24.11.11

La crisi non aspetta

Massimo Giannini  (La Repubblica)

Dall´«uomo dei sogni» all´«uomo dei miracoli»? Nessuno si era illuso: il passaggio dal Venditore di Arcore al Professore della Bocconi non poteva bastare a risolvere i guai dell´Italia. Ma ora che la «dittatura dello spread» pesa sulla democrazia dei popoli, Monti non può esitare: serve una svolta immediata, per uscire da questa crisi. La tempesta finanziaria è globale. Squassa l´Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania paga dazio, come dimostra l´inaudito insuccesso dell´asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell´intera Eurozona.Ma l´Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l´euro. È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale.
C´è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli «irriducibili» della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema «non era Berlusconi». È l´ennesimo tentativo di mistificare la verità. L´«effetto Monti», sui mercati, c´è stato eccome. Per una settimana, dal giorno dell´incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi. Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il «teorema Roubini» non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l´Italia un risparmio secco di 100 punti base. La «Papi tax» è esistita, insomma. E noi l´abbiamo pagata.
Ma ora c´è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell´opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell´economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell´emiciclo di Westminster: «L´Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra… L´Italia vive una situazione di seria emergenza… dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l´anello debole dell´Europa… Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l´occasione per riscattare il Paese».
Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un´élite tecnocratica di alta qualità. E poi la «missione fiducia» nel consesso internazionale: l´altro ieri l´Eurogruppo e l´incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy. Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l´Italia nell´unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l´aveva inopinatamente sradicata: l´Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un «battutista» che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua.
Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: «Non ci aspettiamo miracoli», «il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona». Ma poi avverte: «La situazione italiana rimane difficilissima», «il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità storica e una sfida immensa». Questo lo sa anche il governo di Roma. Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l´obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l´azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri «operativo», lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana. L´Agenda Monti, così come il premier l´ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un´Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d´anzianità. Dalla lotta all´evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all´imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità: stavolta «chi ha di più, dovrà dare di più». Sarà misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici.
La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il «fattore tempo» sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la «luna di miele» che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale. Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso «dividendo»: la discontinuità e la credibilità. Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani.

17.11.11

Manifesto for European Common Goods

da  http://www.europeancommongoods.org/

La crisi che colpisce l'economia mondiale e di conseguenza l'euro in questi mesi richiede una risposta radicalmente diversa da quelle attualmente programmate e realizzate. Il modo in cui l'Europa, i suoi governi e gli elettori si occuperanno della crisi greca creerà un precedente importante per la prossima crisi ed i connessi rischi di default nazionali.
Le decisioni probabili del governo greco, praticamente lasciato solo, come altri governi in simili crisi di debito, si basano sulla massiccia vendita di beni pubblici a compratori non meglio identificati in modo da raccogliere il denaro necessario per garantire prestiti ulteriori.
Questa decisione è sbagliata non solo sul piano politico, ma anche in termini pratici. Politicamente abbiamo avuto ampie dimostrazioni nel quarto di secolo passato che la deregulation e le privatizzazioni non sono sinonimo di efficienza, investimenti, modernizzazione e competitività.


Al contrario, c'è un lungo elenco in Europa e nel mondo, di clamorosi fallimenti e di distruzione di valore da parte di quelle stesse forze di mercato che erano invece state celebrate come portatrici di soluzioni durature a tutti i problemi dell'economia nazionale e internazionale.
L'ultima crisi economica e finanziaria del mercato globale ha dimostrato oltre ogni dubbio che i mercati da soli non sono in grado di governarsi, che non esiste la mano invisibile che bilancia i diversi interessi e che il denaro pubblico ha salvato gli stessi oligopoli che in teoria non avrebbero dovuto esistere in un ambiente competitivo sano, favorito da un mercato liberalizzato. Ma come non ci sono pranzi gratis, così non esiste un mercato deregolato che pensi al bene comune.
Noi crediamo fortemente, ispirati da una visione politica ed etica nonché dall’esperienza pratica, che le politiche pubbliche non possono solo limitarsi a regolamentare il neolaissez-faire, a sostenere interessi privati in nome di una presunta competitività nazionale o limitarsi a ridistribuire un reddito in diminuzione.
Le politiche pubbliche devono tutelare gli interessi pubblici, sotto controllo democratico, il che significa che hanno il compito di promuovere beni pubblici e investimenti a lungo termine, sostenuti da una gestione efficiente e da una tassazione sensata che tenda al bene della società.


Invece di lasciare che le proprietà pubbliche della Grecia siano svendute a prezzi ridicoli a grandi potenze, che hanno un forte interesse a controllare i mercati per rinforzare la loro competitività (fatalmente a discapito dei nostri interessi), o ad investitori privati che sono totalmente irresponsabili verso la società, gli elettori e gl’interessi nazionali, proponiamo di utilizzare in modo più efficace il denaro pubblico che abbiamo già impegnato nei prestiti della UE e del Fondo Monetario Internazionale, oltre che nelle misure di sostegno della BCE.
I beni pubblici greci, come quelli di altri paesi a rischio, dovrebbero essere venduti ad un raggruppamento economico europeo, pubblico o partecipato da quota di maggioranza pubblica, in modo da ottenere il denaro necessario direttamente da governi e istituzioni internazionali.
Questo permette di proteggere due interessi vitali a livello europeo e nazionale:
* I beni saranno rimborsabili da parte del paese interessato nei tempi necessari ed a condizioni ragionevoli o produrranno profitti proporzionali ai governi, ma la loro gestione avverrà tenendo conto delle esigenze economiche e sociali. Se esistono i fondi sovrani, non si vede perché imprese pubbliche, adeguatamente gestite e vigilate, siano inconcepibili.
* I beni rimarrebbero patrimonio economico e industriale europeo, invece di essere dispersi nel mondo, soggetti ad futuro molto incerto. L'Europa ha creato una formidabile entità integrata, soprattutto a livello economico: sarebbe un suicidio se, nei momenti di massima emergenza, l'Europa si rifiutasse di attuare una politica industriale di semplice buon senso.

16.11.11

Bombardamento a tappeto sull'euro

di Marcello Bussi (Milano Finanza)
Crescono i sospetti su Goldman Sachs regista dell'attacco. Le similitudini con la crisi subprime. La rigidità tedesca non consente alla Ue e alla Bce di schierare difese efficaci

Anche l'Austria è a rischio. Eppure sono disciplinati e parlano tedesco. Ma ieri lo spread del Paese alpino è salito al livello record di 181, appena più in basso di quello della Francia (186), che ormai sembra condannata a perdere la tripla A. Per non parlare della Spagna che vola a 451 punti base, con il rendimento del bond decennale al 6,308%, mentre quello del Belgio sfiora ormai il 5% (4,896%) con lo spread a 309.

Davanti a questa ecatombe non stupisce che l'effetto Monti sia già finito e lo spread dell'Italia continui a viaggiare sopra 500, mentre il rendimento del Btp abbia sfondato di nuovo il tetto del 7%. Se poi qualcuno avesse nostalgia delle volgarità di Umberto Bossi, si consoli con il premier olandese Mark Rutte: i Paesi che violano le regole economiche «devono essere cacciati via a pedate» dall'euro, ha minacciato ieri. I dirigenti della compagnia aerea low cost easyJet hanno così annunciato di avere preparato dei piani di contingenza nel caso in cui l'euro dovesse disintegrarsi.

Si tratta di un rischio serio e imminente? Se si guarda all'Austria si direbbe di no: il rapporto debito pubblico/pil è al 75%, i conti sono solidi. Eppure anche Vienna è sotto attacco. Ma questa evidente assurdità rende plausibili le voci, circolate un anno e mezzo fa e riportate dal Wall Street Journal, su un incontro avvenuto ai primi di febbraio del 2010 a New York tra un pugno di hedge fund, tra cui i colossi Sac Capital Advisors e Soros Fund Management, che avrebbero deciso, ispirati da Goldman Sachs, di puntare sulla parità euro-dollaro.

Guarda caso, pochi giorni dopo George Soros dichiarò pubblicamente che se i Paesi dell'Ue non avessero messo a posto i loro conti pubblici, «l'euro sarebbe andato a pezzi». Si dice da tempo che la speculazione punti proprio a questo risultato. E i parallelismi con la crisi subprime, che ha portato al fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008, cominciano a essere inquietanti. Da quel disastro solo Goldman Sachs, guidata da Lloyd Blankfein, è uscita più forte di prima. Quella stessa Goldman Sachs il cui ex ceo Henry Paulson è stato l'artefice, in qualità di segretario al Tesoro Usa, del salvataggio da 700 miliardi di dollari delle banche americane.

La stessa Goldman Sachs che, secondo l'inchiesta di una commissione del Senato Usa, avrebbe prima gonfiato la bolla dei subprime e poi scommesso contro di essa per lucrare sul crollo del mercato immobiliare americano. Il tutto mentre continuava a confezionare titoli tossici rimpinzati di subprime da sbolognare ad altri più sfortunati clienti. Insomma, Goldman gonfia la bolla e guadagna, scommette sul suo scoppio e guadagna, dopodiché si ritrova con un suo uomo, in questo caso Paulson, a rimettere insieme i cocci.

L'eurocaos, si sa, ha avuto origine dal fatto che la Grecia ha truccato i conti per entrare nell'euro e poi ha continuato a farlo per renderli meno disastrosi, fino a quando il gioco è diventato così spudorato da essere scoperto. Goldman Sachs ha offerto la sua consulenza tecnica per il maquillage dei conti, dopodiché è diventato premier, fortemente voluto dai mercati, Lucas Papademos, consulente di Goldman Sachs e governatore della Banca centrale greca ai tempi dei primi trucchi.

Altro uomo chiave della crisi è il presidente del consiglio incaricato Mario Monti, anch'egli consulente di Goldman dal 2005. Per non parlare del presidente della Bce, Mario Draghi, che dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l'Europa. Se venisse seguito il copione dei subprime, sarebbe tutto perfetto: Goldman gonfia la bolla dell'euro, aiutando un Paese sull'orlo del fallimento come la Grecia a entrarvi, poi scommette sulla sua fine e si trova come per caso uomini a lei vicini nei punti di snodo della crisi: la Bce, l'Italia e la Grecia. Coincidenze che fanno pensare. Detto questo, Goldman non ha l'obiettivo politico di distruggere l'euro.

L'unico suo obiettivo è quello di fare profitti. E poco importa in che modo essi vengono realizzati, se a danno di uno Stato o di una grande azienda. Goldman attacca l'euro perché non ha difesa. La riforma del Fondo salva-Stati (Efsf) rischia di slittare ancora, mentre la Bce non è prestatore di ultima istanza a causa dell'opposizione della Germania, la cui rigidità fa paradossalmente il gioco degli speculatori. Secondo Romano Prodi, Goldman e le sue sorelle dispongono di una potenza di fuoco di almeno 12 mila miliardi di dollari, mentre Eurolandia risponde con piani di austerità che la mandano in recessione. La partita è troppo facile, è naturale che Goldman la giochi fino in fondo.

15.11.11

Parlamentari e manager, lo specchio dei privilegi. Ricche baby pensioni, maturate per un giorno di lavoro e senza cumulo

 da Siciliainformazioni


Baby pensionati
( nome cognome, classe,  ramo, pensione lorda annuale -  mensile - al giorno, ente)

Mauro SANTINELLI 1947 telefonia 1.173.205,15 - 90.246,55 -  3.258,90  INPS
Mauro GAMBARO 1944 finanza 665.083,64 - 51.160,28 - 1.847,45  INPS
Alberto DE PETRIS 1943 telefonia 653.567,20 - 50.274,40 - 1.815,46  INPDAI
Germano FANELLI 1948 elettronica 600.747,68 - 46.211,36 - 1.668,74  INPS
Vito GAMBERALE 1944 telefonia 574.102,23 - 44.161,71 - 1.594,72  INPS
Alberto GIORDANO 1941 finanza 549.193,74 - 42.245,67 - 1.525,53 INPS
Federico IMBERT 1951 finanza 539.775,62 - 41.521,20 - 1.499,37  INPS
Giovanni CONSORTE 1948 finanza 372.000,00 - 28.593,00 - 1.033,33  INPS
Ivano SACCHETTI 1944 finanza 371.000,00 - 28.560,00 - 1.030,55  INPS
Ernesto PAOLILLO 1946 finanza 342.000,00 - 26.327,00 -  950,00 INPS


PENSIONE PER 1 GIORNO DI LAVORO

nome cognome attività svolta per pensione/mese lorda ente

Luca BONESCHI parlamentare 1 giorno 3.108,00 Camera
Piero CRAVERI parlamentare 8 giorni 3.108,00 Senato
Angelo PEZZANA parlamentare 8 giorni 3.108,00 Camera
Toni NEGRI parlamentare 64 giorni 3.108,00 Camera
Paolo PRODI parlamentare 126 giorni 3.108,00 Camera
Clemente MASTELLA giornalista 397 giorni (?) INPGI
Oscar Luigi SCALFARO magistrato 3 anni 7.796,85 INPDAP


(nome cognome attività svolta in pensione a pensione/mese lorda ente)


Manuela MARRONE in BOSSI insegnante 39 anni 766,37 INPDAP
Giuseppe GAMBALE parlamentare 42 anni 8.455,00 Camera
Antonio DI PIETRO magistrato 44 anni 2.644,57 Inpdap
Rainer Stefano MASERA banchiere 44 anni 18.413,00 INPS
Pier Domenico GALLO banchiere 45 anni 18.000,00 INPS
Rino PISCITELLI parlamentare 47 anni 7.959,00 Camera
Pier Carmelo RUSSO assessore Sicilia 47 anni 10.980,00 Regione Sicilia
Mario SARCINELLI banchiere 48 anni 15.000,00 INPS
Alfonso PECORARO SCANIO parlamentare 49 anni 8.836,00 Camera
Vittorio SGARBI parlamentare 54 anni 8.455,00 Camera

3 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Romano PRODI
4.246,00 INPDAP
4.725,00 Parlamento
5.283,00 Unione Europea

2 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Luciano VIOLANTE
7.317,00 INPDAP
9.363,00 Camera
Publio FIORI
16.000,00 INPDAP
10.631,00 Camera

2 PENSIONI E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensioni/mese lorde +
stipendio lordo
ente
Giuliano AMATO
22.048,00 INPDAP
9.363,00 Parlamento
(?) stipendio di Deutsche Bank
Lamberto DINI
18.000,00 Bankitalia
7.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Carlo Azelio CIAMPI
30.000,00 Bankitalia
4.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giulio ANDREOTTI
5.823,00 INPDAP
5.086,00 INPGI
19.053,75 stipendio da parlamentare

1 PENSIONE E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensione/mese lorda +
stipendio lordo
ente
Renato BRUNETTA
4.352,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giuseppe FIORONI
2.008,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Rocco BUTTIGLIONE
5.498,00 INPDAP
19.053,00 stipendio da parlamentare
Achille SERRA
22.451,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Mario DRAGHI
14.843,00 INPDAP
37.500,00 stipendio Bankitalia
Cesare GERONZI
22.037,00 INPS
417.500,00 stipendio Ass. Generali

12.11.11

Buonanotte

Massimo Gramellini

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.

E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.

4.11.11

Perché non sciogliere il popolo?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?
No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.
E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».
In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.
Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.