31.12.09

Il bottino di Bettino: come e quanto rubava

di Marco Travaglio (da "Il Fatto Quotidiano" - Micromega)

Al momento della morte, nel gennaio del 2000, Bettino Craxi era stato condannato in via definitiva a 10 anni per corruzione e finanziamento illecito (5 anni e 6 mesi per le tangenti Eni-Sai; 4 anni e 6 mesi per quelle della Metropolitana milanese). Altri processi furono estinti “per morte del reo”: quelli in cui aveva collezionato tre condanne in appello a 3 anni per la maxitangente Enimont (finanziamento illecito), a 5 anni e 5 mesi per le tangenti Enel (corruzione), a 5 anni e 9 mesi per il conto Protezione (bancarotta fraudolenta Banco Ambrosiano); una condanna in primo grado prescritta in appello per All Iberian; tre rinvii a giudizio per la mega-evasione fiscale sulle tangenti, per le mazzette della Milano-Serravalle e della cooperazione col Terzo Mondo.

Nella caccia al tesoro, anzi ai tesori di Craxi sparsi per il mondo tra Svizzera, Liechtenstein, Caraibi ed Estremo Oriente, il pool Mani Pulite ha accertato introiti per almeno 150 miliardi di lire, movimentati e gestiti da vari prestanome: Giallombardo, Tradati, Raggio, Vallado, Larini e il duo Gianfranco Troielli & Agostino Ruju (protagonisti di un tourbillon di conti e operazioni fra HongKong e Bahamas, tuttora avvolti nel mistero per le mancate risposte alle rogatorie). Finanziamenti per il Psi? No, Craxi rubava soprattutto per sé e i suoi cari. Principalmente su quattro conti personali: quello intestato alla società panamense Constellation Financière presso la banca Sbs di Lugano; il Northern Holding7105 presso la Claridien Bank di Ginevra; quello intestato a un’altra panamense, la International Gold Coast, presso l’American Express di Ginevra; e quello aperto a Lugano a nome della fondazione Arano di Vaduz. “Craxi – si legge nella sentenza All Iberian confermata in Cassazione - è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti… non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”. Su Constellation Financiere e Northern Holding - conti gestiti dal suo compagno di scuola Giorgio Tradati - riceve nel 1991-‘92 la maxitangente da 21 miliardi versata da Berlusconi dopo la legge Mammì. Sul Northern Holding in cassa almeno 35 miliardi da aziende pubbliche, come Ansaldo e Italimpianti, e private, come Calcestruzzi e Techint.

Nel 1998 la Cassazione dispone il sequestro conservativo dei beni di Craxi per 54 miliardi. Ma nel frattempo sono spariti. Secondo i laudatores, Craxi fu condannato in base al teorema “non poteva non sapere”. Ma nessuna condanna definitiva cita mai quell’espressione. Anzi la Corte d’appello di Milano scrive nella sentenza All Iberian poi divenuta definitiva: “Non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti”. Tutto era cominciato “nei primi anni 80” quando – racconta Tradati a Di Pietro – “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense (Constellation Financière, ndr). Funzionava cosí: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto”. Su cui cominciano ad arrivare “somme consistenti”: nel 1986 ammontano già a 15 miliardi. Poi il deposito si sdoppia e nasce il conto International Gold Coast, affiancato dal conto di transito Northern Holding, messo a disposizione dal funzionario dell’American Express, Hugo Cimenti, per rendere meno identificabili i versamenti. Anche lí confluiscono ben presto 15 miliardi. Come distinguere i versamenti per Cimenti da quelli per Tradati, cioè per Craxi? “Per i nostri – risponde Tradati – si usava il riferimento ‘Grain’. Che vuol dire grano”. Poi esplode Tangentopoli. “Il 10 febbraio ‘93 Bettino mi chiese di far sparire il denaro da quei conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici di Mani pulite. Ma io rifiutai e fu incaricato qualcun altro (Raggio, ndr): so che hanno comperato anche 15 chili di lingotti d’oro… I soldi non finirono al partito, a parte 2 miliardi per pagare gli stipendi”. Raggio va in Svizzera, spazzola il bottino di Bettino e fugge in Messico con 40 miliardi e la contessa Vacca Agusta. I soldi finiscono su depositi cifrati alle Bahamas, alle Cayman e a Panama.

Che uso faceva Craxi dei fondi esteri? “Craxi – riepilogano i giudici – dispose prelievi sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo [l’Ivanohe] a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla quale faceva pure pagare “la servitú, l’autista e la segretaria”. Alla tv della Pieroni arrivarono poi 1 miliardo da Giallombardo e 3 da Raggio. Craxi lo diceva sempre, a Tradati: “Diversificare gli investimenti”. Tradati eseguiva: “Due operazioni immobiliari a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile”. Bettino regalò una villa e un prestito di 500 milioni per il fratello Antonio (seguace del guru Sai Baba). E il Psi, finito in bolletta per esaurimento dei canali di finanziamento occulto? “Raggio ha manifestato stupore per il fatto che, dopo la sua cessazione dalla carica di segretario del Psi, Craxi si sia astenuto dal consegnare al suo successore i fondi contenuti nei conti esteri”.

Anche Raggio vuota il sacco e confessa di avere speso 15 miliardi del tesoro craxiano per le spese della sua sontuosa latitanza in Messico. E il resto? Lo restituì a Bettino, oltre ad acquistargli un aereo privato Sitation da 1,5 milioni di dollari e a disporre –scrivono i giudici– “bonifici specificatamente ordinati da Craxi, tutti in favore di banche elvetiche, tranne che per i seguenti accrediti: 100.000 dollari al finanziere arabo Zuhair Al Katheeb” e 80 milioni di lire(«$ 40.000/s. Fr. 50.000 Bank of Kuwait Lnd») per “un’abitazione affittata dal figlio di Craxi (Bobo, ndr) in Costa Azzurra”, a Saint-Tropez, “per sottrarlo - spiega Raggio - al clima poco favorevole creatosi a Milano”. Anche Bobo, a suo modo, esule.

Quando i difensori di Craxi ricorrono davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella speranza di ribaltare la condanna Mm, vengono respinti con perdite. “Non è possibile – scrivono i giudici di Strasburgo il 31 ottobre 2001 – pensare che i rappresentanti della Procura abbiano abusato dei loro poteri”. Anzi, l’iter dibattimentale “seguí i canoni del giusto processo” e le proteste dell’imputato sulla parzialità dei giudici “non si fondano su nessun elemento concreto… Va ricordato che il ricorrente è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche”.

29.12.09

La ricchezza nel caleidoscopio

di Marco Fortis

Nel 2006-2007, poco prima che la più grande crisi mondiale degli ultimi ottant'anni avesse inizio, il made in Italy aveva raggiunto straordinarie posizioni di preminenza nel commercio internazionale. Ma questo fatto è ancor oggi sconosciuto alla maggioranza dell'opinione pubblica, in Italia e all'estero. E, probabilmente, anche se fosse noto, passerebbe ormai in secondo piano di fronte al devastante impatto della recessione economica, che ha attirato su di sé ogni attenzione. E invece è importante conoscere quale peso il nostro sistema produttivo aveva saputo riconquistare sui mercati mondiali dopo il temporaneo appannamento d'inizio decennio, causato dalla concorrenza asimmetrica asiatica. Perché è proprio dai nostri punti di forza – quelli nuovi e quelli ritrovati – che dovremo e potremo ripartire per agganciare il treno della ripresa: ne abbiamo tutti i mezzi e le possibilità.
Dopo un eccezionale biennio di crescita, il valore dell'export italiano ha superato nel 2007 il livello record di 500 miliardi di dollari. Ma la cosa più importante è che il 47% di questo valore è stato realizzato in oltre mille prodotti (1.022 per la precisione) in cui l'Italia figura nei primi tre posti al mondo tra i paesi esportatori.

Quello delle mille nicchie d'eccellenza del made in Italy è un primato sconosciuto, che smentisce una volta per tutte le tesi sul presunto declino dell'Italia che sono andate di moda negli ultimi anni. È un primato che emerge da un nuovo indice di competitività elaborato per la Fondazione Edison (Indice Fortis-Corradini delle eccellenze competitive nel commercio internazionale). Si tratta di un indicatore che è in grado di misurare istantaneamente e con un alto livello di dettaglio il numero di prodotti in cui ciascun paese è primo, secondo o terzo esportatore mondiale. L'indagine si basa sulle informazioni della banca dati sul commercio internazionale dell'Onu e prende come riferimento i 5.517 prodotti scambiati a livello globale. Per il momento, l'anno dell'indagine è il 2007, in attesa che siano disponibili per tutti i paesi del mondo le statistiche aggiornate al 2008 (anno in cui, per inciso, l'export italiano è ulteriormente salito a 537 miliardi di dollari, toccando un altro record).
Nel 2007 l'Italia è risultata seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale ogni 100mila abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud.

In termini assoluti, il nostro paese è invece stato: primo esportatore mondiale di 288 prodotti (valore complessivo del nostro export di questi beni: 100 miliardi di dollari), secondo esportatore di 382 prodotti (per 79 miliardi) e terzo esportatore di altri 352 prodotti (per 56 miliardi). In totale: 1.022 nicchie d'eccellenza per un valore complessivo delle nostre esportazioni di 235 miliardi di dollari. La forza del "made in Italy" si completa con altri 737 prodotti in cui il nostro paese nel 2007 figurava quarto o quinto tra gli esportatori a livello mondiale, per altri 87 miliardi di dollari di export.

Sappiamo che a molti l'idea di un'Italia che eccelle nelle "nicchie" non piace, mentre piacerebbe invece un'utopica Italia dotata di gruppi multinazionali di grandissima taglia. A parte l'oggettiva impossibilità di una trasformazione del nostro paese in questa direzione (dato che storicamente i pochi grandi gruppi che avevamo, casomai, li abbiamo persi per strada: Montedison e Olivetti ne sono esempi) bisognerebbe capire per quali ragioni l'Italia dovrebbe oggi svoltare verso un improbabile gigantismo industriale (settori delle reti e delle infrastrutture strategiche a parte) snaturando la sua identità. Vorremmo forse avere anche noi grandi gruppi multinazionali dell'industria e del commercio che creano occupazione prevalentemente fuori dal loro paese e frequentemente trattengono i loro profitti negli ultimi paradisi fiscali esotici, con ciò apportando scarsi benefici al proprio Pil nazionale?

La realtà è che in Italia abbiamo invece bisogno soprattutto di un consolidamento dimensionale e patrimoniale delle nostre medie e medio-grandi imprese distribuite sul territorio, questo sì; ma nulla di più per continuare ad eccellere nella competizione mondiale come sappiamo fare benissimo. Non è un'opinione, lo dicono le statistiche. Non le vecchie aggregazioni di dati che si usavano nel XX secolo, dove le categorie di riferimento erano i maxi-settori aggregati come il tessile, la chimica, l'auto o l'elettronica, mentre si conosceva ben poco dei singoli comparti e delle nicchie dei diversi sistemi produttivi. Le statistiche che ci servono per capire l'economia del XXI secolo devono invece avere altissimi livelli di disaggregazione, spingendosi sino al dettaglio delle diverse migliaia di prodotti. Sono queste nuove statistiche che ci raccontano che solo tre paesi (Germania, Cina e Stati Uniti) hanno fatto meglio dell'Italia nel 2007 quanto a numero di primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale e solo quattro paesi (i tre precedentemente citati più il Giappone) hanno fatto registrare valori complessivi di export superiori a quelli dell'Italia nei beni in cui essi figurano tra i primi tre esportatori mondiali (escludendo il petrolio greggio e il gas naturale).
La forza del "made in Italy", dunque, sta proprio nelle tanto poco apprezzate "nicchie" e nell'elevata diversificazione delle sue specializzazioni, che afferiscono soprattutto ai macrosettori delle "4 A" (Alimentari-vini, Abbigliamento-moda, Arredo-casa e Automazione-meccanica-gomma-plastica), ma anche ad altri comparti importanti come la metallurgia, la carta e la chimica-farmaceutica.
Migliaia d'imprese medio-grandi, medie e piccole sono le protagoniste di questo successo che ci permette di competere con paesi che possono schierare molti più gruppi di grandi dimensioni e di rilievo multinazionale rispetto all'Italia, ma che non possiedono la nostra capacità di essere flessibili e operativi in centinaia di tipologie di prodotti, dalle caratteristiche "quasi sartoriali". È in questi ambiti d'attività che emergono come fattori vincenti del "made in Italy" la creatività, l'innovazione, la qualità, il design e una spiccata "artigianalità industriale", cioè la capacità di realizzare beni quasi "su misura" per i clienti, anche in settori hi-tech come la meccanica o i mezzi di trasporto.
Per un paese come l'Italia, che possiede poche imprese in grado di andare a produrre all'estero e di vendere estero su estero, l'export rappresenta tuttora la strada maestra per conquistare quote di mercato nel mondo, oltre che per continuare a generare occupazione e reddito in patria.

L'Italia, come tutti i paesi, sta oggi soffrendo a causa della più grave crisi mondiale dai tempi del 1929. Ma questa crisi non ci farà perdere la capacità di saper fare meglio degli altri paesi i "mestieri" in cui eccelliamo a livello internazionale. Ed è proprio da questi "mestieri", di cui sono ricchi i nostri territori e i nostri distretti, che può e deve partire la nostra riscossa.

26.12.09

Copenhagen, and After

Tim Flannery

On April 5, 2009, Denmark got a new Prime Minister, Lars Løkke (“Birthday”) Rasmussen. He was the third Danish Prime Minister in a row to bear that surname, replacing Anders Fogh Rasmussen, who had been named the new Secretary-General of NATO. A capable local politician in his forties, Lars Rasmussen had, in contrast to his predecessor, almost no experience in international politics. His appointment received little media coverage outside Denmark. But just eight months later, with Denmark the host of the Copenhagen climate summit (officially the 15th United Nations Climate Change Conference, or COP-15), Lars Rasmussen’s—and Denmark’s—lack of experience in international politics would have a global impact.

Following internal conflicts in the Danish cabinet, Rasmussen abruptly took over as chair of the conference two days before it ended, replacing Connie Hedegaard, the President of the COP (and previously his climate and energy minister) at a point when the negotiations had reached a critical juncture. As the host country, Denmark was expected to deliver for consideration that evening a draft statement on a final agreement. It did not arrive; nor was it produced the following morning. When it again failed to appear by lunchtime on December 17, a sense of crisis gripped the national delegations from 113 different countries. Numerous obstructions and demands by particular countries impeded a successful outcome. Leaders of some small countries were using the meeting to grandstand, while others were using it to push their own agendas. Many expressed astonishment when the representative from the Sudan likened a deal to cut carbon emissions to genocide, a comment that was perhaps prompted by Amnesty International’s call for the Danes to arrest Sudanese President Omar al Bashir if he attended the meeting. (He did not.) And by all accounts Rasmussen’s chairing of the final days of the meeting did not help in dealing with such unwelcome developments.

By the morning of Friday the 18th, the last formal day of the meeting, there was only one source of hope remaining—President Obama, who was scheduled to fly in that morning. Tellingly, upon arrival he did not, as diplomatic protocol dictates, meet with Rasmussen, but instead went directly into a meeting with about twenty world leaders, including Gordon Brown, Nicholas Sarkozy, Angela Merkel, and Manmohan Singh, and then into an hour-long meeting with Wen Jiabao.

When he spoke afterward, President Obama was clearly both frustrated and surprised at the limited progress that had been made toward a resolution. Nor did things go terribly well after that. The key objective for Obama in his meeting with Premier Wen was to secure greater transparency on Chinese emissions targets, and Wen signaled his dissatisfaction by dispatching increasingly junior emissaries to meet with Obama.

Then, much to the annoyance of the Chinese delegation, Obama burst uninvited into a meeting between Wen, Manmohan Singh, Lula da Silva of Brazil, and South African President Jacob Zuma. It was at that meeting—in which no European leaders were present—that the final touches were put on the three-page document that would become known as the Copenhagen Accord. In this agreement, despite Chinese resistance, Obama could claim to have—in principle at least—achieved his key objective of obtaining greater international transparency and accountability for emissions reduction targets; and with the UNFCCC negotiations still in full swing, the US President flew home, citing deteriorating weather as the reason, leaving European representatives and those from the smaller developing countries alike surprised and chagrined.

When I awoke on Saturday, December 19th—the morning after what was to be the final day of the conference—I was concerned to discover that it had not ended and the wording of the final accord was still being discussed. As it was, the final negotiations ran until nearly 2:30 p.m. that afternoon, ultimately resulting in a resolution to “take note of the Copenhagen Accord of December 18, 2009,” as Rasmussen put it, before sharply banging down his gavel to close COP 15.

So just what has the world got out of this much-anticipated meeting? The Copenhagen Accord reaffirms the objective—first expressed at the Rio Earth Summit in 1992—of keeping Earth’s temperature from rising more than two degrees. It affirms a commitment by developed countries to help developing countries deal with the effects of climate change by creating a $100 billion fund for adaptation and mitigation by 2020. It commits the so-called Annex 1 countries (developed countries that ratified the Kyoto Protocol) to announcing their emissions targets by January 31, 2010—within weeks—and it obliges “non-Annex 1 parties” to the Kyoto Protocol (developing countries such as China and India) to list national schedules of action to combat climate change.

While many of these commitments were expected, the pathway to agreement was a surprise. Indeed, as the meeting unfolded I got the feeling that I was watching the death of the old UN-sponsored process and the birth of something new. That’s not to say that COP 16 won’t occur in Mexico next year, as planned, but just that the really important work of abating climate change is likely to take place elsewhere.

The hopelessly confused arrangements for the Copenhagen conference will be cautionary. Meetings among powerful nations—such as the one Obama broke in on—don’t have to take place at COP. Just where the key negotiations on climate will occur in future is unclear, but it seems likely that the G20 will be an important venue, as may the G8. This will frustrate the smaller developing countries—such as Bolivia and Sudan—that have the most to lose from runaway climate change. How they will react to this shift away from COP, which amounts to their disempowerment, is yet to be seen.

The Copenhagen Accord left much hanging, including the question of precise commitments and how they can be enforced. Among the key questions it poses is whether the US is prepared to take concrete steps to reduce emissions, for since the US did not sign the Kyoto Protocol, it is not bound to announce its gas emissions target by January 31.

Much depends upon the fate of a cap-and-trade bill now before the US Senate. If such a bill passes, then the US will be able to commit, in a fully accountable way, to a national target of emissions reduction. If instead, the US is forced to rely upon regulations by the Environmental Protection Administration, including the imposition of fuel efficiency standards on coal-fired power plants, it will be much more difficult to commit to a precise reduction target, simply because it’s hard to be sure how much such measures will actually reduce emissions. And if that is the outcome, will the US seek to use a “national schedules” approach like China and India—according to which no hard target on national emissions reductions is mandated?

The Copenhagen Accord ends with two blank appendices, one for Annex 1, and another for non-Annex 1 countries. How they are filled in over 2010 will determine in large part the world’s success in averting dangerous climate change. Whatever the case, it is now clear that the focus in combating climate change will revert once again to the national level, which means that 2010 could be the definitive year in places such as the US and China, in the battle for climatic stability.

The New York Review of Books

24.12.09

Bus, bollette e cinema ora si pagano col cellulare

Ok dell'Unione europea ad acquisti via sms e shopping con i lettori. Al via dal 2010
di ALESSANDRO LONGO

Usare il cellulare per pagare il caffé al bar, il giornale in edicola o la spesa al supermercato: dopo anni di promesse rinviate, numerosi operatori stanno per partire con questi servizi. "Sarà il 2010 l'anno del boom per i pagamenti mobili, perché solo a novembre è stata recepita la direttiva europea Payment Service, che li abilita. Adesso gli operatori stanno ultimando la fase di rodaggio", dice Carlo Maria Medaglia, direttore di RfidLab presso la Sapienza di Roma (un laboratorio che studia queste tecnologie). La direttiva ha innalzato a 150 euro (da 15 euro) il limite per i pagamenti mobili e ha permesso di lanciarli anche a operatori diversi dalle banche.

Succederà quindi che "nell'immediato si diffonderanno i sistemi per gestire il conto corrente via cellulare. Nel corso del 2010 diventerà comune pagare biglietti di mezzi pubblici con il telefonino. Per ultimi, partiranno i servizi per acquistare prodotti nei negozi", continua.
Il primo tipo di servizi già c'è ma è piuttosto circoscritto. Poste Mobile (l'operatore di Poste Italiane) permette di pagare bollette e di fare transazioni bancarie, tramite cellulare, ai correntisti Bancoposta. Finora ha gestito operazioni per 50 milioni di euro, in un anno e mezzo. I cellulari con sim dell'operatore mobile Noverca danno accesso invece a conti correnti Intesa Sanpaolo.

Poste ha un piano agguerrito per potenziare l'offerta: da fine novembre consente agli utenti di inviarsi denaro via cellulare (è utile soprattutto agli immigrati); CartaSì lancerà un servizio analogo a gennaio. Poste da qualche giorno permette di pagare anche i parcheggi, via cellulare. È possibile farlo anche con altri operatori (via sms), se ci si iscrive al servizio di Telepark. it, attivo in una 30ina di città italiane. CartaSì consente di pagare via sms vari prodotti (con addebito su carta di credito); modalità accettata anche da Sky (per i film Prima Fila) e da alcuni cinema. Telecom lancerà nel 2010 speciali sim card per pagare via sms numerosi beni e servizi, tramite un accordo con Movincom (consorzio di esercenti e gestori, tra cui Trenitalia, società di parcheggi, biglietterie).

La frontiera più evoluta è però un'altra: sono i cosiddetti pagamenti di prossimità. Cioè si avvicina il cellulare a uno speciale lettore Pos per pagare: in un negozio, bar o prima di entrare in un mezzo pubblico, per esempio. L'addebito è su carta di credito o sul conto telefonico. Sono servizi molto diffusi in Giappone e ora si affacciano anche da noi. Telecom permette di pagare così i biglietti dei trasporti pubblici milanesi (in via sperimentale). Servono cellulari speciali, come il Nokia 6126

"Vari attori sperimentano il servizio anche per i trasporti pubblici di Roma, Venezia, Firenze e partiranno nel 2010", dice Medaglia. È nei piani di Poste per il 2010. Il passo successivo sarà introdurre questi speciali Pos nei negozi: Telecom, Wind, Vodafone e Poste dicono di lavorare ad accordi con gli esercenti. "Noi abbiamo già lanciato il servizio su un centinaio di negozi a Pesaro, tramite sticker che abilitano ai pagamenti qualsiasi cellulare", dice Giorgio Porazzi, responsabile innovazione servizi CartaSì. Un'altra sperimentazione è del Credito Valtellinese, Visa e Keyclient, su 200 negozi della provincia di Sondrio.

18.12.09

Onwards and upwards

The idea of progress

Dec 17th 2009
From The Economist print edition

Why is the modern view of progress so impoverished?


Illustration by Matt Herring

THE best modern parable of progress was, aptly, ahead of its time. In 1861 Imre Madach published “The Tragedy of Man”, a “Paradise Lost” for the industrial age. The verse drama, still a cornerstone of Hungarian literature, describes how Adam is cast out of the Garden with Eve, renounces God and determines to recreate Eden through his own efforts. “My God is me,” he boasts, “whatever I regain is mine by right. This is the source of all my strength and pride.”

Adam gets the chance to see how much of Eden he will “regain”. He starts in Ancient Egypt and travels in time through 11 tableaux, ending in the icebound twilight of humanity. It is a cautionary tale. Adam glories in the Egyptian pyramids, but he discovers that they are built on the misery of slaves. So he rejects slavery and instead advances to Greek democracy. But when the Athenians condemn a hero, much as they condemned Socrates, Adam forsakes democracy and moves on to harmless, worldly pleasure. Sated and miserable in hedonistic Rome, he looks to the chivalry of the knights crusader. Yet each new reforming principle crumbles before him. Adam replaces 17th-century Prague’s courtly hypocrisy with the rights of man. When equality curdles into Terror under Robespierre, he embraces individual liberty—which is in turn corrupted on the money-grabbing streets of Georgian London. In the future a scientific Utopia has Michelangelo making chair-legs and Plato herding cows, because art and philosophy have no utility. At the end of time, having encountered the savage man who has no guiding principle except violence, Adam is downcast—and understandably so. Suicidal, he pleads with Lucifer: “Let me see no more of my harsh fate: this useless struggle.”

Things today are not quite that bad. But Madach’s 19th-century verse contains an insight that belongs slap bang in the 21st. In the rich world the idea of progress has become impoverished. Through complacency and bitter experience, the scope of progress has narrowed. The popular view is that, although technology and GDP advance, morals and society are treading water or, depending on your choice of newspaper, sinking back into decadence and barbarism. On the left of politics these days, “progress” comes with a pair of ironic quotation marks attached; on the right, “progressive” is a term of abuse.

It was not always like that. There has long been a tension between seeking perfection in life or in the afterlife. Optimists in the Enlightenment and the 19th century came to believe that the mass of humanity could one day lead happy and worthy lives here on Earth. Like Madach’s Adam, they were bursting with ideas for how the world might become a better place.

Some thought God would bring about the New Jerusalem, others looked to history or evolution. Some thought people would improve if left to themselves, others thought they should be forced to be free; some believed in the nation, others in the end of nations; some wanted a perfect language, others universal education; some put their hope in science, others in commerce; some had faith in wise legislation, others in anarchy. Intellectual life was teeming with grand ideas. For most people, the question was not whether progress would happen, but how.

The idea of progress forms the backdrop to a society. In the extreme, without the possibility of progress of any sort, your gain is someone else’s loss. If human behaviour is unreformable, social policy can only ever be about trying to cage the ape within. Society must in principle be able to move towards its ideals, such as equality and freedom, or they are no more than cant and self-delusion. So it matters if people lose their faith in progress. And it is worth thinking about how to restore it.

Cain and cant

By now, some of you will hardly be able to contain your protests. Surely the evidence of progress is all around us? That is the case put forward in “It’s Getting Better All the Time”, by the late Julian Simon and Stephen Moore then at the Cato Institute, a libertarian think-tank in Washington, DC. Over almost 300 pages they show how vastly everyday life has improved in every way.

For aeons people lived to the age of just 25 or 30 and most parents could expect to mourn at least one of their children. Today people live to 65 and, in countries such as Japan and Canada, over 80; outside Africa, a child’s death is mercifully rare. Global average income was for centuries about $200 a year; a typical inhabitant of one of the world’s richer countries now earns that much in a day. In the Middle Ages about one in ten Europeans could read; today, with a few exceptions, such as India and parts of Africa, the global rate is comfortably above eight out of ten. In much of the world, ordinary men and women can vote and find work, regardless of their race. In large parts of it they can think and say what they choose. If they fall ill, they will be treated. If they are innocent, they will generally walk free.

It is good to go up in the world, but much less so
if everyone around you is going up in it too

It is an impressive list—even if you factor in some formidably depressing data. (In the gently dissenting foreword to her husband’s book Simon’s widow quotes statistics claiming that, outside warfare, 20th-century governments murdered 7.3% of their people, through needless famine, labour camps, genocide and other crimes. That compares with 3.7% in the 19th century and 4.7% in the 17th.) Mr Moore and Simon show that health and wealth have never been so abundant. And for the part of humanity that is even now shedding poverty, many gains still lie ahead.

The trouble is that a belief in progress is more than just a branch of accounting. The books are never closed. Wouldn’t nuclear war or environmental catastrophe tip the balance into the red? And the accounts are full of blank columns. How does the unknown book-keeper reconcile such unknowable quantities as happiness and fulfilment across the ages? As Adam traverses history, he sees material progress combined with spiritual decline.

Even if you can show how miserable the past was, the belief in progress is about the future. People born in the rich world today think they are due a modicum of health, prosperity and equality. They advance against that standard, rather than the pestilence, beggary and injustice of serfdom. That’s progress.

Every day, in every way…

The idea of progress has a long history, but it started to flower in the 17th century. Enlightenment thinkers believed that man emancipated by reason would rise to ever greater heights of achievement. The many manifestations of his humanity would be the engines of progress: language, community, science, commerce, moral sensibility and government. Unfortunately, many of those engines have failed.

Some supposed sources of progress now appear almost quaint. Take language: many 18th-century thinkers believed that superstitions and past errors were imprinted in words. “Hysteria”, for example, comes from the Greek for “womb”, on the mistaken idea that panic was a seizure of the uterus. Purge the language of rotten thinking, they believed, and truth and reason would prevail at last. The impulse survives, much diminished, in the vocabulary of political correctness. But these days few people outside North Korea believe in language as an agent of social change.

Every time someone tells you to “be realistic”
they are asking you to compromise your ideals

Other sources of progress are clothed in tragedy. The Germanic thought that individual progress should be subsumed into the shared destiny of a nation, or volk, is fatally associated with Hitler. Whenever nationalism becomes the chief organising principle of society, state violence is not far behind. Likewise, in Soviet Russia and Communist China unspeakable crimes were committed by the ruling elite in the pursuit of progress, rather as they had been in the name of God in earlier centuries. As John Passmore, an Australian philosopher, wrote: “men have sought to demonstrate their love of God by loving nothing at all and their love for humanity by loving nobody whatsoever.”

The 20th century was seduced by the idea that humans will advance as part of a collective and that the enlightened few have the right—the duty even—to impose progress on the benighted masses whether they choose it or not. The blood of millions and the fall of the Berlin Wall, 20 years ago this year, showed how much the people beg to differ. Coercion will always have its attractions for those able to do the coercing, but, as a source of enlightened progress, the subjugation of the individual in the interests of the community has lost much of its appeal.

Instead the modern age has belonged to material progress and its predominant source has been science. Yet nestling amid the quarks and transistors and the nucleic acids and nanotubes, there is a question. Science confers huge power to change the world. Can people be trusted to harness it for good?

The ancients thought not. Warnings that curiosity can be destructive stretch back to the very beginning of civilisation. As Adam and Eve ate from the Tree of Knowledge, so inquisitive Pandora, the first woman in Greek mythology, peered into the jar and released all the world’s evils.

Modern science is full of examples of technologies that can be used for ill as well as good. Think of nuclear power—and of nuclear weapons; of biotechnology—and of biological contamination. Or think, less apocalyptically, of information technology and of electronic surveillance. History is full of useful technologies that have done harm, intentionally or not. Electricity is a modern wonder, but power stations have burnt too much CO2-producing coal. The internet has spread knowledge and understanding, but it has also spread crime and pornography. German chemistry produced aspirin and fertiliser, but it also filled Nazi gas chambers with Cyclon B.

The point is not that science is harmful, but that progress in science does not map tidily onto progress for humanity. In an official British survey of public attitudes to science in 2008, just over 80% of those asked said they were “amazed by the achievements of science”. However, only 46% thought that “the benefits of science are greater than any harmful effect”.

From the perspective of human progress, science needs governing. Scientific progress needs to be hitched to what you might call “moral progress”. It can yield untold benefits, but only if people use it wisely. They need to understand how to stop science from being abused. And to do that they must look outside science to the way people behave.

…I am getting richer and richer

It is a similar story with economic growth, the other source of material progress. The 18th century was optimistic that business could bring prosperity; and that prosperity, in its turn, could bring enlightenment. Business has more than lived up to the first half of that promise. As Joseph Schumpeter famously observed, silk stockings were once only for queens, but capitalism has given them to factory girls. And, as Mr Moore and Simon argue, prosperity has brought its share of enlightenment.

The Economist puts more faith in business than most. Yet even the stolidest defenders of capitalism would, by and large, agree that its tendency to form cartels, shuffle off the costs of pollution and collapse under the weight of its own financial inventiveness needs to be constrained by laws designed to channel its energy to the general good. Business needs governing, just as science does.

Nor does economic progress broadly defined correspond to human progress any more precisely than does scientific progress. GDP does not measure welfare; and wealth does not equal happiness. Rich countries are, by and large, happier than poor ones; but among developed-world countries, there is only a weak correlation between happiness and GDP. And, although wealth has been soaring over the past half a century, happiness, measured by national surveys, has hardly budged.

That is probably largely because of status-consciousness. It is good to go up in the world, but much less so if everyone around you is going up in it too. Once they have filled their bellies and put a roof over their heads, people want more of what Fred Hirsch, an economist who worked on this newspaper in the 1950s and 1960s, called “positional goods”. Only one person can be the richest tycoon. Not everyone can own a Matisse or a flat in Mayfair. As wealth grows, the competition for such status symbols only becomes more intense.

And it is not just that material progress does not seem to be delivering the emotional goods. People also fear that mankind is failing to manage it properly—with the result that, in important ways, their children may not be better off than they are. The forests are disappearing; the ice is melting; social bonds are crumbling; privacy is eroding; life is becoming a dismal slog in an ugly world.

All this scepticism, and more, is on display in “Nineteen Eighty-Four” and “Brave New World”, the two great British dystopian novels of the 20th century. In them George Orwell and Aldous Huxley systematically subvert each of the Enlightenment’s engines of progress. Language—Orwell’s Newspeak—is used to control people’s thought. The individuals living on Airstrip One are dissolved by perpetual war into a single downtrodden “nation”. In both books the elite uses power to oppress, not enlighten. Science in Huxley’s London has become monstrous—babies raised in vitro in hatcheries are chemically stunted; and the people are maintained in a state of drug-induced tranquillity. And in the year of our Ford 632, Huxley’s world rulers require enthusiastic consumption to keep the factories busy and the people docile. Wherever the Enlightenment saw scope for human nature to improve, Orwell and Huxley warned that it could be debased by conditioning, propaganda and mind-control.

Crooked timber

The question is why neither Orwell’s nor Huxley’s nightmares have come to life. And the answer depends on the last pair of engines of progress: moral sensibility in its widest sense, and the institutions that make up what today is known as “governance”. These broadly liberal forces offer hope for a better future—more, indeed, than you may think.

The junior partner is governance—not an oppressive Leviathan, but a democratic system of laws and social institutions. Right and left have much cause to criticise government. For the right, as Ronald Reagan famously said, the nine most terrifying words in the English language are: “I’m from the government and I’m here to help.” For the left, government has failed to tame the cruelty of markets and lift the poor out of their misery. From their different perspectives, both sides complain that government regulation is often costly and ineffectual, and that many decades of social welfare have failed to get to grips with an underclass.

Yet even if government has scaled back its ambitions from the heights of the post-war welfare state, even if it is often inefficient and self-serving, it also embodies moral progress. That is the significance of the assertion, in the American Declaration of Independence, that “all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights”. It is the significance of laws guaranteeing free speech, universal suffrage, and equality before the law. And it is the significance of courts that can hold states to account when they, inevitably, fail to match the standards that they have set for themselves.

Illustration by Matt Herring

Such values are the institutional face of the fundamental engine of progress—“moral sensibility”. The very idea probably sounds quaint and old-fashioned, but it is the subject of a powerful recent book by Susan Neiman, an American philosopher living in Germany. People often shy away from a moral view of the world, if only because moral certitude reeks of intolerance and bigotry. As one sociologist has said “don’t be judgmental” has become the 11th commandment.

But Ms Neiman thinks that people yearn for a sense of moral purpose. In a world preoccupied with consumerism and petty self-interest, that gives life dignity. People want to determine how the world works, not always to be determined by it. It means that people’s behaviour should be shaped not by who is most powerful, or by who stands to lose and gain, but by what is right despite the costs. Moral sensibility is why people will suffer for their beliefs, and why acts of principled self-sacrifice are so powerful.

People can distinguish between what is and what ought to be. Torture was once common in Europe’s market squares. It is now unacceptable even when the world’s most powerful nation wears the interrogator’s mask. Race was once a bar to the clubs and drawing-rooms of respectable society. Now a black man is in the White House.

There are no guarantees that the gap between is and ought can be closed. Every time someone tells you to “be realistic” they are asking you to compromise your ideals. Ms Neiman acknowledges that your ideals will never be met completely. But sometimes, however imperfectly, you can make progress. It is as if you are moving towards an unattainable horizon. “Human dignity”, she writes, “requires the love of ideals for their own sake, but nothing requires that the love will be requited.”

Striving, not strife

At the end of Madach’s poem, Adam is about to throw himself off a cliff in despair, when he glimpses redemption. First Eve draws near to tell him that she is to have a child. Then God comes and gently tells Adam that he is wrong to try to reckon his accomplishments on a cosmic scale. “For if you saw your transient, earthly life set in dimensions of eternity, there wouldn’t be any virtue in endurance. Or if you saw your spirit drench the dust, where could you find incentive for your efforts?” All God asks of man is to strive for progress, nothing more. “It is human virtues I want,” He says, “human greatness.”

Ms Neiman asks people to reject the false choice between Utopia and degeneracy. Moral progress, she writes, is neither guaranteed nor is it hopeless. Instead, it is up to us.

16.12.09

Internet e quella Stella che brilla lassù

di Leonardo Tondelli

Ho una teoria. Quando a un giornalista capita di scrivere il solito pezzo demonizza-internet (un genere relativamente giovane, ma già irrigidito nella statuaria dei luoghi comuni senza età, come gli elzeviri sulle mezze stagioni o sugli esodi d'agosto) la prima reazione di chi su internet ci scrive davvero, e magari da anni si sbatte per difendere e diffondere contenuti di qualità, è più o meno: Nonno Non Hai Capito Niente. Probabilmente parli per sentito dire e non sai distinguere un profilo facebook da un blog, avrai una connessione modem a 56k con il fischiettino (vi ricordate il fischiettino?) oppure la stagista schiavetta che ti scansiona i comunicati battuti in Olivetti Lettera22.

Tante volte devo aver reagito così anch'io, qualche anno fa, ma appunto: era qualche anno fa. Adesso siamo nel 2009 e davvero anche il nonno ha capito come si accende il computer. Parlare di Internet per sentito dire non solo non è più ammissibile, ma è davvero impossibile. Eppure le cose che ha scritto Gian Antonio Stella sono un po' le solite: “zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta” (Montecitorio? No, Internet) “individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti [...] il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento” (Curva di stadio? Set del Grande Fratello? Nooo, Internet). A gente come me, come probabilmente anche voi, che frequenta internet ogni giorno e ci trova lampi d'intelligenza, di fantasia e di creatività che nessun altro media gli offre, può sembrare strano e triste che Gian Antonio Stella si trovi in casa la stessa finestra sul mondo e non ci trovi nient'altro che volgarità, violenza, odio, anzi, “libertà di odio”. Eppure è così: come si spiega?

Io una teoria ce l'ho, dicevo: dipende tutto da dove è piazzata la finestra. Gian Antonio Stella guarda internet come tutti noi, ma da una posizione infelice: quella di giornalista. Rifletteteci bene. Voi praticoni di internet avete i vostri riferimenti, i vostri feed, le persone simpatiche ed esperte di questo o quel settore che avete selezionato in anni di frequentazioni, ed è questo a rendere la vostra finestra così colorata e interessante. Stella ha avuto meno tempo di voi, e i frequentatori di internet forse li conosce soprattutto sotto forma di commentatori medi del sito del Corriere. Ma i commentatori medi al Corriere (o alla Repubblica), beh... è il caso di dire no comment. Davvero, cosa pensereste di Internet e di chi lo frequenta, se le uniche prove della loro esistenza fossero le tracce di bava che lasciano sui siti dei grandi quotidiani, e su qualche gruppo di facebook?

Internet è piena di melma, inutile negarlo (nessuno infatti ci ha provato). Però in mezzo alla melma ci sono cose straordinarie che valgono tutta la bolletta, e persone che sostengono, come me, che è inutile criticare la melma: l'unico sistema per migliorare la qualità è creare piccole oasi di cose intelligenti e interessanti, in zone non troppo remote da quelle dove passa il grande traffico. I blog che leggo quotidianamente sono una realizzazione imperfetta di questa idea di oasi: mi riassumo i fatti importanti del giorno in modo esauriente e divertente, mi raccontano notizie singolari e importanti che da solo non avrei trovato mai, a volte mi fanno arrabbiare, ma sempre per un'idea diversa dalla mia, non per uno schizzo d'odio. Però ci ho messo anni a selezionarli, e ho dovuto vincere il fascino per la melma, per i deliri dei dementi, che soprattutto all'inizio mi soggiogavano e mi facevano perdere tempo prezioso (tuttora, a portata di clic, c'è la perdizione). Insomma, ci ho messo anni per rendere davvero efficiente e interessante quella che una volta si chiamava “navigazione” su Internet. E questo smentisce il luogo comune che Internet sia facile come schiacciare un bottone: no, se schiacci un bottone per prima cosa escono quintali di melma che ti schizza dappertutto. Il setaccio di contenuti interessanti è una pratica difficile che si acquisisce con gli anni, è più complesso che imparare a guidare. Basta vedere cosa combinano gli adolescenti in rete: in teoria dovrebbero capire tutto alla svelta, in pratica finiscono subito impantanati in luoghi assurdi, e ci impiegano anni a trovarsi una posizione rispettabile, a costruirsi un profilo decente.

Con gli anni s'impara a tenersi lontani da certi luoghi come i commenti su youtube, i gruppi su Facebook... o i commenti di Repubblica.it, o del Corriere. Ma non è paradossale che la melma su Internet tenda ad addensarsi proprio intorno a siti informativi professionali? Immaginatevi il Corriere on line come un grattacielo in mezzo a una discarica: ecco, Gian Antonio Stella vede gli internauti da una finestra di quel grattacielo, e cosa volete che veda? Mostri subumani che inneggiano al ferimento di premier mediante souvenir, negatori di olocausti, odiatori di “negri”, insomma, brutta gente. Come spiegargli che quelli non sono tutti gli internauti... ma solo quelli che più spesso circolano intorno al Corriere? E perché proprio intorno al tuo giornale, è colpa della linea editoriale? No, assolutamente. È solo una questione di dimensioni: il grattacielo è un punto di riferimento nazionale, attira la massa, e in mezzo alla massa la suburra, i cospiratori, i mitomani.

Per contro in un piccolo sito come il mio, mantenere un discreto livello di discussione è relativamente semplice. Molto di rado negli ultimi anni mi è capitato di dover mettere i mattoidi alla porta. Merito mio? No, assolutamente, anche in questo caso è una questione di dimensioni. I mattoidi accorrono naturalmente verso i centri di traffico, sono attirati dalle celebrità. Non sono massa, ma si disseminano sempre nella massa. Nei piccoli blog che negli anni abbiamo selezionato con cura, i mattoidi non vengono: al limite passano di sbaglio se gli capita di scambiarci per qualcuno più importante di noi. Ma appena hanno capito che noi siamo pesci piccoli, ci lasciano nella nostra nicchia e se ne tornano in piazza a vandalizzare gli editoriali delle Grandi Firme coi loro commenti.

Così senza volere siamo riusciti a parlare del povero Tartaglia, che nemmeno aveva un profilo Facebook. Peccato, ci si sarebbe trovato bene. E forse iscrivendosi a qualche gruppo idiota gli sarebbe passata la voglia di realizzare le sue idiozie nel mondo vero. Perché Internet è anche questo: una valvola di sfogo per colletti bianchi che giocano a fare gli odiatori di negri, i negatori di olocausti, gli inneggiatori a Tartaglia. Sì, non è molto coraggioso da parte loro. Ma ognuno dovrebbe essere libero di gestirsi la sua melma come vuole, finché non schizza gli altri.

13.12.09

Le istituzioni più forti degli uomini

BARBARA SPINELLI
Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo, un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso delle leggi e dello Stato. C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).

Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.

È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.

Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).

Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.

Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).

Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.

Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.te la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).

Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.

È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.

Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).

Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.

Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).

Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.

Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.

6.12.09

L'invasione viola del No Berlusconi Day

Di questa giornata passata a sciamare per le strade di Roma e poi a piazza San Giovanni per il No Berlusconi Day provate a portarvi a casa una galleria di immagini, di volti e di colori. Prima di tutto prendete il discorso di Salvatore Borsellino e infilatelo in un cassetto della memoria, vicino ai gemelli d'oro e alle gioie che si conservano, negli angoli dove non si possono perdere. Poi incastonate in qualche bella cornice d'oro zecchino il fotogramma in cui Salvatore, ha preso la parola nel pomeriggio, con la voce spezzata dell'emozione, con il filo dei pensieri che si annodava, ma non si scioglieva mai: “Portino loro le corone di fiori sulla tomba di Mangano! I nostri eroi sono altri, sono gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina che morirono facendo la scorta a Paolo. I nostri eroi – grida Salvatore con la voce che sale di tono - sono i 100 agenti che, dopo l'assassinio di Falcone, bussarono alla porta di mio fratello per offrirsi per la sua scorta, per morire con lui". Applausi, sorrisi e lacrime. Ovazione. Di questo No B. Day, mettete in un ripostiglio della memoria le facce di centinaia di migliaia di ragazzi. Quel coro di voci: “Fuori la mafia dallo Stato”, “Berlusconi dimettiti”, “Adesso basta”. Ma anche i 150 ragazzi, tutti volontari, che si sono conosciuti solo ieri sera e che tenendosi per mano hanno accompagnato il corteo, ancora increduli di quello che stava succedendo. I loro sorrisi, ieri, non erano prestampati, come quelli dei burocrati di partito che contano le greggi elettorali.

A casa, tutti si porteranno il viola. Che era dappertutto: sciarpe, cappelli, fazzoletti, drappi, bandiere, calzini, persino le pettoraline dei cani e gli ombrellini delle carrozzine. Quanto ci piacciono a noi i genitori che corrompono i minorenni con l'antiberlusconismo militante. Tenete a mente questa istantanea: una marea che avanza tra due ali di folla. Chi non sventola qualcosa di viola, ha al collo un fazzoletto tricolore.

Chissà come, da questo vortice viola sono riemerse, fresche come se pronunciate ieri, le parole di Sandro Pertini. Chissà chi è stato a stamparle dappertutto, da quale sito sono rimbalzate fino a noi: “La politica va fatta con le mani pulite”.

E c'è da portarsi le tante Polaroid dei leader politici, per un giorno in mezzo alla gente, sotto il palco e non sopra, sopraffatti dalla folla, a rilasciare interviste mentre gli applausi dal palco se li prendevano le ragazze che hanno scelto di andare a lavorare a Corleone nei terreni confiscati alla mafia; mi resta in mente una signora che viene da L'Aquila per raccontare la terribile realtà del dopo-terremoto nascosta dagli annunci del governo.

A casa, chi era in piazza, chi si farà raccontare il No Berlusconi Day da amici e conoscenti, si porterà una convinzione. Che si può fare. Senza troppe fanfare, e senza divismi, in questo paese, può ancora accadere che la società civile si organizzi da sola, pacificamente, riesca a reinventare la politica dal basso coinvolgendo i cittadini per ribadire l'importanza di concetti come moralità e onestà. Il tutto partendo da Internet, da Facebook. Uno strumento, solo uno strumento, che diventa formidabile nelle mani di chi vuole spendersi per cambiare le cose. Perchè l'ultima cosa da mettere nella cassetta degli attrezzi è questa: ieri abbiamo capito tutti che Silvio è rimasto all'età catodica.

Federico Mello, Il fatto quotidiano

2.12.09

Non uccidere la nostra speranza

di Michael Moore
LETTERA A OBAMA
Caro Presidente Obama, vuole davvero essere il nuovo «presidente di guerra»? Se andrà a West Point ad annunciare che aumenterà le truppe in Afghanistan invece di ridurle, lei sarà il nuovo presidente di guerra. Puramente e semplicemente. E con questo lei avrà fatto la cosa peggiore che potesse fare: distruggere i sogni e le speranze che tanti milioni di persone avevano riposto in lei. Con un solo discorso, domani, lei trasformerà una moltitudine di giovani che erano stati la spina dorsale della sua campagna elettorale in cinici disillusi. Insegnerà loro che quello che hanno sempre sentito dire è vero - che i politici sono tutti uguali. Semplicemente, non posso credere che lei stia per fare quello che si dice farà. Per favore, dica che non è così. Il suo mestiere non è obbedire ai generali. Siamo un governo retto da civili. NOI diciamo ai capi di stato maggiore riuniti cosa fare, non il contrario. È quello che volle il generale George Washington. È quello che il presidente Truman disse al generale MacArthur quando MacArthur voleva invadere la Cina. «Lei è licenziato!» disse Truman, e così fu.
Lei avrebbe dovuto licenziare il generale McChrystal quando la scavalcò andando a dire alla stampa quello che LEI doveva fare. Le parlerò con franchezza: amiamo i nostri ragazzi delle forze armate, ma detestiamo questi generali, Westmoreland in Vietnam e anche Colin Powell per aver mentito all'Onu coi suoi falsi disegni delle armi di distruzioni di massa (da allora sta cercando di farsi perdonare).
Così adesso lei si sente stretto in un angolo. Trent'anni esatti da giovedì scorso (il giorno del Ringraziamento) i generali sovietici ebbero un'idea fantastica: «Invadiamo l'Afghanistan!». Ebbene, quello si rivelò l'ultimo chiodo nella bara dell'Urss. C'è una ragione per cui non chiamano l'Afghanistan lo «Stato giardino» (anche se dovrebbero, vedendo come il corrotto presidente Karzai, che noi appoggiamo, consente a suo fratello di coltivare il papavero per il commercio dell'eroina). L'Afghanistan è soprannominato il «Cimitero degli imperi». Se non ci crede, faccia una telefonata agli inglesi. Le consiglierei di chiamare Genghis Khan ma ho perso il numero. Però ho quello di Gorbaciov, è + 41 22 789 1662. Sono sicuro che lui potrebbe farle un bel discorsetto sull'errore madornale che sta per commettere.
Con la crisi economica ancora galoppante, e i nostri preziosi giovani sacrificati sull'altare dell'arroganza e dell'avidità, il collasso di questa grande civiltà che chiamiamo America la porterà velocemente all'oblio se lei diventerà il «presidente di guerra». Gli imperi non pensano mai che la fine sia vicina, finché non arriva. Gli imperi pensano di poter costringere gli infedeli a rigare dritto con un male maggiore - eppure non funziona mai. Di solito gli infedeli li fanno a brandelli.
Scelga con attenzione, presidente Obama. Lei sa meglio di tutti che le cose non devono andare per forza così. Lei ha ancora alcune ore per ascoltare il suo cuore, e la sua mente. Lei sa che inviare più soldati dall'altra parte del mondo, in un posto che né lei né loro capiscono, per raggiungere un obiettivo che né lei né loro capiscono, in un paese che non ci vuole lì, non può portare nulla di buono. Io so che lei sa che ci sono MENO di un centinaio di membri di al-Qaeda in Afghanistan! 100 mila uomini per distruggere 100 persone che vivono nelle caverne? Scherziamo? Vuole forse suicidarsi come Bush? Mi rifiuto di crederlo.
La sua potenziale decisione di estendere la guerra (dicendo però che lo sta facendo per «mettere fine alla guerra») servirà a scolpire nella pietra la sua eredità più di una qualunque delle grandi cose che lei ha detto e fatto nel suo primo anno di presidenza. Ancora un osso lanciato ai repubblicani e la coalizione di chi spera e di chi è senza speranza potrebbe svanire - e questa nazione tornerà nelle mani di chi è pieno di odio più in fretta di quanto non ci metta lei a urlare «una bustina di tè!».
Valuti attentamente, signor presidente. Le corporations che la sostengono la abbandoneranno non appena diventerà chiaro che lei è destinato a svolgere un solo mandato, e che il paese tornerà al sicuro nelle mani dei soliti idioti bravi a eseguire gli ordini. Questo potrebbe avvenire mercoledì mattina.
Noi, il popolo, la amiamo ancora. Noi, il popolo, nutriamo ancora un residuo di speranza. Ma noi, il popolo, non possiamo più accettare il suo cedimento continuo, quando l'abbiamo eletta con un margine grande, grandissimo di milioni di voti per arrivare lì e assolvere il suo compito. Quale parte della «vittoria schiacciante» non riesce a capire?
Non si lasci ingannare, non creda che inviare un po' di soldati in Afghanistan farà la differenza, o le farà guadagnare il rispetto di chi è pieno di odio. Loro non si fermeranno finché questo paese non andrà in pezzi, e non sarà stato sottratto l'ultimo dollaro ai poveri e chi presto lo diventerà. Lei potrebbe inviare un milione di uomini lì, ma la destra non sarebbe ancora contenta. Lei sarebbe comunque la vittima del veleno che diffondono incessantemente alla radio e alla televisione dell'odio, perché qualunque cosa lei faccia, non potrà cambiare l'unica cosa di sé che li fa andare fuori di testa. Lei non è stato eletto da coloro che sono pieni di odio, e non li può conquistare abbandonando noi.
Presidente Obama, è ora di tornare a casa. Lo chieda ai suoi vicini di Chicago e ai genitori dei giovani che combattono e muoiono. Pensa che diranno: «No, non ci serve l'assistenza sanitaria, non ci servono i posti di lavoro, non ci servono le case. Vada avanti, signor presidente, spedisca la nostra ricchezza, i nostri figli e le nostre figlie oltremare, perché neanche a noi servono»?
Che cosa farebbe Martin Luther King Jr.? Che cosa farebbe sua nonna? Non invierebbero dei poveri a uccidere altri poveri che non rappresentano per loro alcuna minaccia. Non spenderebbero miliardi, triliardi per fare la guerra mentre i bambini americani dormono per la strada e si mettono in fila per un tozzo di pane.
Tutti noi che abbiamo votato e pregato per lei, e pianto la notte della nostra vittoria, abbiamo sopportato un inferno orwelliano di otto anni di crimini commessi nel nostro nome: tortura, rendition, sospensione dei diritti. Sono stati invasi paesi che non ci avevano attaccato, interi quartieri sono stati fatti saltare in aria perché Saddam «poteva» essere lì (ma non c'era mai), in Afghanistan sono stati compiuti massacri durante festeggiamenti di matrimonio. Siamo stati a guardare mentre centinaia di migliaia di civili iracheni venivano massacrati e decine di migliaia dei nostri coraggiosi giovani, uomini e donne, venivano uccisi, mutilati, o sottoposti a torture mentali: il terrore assoluto che facciamo fatica a immaginare.
Quando la abbiamo eletta, non ci aspettavamo miracoli. Non ci aspettavamo nemmeno molti cambiamenti. Ma pensavamo che avrebbe messo fine a questa follia. Alle uccisioni. All'idea insana che uomini armati di fucili possano riorganizzare una nazione che non funziona nemmeno come nazione e che non ha mai, mai funzionato come tale. Basta, basta! Per amore della vita dei giovani americani e dei civili afghani. Per il bene della nostra presidenza, della speranza, e del futuro della nazione, basta. Per amor di dio, basta.
Stasera nutriamo ancora speranze.
Domani vedremo. La palla è a lei, NON DEVE fare questo. Lei può essere un ritratto del coraggio (allusione al libro di John F. Kennedy Ritratti del coraggio, ndt). Lei può essere un uomo. Contiamo su di lei. Cordialmente, Michael Moore.
P.S. C'è ancora tempo per far sentire la vostra voce. Chiamate la Casa Bianca al numero 202-456-1111 o scrivete una mail al presidente.

il manifesto
Traduzione Marina Impallomeni

Copenhagen, il coraggio di cambiare la storia

Lettera aperta ai responsabili mondiali

“Copenhagen fallisce”, “Copenhagen non fallisce”, quel che è certo è che la conferenza di Copenhagen non si concluderà con un nuovo trattato post-Kyoto vincolante, ma solo con un accordo politico “ambizioso”. Di un trattato se ne riparlerà nel 2012!
Il fatto non stupisce troppo, anzi appare del tutto coerente con il modo in cui da sempre i responsabili della politica mondiale si sono posti di fronte alla crisi, un problema decisivo per le sorti dell’umanità. Dapprima, per decenni, ne hanno negato l’esistenza stessa. Ne hanno poi riconosciuto la realtà solo quando, negli anni ’70, scattò l’allarme di esaurimento delle energie fossili. Mai comunque hanno considerato la crisi ecologica nella sua interezza, ma hanno concentrato la loro attenzione soltanto sul mutamento climatico. Certo, è questo l’aspetto più ineludibile dello squilibrio ecosistemico e, a termine, portatore di conseguenze gravissime, ma non è il solo: basti pensare alla costante diminuzione di acqua dolce, necessaria per usi umani e per il buon funzionamento degli ecosistemi, alla continua e crescente produzione di rifiuti non trattati e non trattabili, tra cui scorie tossiche e radioattive, che invadono territori, mari e oceani, al degrado del suolo con conseguenti effetti disastrosi sulla produzione alimentare. Infine hanno fatto della “green economy” lo strumento primario di soluzione del problema ambiente e insieme (continuando a ignorare gli insuperabili “limiti del pianeta”) della promozione di una nuova crescita produttiva al servizio del capitalismo globale. Ma In tal modo sono riusciti solo ad attizzare gli scontri di interessi fra le economie nazionali ed i grandi gruppi mondiali, finanziari e industriali, in competizione acerrima fra loro: quelle per la propria sopravvivenza, questi per la supremazia della - sperata - nuova economia: di fatto creando un nuovo pesante fattore dell’attuale fallimento dei negoziati sul clima.
In queste condizioni é più che giustificato esprimere seri dubbi su come e quanto la celebrata “green economy” possa dare risultati positivi nella lotta contro il riscaldamento atmosferico se - come accade - mentre si moltiplicano pannelli solari, turbine eoliche e automobili ibride, l’obiettivo dell’agire economico continua ad essere la crescita dei prodotti e dei consumi. Per fare un solo esempio, come pensare che un miliardo di nuove automobili (secondo le stime correnti da produrre nel corso dei prossimi quindici anni) possano, per quanto meno inquinanti, rappresentare un contributo positivo a uno “sviluppo sostenibile”? Se si considera la produzione di centinaia di migliaia di tonnellate di batterie, di fluidi/liquidi, di pneumatici, di vetro, di plastica, di materiali compositi, ecc. che le compongono? E si riflette su quante nuove migliaia di km di strade, autostrade, ponti ecc. circoleranno? E si pensa che ovviamente analoghe considerazioni sono possibili per qualsiasi altro prodotto di consumo, di cui si auspica la crescita? Che dire poi dell’ assurdità di cercare soluzione ai mutamenti climatici attraverso la contesa per più o meno diritti a inquinare e la loro vendita, vale a dire mediante l’esplicita riduzione a merce di aria, acqua, foreste, territorio, capitale biotico, salute, conoscenza?
E tuttavia non ci si può rassegnare a che la conferenza partorisca solamente un accordo politico. La “mutilazione” di Copenhagen può essere un’occasione storica, da un lato, per accusare con più legittimità e forza l’evidente inadeguatezza dell’attuale politica ecologica mondiale, funzionale alla conservazione del sistema che della stessa crisi planetaria è responsabile; e, dall’altro, per “battagliare” in favore di un vero trattato “ecologico” mondiale, che affronti adeguatamente i problemi del pianeta e dunque le sorti dell’umanità. A tal fine un ruolo decisivo spetta ai rappresentanti eletti dai popoli, e in particolare del Parlamento europeo. Proprio il rischio di fallimento di Copenhagen, con il rinvio sine die di problemi ormai urgentissimi, e la cinica scelta a favore dell’industria capitalistica contro la salvezza dell’umanità, ha messo in luce la debolezza dell’Europa nei confronti delle massime potenze, in contrasto con posizioni più avanzate, spesso sostenute dai rappresentanti dei popoli europei, e in più occasioni dai popoli stessi. Da Copenhagen può partire una pressione forte e decisa dei rappresentanti eletti sui rispettivi governi. Copenhagen, capovolgendo l’annuncio del proprio fallimento, può diventare un’occasione di fare storia per l’ambiente e per la democrazia. Aspettare il 2012 significherebbe abdicare.

il manifesto
Primi firmatari: Riccardo Petrella, Carla Ravaioli, Leonardo Boff, Eduardo Galeano, Ignatio Ramonet, Dario Fo, Immanuel Wallerstein, Marcello Cini, Aminata Traoré

"Prigionieri dell'incubo di Huxley"

L'intervista Frank Schirrmacher direttore del Frankfurter Allgemeine il suo saggio bestseller in Germania sulla "dittatura digitale"

di ANDREA TARQUINI

BERLINO - Il flusso d'informazioni, il dominio dei computer, di internet, del mondo digitale, minaccia di sommergerci e renderci schiavi dell'intelligenza artificiale. Il genere umano deve difendersi, ha fretta di pensare a strategie per affrancarsi e riappropriarsi dell'emotività e dell'imprevedibilità, valori costitutivi che l'intelligenza umana ha e quella delle macchine no. Oppure soccomberà ai motori di ricerca. E' la tesi che Frank Schirrmacher, direttore della Frankfurter Allgemeine, espone nel suo nuovo libro, Payback, il saggio sociopolitico del momento in Germania. Ascoltiamolo.

Dottor Schirrmacher, internet e i computer dunque sono non più una conquista ma un'oppressione da cui dobbiamo liberarci?
"Oggi comunichiamo, leggiamo e scriviamo solo con i computer e la rete. Ma i computer non sono solo computer, bensì gigantesche reti di dati. Da alcuni anni è possibile, grazie all'immensa mole di informazioni in rete, elaborare calcoli molto precisi sugli individui. Veniamo sempre più trasformati in formule matematiche. La domanda è chi governa chi: noi il computer, o il computer noi? Nelle nostre società il multitasking, fare le cose più diverse contemporaneamente, è diventato una religione. Sms, e-mail, più finestre aperte sul computer e sempre in rete. Adesso cominciamo a renderci conto che il cervello umano non è in grado di padroneggiare costantemente questo processo".

Con che conseguenze?
"Questa inondazione di flusso d'informazione ha effetti negativi, si vedono specie tra i giovani: smemoratezza, disturbi nella concentrazione, disturbi nella comunicazione e l'incapacità di riconoscere da soli quali informazioni sono importanti e quali no. Riceviamo passivamente tutto senza più sapere di quali informazioni abbiamo bisogno. E' un cambiamento epocale. Molti dicono che esagero, mi invitano a spegnere il cellulare. Ma la rete è così cresciuta che chiunque ci giudica con l'aiuto delle macchine. I datori di lavoro hanno accesso a talmente tanti dati personali da poter decidere con l'aiuto della rete e del computer quali dipendenti lavorano bene insieme e quali no, quali vanno promossi e quali emarginati o licenziati. E provi a ordinare un libro da Amazon: arriva subito dopo la prossima offerta mirata d'acquisto. Ben altro che non andare in libreria a scegliere da soli un libro".

E nel mondo del lavoro?
"In America appunto, con i dati personali dei dipendenti, le macchine dicono ai dirigenti aziendali quali dipendenti hanno facoltà e caratteristiche simili, suggeriscono di promuovere questo, di licenziare quest'altro che tra cinque anni sarà buono a nulla. Il dominio del calcolo matematico sugli individui e sulla mente umana si estende in ogni campo, e ciò è molto pericoloso".

Teme più computer e software o computer e motori di ricerca?
"Sono cresciuti insieme, in sinergia, si complementano. Ora abbiamo l'internet in tempo reale. Fino ai cellulari. Solo i motori di ricerca possono governare un simile volume d'informazioni. Ma il motore di ricerca non è un essere umano, bensì solo un software. Adesso ti aiuta a scegliere un buon ristorante o acquisti. Ma presto giudicherà quali esseri umani sono buoni e quali cattivi o pericolosi o inutili. I primi passi, pur necessari quanto vuole, li vediamo nell'uso di computer e motori di ricerca nell'analisi per la lotta al terrorismo. Vedo un pericolo: disimpariamo a vivere nella dimensione dell'imprevedibile, momento costitutivo dell'essere umano".

Il rischio è dunque perdere o atrofizzare l'imprevedibilità dell'anima e delle emozioni?
"Assolutamente. Questo è il problema, questo è il pericolo. E' un circolo chiuso. Tra qualche anno emergeranno dirigenti d'azienda o personalità dei media o politici che penseranno adeguandosi alle macchine. E improvvisamente sarà importante solo quanto rientra negli schemi di computer e motori di ricerca. In America le diagnosi elettroniche dei motori aiutano molti medici, ma il medico tradizionale ha un'esperienza diretta insostituibile per curare e guarire ogni singolo diverso paziente. Se rinunciamo all'imprevedibilità, all'elemento incalcolabile della mente umana, vivremo in un mondo in cui tutto è predestinato e deciso dalla matematica. Gli uomini si trasformeranno in realtà matematiche. Anche nel giornalismo, specie digitale, già lo vediamo: su molte testate l'inizio del pezzo deve essere scritto con certe parole-chiave secondo certi canoni, in modo che Google o gli altri motori di ricerca lo capiscano e lo captino. Cioè scriviamo per le macchine, non più per i lettori. Urge riflettere".

Quasi il pericolo di un totalitarismo digitale?
"Assolutamente. Strowger, uno dei massimi matematici americani, ha detto che la matematica negli ultimi anni ha risolto problemi di estrema complessità grazie ai computer, ma ormai conosce solo la soluzione, non il processo matematico che vi ci porta. Questo conduce a un nuovo autoritarismo delle macchine. E' pericolosissimo: può imporsi nella biologia, in ogni altra scienza, fino alla politica. Internet è importante e utile, ma sbagliamo a considerarlo un giocattolo. E' uno spazio vitale perfettamente capitalista. Google è una multinazionale per cui milioni di persone lavorano di fatto gratis. Come all'alba del capitalismo. Il mondo digitale ricorda la società industriale del 18mo secolo, con tutte le sue realtà di sfruttamento e accettazione di massa dello sfruttamento".

Ricorda un po' 1984 di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley?
"Al tempo: non è Orwell, che in 1984 descrive una dittatura fatta di divieti, di libri proibiti. E' invece Huxley: nel suo "mondo nuovo" alla gente non è vietato leggere libri, ma nel nuovo modello di vita la gente non ne ha più voglia. Ecco la sfida: un bel mondo nuovo, seducente, in cui come nelle pagine di Huxley le emozioni di fatto sono proibite e il divieto implicito di ogni curiosità o emozione è accettato, ritenuto naturale dalla gente. Non sono contro internet ma l'aggressività che vi domina è un fenomeno della comunicazione digitale, e problemi di memoria e di concentrazione derivanti dall'uso della rete e del computer possono produrre una demenza digitale di massa. Siamo sempre più dipendenti dalle macchine. L'altro giorno ho chiesto a un collega quale musica preferisce. Non ha risposto subito, non aveva risposte spontanee pronte. Ha dovuto prima leggere sul suo Blackberry la lista dei brani scaricati. La comunicazione tra macchine e uomini può diventare come la musica. Larry Page, fondatore di Google, ha detto anni fa che la sua aspirazione è connettere Google direttamente col cervello. Quando i fratelli Wright fecero volare il primo aereo, non prevedevamo il livello tecnologico dei jet di oggi e il loro ruolo nel nostro quotidiano, invece la realtà è cambiata a fondo".

È un pericolo anche sulla scena politica?
"Cambia a fondo il modo di far politica. Angela Merkel già governa con gli sms".

Come possiamo difenderci?
"Per la prima volta nella Storia affrontiamo una nuova legittimazione di arte e creatività. Dobbiamo difendere i nostri concetti costitutivi: i computer non sono creativi né tolleranti, né hanno fantasia. Ecco i valori da difendere, che hanno un'incredibile importanza per il futuro delle nostre società. In scuole e università non dobbiamo più insegnare nozionismo su geografia e storia, ma il modo di usare il pensiero, l'emozione, le intuizioni. Così abbiamo la chance di governare noi la simbiosi con la dimensione dei computer. Prima che i computer ci dicano a quale concerto andare o quale donna sposare. Già adesso il successo dei portali che offrono la ricerca e la scelta dell'anima gemella calcolando tutto con algoritmi sui dati personali è inquietante".

Quindi dipende da quanto l'umanità saprà o vorrà difendere imprevedibilità ed emozioni?
"Esattamente. E da quanto l'umanità onorerà e retribuirà questi sentimenti-valori. Devi sapere e ricordare che quanto ti indicano i tuoi sentimenti e il tuo intuito è più importante dei calcoli di Google. E' decisivo non trasformarsi in matematica. Leggere, concentrarsi, la meditazione, saranno i nostri strumenti di difesa decisivi".

1.12.09

La nascita di Forza Italia e le bugie del Cavaliere

L'analisi. Nel '94 l'annuncio, ma il progetto partì nel '92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito


di GIUSEPPE D'AVANZO

FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un'idea covata fin dal 1992. Non c'è dubbio che già nell'aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".

In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E' una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del '92 e '93; che avrei orchestrato insieme a Dell'Utri per destabilizzare il Paese. E' una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c'era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).

"La pianificazione dell'operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).

Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d'Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.

Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell'Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l'"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell'Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l'"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".

Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un'altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L'Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d'opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell'Utri gettava le fondamenta d'una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del '93 e non del '94.

Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell'Utri e Del Debbio di Publitalia, l'amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l'attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell'Utri.

I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall'interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell'Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell'Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un'affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell'Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell'Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell'Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell'Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall'ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell'area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all'aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell'Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un'etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E' deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell'Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest'operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".

E' il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?

Non è una novità, in Berlusconi, l'uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E' una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c'è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d'uscita dall'imbarazzante angolo. E' la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?