del panorama a qualche dirigente.

7.11.10

Il fai-da-te dei rottamatori

Curzio Maltese (La Repubblica)

Berlusconi e il berlusconismo sono malati, ma anche il Pd non si sente bene. Perché non c’era dirigente alla stazione Leopolda di Firenze ad ascoltare la pancia del partito? Perché a Roma i circoli hanno fischiato l’assemblea dei rottamatori, che tale non è stata, offrendo peraltro all’astuto Matteo Renzi la palla gol di un abbraccio e un applauso in risposta? Così i polemici, i rancorosi, insomma i cattivi sono sembrati gli altri. Paradossali strateghi di un partito che ha la pretesa di mettere d’accordo Fini e Vendola, Lombardo e Di Pietro, ma pare non sopportare che cinquemila dei propri sindaci, militanti ed elettori si ritrovino a discutere proposte per scuola e sanità, rifiuti e precariato, immigrazione e altre faccende assai concrete, evitando con cura anche soltanto di nominare Bersani e gli altri. Quella di Firenze non è un’assemblea di anti politica, ma l’esatto contrario. Una bella pubblicità per la buona politica, che è fatta anche da brava gente onesta, giovani amministratori e militanti idealisti, in maggioranza donne, pagati con pochi euro al mese. Da sindaci coraggiosi del Sud, e ce ne sono tanti alla Leopolda, che diventano notizia soltanto quando la camorra o la ‘ndrangheta gli spara in faccia, e comunque assai meno di Ruby o di Avetrana. Beppe Grillo, che sull’antipolitica ha costruito un bel business, ha infatti subito attaccato la manifestazione. Non si capisce quale destabilizzante minaccia possa arrivare da una due giorni di interventi di cinque minuti su questioni come educare alla raccolta differenziata, su sprechi energetici e diffusione del wireless, asili e assistenza agli anziani, centri di accoglienza e sostegno alla piccola impresa. Se nelle intenzioni di Matteo Renzi detto il rottamatore (uno che ogni tanto scivola in qualche atteggiamento da bullo politico) e di Pippo Civati c’è un’implicita critica al gruppo dirigente del Pd e magari l’ambizione personale, fra i cinquemila convenuti prevale la semplice voglia di capire dove vada il Pd. Un mistero che affascina anche noi osservatori esterni. Perché non si ricorda a memoria d’uomo un grande partito d’opposizione il quale, in presenza di un crollo della maggioranza, non riesca a guadagnare consensi. Anzi, riesce a perderne. I sondaggi accreditano al Pd oggi il 24 per cento. Due punti in meno dell’era Franceschini, segretario all’epoca in cui Berlusconi veleggiava verso il 70 per cento di gradimento, veniva portato in trionfo dai partigiani a Onna, sembrava aver ripulito Napoli dalla spazzatura e L’Aquila dalle macerie, quando nell’orizzonte azzurro perenne del berlusconismo non s’erano manifestati né la rottura con Fini né quella con Veronica, Noemi e le altre, il ritorno della monnezza e la disoccupazione giovanile al 24 per cento. In tanto trambusto, il Pd ha soltanto perso lo zero virgola ogni mese, fino a oggi. Con il rischio di non avere neppure toccato il fondo. In una eventuale campagna elettorale il Pd non può infatti contare su nessun argomento forte, scavalcato in tutti dalla concorrenza. Sulla difesa della legalità e l’antiberlusconismo, ormai sinonimi, il Pd è meno efficace di Di Pietro e ora anche di Fini e Famiglia Cristiana, sulle questioni sociali e ambientali, per dire il precariato o il nucleare o la privatizzazione dell’acqua, è meno chiaro di Vendola e Grillo, sulla laicità e i diritti civili più ambiguo di tutti i nominati più i radicali, sull’immigrazione non ne parliamo. Perfino sulle legge elettorale il Pd non ha ancora scelto una linea, fra quattro o cinque possibili. Una simile indeterminatezza può rivelarsi un vantaggio se si tratta di affastellare alleanze da Fini a Vendola, di andare al governo con Lombardo in Sicilia e inviare intanto qualche sherpa dalla Lega, oppure per ipotizzare un governo tecnico con Draghi o Pisanu o Montezemolo o chiunque. Ma è piuttosto normale che un elettorato normale s’interroghi sul perché il Pd non si comporti da normale partito d’opposizione e cioè chieda le elezioni subito per sostituirsi con un proprio leader e un proprio programma a una maggioranza e un governo al capolinea. Nell’attesa che l’esigenza di un programma elettorale sia condivisa dai dirigenti, un pezzo della base del Pd lancia da Firenze il fai-da-te. A partire dai problemi reali, tanto evocati da Bersani. Legge Biagi, privatizzazione dell’acqua, finanziamento pubblico delle scuole private, Tav e nucleare, voto agli immigrati, piano per l’energia, politica fiscale, riforma della giustizia e via elencando tutti i temi sui quali il principale partito dell’opposizione non ha ancora compiuto una scelta netta. Renzi e Civati raccoglieranno le proposte e le esperienze migliori per mandarle a Roma, dove si spera non vengano rottamate. Visto da Firenze, il problema del Pd non sembrano le facce, ma le idee.

1.11.10

Alcohol 'more harmful than heroin' says Prof David Nutt

Alcohol is more harmful than heroin or crack, according to a study published in medical journal the Lancet.

The report is co-authored by Professor David Nutt, the former UK chief drugs adviser who was sacked by the government in October 2009.

It ranks 20 drugs on 16 measures of harm to users and to wider society.

Gavin Partington, of the Wine and Spirit Trade Association, said alcohol abuse affected "a minority" who needed "education, treatment and enforcement".

The study also said tobacco and cocaine are judged to be equally harmful, while ecstasy and LSD are among the least damaging.
Harm score

Prof Nutt refused to leave the drugs debate when he was sacked from his official post by the former Labour Home Secretary, Alan Johnson.

He went on to form the Independent Scientific Committee on Drugs, a body which aims to investigate the drug issue without any political interference.

One of its other members is Dr Les King, another former government adviser who quit over Prof Nutt's treatment.

Members of the group, joined by two other experts, scored each drug for harms including mental and physical damage, addiction, crime and costs to the economy and communities.

Graphic comparing the harmfulness of various substances

The BBC's home editor, Mark Easton, writes in his blog that the study involved 16 criteria, including a drug's affects on users' physical and mental health, social harms including crime, "family adversities" and environmental damage, economic costs and "international damage".

The modelling exercise concluded that heroin, crack and methylamphetamine, also known as crystal meth, were the most harmful drugs to individuals, but alcohol, heroin and crack cocaine were the most harmful to society.

When the scores for both types of harm were added together, alcohol emerged as the most harmful drug, followed by heroin and crack.
'Valid and necessary'

The findings run contrary to the government's long-established drug classification system, but the paper's authors argue that their system - based on the consensus of experts - provides an accurate assessment of harm for policy makers.

"Our findings lend support to previous work in the UK and the Netherlands, confirming that the present drug classification systems have little relation to the evidence of harm," the paper says.

"They also accord with the conclusions of previous expert reports that aggressively targeting alcohol harms is a valid and necessary public health strategy."

In 2007, Prof Nutt and colleagues undertook a limited attempt to create a harm ranking system, sparking controversy over the criteria and the findings.

The new more complex system ranked alcohol three times more harmful than cocaine or tobacco. Ecstasy was ranked as causing one-eighth the harm of alcohol.

It also contradicted the Home Office's decision to make so-called legal high mephedrone a Class B drug, saying that alcohol was five times more harmful. The rankings have been published to coincide with a conference on drugs policy, organised by Prof Nutt's committee.
'Extraordinary lengths'

Prof Nutt told the BBC: "Overall, alcohol is the most harmful drug because it's so widely used.

"Crack cocaine is more addictive than alcohol but because alcohol is so widely used there are hundreds of thousands of people who crave alcohol every day, and those people will go to extraordinary lengths to get it."

He said it was important to separate harm to individuals and harm to society.

The Lancet paper written by Prof Nutt, Dr King and Dr Lawrence Phillips, does not examine the harm caused to users by taking more than one drug at a time.

Mr Partington, who is the spokesman for the Wine and Spirit Trade Association, said millions of people enjoyed alcohol "as part of a regular and enjoyable social drink".

"Clearly alcohol misuse is a problem in the country and our real fear is that, by talking in such extreme terms, Professor Nutt and his colleagues risk switching people off from considering the real issues and the real action that is needed to tackle alcohol misuse," he said.

"We are talking about a minority. We need to focus policy around that minority, which is to do with education, treatment and enforcement."

A Home Office spokesman said: "Our priorities are clear - we want to reduce drug use, crack down on drug-related crime and disorder and help addicts come off drugs for good."