14.3.06

La lotteria della vergogna

di Chiara Saraceno

Questa notte migliaia di immigrati in tutt'Italia si sono messi in coda nella speranza di essere tra i primi a consegnare la domanda di permesso di lavoro. Alcuni anzi sono già in coda da giorni, facendo turni, per non perdere il posto in fila. Solo una frazione ce la farà, perché le quote assegnate dal decreto sui flussi sono largamente inferiori non solo agli immigrati che hanno ritirato il kit (con altre code), ma a quelli che effettivamente stanno già lavorando in Italia e che sperano in questo modo di mettersi in regola. Così come lo sperano molti datori di lavoro: piccoli imprenditori che hanno bisogno di manodopera stagionale o anche a più lungo termine, famiglie che hanno bisogno di lavoratrici di cura.

Qualche giorno fa il presidente Ciampi ha voluto riconoscere il prezioso contributo degli immigrati al benessere delle famiglie e della società italiane consegnando l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica ad una badante romena (oltre a quella di commendatore ad una architetta araba e ad una avvocata africana). Ma le migliaia di immigrati che staranno in fila per ore ricevono solo un messaggio di umiliazione e disprezzo.

Dietro queste code, alla vergognosa lotteria di cui sono strumento (perché non c'è altro criterio che quello di chi prima arriva) ci sono due problemi, due inefficienze distinte del nostro modo di affrontare l'immigrazione. Il primo riguarda lo scarto tra numero di permessi ed effettivi posti di lavoro disponibili, spesso di fatto già occupati, ancorché in modo non regolarizzato. Questo scarto costringe sia i datori di lavoro che i lavoratori immigrati in un continuo stato di illegalità, e di ricatto reciproco, pur in situazioni di potere asimmetrico. Alimenta anche comportamenti più gravemente illegali, di intermediazione dei permessi più o meno criminosa. Proprio il razionamento dei permessi e la loro messa all'asta della velocità e della resistenza può favorire, infatti, i ricatti e le prepotenze.

Il secondo problema riguarda l'incapacità della nostra amministrazione, dopo anni di esperienza, di trovare meccanismi insieme più trasparenti e meno irrispettosi della dignità di ciascuno di questa lotteria insieme tragica e grottesca. Certo, non sorprende in un Paese in cui anche i cittadini italiani sono spesso trattati dai servizi pubblici come sudditi che devono accontentarsi di ciò che passa il sovrano. Gli immigrati in cerca di lavoro e di regolarizzazione sono meno che sudditi: sono mendicanti da lasciare fuori al freddo, cui gettare ogni tanto qualche cosa lasciando che si azzuffino tra loro. Salvo commentare negativamente - dall'alto della nostra superiorità occidentale (e perché no, cristiana) - sia la loro rassegnata accettazione che la loro occasionale ribellione.
lastampa.it

8.3.06

Cormac McCarthy, paura della vita

A distanza di sette anni dal suo ultimo libro, Città della pianura, con cui si concludeva una grandiosa trilogia, Cormac McCarthy è tornato a farsi vivo: Non è un paese per vecchi esce oggi da Einaudi. Per certi versi, lo si potrebbe definire una rivisitazione in chiave pulp di Meridiano di sangue un po' alla Tarantino
Sullo scrittore americano piovono leggende a misura della sua reticenza. Si dice abbia vissuto per anni senza casa, spostandosi per il Texas da un motel all'altro, mangiando nelle tavole calde, portando i suoi panni sporchi nelle lavanderie a gettone, facendo il bagno nei fiumi

TOMMASO PINCIO
«Nel West non ci sono eroi. C'è solo gente che ha paura della vita. Per questo spara, ammazza, rapina» ha dichiarato una volta Sam Peckinpah in un'intervista. Il regista del Mucchio selvaggio parlava certamente con cognizione di causa. Se ne intendeva parecchio, di western, e la sua affermazione merita quindi di essere ponderata. Qual è la vita di cui ha paura la gente del West? È la vita che anche noialtri conosciamo? E se lo è, per quale ragione non la temiamo con la stessa brutale intensità, vale a dire sparando, ammazzando e rapinando? In effetti, la questione è molto più sottile. Ciò che davvero teme la gente del West non è tanto la vita in sé, quanto il fatto di vivere in un mondo ai limiti del barbarico, dove i codici morali della civiltà contano poco o nulla. Il tipo dell'antieroe western è solitamente un nomade che passa gran parte del proprio tempo lontano dagli insediamenti urbani, vivendo a contatto diretto con una natura pressoché incontaminata e non di rado ostile. Costui sembra non possedere altro se non gli abiti che indossa e un cavallo. La sola cosa che lo distingue da un selvaggio è la pistola, che peraltro usa con animalesca noncuranza. Per lui sparare ha la semplicità di un istinto. Preme il grilletto ogni qual volta si sente minacciato o ha bisogno di procurarsi qualcosa. Leggi amisura disumana Se a noialtri esseri civilizzati capitasse di trovarci nel West saremmo certamente più terrorizzati di questa gente avvezza a sparare, ammazzare e rapinare. Ci sbaglieremmo però di grosso se individuassimo la fonte del nostro terrore nell'alto tasso di violenza e criminalità. Nel nostro mondo esistono luoghi che non hanno molto da invidiare al West, eppure non proviamo la paura di cui parla Peckinpah. Nel nostro mondo possiamo infatti trarre un discreto conforto dalle leggi che puniscono determinate violenze e da chi ha l'incarico di far sì che queste leggi vengano rispettate. Simili garanzie esistono anche nel West. Soltanto sulla carta, però. Nei fatti, mostrano tutta la loro vanità al cospetto delle leggi imposte dalla natura, leggi che hanno la meglio non in quanto più giuste, ma soltanto perché premiano sempre e comunque il più forte. È il dominio assoluto delle leggi di natura ciò di cui ha davvero paura la gente del West, leggi che non sono state scritte per l'uomo e che, proprio per questa ragione, siamo poco disposti ad accettare e comprendere. La rappresentazione definitiva di cosa sia il panico terrore del West è opera di Cormac McCarthy e si intitola Meridiano di sangue. Malgrado la sua prima pubblicazione risalga a poco più di un quarto di secolo fa, questo romanzo è ormai entrato nel sublime limbo dei libri senza tempo. Harold Bloom lo ha definito «il vero romanzo apocalittico americano », ponendolo un gradino sopra a quanto di meglio hanno scritto maestri quali Don DeLillo, Philip Roth e Thomas Pynchon. Follie sanguinarie senza un perché Ciò nonostante, Meridiano di sangue rimane un capolavoro per addetti alla scrittura. Spesso la sua scarsa presa sul grande pubblico è spiegata con la lingua ostica e barocca di Mc- Carthy. La letteratura abbonda però di testi ben più complessi che sono comunque diventati best seller o quasi. La vera ragione va dunque cercata altrove, probabilmente in ciò che ha indotto qualcuno a considerare Meridiano di sangue il libro più cruento e raccapricciante dopo l'Iliade. In teoria, nemmeno questo dovrebbe costituire un problema, visto che l'uso gratuito della violenza è ormai una costante nelle produzioni cinematografiche e letterarie più commerciali. Per giunta, il romanzo di Mc- Carthy ricalca i tipici motivi del genere western. Riducendolo all'osso, in esso si raccontano le truculenti peripezie di un ragazzo che diventa adulto al seguito di una banda di feroci cacciatori di scalpi. A sconcertare il lettore non è che i personaggi si scannino in continuazione, bensì che la loro prepotente ineluttabile follia sanguinaria non abbia alcun perché. Comunque lo si voglia intendere, il West di Meridiano di sangue è il caos allo stato brado. Ma forse «caos» non è la parola adatta. Forse è più giusto parlare dell'ira di un ordine che trascende l'umana comprensione, un ordine così superiore da schiacciarci con la più assoluta e insensata indifferenza. Con quella che a noi nostri occhi sembra assoluta e insensata indifferenza. McCarthy non offre la minima consolazione. Una mattanza perenne, la guerra sempiterna: così è, se vi pare. E quand'anche non vi paresse sarebbe lo stesso. L'unica parvenza di ordine umano è incarnata dal personaggio del giudice Holden, la cui spietatezza è pari a quella del Male in persona, una sorta di angelo demoniaco sceso tra noi per annunciarci la sinistra novella: il mondo in cui viviamo è un errore cosmico. Una mano anarchica tiene in pugno il nostro destino, ed è proprio questa mano che ci ha divisi in due sessi, che ci ha creato per agire come animali da combattimento. La guerra «è la forma più autentica di divinazione» dice il giudice Holden. Non meno inquietante per il lettore è che McCarthy non sembra prendere alcuna posizione al riguardo. Il suo silenzio instilla inevitabilmente il sospetto che egli sia d'accordo con il malefico giudice. Cosa pensi davvero McCarthy non ci è dato sapere. Come scrittore si limita a descrivere, come persona vive un eremitaggio impenetrabile senza concedere interviste. Su di lui si raccontano molte cose. Si dice che abbia vissuto per anni senza casa, spostandosi per il Texas da un motel all'altro, mangiando nelle tavole calde, portando i suoi panni sporchi nelle lavanderie a gettone, facendo il bagno nei fiumi. Difficile resistere alla tentazione di pensare che abbia modellato su di sé il personaggio del giudice Holden. Speculazioni comunque prive di senso. Meridiano di sangue è il tipico capolavoro che vive di vita propria, un romanzo di tale sinistra bellezza da sembrare il parto di uno scrittore fantasma e soprattutto ineguagliabile. Lo stesso McCarthy - pur riprendendo gli stessi temi, pur continuando ad ambientare le sue storie indietro nel tempo e nei selvaggi paesaggi del Sud Ovest, in quegli sterminati territori dove il confine tra Messico e Texas è solo una linea arbitraria tracciata sulle carte geografiche - non ha più cercato di scrivere qualcosa di simile. Non fino ad adesso, perlomeno. A distanza di sette anni dal suo ultimo libro, Città della pianura, atto conclusivo di una grandiosa trilogia, Cormac McCarthy è tornato a farsi vivo con Non è un paese per vecchi (Einaudi, limpida traduzione di Martina Testa, pp. 254, Euro 17). Con una facile battuta, si potrebbe dire che nemmeno questo è un libro per tutti. La verità è pero un'altra: questo è sicuramente il libro più accessibile che egli mai abbia scritto. Per certi versi, lo si potrebbe definire una rivisitazione in chiave pulp e vagamente tarantinesca di Meridiano di sangue. Unamossa premeditatamente sbagliata McCarthy non si è soltanto lasciato alle spalle la lingua elaborata dei romanzi precedenti, ha anche scelto un'ambientazione per lui insolita. I luoghi sono sempre gli stessi, Texas e dintorni messicani, ma niente più natura incontaminata, niente più cavalli selvaggi, niente più lupi della prateria che ululano alla luna. L'azione si svolge perlopiù in anonimi motel e strade interstatali, in quanto Mc- Carthy ha deciso di raccontare una storia molto più vicina ai giorni nostri, una storia del 1980 per l'esattezza. L'inizio del romanzo descrive una tipica situazione alla McCarthy: un uomo a caccia di antilopi nel deserto. Tutto cambia quando l'uomo si imbatte in un paio di fuoristrada, un bel po' di cadaveri e una cartella contenente due milioni e mezzo di dollari. Non ci mette molto a stabilire che si tratta di un traffico di eroina andato storto. È inoltre abbastanza sveglio da capire che sarebbe meglio lasciare la cartella dov'è. Prenderla significherebbe fare la fine dell'antilope, poiché gente poco incline al dialogo metterebbe sulle sue tracce con due soli pensieri in testa: riempirlo di pallottole e recuperare il denaro. Spesso, però, la mossa più furba è anche quella meno stuzzicante, per cui l'uomo raccoglie la cartella e fa ritorno alla roulotte dove vive insieme alla moglie, un'insipida ragazzetta diciannovenne. Costui ha praticamente il doppio degli anni di lei. Si chiama Moss ed è un veterano del Vietnam. Forse è proprio per questo che commette consapevolmente lo sbaglio più grosso della sua vita: perché vuole mettersi alla prova, perché nell'intimo confida di essere ancora un buon soldato. Moss ha però fatto male i suoi conti. Oltre ai trafficanti di droga, dovrà infatti vedersela anche con un killer psicopatico di nome Anton Chigurgh che ingaggia con Moss un confronto all'ultimo sangue il cui esito finale è segnato in partenza. Chigurgh è una evidente reminescenza del terribile giudice Holden. Ma la disumana spietatezza che in Meridiano di sangue corrispondeva a una visione del mondo credibile, per quanto angosciante e apocalittica, qui diventa una trasposizione letteraria di Terminator che non di rado rasenta il ridicolo. Chigurgh se va ne in giro con una bombola di ossigeno e una pistola ad aria compressa con cui elimina le sue prede. Agisce come un automa. Non sembra spinto da alcuna motivazione reale se non quella di uccidere chiunque incroci il suo cammino. In sostanza, un personaggio affatto inverosimile, ma probabilmente l'intenzione di McCarthy è proprio questa. Chigurgh in inglese si pronuncia come sugar, «zucchero». È chiaro che dietro un nome simile si nasconde un avvertenza dell'autore: non prendetemi alla lettera. Malgrado l'apparente linearità della trama, i personaggi di Non è un paese per vecchi si comportano spesso in modo scarsamente plausibile. Per non parlare di certe stranezze, la più macroscopica delle quali è l'uso del cellulare in un anno in cui la telefonia mobile non esisteva ancora. McCarthy descrive gli eventi fissando con precisione estrema dettagli incongrui. Il suo è un falso realismo che cozza volutamente contro una lunga serie di palesi anacronismi. Laddove Meridiano di sangue si poneva come una mitografia revisionista del genere western, Non è un paese per vecchi cerca di trasferire l'incerta dimensione temporale di quella epopea sul piano della contemporaneità o comunque di un passato molto recente. La premeditata sfasatura del romanzo è incarnata dallo sceriffo Bell, altro nome dai forti echi simbolici. Anche Bell è un veterano, ma di una guerra più antica del Vietnam, la seconda guerra mondiale, ed proprio per via di una colpa di cui si è macchiato in quel conflitto che ha deciso di fare lo sceriffo. Ma quantunque animato da nobili intenzioni, egli conclude ben poco. Non riesce a impedire che Moss e molti altri vengano brutalmente assassinati né a catturare il terribile Chigurgh. Per dirla tutta, non arresta nessuno e non cerca nemmeno di salvare dalla pena di morte un uomo che egli reputa innocente. Uno sceriffo di vedute ristrette L'incidenza di questo sceriffo sul corso degli eventi è nulla. In pratica non fa che assistere alla mattanza. È un puro spettatore, un testimone. Mentre il sangue scorre, tra un capitolo e l'altro, Bell offre saggi della sua visione del mondo attraverso brevi monologhi. Non è così in là con gli anni, è appena cinquantenne, ma parla come un vecchio fatto e finito, blaterando la ben nota solfa delle cose che non sono più quelle di una volta: «Stupri, incendi, assassini. Droga. Suicidi. Io ci penso a queste cose. Perché il più delle volte, quando dico che il mondo sta andando in malora, e alla svelta, la gente mi fa un mezzo sorriso e mi dice che sono io che sto invecchiando». Bell è uno sceriffo capace solo di lamentarsi e rimpiangere. In quanto rappresentante della legge, l'unico risultato che sembra in grado di raggiungere è dimostrare che l'ordine costituito dall'uomo nulla può contro il caos supremo della Natura e le violenze che ne derivano. Un momento illuminante è quando Bell dice la sua sull'aborto: «Mi sono ritrovato seduto vicino a una signora, la moglie di non so chi. E continuava a parlare della destra che aveva fatto questo e della destra che aveva fatto quest'altro. Non sono nemmeno sicuro di aver capito qual era il punto... Alla fine mi ha detto: Non mi piace la direzione in cui sta andando questo paese. Voglio che mia nipote sia libera di abortire. E io le ho risposto guardi signora, secondo me non si deve preoccupare della direzione in cui va il paese. Per come la vedo io, non c'è il minimo dubbio che sua nipote potrà abortire, ma sarà libera anche di mandare lei al Creatore. E in pratica il discorso è finito lì». Triste fatalismo seminato in un romanzo gelido Uno sceriffo di vedute alquanto ristrette, dunque. Un uomo che non ci penserebbe due volte a votare per Bush. Il classico repubblicano per cui la parola «progresso» è soltanto sinonimo di degenerazione. Dalle sue parole traspare però una strana e toccante forma di compassione per un'umanità condannata a scannarsi in base a una legge di natura. Il triste fatalismo di Bell è, alla resa dei conti, la nota più calda di un romanzo altrimenti gelido e senza speranza. E sebbene sia del tutto inadeguato per l'ingrato compito di riportare nel mondo un po' di ordine e giustizia, questo sceriffo è comunque uno spettatore con un'anima. Magari non salverà nessuno né capirà granché del mondo, ma guarderà le disgrazie della gente e ne soffrirà. Una magra consolazione, è vero. Del resto, i romanzi di Cormac McCarthy sono scritti essenzialmente per chi è disposto a sapere cosa significa avere paura della vita.
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