25.3.08

Sotto il martello del capitalismo globale

Vita moderna Le logiche del capitale in «The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital», un libro di Massimo De Angelis per Pluto press
Massimiliano Tomba
La letteratura più avveduta considera ormai l'accumulazione originaria non come uno stadio relegabile alla protostoria del modo di produzione capitalistico, ma come basso continuo di tutta la sua storia, anche contemporanea. La questione è da un lato individuare i nuovi modi di accumulazione, dall'altro mostrare come diverse forme di sfruttamento si implicano reciprocamente: su questi due assi si articolano prospettive analitiche e politiche diverse. Confrontandosi con alcune delle più importanti interpretazioni del capitalismo contemporaneo il libro di Massimo De Angelis, The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital (London, Pluto 2007) mette in luce come l'accumulazione di capitale sia sempre giocata contro una dimensione esterna, un outside, che non è solo sopravvivenza di aree non capitalistiche, perché viene invece costantemente prodotto dalle lotte di uomini e donne contro la separazione tra mezzi di produzione e condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Contro nuove e vecchie forme di enclosure. Le analisi di De Angelis mettono in discussione gli assunti della concezione postmodernista secondo la quale il capitalismo costituirebbe una sorta di sistema totale, senza più alcun esterno rispetto ad esso. Una concezione che dà luogo a una sorta di olismo del capitale, non diversa dall'immagine della fantasmagoria delineata da Marx nel celebre capitolo del Capitale sul feticismo. De Angelis prende invece le mosse dal capitale come insieme di rapporti di produzione e come rapporto con il suo altro. Con un outside, appunto, che è risultato di una pratica comune, non solo sottrazione, ma interruzione della temporalità del valore: temporalità di atti creativi ed esperienza soggettiva della trasformazione. Un'alterità che incessantemente si produce e che il capitale, altrettanto incessantemente, cerca di sussumere. Considerando il modo di produzione capitalistico non secondo un'unica linea temporale, le enclosures vengono lette da De Angelis come «una caratteristica continua della logica del capitale». Compito primario dell'analisi è quindi cogliere la funzione centrale delle nuove forme di enclosure nel capitalismo globalizzato. Sia chiaro: questo non significa pensare - secondo una immagine ancora postmodernista - che le più diverse forme di sfruttamento e di insorgenza del lavoro vivo coesistano indifferentemente l'una accanto all'altra in una sorta di esposizione universale delle forme di sussunzione. Quella che deve essere indagata è, piuttosto, «l'articolazione globale di una molteplicità di tecniche e strategie: dallo schiavismo al lavoro salariato, dal lavoro non pagato di riproduzione al lavoro temporaneo post-fordista», dalle produzioni nel cosiddetto terzo mondo alle produzioni del capitalismo high-tech. Una politica di liberazione deve oggi affrontare l'articolazione di queste diverse tipologie nella gerarchia globale dei salari e delle forme di sfruttamento. Non solo il mondo non è una superficie omogenea di forme equivalenti, ma una politica di emancipazione deve seriamente porsi il problema del «superamento di questa articolazione, che tende a dividere la società globale» e a metterne in competizione i diversi segmenti. Importante diventa allora la questione di uno spazio che renda possibili concrete pratiche soggettive, capaci di costituirsi comel'outside del capitale. L'attenzione di De Angelis si sposta con ciò alle nuove forme di insorgenza, cercando di coglierne l'elemento comune. Il conatus verso l'auto-conservazione può fungere da collettore. Permette forse di trovare un punto di convergenza tra lotte oggi ancora nefastamente contrapposte come le lotte per la difesa dell'ambiente e quelle del lavoro, là dove invece proprio la questione delle nuove e vecchie forme di nocività legate al lavoro impone di riarticolare battaglie concrete contro la nocività dentro e fuori ai luoghi di lavoro. Il martello dell'industrializzazione, per usare un'immagine di Joel Kovel (The Enemy of Nature: The End of Capitalism or the End of the World?, Zed Books, 2002) devasta anche la natura umana, assorbendo il tempo di vita nel tempo di lavoro. Sempre più figure lavorative, precarie e non, sono costrette a subire una sempre maggiore indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Contemporaneamente anche le funzioni biologiche dell'essere umano sono diventate oggetto di enclosure: viene privatizzata l'acqua che dobbiamo bere e, in molte metropoli occidentali, siamo costretti a pagare per il privilegio di evacuarla.
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21.3.08

Da Kossi Komla-Ebri storie di vite migranti

Velio Abati

«Indefinibile malinconia quel fuoco che arde sotto le ceneri del vivere quotidiano in terra straniera. Quel sempre sentirsi nessuno. Peggio, non esistere: percepire gli sguardi, curiosi, irritati o compassionevoli scivolarti addosso come se fossi un'ombra»: così scrive in Vita e sogni. Racconti in concerto (Edizioni dell'Arco, pp. 111, euro 6,90) Kossi Komla-Ebri, emigrato togolese, da anni medico a Erba, esponente impegnato della prima generazione di scrittori immigrati in lingua italiana. Tra gli animatori della rivista online «El ghibli» (www.el-ghibli. provincia.bologna.it), e autore tra l'altro di una fortunata raccolta di racconti, Imbarazzismi, più volte ristampata dalle Edizioni dell'Arco, Kossi guarda con una certa impazienza alle sollecitazioni di quei critici che chiedono alla «letteratura della migrazione» di «rinnovare l'italiano», e preferisce mettere in scena una polifonia dissonante di condizioni umane tratte dalla sua esperienza. Ora a parlare è un io molto vicino alla biografia dell'autore: «Ho vissuto la mia infanzia sotto il peso dei secchi d'acqua e dei carichi di legno, contorcendo il collo, a piedi nudi nella sabbia calda, una scatola di Nestlé come pallone di cuoio perché certamente Babbo Natale aveva perso la bussola passando il Mar Mediterraneo e il suo carro trascinato dalle renne si era insabbiato nelle dune del Ténéré...». Ora è invece la seconda generazione d'immigrati a presentare la doppia estraneità tra padri e figli: «A me papà della tua Africa non me ne frega niente!... per anni mi avete rotto le scatole con i vostri sogni, i vostri ricordi, i vostri sacrifici. Ma che volete da me? Non ho mica chiesto io di nascere!... Sì, mamma, so che non mi è permesso parlarvi così, so che è contro le tradizioni, che è un modo di fare dei piccoli bianchi come dite voi». Ma le voci narranti non si limitano ad allargare la cittadinanza della lingua di Dante al vissuto meticcio del migrante e del clandestino. Inseguendo il rimosso occultato al passaggio di frontiera, Kossi dà vita qui - nella lingua italiana delle nostre case - alle tragedie che lo spettacolo rassicurante delle notizie serali proclama non appartenerci, così come avviene nel racconto sui bambini soldato, che «mutilavano con il machete i collaboratori dell'esercito regolare... e in stato di perenne eccitazione a causa delle droghe, ai posti di blocco coi mitra puntati si divertivano a umiliare i passanti, anche gli adulti e i vecchi»
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13.3.08

Analfabeti d’Italia

di Tullio De Mauro (Internazionale)

Un’analisi terrorizzante della capacità degli italiani di comprendere ciò che viene scritto e detto. Un pericolo per la democrazia?

"Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea. Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving. I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.
Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente? No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.
È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni - dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione - leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo v poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza”; leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.
L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59.2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente". Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica".

7.3.08

La spia che venne dal web

Software di governo per investigare nei computer dei cittadiniSui mezzi che autorità di mezzo mondo usano per spiare nei Pc dei cittadini c'è stato poco controllo, finora. Ma dopo una sentenza della suprema corte tedesca qualcosa potrebbe cambiare
Carola Frediani
Se si potesse scaricare una legge nel proprio ordinamento così come si aggiorna l'antivirus del computer, milioni di utenti internet nel mondo dovrebbero correre a fare il download di una recente decisione della Corte costituzionale tedesca. Come ha giù documentato questo giornale (vedi il manifesto del 28 febbraio scorso), l'organo di controllo della carta fondamentale della Germania ha infatti piantato dei solidi paletti intorno al potere dello stato di spiare, sia pure a scopo investigativo, l'utilizzo del pc da parte dei cittadini. Ma come funziona di fatto questo spionaggio, a cui ricorrono governi di mezzo mondo? Si tratta di un monitoraggio che la polizia o le forze di intelligence sono in grado di eseguire da remoto, «sparando» nei dischi fissi dei sospettati alcuni programmi spia (spyware) capaci di rilevare le attività svolte. In pratica, gli investigatori di turno si servono, come dei novelli Ulisse, di appositi cavalli di Troia (trojan), ovvero di programmi malevoli che travisano la propria identità sotto le spoglie di un'innocente email o nascondendosi in una pagina web. Strumenti non molto diversi da quelli utilizzati quotidianamente dai cyber-criminali di tutto il globo; con la differenza che i mandanti sono in questo caso dei corpi dello stato. «E' l'unico modo per fare intercettazioni quando si ha a che fare con siti cifrati, sistemi di anonimizzazione, ma anche con Skype», ci spiega Matteo Flora, esperto di sicurezza informatica. «Siccome in questi casi è come se i dati fossero spediti dentro dei pacchi chiusi col lucchetto, il solo sistema per conoscerli è andare direttamente alla fonte, dentro il Pc, prima che avvenga la cifratura». E se Berlino - e forse non per caso, visto il ricordo della Gestapo e della Stasi - va controcorrente, nel resto del mondo è già difficile sapere se lo stato utilizza simili strumenti o meno. Da tempo si ipotizzava che l'Fbi inviasse software malevolo per sorvegliare di nascosto i sospettati. Tuttavia il primo caso documentato è venuto alla luce solo la scorsa estate, quando si è scoperto che l'agenzia investigativa aveva utilizzato spyware per smascherare un quindicenne con la mania dei falsi allarme bomba. Il programma di monitoraggio - nome in codice Cipav - era stato spedito al ragazzo attraverso il sistema di messaggistica di MySpace, che permette di incorporare immagini e codice html, e quindi di far eseguire dei comandi all'ignaro destinatario. Ma i federali avrebbero potuto sfruttare anche uno dei tanti «bachi» che rodono i nostri browser bucherellandoli come gruviera. Una di quelle vulnerabilità che ancora non sono state divulgate al resto del mondo, in gergo Zero Day, ampiamente rivelate, a pagamento, sul mercato nero; e che chiunque può sfruttare per eseguire dei comandi su una macchina altrui. Quanto all'Italia, «di sicuro non esiste un protocollo d'intercettazione che dica di non usare trojan» commenta Flora. «D'altra parte certe comunicazioni possono essere agganciate solo attraverso questi sistemi». Quasi certo, dunque, che si usino anche da noi. Dopo tutto, le intercettazioni e le password sono le nuove frontiere digitali, luoghi in cui vige ancora il Far West. Lo dimostra una recente sentenza americana che ha difeso il diritto a non rivelare la propria parola d'ordine digitale.«Ora sono arrivati i giudici federali tedeschi a specificare che i dati conservati o scambiati attraverso un computer sono protetti dal diritto costituzionale alla privacy personale. E che quindi andare segretamente a frugare nel sistema informatico di un cittadino può essere concesso solo di fronte alla prova di una minaccia reale come il rischio di una vita umana o la sopravvivenza dello stato; e, soprattutto, soltanto dopo aver ottenuto l'approvazione di un magistrato. In questo modo la Corte tedesca ha ancorato i computer dei suoi concittadini, inclusi gli apparecchi più mobili e senza fili, alle mura domestiche: il cyberspazio di una persona diventa infatti inviolabile quanto la sua casa. E le ripercussioni della decisione potrebbero superare i confini tedeschi.«E' una sentenza molto importante - spiega l'ex Garante della privacy, il professor Stefano Rodotà. Innanzitutto perché, in un periodo in cui i diritti fondamentali sono sempre più sacrificati in nome della sicurezza, questo pronunciamento va in controtendenza. E in secondo luogo perché proviene da una Corte che da anni si sforza di legare la tutela dei dati a quella della persona, e ora ha esteso questo principio agli strumenti informatici».Insomma, conclude il giurista, considerata la grande storia che sta alle spalle dei giudici tedeschi, la loro sentenza dovrà far ripensare tutta l'Europa.
freddy@totem.to
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2.3.08

Pagine per giovani lettori riluttanti

Due recenti romanzi, «Oh, boy!» di Marie Aude Murail e il «Diario di una schiappa» di Jeff Kinney, presentano agli adolescenti un mondo che per fortuna non coincide cone le fosche visioni degli atei devoti
Francesca Lazzarato
Nell' Italia della Binetti, di Ratzinger e di Ferrara, avvolta nelle nubi di una nuova e dissennata Controriforma e di una vecchia e tenacissima ipocrisia, un'iniziativa del genere sarebbe probabilmente impensabile, ma in Francia esiste da otto anni, senza suscitare censure o particolari imbarazzi: è il sito HomoEdu (homoedu.free.france), gestito da un collettivo di insegnanti intenzionati a fornire a colleghi e genitori, qualunque sia il loro orientamento sessuale, strumenti pedagogici per una educazione antiomofoba e rispettosa della altersexualité, ossia della sessualità non strettamente etero.Ricco di notizie, bibliografie e proposte, animato da continui dibattiti, HomoEdu si occupa anche di libri per bambini recensiti in modo puntuale da Lionel Labosse, e compila fra l'altro una lista di testi consigliati, gli «Isidor», che permettono di affrontare l'argomento attraverso racconti, romanzi, album illustrati o poemetti incantevoli come Medhi met du rouge à lévres di David Dumortier (Cheyne 2006), in cui uno dei migliori fra i giovani poeti francesi racconta con commovente semplicità la storia di un bambino che sin da piccolissimo percepisce se stesso come una bambina.Si tratta di libri spesso eccellenti e che quasi mai sono arrivati fino al pubblico italiano, specie a quello adolescente. È per questo che l'uscita di un romanzo come Oh boy! di Marie Aude Murail (Giunti, pp.187, euro 11,90) non può non incuriosire e perfino consolare, come una rondine che magari non farà primavera, ma che intanto si è magicamente materializzata sugli scaffali delle librerie.Neanche a dirlo, Oh boy! è proprio uno degli Isidor, entusiasticamente proposto da HomoEdu come un piccolo classico - in Francia è uscito nel 2000 - adorato dai lettori giovanissimi, e con ragione; si tratta infatti di un romanzo squisitamente scritto (la Murail è una delle migliori autrici francesi per ragazzi, attentissima allo stile e alla forma) e soprattutto capace di trattare una serie di argomenti tutt'altro che lievi con una sana noncuranza per il politically correct e un delizioso umorismo da commedia brillante, in tutto degno dell'epigrafe di Romain Gary che precede il primo capitolo: «L'ironia è una dichiarazione di dignità, un'affermazione della superiorità dell'uomo su ciò che gli capita». Parafrasando il Mark Twain di Huckleberry Finn, si potrebbe aggiungere che «chiunque sia tentato di considerare questo libro come un romanzo a tesi verrà punito a termini di legge», perché la storia di Venise, Morgane e Siméon Morlevent (abbandonati dal padre e orfani di una madre che si è suicidata bevendo l'Anitra WC) rifiuta l'idea stessa di proporsi come testo militante. Si limita invece a raccontare la vita com'è, affrontando la storia di due bambine e un ragazzo che si ritrovano soli al mondo, chiusi in un orfanotrofio da cui usciranno solo se qualcuno deciderà di prendersene cura: per esempio una sorellastra omofoba che vuole adottare solo la piccola Venise (incantevole biondina e fanatica collezionista di Barbie), o l'effervescente Bart, il fratellastro gay promiscuo e scriteriato, inizialmente inorridito all'idea di occuparsi dei piccoli e ignoti parenti.La storia si complica con la malattia di Siméon, e riusciti personaggi di contorno si affacciano a movimentarla: una giudice tutelare sognatrice e cioccolatomane, una vicina maltrattata (e poi felicemente vedova di un marito rappresentante di biancheria intima, morto lasciando dietro di sé «più reggiseni che rimpianti»), un medico affascinante e riservato che alla fine cederà al fascino di Bart. E così, nonostante l'acida sorellastra noti a ogni pié sospinto che «un omosessuale non può crescere dei bambini», i Morlevent diventeranno una famiglia nata da una scelta e da un incontro che li ha cambiati, fondata su affetto, solidarietà, litigi, tolleranza. Una famiglia uguale a tutte le altre e giustamente diversa da tutte le altre, una delle tante famiglie possibili in un mondo che non coincide con le cupe visioni di atei devoti e papi tedeschi.Se confrontato con la corrente produzione per adolescenti, il romanzo della Murail (piacevole anche per gli adulti) indica una strada da percorrere: quella che vede i giovani lettori come esseri capaci di ragionare e di trarre da soli le proprie conclusioni, piuttosto che come consumatori da lusingare proponendo loro libri e spettacoli oltraggiosamente sciatti e semplificati all'eccesso, in cui l'orizzonte si restringe sino a coincidere con le dimensioni di uno specchio dove contemplarsi all'infinito.Di diversa impostazione, ma gradevole e adatto a ragazzi un po' più giovani è Diario di una schiappa di Jeff Kinney (Il Castoro, pp. 217, euro 11), un libro che negli Stati Uniti è diventato un caso: pubblicato meno di un anno fa, ha occupato il primo posto nelle classifiche del «New York Times» per quaranta settimane. Scritto a stampatello su pagine che simulano un quaderno a righe e punteggiato di vignette, potrebbe far pensare a una quasi-graphic novel per undicenni, e racconta con linguaggio sintetico la vita di un antieroe imbranato e per nulla «popolare», che si destreggia tra i bulli da cui la sua scuola (come le nostre) è piena, l'amico del cuore un po' tonto, il fratello maggiore pronto a fare scherzi vagamente sadici, i genitori irragionevoli.Un testo adatto a lettori «riluttanti» o desiderosi di confrontarsi con un personaggio che conosce le loro difficoltà quotidiane e riesce comunque a crescere e a non perdere il senso dell'umorismo come il mitico Adrian Mole di Susan Tonwsend, capostipite irraggiungibile dei diari di questo tipo. E non va dimenticato che il libro è nato in rete, perché l'autore ha cominciato a raccontare le avventure di Greg, il protagonista, su un sito per ragazzi (funbrain.com/journal/Journal.html). Si calcola che quasi quaranta milioni di ragazzi abbiano letto in video Il diario di una schiappa, il che dovrebbe far riflettere sul presunto abbandono della lettura da parte dei preadolescenti: leggere non è per forza un'attività legata alle pagine di un libro, ed è ora di prenderne atto. Lo spontaneo successo ha convinto Kinney a trasferire il suo antieroe su carta stampata, riscuotendo consensi straordinari, segno del fatto che non sempre dietro le alte vendite c'è il doping del marketing, e che il potere della rete può farla in barba perfino a Harry Potter.
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