27.8.08

De Mauro: scuola, Sud indietro di secoli

«Magari fosse di due anni il ritardo che separa il Sud dal Nord nell'istruzione: in realtà è un ritardo epocale. Accumulato grazie a un'intera classe politica». Tullio De Mauro, linguista, intellettuale di sinistra ed ex ministro della Pubblica istruzione nel governo Amato 2, interviene nel dibattito sulle dichiarazioni del ministro Maria Stella Gelmini con un'analisi destinata a far discutere, soprattutto nell'opposizione. L'analisi è il frutto di un suo studio sui «dislivelli linguistici».
L'opposizione accusa il ministro Gelmini di bistrattare i professori del Sud. La maggioranza lo difende perché mette in luce i mali della scuola.
«La contrapposizione segue un'uscita poco felice del ministro, peraltro subito rettificata. Ma non mi pare di veder delinearsi due politiche alternative che mettano l'istruzione al centro dello sviluppo della società italiana».
Secondo l'Ocse Pisa, nel Nordest gli studenti sono sopra la media, mentre al Sud scendono a meno 70. Per il presidente dell'Invalsi Piero Cipollone, il gap equivale a un ritardo di 2 anni.
«Magari. Cipollone viene dall'Ufficio Studi di Bankitalia, raro centro d'attenzione ai problemi dell'investimento in cultura. Purtroppo lui e i sostenitori dell'ipotesi "due anni di ritardo" sono ottimisti. Il Sud conosce punte di eccellenza, certo, ma questo non c'entra. Dove gli allievi non raggiungono lo standard il ritardo non è misurabile in anni: è un ritardo epocale».
Nel suo saggio sui dislivelli linguistici, lei traccia un quadro ben più allarmante di quello descritto dalla Gelmini.
Secondo ricerche internazionali attendibili infatti un terzo degli italiani risulta completamente analfabeta e un altro terzo rischia di diventarlo.
«Con Saverio Avveduto, presidente dell'Unione Nazionale Lotta contro l'Analfabetismo, abbiamo spesso ricordato la regola del "meno cinque". Da adulti, se le conoscenza acquisite a scuola non vengono tenute attive, regrediamo di 5 anni rispetto ai livelli massimi raggiunti in gioventù. Apriamo i fascicoli dell'Istat sulla lettura e l'annuario Observa sulla cultura scientifica e scopriamo che i lettori veri sono il 30% della popolazione. Gli stili di vita e la mancanza di istituzioni adeguate (come i centri di pubblica lettura) tolgono agli adulti, anche i pochi laureati, il gusto di imparare cose nuove».
Un altro aspetto del suo saggio che colpisce è il divario tra la scuola elementare italiana — considerata «eccellente » nel confronto internazionale — e la scuola superiore. A che cosa si deve questo gap?
«A due ragioni. La prima: le famiglie riescono a seguire il cammino scolastico dei figli fino alle elementari. Poi vanno in tilt. La seconda: la scuola elementare negli anni Ottanta ha conosciuto una profonda riforma di contenuti e metodi, probabilmente l'unica, realizzata dal ministro democristiano Franca Falcucci mediante un grande ciclo di ri-formazione degli insegnanti elementari».
E per la scuola superiore?
«Tanto chiasso, ma nessuna riforma è mai stata realizzata, anche se nell'opinione pubblica si è fissata l'idea che di riforme ne siano state fatte a decine. Proprio no: salvo sperimentazioni e tentativi, la scuola superiore è rimasta ferma alla riforma Gentile».
Che cosa servirebbe?
«Innanzitutto un sistema di istruzione permanente degli adulti. Inoltre la diffusione di biblioteche e centri di lettura. Proprio come in Trentino e Val d'Aosta: guarda caso le due aree che tirano in alto i dati Ocse della scuola del Nord».
Edoardo Segantini
corriere.it

Alitalia, le insidie di un percorso

di Francesco Giavazzi

Ci sono quattro buoni motiviper cui il piano per Alitalia predisposto da Banca Intesa desta dubbi e perplessità, inducendo, pare, anche qualche membro del governo a suggerire che venga riconsiderata l’offerta di Air France sdegnosamente rifiutata quattro mesi fa. 1) Il piano rischia di costare ai contribuenti oltre un miliardo di euro, un terzo dei tagli alla scuola previsti dalla Finanziaria; 2) Gli imprenditori che dovrebbero acquisire il controllo della Nuova Alitalia corrono rischi seri: sono stati a lungo minimizzati, ma venuti al dunque non è più possibile nasconderli. Vogliamo davvero rischiare di trasferire su alcune nostre imprese, oltre che sui contribuenti, il costo del disastro di Alitalia? 3) Il piano verrebbe immediatamente impugnato dalla Ue e da quel contenzioso temo usciremmo perdenti; 4) Il piano richiede che vengano sospese le regole anti-trust, creando un precedente pericoloso per la politica della concorrenza.

La Nuova Alitalia che è nata ieri sarà un’azienda senza debiti e con molti dipendenti in meno. Gli imprenditori privati che ne sono i nuovi azionisti apportando un miliardo di euro di capitale fresco apparentemente non corrono rischi: non ereditano debiti né dipendenti in eccesso, e soprattutto hanno la quasi certezza — questa infatti è la condizione necessaria, che essi hanno giustamente preteso—di rivendere fra un anno o poco più l’azienda a Lufthansa o a un’altra compagnia internazionale, recuperando così il miliardo speso oggi, magari con qualche profitto. Quest’operazione così ben congeniata nasconde però un’insidia a mio parere non valutata in modo adeguato dai nuovi azionisti. La Nuova Alitalia acquisterà aerei, slot e altri contratti dalla vecchia azienda della Magliana che domani il Consiglio dei ministri porrà in liquidazione. I prezzi ai quali la Nuova Alitalia acquisterà queste attività determineranno se la Vecchia Alitalia sarà in condizione di far fronte ai debiti che le rimarranno. Ad esempio, due anni fa gli aerei valevano 2,2 miliardi di euro: se i nuovi azionisti accettassero di acquistarli a quel prezzo, la Vecchia Alitalia potrebbe agevolmente pagare i propri debiti e poi chiudere.

Ma dubito che i nuovi azionisti siano disposti a pagare tanto: gli aerei sono vecchi e più sale il prezzo del petrolio meno valgono. Le valutazioni internazionali suggeriscono oggi ragionevolmente un miliardo. Se così fosse la Vecchia Alitalia non avrebbe fondi sufficienti per pagare i propri debiti. I nuovi azionisti hanno richiesto una norma che li protegga dal rischio di revocatorie da parte dei creditori della Vecchia Alitalia, prova del fatto che non sono disposti a pagare molto. Che cosa accadrebbe se la Vecchia Alitalia non fosse in grado di far fronte ai propri debiti verso fornitori, banche e investitori che detengono obbligazioni della società? Una possibilità è non pagare. Due mesi fa, quando fu convertito in legge il decreto (DL 23.4.2008, n. 80) che evitò il fallimento concedendo ad Alitalia un prestito ponte di 300 milioni, il governo disse in Parlamento: «Con la presente norma si tende a salvaguardare per i prossimi dodici mesi la continuità aziendale di Alitalia... escludendo in tale lasso temporale, ogni ricorso ad ipotesi di liquidazione o di applicazione di procedure concorsuali ».

Quindi i creditori di Alitalia hanno diritto ad essere rimborsati in quanto sono protetti da una legge che escludeva esplicitamente la liquidazione o anche solo lo scorporo della società— che invece avviene oggi prima della decorrenza di dodici mesi dall’approvazione del decreto. Che lo Stato debba pagare i debiti della Vecchia Alitalia è quindi certo. Nel momento stesso in cui paga, il governo viola le norme europee sugli aiuti di Stato. Consentire la sopravvivenza di un’azienda decotta trasferendone i debiti allo Stato è un classico caso di aiuto. Una condanna di Bruxelles obbligherebbe la Nuova Alitalia a rimborsare l’aiuto impropriamente ricevuto, cioè ad accollarsi quei debiti (questo è esattamente ciò che avvenne vent’anni fa quando Alfa Romeo fu ceduta alla Fiat senza debiti —di cui si fece carico l’Iri, cioè lo Stato. Dopo la condanna di Bruxelles quei debiti tornarono in capo alla Fiat). Sono consci i nuovi azionisti del rischio in cui incorrono e dal quale evidentemente lo Stato non li può manlevare? Ma non basta. Il decreto legge n. 80 prevede: «La somma erogata ad Alitalia è rimborsata il trentesimo giorno successivo a quello della cessione o della perdita del controllo effettivo da parte del Ministero dell’economia e delle finanze». Questo comma fu inserito nel decreto proprio per evitare che il prestito ponte fosse considerato un aiuto.

Il governo ha poi trasformato il prestito in capitale, ma con una formula ambigua che ne consente la restituzione all’azionista qualora Bruxelles lo richieda. Quindi se la Vecchia Alitalia non avrà fondi sufficienti, sarebbe la Nuova Alitalia a dover rimborsare allo Stato i 300 milioni del prestito (che in cassa non ci sono più perché sono serviti a coprire le perdite dei primi mesi dell’anno). Altrimenti la controversia con Bruxelles si aggraverebbe ulteriormente. Vi è poi il problema Air One. I nuovi azionisti non vogliono la fusione fra Nuova Alitalia e Air One perché questa porterebbe nella Nuova Alitalia debiti e dipendenti di Air One. Essi vogliono semplicemente acquistare da Air One gli aerei, tutti gli slot (grazie a una sospensione delle regole anti-trust) e i contratti stipulati per la consegna di nuovi velivoli. Air One rimarrà quindi una scatola vuota, ma con molti dipendenti e 450 milioni circa di debiti: basterà la vendita di slot e aerei a far fronte ai debiti e al costo degli esuberi? Quanti debiti di Air One finiranno essi pure a carico dello Stato? Anche qui c’è un problema europeo: nel 2004, quando lo Stato rifinanziò Alitalia, Bruxelles acconsentì a patto che i nuovi fondi non fossero usati per allargare la quota di mercato: esattamente quello che oggi Alitalia fa acquisendo le attività di Air One. L’offerta di Air France non apriva problemi con Bruxelles e non costava nulla, tranne le indennità per un numero di esuberi comunque inferiore: anzi portava qualche spicciolo nelle casse dello Stato perché i francesi avrebbero pagato, seppur poco, le azioni di Alitalia.
corriere.it

21.8.08

Una scuola per l'Italia

La crisi di una istituzione

di Ernesto Galli Della Loggia

Tra neppure un mese la macchina della scuola italiana ricomincerà a macinare lezioni ed esami. Una gigantesca macchina fatta di circa un milione di dipendenti, di migliaia di edifici frequentati da milioni di studenti, pronta anche quest’anno ad allestire milioni di iniziative le più varie, a sfornare tra circolari, lettere, verbali e registri, il solito astronomico numero di tonnellate di carta. Una macchina gigantesca, appunto. Ma senz’anima: che non sa perché esiste né a che cosa serva, e che proprio perciò si dibatte da decenni in una crisi senza fine. Crisi la cui gravità non è testimoniata tanto dai pessimi risultati ottenuti dagli studenti della nostra scuola nei confronti internazionali, ma da qualcosa di più profondo e di più vero. Dal fatto che essa si sente un’istituzione inutile e in realtà lo è: apparendo tale, e dunque votata ineluttabilmente al fallimento, innanzi tutto alla coscienza dei suoi insegnanti, dei migliori soprattutto.

La scuola italiana non riesce più a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule. Non riesce più a creare o ad alimentare in chi la frequenta alcun amore o alcun rispetto, alcuna gerarchia culturale. E perciò non serve a legittimare culturalmente — e cioè ideologicamente o storicamente— più nulla: non il Paese o il suo passato, la sua tradizione, e tanto meno lo Stato, la Costituzione, il sistema politico: nulla. Si possono tranquillamente frequentare le sue aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l’azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d’intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l’esistenza. Il sintomo politico più evidente della crisi in cui versa la scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, al di là di tutte le chiacchiere di maniera, essa è ormai circondata dall’intera classe dirigente, a cominciare per l’appunto dalla classe politica.

Se il responsabile del Tesoro può impunemente tagliare i fondi destinati all’istruzione, infischiandosene di ogni possibilità di commisurare i risparmi alle esigenze di qualcuna delle ipotesi di cambiamento proposte dal volenteroso ministro Gelmini, ciò accade precisamente perché in realtà Tremonti, come tantissimi altri suoi colleghi, non sa a che cosa questa scuola possa davvero servire, e in essa non riesce a vedere altro che una macchina erogatrice e sperperatrice di risorse. Come di fatto, peraltro, essa rischia ormai di essere. La verità è che la scuola pubblica che l’Europa conosce da due secoli non è solo un sistema per impartire nozioni. Nessuna scuola autentica del resto lo è mai stata: deve impartire nozioni, come è ovvio, ma può riuscirvi solo se insieme—aggiungerei preliminarmente — è anche qualcos'altro, e cioè se al suo centro vi è un’idea, una visione generale del mondo. La scuola pubblica europea è nata intorno al compito di testimoniare un’idea del proprio Paese, i caratteri e le vicende della collettività che lo abita, sentendosi chiamata a custodire l’immagine di sé e gli scopi di una tale collettività. 

Non può esistere una scuola pubblica mondial-onusiana, una scuola italiana che parli in inglese o esperanto. Un sistema d’istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale. Questo è il punto, dunque qui sta il cuore del problema: alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell’idea d’Italia. E’ lo specchio della profonda incertezza di coloro che a vario titolo la guidano o le danno voce - i governanti, gli apparati dello Stato, gli imprenditori, gli intellettuali, l’opinione pubblica - circa il senso e il rilievo del suo passato, circa i suoi veri bisogni attuali e quello che dovrebbe essere il suo domani. Il profondo marasma della nostra scuola, il grande spazio preso in essa dal burocratismo, dalle riunioni, dalle questioni di metodo, dalle futilità docimologiche, a scapito dei contenuti, è lo specchio di un Paese che non riesce più a pensarsi come nazione da quando la sua storia ha attraversato negli anni ’60-’80 la grande tempesta della modernizzazione.

E’ da allora che l’idea del nostro passato si sta dileguando insieme alla consapevolezza dei suoi grandi tratti distintivi. E non a caso è da allora che è diventato sempre più difficile anche organizzare il presente e immaginare il futuro. Da qui, per esempio, ha tratto origine la crisi che ha colpito a suo tempo le tradizionali culture politiche della democrazia repubblicana, e sempre qui sta oggi la difficoltà di vederne sorgere di nuove. Da qui, anche, la generale sensazione d’immobilismo che abbiamo da anni, quasi che dopo il trauma della modernizzazione non sapessimo più ritrovarci, non riuscissimo più a riprendere il bandolo della nostra storia e dunque non riuscissimo più a muoverci. Negli anni ’90 la cesura che era andata producendosi nei tre decenni precedenti è venuta finalmente alla luce: ha definitivamente preso forma un’Italia nuova, ma questa Italia nuova non riesce più a pensare se stessa, non riesce più a pensarsi come un intero, come nazione, a progettare il suo futuro, perché non riesce più a incontrare il suo passato.

Riappropriarsi di questo passato e della propria tradizione per ritrovarsi: questo è il compito urgente che sta davanti al Paese che sa e che pensa. Ed è alla luce di questo compito che esso deve ripensare anche l’intera istituzione scolastica, la quale solo così potrà riavere un senso e una funzione, e sperare di tornare alla vita. Ridare profondità storico-nazionale alla scuola, ma naturalmente in vista delle esigenze che si pongono all’Italia nuova di oggi e tenendo conto dell'ambito e dei contenuti propri degli studi. E cioè, non volendo sottrarmi all’onere di qualche indicazione, mirare innanzi tutto a ricostituire culturalmente (e per ciò che riguarda l’istituzione anche organizzativamente) il rapporto centro- periferia e Nord-Sud, riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell'esperienza italiana; in secondo luogo porre al centro, ed esplorare, il nostro tormentato rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, mettendone a fuoco debolezze e punti di forza e cercando anche in questa maniera di costruirci un modo nostro di stare nei tempi nuovi, di averne l’appropriata consapevolezza senza snaturamenti e scimmiottamenti; e infine ribadire la funzione della scuola nella costruzione della personalità individuale, principalmente attraverso l’apprendimento dei saperi, delle nozioni, e la disciplina che esso comporta.

Tutto ciò facendo piazza pulita delle troppe materie e degli orari troppo lunghi che affliggono la nostra scuola, e ricentrando con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall’altro le matematiche, cioè il linguaggio generale del presente e del futuro universali. A questo punto ci si può solo chiedere: esiste un governo, esistono dei ministri in Italia? Personalmente mi ostino a pensare di sì. E a credere che ogni tanto gli capiti perfino di ascoltare i gridi di dolore, come questo, che si levano dai giornali.

corriere.it

12.8.08

Militari in strada e sindaci sceriffi: il rischio è una guerra tra poveri

IL PRESIDENTE SPAZZINO NEL "PAESE DA MARCIAPIEDE"

Bene fa il Governo a prendere provvedimenti su annosi problemi (nella foto AP/La Presse: Berlusconi a Napoli). Ma riuscirà a fugare il sospetto che quando è al potere la destra i ricchi si impinguano e le famiglie si impoveriscono?

È un "Paese da marciapiede" quello che sta consumando gli ultimi giorni di un’estate all’insegna della vacanza povera, caratterizzata da un crollo quasi del 50% delle presenze alberghiere nei luoghi di vacanza. Dopo vari contrasti tra Maroni e La Russa, sui marciapiedi delle città arrivano i soldati, stralunati ragazzi messi a fare compiti di polizia che non sanno svolgere (neanche fossimo in Angola), e vengono cacciati i mendicanti senza distinguere quelli legati ai racket dell’accattonaggio da quelli veri.

A Roma il sindaco Alemanno, che pure mostra in altri campi idee molto più avanzate di quelle che il pregiudizio antifascista gli attribuisce, caccia i poveri in giacca e cravatta anche dai cassonetti e dagli avanzi dei supermercati. Li chiamano scarti, ma lì si trovano frutta e verdura che non sono belli da esporre sui banchi di vendita. E allora se vogliamo salvare l’estetica, perché non facciamo il "banco delle occasioni", coprendo con un gesto di pietà (anche qui "estetico"), un rito che fa male alle coscienze? Nei centri Ikea lo si fa, e nessuno si scandalizza. Anzi.

Ma dai marciapiedi sparisce anche la prostituzione (sarà la volta buona?) e sarebbe ingeneroso non dare merito al Governo di aver dato ai sindaci i poteri per il decoro e la sicurezza dei propri cittadini. A patto, però, che la "creatività" dei sindaci non crei problemi istituzionali con questori e prefetti e non brilli per provvedimenti tanto ridicoli quanto inutili; e che il Governo non ci prenda gusto a scaricare su altri le sue responsabilità, come con l’uscita tardiva e improvvida (colpo di sole agostano?) della Meloni e di Gasparri, che hanno chiesto ai nostri olimpionici di non sfilare per protesta contro la Cina (il gesto forte, se ne sono capaci, lo facciano loro, i soliti politici furbetti che vogliono occupare sempre la scena senza pagare pegno!).

Tornando al "Paese da marciapiede", ha fatto bene il cardinale Martino, presidente del Pontificio consiglio per i migranti, ad approvare la lotta al racket dell’accattonaggio senza ledere il diritto di chiedere l’elemosina da parte di chi è veramente povero. Il cardinal Martino ha posto un dubbio atroce: la proibizione dell’accattonaggio serve a nascondere la povertà del Paese e l’incapacità dei governanti a trovare risposte efficaci, abituati come sono alla "politica del rattoppo", o a quella dei lustrini?

La verità è che "il Paese da marciapiede" i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del "Presidente spazzino", l’inutile "gioco dei soldatini" nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone (che, però, è meritoria, e Brunetta va incoraggiato). Ma c’è il rischio di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le "buffonate", che servono solo a riempire pagine di giornali.

Alla fine della settimana scorsa sono comparse le stime sul nostro prodotto interno lordo (Pil) e, insieme, gli indici che misurano la salute delle imprese italiane. Il Pil è allo zero, ma le nostre imprese godono di salute strepitosa, mostrando profitti che non si registravano da decenni. L’impresa cresce, l’Italia retrocede. Mentre c’è chi accumula profitti, mangiare fuori costa il 141% in più rispetto al 2001, ma i buoni mensa sono fermi da anni. L’industria vola, ma sui precari e i contratti è refrattaria. La ricchezza c’è, ma per le famiglie è solo un miraggio. Un sondaggio sul tesoretto dei pensionati che sarà pubblicata su Club 3 dice che gli anziani non ce la fanno più ad aiutare i figli, o lo fanno con fatica: da risorsa sono diventati un peso.

È troppo chiedere al Governo di fugare il sospetto che quando governa la destra la forbice si allarga, così che i ricchi si impinguano e le famiglie si impoveriscono?

famiglia cristiana online

11.8.08

Le due follie

BARBARA SPINELLI
Una dichiarazione del Comitato Olimpico Internazionale, diffusa all’indomani della guerra fra Georgia e Russia, riassume molto bene l’epoca in cui viviamo e lo stato mentale che la caratterizza: stato fatto di cecità, ignoranza, stupidità militante, irresponsabilità. «Non è quello che il mondo vorrebbe in questo momento vedere», sentenzia a Pechino il Comitato, e forse non sa quanto è fedele al vocabolario dominante nei governi e nei giornali d’Occidente. Anch’essi non vogliono guardare quel che accade e di conseguenza non lo vedono: non da oggi, ma da decenni. Ci si dichiara delusi, traditi, come se le Olimpiadi non fossero state questo sempre, dalle tirannidi greche antiche fino ai Giochi di Hitler nel ’36: un intreccio di bellezza estatica e di brutture, un fascinoso mito d’armonia poggiato sul duro pavimento di realtà fratricide. Le Olimpiadi sono sempre state un mondo parallelo, e lungo i millenni non hanno mai sostituito il mondo effettivo anche se ne hanno raffigurato le illusioni: l’umanità naviga triste verso lidi di felicità fittizia nelle odi di Pindaro come nella modernità. Le Olimpiadi del 2008 non sono state infangate. La stupidità umana è un fango che precede il mito anche quando se ne nutre, e la caucasica guerra estiva lo conferma: non si può neppure escludere che i bellissimi simboli d’unità a Pechino siano un’immagine insopportabile per il cuore geloso di Mosca, che vede l’impero cinese affermarsi e il proprio degenerare. Al momento tuttavia Putin sembra vincente. La Georgia non pare aver ripreso i territori che ritiene suoi e si ritira, Washington che era il principale alleato di Tbilisi cerca di negoziare soluzioni Onu accettabili per Putin. Vacilla infine la strategia occidentale alle periferie russe: l’incorporazione nella Nato di Georgia e Ucraina s’allontana.Sono quasi vent’anni che non vediamo, non ci prepariamo, non pensiamo veramente la fine dell’impero sovietico. Quest’intermezzo era colmo di premonizioni ma l’abbiamo traversato con occhi bendati e idee defunte: con reminiscenze di Hitler e dei cedimenti democratici del ’38, con lo spirito resuscitato del ’14-’18 e dell’autodeterminazione dei popoli. In questi anni la mondializzazione ha messo le radici, accelerata da Cina e India, ma nessuno strumento è stato apprestato per governarla. L’unica bussola resta il predominio unilaterale americano, la sua presenza sempre più estesa in zone strategiche ricche di petrolio e gasdotti. L’unica lente attraverso cui si guarda il reale è quella dell’equilibrio delle potenze, della balance of power che gioca un nazionalismo contro l’altro. Clinton non è Bush junior ma il suo atteggiamento, come quello di Bush padre, non fu diverso. La fame di controllo sul Caucaso ha accomunato tre presidenze Usa, spegnendo i primi passi russi verso il post-nazionalismo e accrescendo nei suoi dirigenti il senso di umiliazione, offesa, risentimento.In questa vecchia politica si mescolavano due ideologie. La prima immaginava un mercato mondializzato che poteva fare a meno della politica proprio mentre si moltiplicavano nel mondo conflitti più che mai politici su risorse e petrolio. La guerra in Iraq è stata l’acme del Grande Gioco attorno alle risorse, cui si sono aggiunte le interferenze nel Caucaso, la Nato usata come gingillo di potenza, le basi militari insediate in Asia centrale durante le guerre anti-terrore. La seconda ideologia è il nazionalismo etnico, che è riemerso nel pensiero occidentale cancellando la lezione di due guerre mondiali catastrofiche. L’aggressione serba contro i separatismi jugoslavi è sfociata in una guerra che ha visto l’Occidente intervenire a giusto titolo per evitare carneficine ma senza idea alcuna sulle società multietniche da ricostruire. I cedimenti mentali si sono susseguiti: si cominciò con l’appoggio a nazioni omogenee (l’accordo di Dayton suddivise la Bosnia in tre clan etnici) e si finì con il beneplacito alla secessione del Kosovo nel 2008. La sconfitta Usa ed europea ha inizio allora: se il mondo ragiona come nel ’14, non stupisce che anche Putin manipoli le etnie a proprio vantaggio. Ora ci si indigna tutti sorpresi, ma quel che succede è una logica conseguenza di queste resuscitate idee defunte. E non voler vedere serve a poco, perché il non-visto esiste pur sempre e non eclissa colpe, omissioni, follie che sono di tutti. Non eclissa innanzitutto le colpe del Presidente georgiano, al potere dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Il regista Otar Iosseliani, intervistato da La Repubblica, lo chiama «un folle, nel senso letterale del termine»: «Siamo nelle mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al suo delirio di onnipotenza. È evidente che si è fatto prendere dal panico, abboccando alle provocazioni della Russia». Non meno folle è Putin, «anche se molto più intelligente»: non vuol rassegnarsi alla perdita dell’Urss, non ha mai accettato la sovranità della Georgia. Sono anni che eccita Abkhazia e Ossezia del Sud, ai confini georgiani, russificandole. Quasi tutti gli osseti del Sud hanno ottenuto in questi anni passaporti da Mosca e da Mosca sono tutelati.Una debole tregua era stata instaurata, ai tempi di Shevardnadze presidente georgiano ed ex ministro degli Esteri di Gorbaciov. Truppe di interposizione erano state schierate nella regione - sulla base d’un accordo russo-georgiano stipulato il 24 giugno ‘92 - composte da russi, georgiani, osseti. È questo ordine che il nuovo presidente georgiano ha violato, aggredendo l’Ossezia del Sud e ignorando due referendum favorevoli all’indipendenza. È probabile non abbia agito da solo, e che nella sua follia ci sia del metodo. È il metodo di chi si sente spalleggiato, se non istigato. Alle sue spalle c’è un’America che mira a un’egemonia senza saperla esercitare; che da anni addestra militari georgiani, finanzia il nazionalismo di Tbilisi, promette l’adesione alla Nato più per accendere incendi che per spegnerli. È la crescente presenza Usa nel Caucaso e in Asia centrale che ha spinto anche il Cremlino alla follia. Senza l’appoggio Usa, Saakashvili sarebbe stato meno avventurista. Il suo metodo è l’attacco bellicoso, visto come sostituto della politica. Nato e Unione Europea sono per lui non strumenti di pacificazione, ma attrezzi di guerra.Infine c’è l’irresponsabilità, vasta, dell’Europa. Sono anni che alle sue periferie si guerreggia, e ancora non ha preso forma un pensiero forte, convincente per Mosca e le nazioni che per secoli erano nella sfera d’influenza russa. Fra l’offerta d’adesione e l’indifferenza c’è il nulla, e il continuo tergiversare facilita ogni sorta di provocazioni. Non solo: l’adesione è offerta sbadatamente, dimenticando le radici ideali dell’Unione. Si appoggia la sovranità georgiana, ma senza spiegare che la sovranità in Europa non è più assoluta. Si permette al leader georgiano di usare la bandiera europea, e di stravolgerla. Per Saakashvili essa è un arma, più che un ponte. La cultura dell’Unione è del tutto assente nel suo ragionare, e di simile ignoranza gli europei non sono incolpevoli. A Tbilisi come a tanti dirigenti dell’Est non è stato detto che nazionalismo e irredentismo non sono più di casa nella comunità europea, né le Riconquiste che violano tregue. Putin non è d’accordo ma lui, almeno, non sventola la bandiera dell’Unione quando parla. Iosseliani ne è certo: «L’esercito georgiano è convinto di poter vincere, perché immagina di avere alle spalle la comunità internazionale e perché la comunità internazionale lo ha illuso. Così la Georgia si trasformerà in una piazza d’armi che si estenderà all’Abkhazia e poi all’Ucraina, e dove si combatteranno indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti». La guerra è ancora in corso, anche se la sua macchina magari si fermerà un po’. Al posto di guida, intanto, c’è la forza di Putin: forza militare, forza di ricatto energetico, forza di chi scruta il nostro vuoto e non è portato a far altro che profittarne.
lastampa.it

10.8.08

Un progetto che riunisca

ROSSANA ROSSANDA
Siamo a uno dei punti più bassi della nostra storia: Alberto Asor Rosa ha ragione. Siamo a una crisi intellettuale e morale degli italiani - metà dei quali hanno votato per la terza volta una banda di affaristi ex fascisti e separatisti e l'altra metà si è divisa. Occorre dunque, scrive Asor, un soggetto politico nuovo, pulito e con un'idea di nazione che guardi a sinistra e non insegua fisime comuniste. Nel documento del Crs, Mario Tronti diceva qualcosa di analogo precisando che deve essere una grande forza popolare. Non che mi piaccia essere una fisima, ma pazienza. Però, allo stato delle cose, non vedo dove questa forza politica sia. Veltroni direbbe: ma come, quella forza sono io, e il Pd. Abbiamo il 34 per cento dei voti, non siamo una combriccola di affaristi, abbiamo un'ipotesi riformista e una moderna icona morale in Robert Kennedy, abbiamo chiuso con ogni tipo di comunismo. Già, solo che l'opposizione a Berlusconi il Partito democratico non la sta facendo. Solo che raramente si è veduto un partito di sinistra così monocratico e poco popolare, se per democratico e popolare si intende un minimo di democrazia partecipata. Solo che, per dirla tutta, che cosa sia il Pd non si è capito ancora: gli avevano dato vita la Margherita e i Ds, ma della Margherita mancano ormai Prodi e Parisi, e Rosi Bindi sembra tenere più per coerenza che per persuasione. Neanche i Ds sembrano un blocco: D'Alema giura per il Partito democratico ma la sua fondazione ha accenti alquanto diversi da quelli di Veltroni. Chi può giurare che al primo congresso questa chimera diventi un animale affidabile?Fuori del Pd le cose non vanno meglio. La frettolosa coalizione della sinistra Arcobaleno è stata addirittura espulsa dal Parlamento, il suo proprio elettorato avendole giurato vendetta per essersi fatta trascinare nell'avventura di governo. La Sinistra democratica di Mussi ha perduto qualche foglia invece che guadagnarne. I Verdi lo stesso. Rifondazione si è spaccata in due tronconi che neppure si parlano: la maggioranza di Ferrero punta tutto sul conflitto sociale dal basso, la minoranza di Niki Vendola su una raccolta di aree radicali fra le quali quella comunista potrebbe essere una cultura fra le altre, dell'ambientalismo che è più vasto dei Verdi, del femminismo, dei movimenti.Non vedo perciò, allo stato dei fatti, un soggetto in grado di fare fronte alla slavina di destra. Vedo una quantità di orfani che vorrebbero questo soggetto ma sui quali da diversi anni passano grandinate che li disperdono vieppiù. Ma qual è la causa delle grandinate? Sta soltanto nella risolutezza e la sfacciataggine di Berlusconi? Non credo. La banda che ci governa ripete esattamente forme, metodi e misure di tutti gli esecutivi europei dagli anni '80: la potente spinta alla disuguaglianza, all'arricchimento di pochi, all'impoverimento dei più, cioè l'ondata neoliberista che ha seguito i «trent'anni gloriosi». È una ripresa della linea che era già stata sconfitta in Europa e negli Usa dopo gli anni '20. Ma ora, osserva Asor, essa è già arrivata a un punto morto. Vero, ma non per la forza della sinistra. È nei guai con se stessa. Dal liberismo si oscilla al protezionismo, dal mercato unico alle guerre commerciali simili a quelle del XIXmo secolo - ecco dove stiamo ritornando. Gli Stati uniti hanno l'egemonia militare ma non più economica; questa gli è contestata dalla Cina e dall'India in poderosa crescita. E l'arroganza di Bush ha infilato la sua supremazia militare nella trappola del Medio oriente, mentre l'Europa è insabbiata in una moneta relativamente forte, in un'economia debolissima e in un'iniziativa politica pari a zero. Questo è il quadro cui siamo davanti. Crediamo davvero che si potrà batterlo con i conflitti sociali dal basso o con l'adunata dei renitenti al veltronismo? Non lo penso. Se vogliamo non solo battere Berlusconi ma dirci dove l'Italia può andare, su quali basi si può ricostruirne una fisionomia intellettuale e morale bisognerà pur passare dalle proteste divise e poco comunicanti a un progetto capace di credibilità, persuasione e mobilitazione. Per questo non serve il Partito democratico, che del liberismo condivide gli orizzonti, né bastano le due anime di Rifondazione: la vastità dell'impegno implica una raccolta di forze che vada molto oltre la sinistra Arcobaleno e la natura dell'impresa implica una dimensione del conflitto che non si risolve dal basso. Del resto, qual è il basso della globalizzazione?E qui torna la mia fissazione: se siamo, come credo, una tessera di una tendenza mondiale, prima di tutto ad essa dobbiamo dare un nome e di essa definire la mappa. Il nome è il capitalismo dall'ultimo quarto del Novecento agli inizi del Duemila. La mappa è quella dell'intero pianeta. Finiamo di balbettare che tutto è cambiato e perciò niente si può dire, e cominciamo a precisare che cosa questo capitalismo è diventato. Non ci sono più vittorie puramente locali contro di esso. Come i dipendenti di una fabbrica non possono battersi da soli contro la delocalizzazione dell'azienda così un paese europeo non può battersi da solo contro la recessione, quali che siano le pensate protezioniste di Tremonti. Ma quando alla crisi delle classi dirigenti si somma il caos della sinistra il rischio è di essere trascinati via tutti. Può questo rischio trasformarsi in occasione? Questa è a mio avviso la domanda vera. Credo che sì, per l'ampiezza dei soggetti coinvolti e per la profondità non solo materiale e pecuniaria del disastro ma appunto intellettuale e morale - non è per caso che all'apatia culturale dell'Occidente ormai non si oppongano che nazionalismi o fondamentalismi.Ma nel medio termine temo che non si possa dare una parola d'ordine rivoluzionaria, almeno nel senso che abbiamo dato a questa parola fino a poco tempo fa: l'esito del '68 dimostra quanto eravamo già arretrati e quel che è seguito all'89 impedisce anche ai più ostinati di sognare una riedizione dei socialismi reali. Ma la sofferenza sociale e l'ampiezza delle ineguaglianze sono diventate così forti da rendere fragile la stessa tenuta e coesione di ogni singolo paese. Non è con le riforme istituzionali che si può aggiustare la baracca. Potrebbe essere aggiustata, per difficile che sia, con una inversione di tendenza: un intervento che restituisca il primato alla politica piuttosto che ai meccanismi dell'economia, che dia luogo a linee di sviluppo, incluso uno «sviluppo di decrescita», che ridistribuisca la ricchezza a sfavore delle zone forti e a favore di quelle deboli, che decida il taglio dei privilegi sociali, il rilancio su un piano mondiale dei mercati interni (l'impossibilità di procedere del Wto parla chiaro). Non sarà un'operazione indolore, ma può non essere impossibile. Chi non si ritroverebbe in questo progetto? Soltanto i boss delle stock option d'oro. Non sarà la rivoluzione, ma oggi come oggi sarebbe certamente una rivoluzione culturale.
ilmanifesto.it

Cominciò con Stalin il risiko delle etnie

Il dramma degli osseti
I bollettini della guerra caucasica annunciano che una bomba osseta avrebbe colpito la piccola casa di Gori dove nacque nel 1879 il «meraviglioso georgiano» (così lo chiamò Lenin quando lo conobbe a Vienna nei primi anni del Novecento) che passò alla storia con il nome di Stalin. Mai bomba è stata altrettanto mirata e «intelligente». Nella guerra scoppiata in questi giorni fra Mosca e Tbilisi, l’ombra di Jozif Vissarionovic Dzhugashvili domina, come quella di Banquo nel Macbeth di Shakespeare, il tavolo dei negoziati e il campo di battaglia. La geografia politica delle etnie sovietiche fu il suo capolavoro. Quando Lenin, dopo la fine della guerra civile, lo incaricò di sciogliere l’imbrogliato nodo delle cento nazionalità che vivevano nell’impero degli zar, Stalin si dedicò anzitutto al Caucaso meridionale e mise fine con una spedizione militare all’indipendenza del Paese in cui era nato. Era il 1921. Un anno dopo sottopose a Lenin il progetto di uno Stato federale bolscevico di cui avrebbero fatto parte quattro repubbliche: Russia, Ucraina, Bielorussia e una entità nuova, chiamata Transcaucasia, in cui vennero riunite l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian. Quattordici anni dopo, nel 1936, una nuova costituzione staliniana rimaneggiò la carta geografica. La Repubblica Transcaucasica fu divisa nelle sue tre componenti e vennero istituite undici repubbliche (Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan e Kirghizistan) a cui furono aggiunti, dopo il patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939, i tre gioielli del Baltico (Estonia, Lettonia, Lituania) e, con il nome di Moldavia, la Bessarabia romena. Cambiavano i nomi e i confini, ma la strategia di Stalin era sempre la stessa. Per realizzare il «socialismo in un solo Paese» occorreva creare uno Stato pseudo-federale in cui tutte le repubbliche fossero eguali (ma una, la Russia, più eguale delle altre) e in cui i poteri fossero apparentemente decentrati, ma sostanzialmente concentrati nelle mani del partito comunista e del suo segretario generale. Per prevenire ciò che era accaduto dopo la rivoluzione bolscevica, quando molte regioni avevano proclamato la loro indipendenza, Stalin disegnò le repubbliche in modo da evitare che fossero etnicamente omogenee. Non bastava che il vero potere fosse soltanto a Mosca. Occorreva creare all’interno di ogni repubblica potenziali conflitti che avrebbero conferito al segretario generale del partito la funzione di arbitro supremo. Il caso della Georgia è esemplare. La maggioranza del Paese è georgiana, ma entro i confini dello Stato esistono tre repubbliche autonome, create dal potere sovietico: Abkhazia, Agiaristan, Ossezia. E per evitare che le popolazioni musulmane sulla frontiera nord-orientale della Georgia divenissero troppo potenti, l’Ossezia fu divisa in due tronconi: quello meridionale fu «domiciliato» in Georgia e quello settentrionale assegnato alla Repubblica autonoma dei ceceni-ingusceti. Da allora le due Ossezie hanno svolto a nord e a sud della frontiera repubblicana lo stesso ruolo. Sono una quinta colonna fedele alla Russia in terre potenzialmente animate da spirito secessionista. Il mio primo incontro con gli osseti fu a Mosca, nel settembre del 1991, dopo il fallimento del putsch con cui il «gruppo degli 8» cercò di estromettere Boris Eltsin dalla presidenza della Repubblica russa. Attraversavo piazza Pushkin quando vidi, di fronte al monumento dello scrittore, un semicerchio di donne vestite di nero che mostravano ai passanti i ritratti dei figli, dei padri, dei fratelli e dei mariti. Qualche settimana prima, mentre il generale Dudaev s’impadroniva del potere a Grozny, capitale della Cecenia, i «cugini» ingusceti erano insorti per riprendersi le case che il potere sovietico aveva assegnato agli osseti del nord dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Punite dal potere sovietico per avere collaborato con gli occupanti tedeschi, le popolazioni musulmane dei ceceni e degli ingusceti approfittavano della disgregazione dell’impero per saldare il conto. Gli uomini ritratti in quelle fotografie erano le vittime dei massacri che avevano avuto luogo nell’Ossezia del nord. I russi intervennero e gli ingusceti vennero duramente cacciati dalle terre di cui erano riusciti a impadronirsi. Se il lettore vuole conoscere la storia romanzata di quegli avvenimenti può leggere un romanzo di John Le Carré (La passione del suo tempo ) apparso presso Mondadori qualche anno fa. Mentre gli osseti del nord ritornavano nelle loro case, gli osseti del sud insorgevano contro la Georgia. Non volevano far parte di uno Stato che aveva proclamato qualche mese prima la propria indipendenza e invocavano l’aiuto di Mosca. Lo ottennero, naturalmente, e godono da allora di una autonomia di fatto, garantita dalle truppe russe che vennero stanziate nella regione sotto l’egida dell’Osce (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) dopo la fine delle guerre (una stessa crisi scoppiò in Abkhazia) combattute durante gli anni Novanta. Nonostante tensioni ricorrenti, la situazione rimase relativamente stabile sino a quando il presidente della Georgia fu Eduard Shevardnadze, ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica all’epoca di Gorbaciov. Shevardnadze era georgiano e patriota, ma aveva una vecchia familiarità con il potere russo e conosceva i limiti che la Georgia non poteva oltrepassare senza gravi rischi. La situazione cambiò nel 2004 quando un giovane georgiano si mise alla testa di una insurrezione popolare e cacciò ignominiosamente il vecchio Shevardnadze dall’aula tumultuante del parlamento di Tbilisi. Mikhail Saakashvili ha quarantuno anni, ha studiato alla Columbia University di New York, ha sposato una simpatica signora olandese, parla con l’accento americano il linguaggio della democrazia e ha lanciato segnali che gli Stati Uniti hanno prontamente raccolto. Dopo avere ricevuto trionfalmente Bush a Tbilisi nel maggio 2005, ha chiesto e ottenuto l’assistenza militare dell’America (un migliaio di istruttori), ha presentato la candidatura del suo Paese alla Nato, sa di essere appoggiato da Washington e quattro mesi fa ha restituito la visita del suo protettore mettendo piede nello studio ovale della Casa Bianca. Dopo essere tornato in patria ha innestato la pericolosa partita delle provocazioni reciproche. Non è necessario dire molto di più per capire la crisi che è scoppiata in questi giorni. È facile comprendere perché un ambizioso e spericolato giocatore d’azzardo georgiano abbia deciso, per meglio sottrarsi alla tutela moscovita, di buttare sul tavolo la carta dell’amicizia americana. È più difficile comprendere perché gli Stati Uniti gli abbiano permesso di farlo così rumorosamente.
Sergio Romano
ilcorriere.it

6.8.08

Più del fascismo

Alberto Asor Rosa

Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni. Berlusconi invece non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico, cui nessuno per trent'anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo: è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc); è il figlio naturale dell'incapacità dimostrata nella politica in questo paese di rappresentare gli «interessi generali» e non quelli, inevitabilmente affaristici, anche quando non personalmente lucrativi, di piccoli gruppi autoreferenziali, che pensano solo a se stessi.
Berlusconi, dunque, prima che essere fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione: rappresenta fedelmente la decadenza crescente del pianeta Italia; per forza di cose non sa che governare attraverso la corruzione: la diffonde spontaneamente intorno a sé; crea un vergognoso sistema giuridico per difendersi quando sia stato colto in passato con le mani nel sacco e per continuare a farlo impunemente; modella l'Italia secondo il suo sistema di valori e, man mano che l'Italia degrada, ne viene alimentato.

In un articolo apparso sul Corriere della sera (13 luglio), come al solito intelligente ed acuto, Ernesto Galli della Loggia se la prende con il «moralismo in un paese solo», che sarebbe il nostro e che consisterebbe nel pensare che «L'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino». L'accusa di moralismo astratto e vaniloquente - Galli della Loggia con la sua intelligenza dovrebbe ammetterlo - sarebbe molto meno pungente se la situazione italiana fosse quella da lui descritta. Insomma, il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani). Però alla lunga può diventare ancor più fastidioso che i critici del moralismo non ci dicano se al centro del problema non ci sia la corruzione dominante, e insieme con questa il suo principale rappresentante e beneficiario.
Per corruzione non intendo soltanto, e neanche principalmente, l'appropriazione indebita di denaro pubblico e privato e il culto quasi parossistico del proprio interesse personale: ma la degenerazione del sistema dentro cui il gioco politico, sempre più solo formalmente, continua a svilupparsi: il malcelato disprezzo della Carta costituzionale; l'evidente estraneità alle «forme» (cioè alla «sostanza») della democrazia; la denegazione crescente della separazione dei poteri; l'incapacità dei politici - tutti - di sottrarsi al gioco mortale della pura autoriproduzione; la tendenza in atto a sottomettere tutto a un potere unico. E accanto a questo, la pulsione - per usare una vecchia ma non del tutto inadeguata terminologia - a connotare in senso sempre più ferocemente classista i valori cosiddetti condivisi della morale pubblica e le scelte di politica economica.
È altresì evidente, come giustamente osserva Galli della Loggia, che vedere le cose in questo modo significa mettere all'ordine del giorno anche una riflessione sullo stato attuale della «democrazia rappresentativa» in Italia. Se infatti è per il voto degli elettori italiani che questo scempio può continuare ad ingrandirsi, questo non ci autorizzerà a buttare a mare per intero il sistema ma neanche a giustificare o ignorare lo scempio perché è il voto popolare, fatto in sé astrattamente positivo, a convalidarlo e produrlo. Se, ripeto, le cose stanno così, è evidente che c'è qualcosa (parecchio?) da cambiare o da aggiustare.
Arrivo a una prima conclusione. Io mi sentirei di dire che questo è uno dei momenti della storia italiana in cui «questione sociale» e «questione nazionale» fittamente s'intrecciano, fino a costituire un unico «nodo di problemi» da affrontare insieme. Questo vuol dire che il bisogno di «unità», per quanto tormentato e difficile, è altissimo. Uno degli errori strategici più gravi che si siano commessi nel corso dell'ultimo ventennio è l'essere andati separati - riformisti e radicali - alle ultime elezioni: gli uni, vantandosene come della scoperta del secolo; gli altri, consentendovi con pallida e autolesionistica tracotanza.
Per affrontare questo «nodo di problemi» è fin troppo evidente che le forze politiche dell'attuale opposizione risultano inadeguate. Perché la difficoltà attuale sia superata bisognerebbe che tutte le forze interessate, sia pure da angoli visuali diversi, guardassero fin d'ora a questo traguardo: sto parlando dunque di un processo, non di un arrangiamento fra capi e capetti.
Del Pd non saprei che dire se non che dovrebbe imparare presto a far bene il suo mestiere, che sarebbe quello, se non erro, di un partito moderato che guarda a sinistra (perché se decidesse, da partito moderato, di guardare a destra, il berlusconismo oggi tanto deprecato ci apparirebbe solo una tappa verso precipizi ancora peggiori). Sulla sinistra, che c'è e non c'è, e che in mancanza di altro si dilania, mi sentirei di fare alcune considerazioni di massima.
Il recente congresso di Rifondazione comunista ha avuto il merito di separare più nettamente che in passato i «comunisti» da tutti gli altri. I «comunisti» - per carità, bravissimi compagni, con cui non sarà impossibile mantenere rapporti - vanno per una loro strada, che non porta da nessuna parte. E gli altri? Gli altri dovrebbero porre alla base del loro futuro quel profondo ragionamento critico e autocritico, che finora è mancato e che lo stesso Bertinotti, se si escludono gli ultimi, disperatissimi mesi pre-elettorali, ha accuratamente evitato di affrontare. La cosa riguarda nello stesso modo l'intera galassia di quella parte della realtà politica italiana (che esiste, e come), la quale non s'adatta né alla formula corruttiva berlusconiana né all'opposizione moderata del Pd né alle risposte, piene di pathos, ma programmaticamente e ideologicamente assai deboli del dipietrismo (e di altri fenomeni analoghi ma deteriori).
Se mai ci sarà una Costituente di sinistra (come io mi auguro), mi piacerebbe che i suoi promotori tenessero conto che esistono tre comparti di problemi, uno programmatico, uno strategico e l'altro organizzativo, con cui - quali che siano le soluzioni da proporre - non si dovrebbe evitare di confrontarsi.
Il comparto programmatico è di gran lunga il più importante, ma qui posso evocarne solo il principio ispirativo. Se non si è comunisti, si è riformisti: bisogna accettare l'inevitabilità di questo décalage storico. Ma ci sono molte forme di riformismo: e ciò che le distingue è il programma (di cui non c'è traccia alcuna nei recenti dibattiti, anche quelli congressuali!).
Quella cui io penso è una forma molto radicale di riformismo, che preme su tutti i gangli della vita sociale, va più in là, s'occupa in modo più generale della «vita», delle collettività ma anche di ognuno di noi individualmente inteso, e propone soluzioni che spostano i rapporti di forza. Il cambiamento è in atto da quando lo si inizia, non c'è bisogno di arrivare al risultato finale per conoscerne tutti gli effetti. Dal punto di vista strategico non si potrà fare a meno di comporre in un quadro unitario «questione sociale» e «questione ambientale».
La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la «questione sociale» contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde».
Infine: se qualcuno pensa che la crisi della sinistra si risolva creando un nuovo piccolo partito dei frantumi dei vecchi, farebbe bene a cambiare opinione il più presto possibile. Ciò a cui sembra opportuno pensare è un vasto e persino eterogeneo movimento di forze reali, che sta dentro e fuori i vecchi partiti e per il quale vale la parola d'ordine che l'unica organizzazione possibile è l'autorganizzazione: una rete di istanze e rappresentanze diverse, collegate strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa.
Certo, perché il discorso funzioni è necessario ammettere che tutte le volte in cui in Italia si riaffaccia una «questione morale» - cioè, come ho cercato di spiegare, un problema di degrado e di corruzione della vita pubblica e della democrazia - torna ad affiancarlesi l'ancora più stantia e veramente obsoleta parola d'ordine di una «rivoluzione intellettuale e morale». È questo cui pensiamo quando diciamo che la lotta al berlusconismo è al tempo stesso «questione sociale» e «questione nazionale»? Siamo retro al punto di rispondere tranquillamente di sì a questa domanda. In fondo tutto si riduce a questa semplicissima prospettiva: cambiare i tempi, i modi, le forme, i valori, i protagonisti dell'agire politico in Italia. Il resto verrà da sé.
ilmanifesto.it

5.8.08

Censis: in Italia le morti bianche sono il doppio degli omicidi

In Italia si muore di più lavorando o spostandosi in automobile che a causa delle aggressioni di criminali, il cui numero è in calo rispetto al passato e si attesta fra i più bassi d'Europa. Queste, in sintesi, le conclusioni di uno studio del Censis pubblicate oggi.
A dispetto della cosiddetta emergenza sicurezza, per la quale il governo si è tanto speso negli ultimi mesi, la fotografia scattata dal Censis mostra che in Italia gli omicidi continuano a diminuire.
"Si muore di più durante le attività ordinarie che non a causa della criminalità o di episodi violenti", si legge nel comunicato pubblicato dall'istituto di ricerca socioeconomica. "I morti sul lavoro sono quasi il doppio degli assassinati, i decessi sulle strade otto volte più degli omicidi".
In base ai dati delle fonti ufficiali, nel nostro paese gli assassini sono infatti diminuiti del 36,4% in 11 anni: sono passati da 1.042 casi nel 1995 a 818 nel 2000, fino a 663 nel 2006.
Una tendenza simile è riscontrabile negli altri principali paesi europei, come Gran Bretagna, Francia e Germania. Seppur in calo, secondo il Censis gli omicidi in questi paesi rimangono infatti più frequenti che in Italia: 879 casi in Francia nel 2006, 727 casi in Germania e 901 casi in Gran Bretagna.
Anche nel confronto fra città, l'Italia sembra risultare tendenzialmente più sicura. Nel 2006, dice il Censis, a Roma si sono registrati 30 casi. A Bruxelles ce ne sono stati 33, 35 ad Atene, 46 a Madrid, 50 a Berlino, 169 a Londra, che aveva toccato un picco nel 2003 con 212 omicidi. Palma per la sicurezza va a Parigi, dove nel 2006 si sono verificati solo 29 omicidi, drasticamente diminuiti dai 102 che c'erano stati nel 1995.
La tendenza virtuosa dell'Italia si inverte, però, se si considerano le cosiddette morti bianche o quelle determinate da incidenti stradali.
Secondo i dati inerenti al 2005, in Italia sul lavoro si contarono 918 casi, mentre furono 678 in Germania, 662 in Spagna, 593 in Francia.
E i numeri crescono ancora se si considerano le vittime degli incidenti stradali: nel 2006 in Italia i decessi sulle strade sono stati 5.669 mentre in Regno Unito sono stati 3.297, in Francia 4.709 e in Germania 5.091.
"Gran parte dell'impegno politico degli ultimi mesi è stato assorbito dall'obiettivo di garantire la sicurezza dei cittadini rispetto al rischio di subire crimini violenti", ha dichiarato nel comunicato il direttore del Censis, Giuseppe Roma. "Tuttavia, se si amplia il concetto di incolumità personale, ... risalta in maniera evidente la sfasatura tra pericoli reali e interventi concreti per fronteggiarli".
Reuters

3.8.08

Paese indegno popolo indegno, quello italiano

Riccardo Petrella
Le due bambine rom morte annegate nel mare di Napoli, i cui corpi sono coperti da pezzi di stoffa che lasciano visibili i loro piedi, giacciono abbandonate sulla spiaggia al sole (in attesa di...?), nella palese indifferenza dei bagnanti che passano o che si crogiolano al sole a pochi metri. Le foto diffuse in tutto il mondo sono eloquenti. Paese indegno, il nostro, quando parte della sua popolazione è giunta a tale livello di cinismo, di miseria d'animo e di rigetto dell'altro (le bambine sono rom, no?).
Paese indegno, altresì, come lo è il governo italiano che ha deciso, alcune settimane prima, di schedare le impronte digitali dei bambini rom col pretesto di proteggerli dai loro genitori accusati di essere «naturalmente» (perché rom) inclini ad agire come genitori snaturati, schiavisti e sfruttatori dei loro bambini. Una misura giudicata indegna anche dalle autorità dell'Ue e, con un voto, dallo stesso europarlamento (del cui gruppo politico di maggioranza relativa, il Ppe, fa parte il partito del primo ministro italiano).
Governo indegno che sbriciola la sua cultura politica e polverizza il suo senso etico-civile accettando, come espressione pittoresca, il volgarissimo gesto del dito medio compiuto da un ministro chiave della Repubblica per esprimere la sua considerazione dell'inno nazionale italiano. Mai visto nella storia dei paesi europei una così vergognosa indecenza da parte di un ministro di Stato.
Paese indegno anche perché nessun rappresentate del parlamento ha richiesto le dimissioni immediate del ministro colpevole di siffatto scempio della rispettabilità della classe politica italiana. L'opposizione, riformista, avrebbe dovuto abbandonare il Parlamento e dichiarare l'astensione da ogni lavoro parlamentare fintantoché il ministro non si fosse dimesso. Essendosi limitata ad una debolissima protesta pro-forma, anche l'attuale opposizione parlamentare ha contribuito ad aumentare l'indegnità del nostro paese. Mentre le forze della sinistra, ormai extraparlamentare, sono state in questi giorni, in altre faccende affaccendate...
Paese indegno, anche perché popolo indegno. Noi italiani abbiamo aderito con facilità a due «grandi concezioni culturali»: la priorità data all'arricchimento individualista furbastro, menefreghista e, se necessario, illegale; la visione dell'altro (Roma, i rom, lo Stato, il mendicante, l'immigrato, l'Europa, il negro...) considerato la causa del male, il nemico, anche quando l'italiano riesce a sfruttarlo. Due concezioni che hanno localizzato la dignità del nostro popolo al di sotto del livello della pancia, distruggendo in noi gli elementi sostanziali di immunologia etica, morale, civile, politica, ed umana.
Da qui, il datore di lavoro veneto che lascia morire di fatica nei campi il «clandestino» indiano e domanda poi che il suo corpo (ridotto a scarico/rifiuto) sia tolto dal suo campo; da qui, l'accusa di essere una cloaca fatta al Consiglio superiore della magistatura da parte di un altissimo esponente politico del governo attuale; da qui, un popolo che rielegge trionfalmente e lo porta a diventare ministro la persona che aveva affermato che usava la bandiera tricolore italiana per pulirsi il sedere, che è lo stesso autore recente del gesto del dito; da qui un popolo che ridà il potere ad un Presidente del consiglio dei ministri che dichiara vittoria, urbi et orbi e senza vergogna, per essere riuscito, finalmente, a far adottare delle leggi fatte a sua misura per salvarsi da una magistratura non solo comunista (a suo avviso) ma malata perché, come dichiarato in altri momenti, sempre da Presidente del consiglio dei ministri: «Bisogna essere malato di mente per esercitare il mestiere di magistrato».
Questo è un paese indegno, diretto da un governo indegno, culturalmente sostenuto da un popolo che si compiace di ritrovarsi rappresentato da come sopra e che, oggi, si comporta, esso stesso, in maniera indegna.
Il futuro non è finito: non so quando, non so come, un altro paese prenderà il posto con un popolo degno perché animato dall'amore dell'altro e della dignità umana, dal rispetto quotidiano dei valori etici, sociali e civili del vivere insieme e fiero della res publica. Quel che so è che è giusto e buono di gridare la propria indignazione e di lavorare per costruire un altro futuro, senza compromessi.
ilmanifesto.it

2.8.08

Usa, le chat lo confermano, "Vera la teoria del mondo piccolo"

I ricercatori: "Abbiamo dimostrato che questa idea va oltre il folklore"
Analizzate 30 miliardi di conversazioni tra 180 milioni di utenti di Microsoft Messenger.
Ci sono solo sei gradi di separazione in media tra le persone di tutto il mondo.


La celebre "teoria del mondo piccolo", a cui è stato dedicato anche un film negli anni novanta, potrebbe essere vera ed uno studio americano presentato a Pechino lo scorso aprile lo confermerebbe. Questa teoria, nata negli anni 30, afferma che ogni persona della terra è collegata a qualsiasi altro individuo da una catena composta da massimo altri cinque intermediari.

Lo studio. La ricerca è stata condotta dai laboratori Microsoft, analizzando 30 miliardi di conversazioni tra 180 milioni di utenti del sistema di chat Microsoft Messenger. I risultati sono stati sorprendenti: gli internauti sono collegati tra loro da una media di 6,6 gradi di separazione, dato che vale per il 78% delle coppie che chattano, mentre nei casi limite i gradi di separazione salgono a 29.
"Per me è stato abbastanza sconvolgente - ha commentato uno dei ricercatori Eric Horvitz - abbiamo visto che ci potrebbe essere una connessione sociale costante tra i membri dell'umanità. L'idea che siamo molto vicini l'uno all'altro è sempre stata molto diffusa ma abbiamo dimostrato che questa idea va oltre il folklore".

La privacy. I ricercatori non hanno avuto accesso al contenuto delle chat, né all'identità degli utenti; si sono limitati a monitorare i flussi delle conversazioni, mettendoli in relazione con i dati demografici relativi ai singoli internauti.

La teoria. I sei gradi di separazione sono stati proposti per la prima volta dallo scrittore Frigyes Karinthy nel racconto "Catene", ma solo nel 1967 il sociologo Milgram formulò la teoria del mondo piccolo, dimostrando come attraverso la propria rete di conoscenze un gruppo di persone del Nebraska fosse in grado di venire a contatto con sconosciuti nel Massachusetts.

Il film. La notorietà della teoria aumentò grazie a una commedia di Broadway da cui nel 1993 venne tratto il film "6 gradi di separazione" con Will Smith e Donald Sutherland.

larepubblica.it