14.12.16

Mattarellum, quel passo indietro che i partiti non vogliono fare

Aldo Cazzullo (Corriere)

Chi ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici costituzionali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva? La Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una legge violano la Costituzione. È possibile che dalla sentenza esca una legge che possa essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislatore no. Non facciamoci illusioni: approvare una nuova legge elettorale in Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio interesse particolare e non quello generale. Non dappertutto è così. Nelle democrazie anglosassoni il sistema elettorale è lo stesso da generazioni. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono cambiare le regole in base alle convenienze del momento. Chi violò questo patto — Mitterrand nel 1986 — pagò caro l’azzardo; e fece subito retromarcia, ripristinando i collegi uninominali con doppio turno che hanno garantito alla Francia stabilità e alternanza. Anche nei sistemi anglosassoni ci sono i collegi uninominali, ma a turno unico.

Pure l’Italia ha conosciuto una stagione così. Poco più di centomila elettori esprimevano il loro parlamentare. In questo modo abbiamo avuto appunto la stabilità e l’alternanza per due intere legislature (quasi un miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il centrosinistra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato il centrodestra, con Berlusconi. Questa legge porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Un dettaglio non secondario. Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al Paese norme che non riflettevano l’interesse della propria parte, ma la volontà popolare. Il sistema maggioritario non nasce dal nulla. Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che domenica scorsa hanno bocciato la riforma costituzionale, per chiudere l’era del proporzionale. Qualcuno ha nostalgia degli anni in cui tracciavamo una croce sul simbolo di uno dei tanti partiti — che non perdevano e non vincevano mai veramente —, delegando la formazione del governo alle segreterie, provocando instabilità e consociativismo? Eppure è lì che si rischia di tornare: al proporzionale, con un modesto premio di maggioranza che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di conquistare. Con il retropensiero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle? Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della politica alle prese con alambicchi da cui distillare — ammesso che esista — la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese?

5.12.16

Referendum, così Renzi ha perso i giovani e il Sud

Ilvo Diamanti (La Repubblica)

Il referendum costituzionale, alla fine, si è tradotto in un referendum su Renzi.  Ma il risultato ha travolto anche il Premier, insieme alla riforma costituzionale. Perché il significato "politico" del voto è indubbio. Sottolineato, non solo dalla misura raggiunta dai No, circa il 60%, ma, anzitutto, dall'ampiezza della partecipazione elettorale. Quasi il 70%. Molto più elevata rispetto ai precedenti referendum costituzionali. Impossibile per Renzi non rassegnare le dimissioni, insieme al governo.

D'altra parte, sia l'affluenza al voto, sia il risultato del Sì riflettono quasi fedelmente ciò che era avvenuto alle elezioni europee del 2014. Il momento di maggiore affermazione per Renzi e il suo PD. Il problema è che da allora molte cose sono cambiate nel Paese ma anche a livello internazionale. La crisi, in particolare, ha generato incertezza. E ha aperto divisioni nel Paese. Non per caso si è riaperta la distanza rispetto al Mezzogiorno, l'area dove il No ha raggiunto risultati fra i più elevati. Ma anche nel Nord l'affluenza e il distacco nei confronti del referendum appaiono ampi ed estesi. Perché l'economia non funziona più come un tempo. Mentre, sul piano generazionale, è significativa la sfiducia espressa dai giovani, con il voto. Segno che oggi credono poco nel futuro di questo Paese. E per questo se ne vanno altrove, appena possono. L'analisi del risultato referendario, condotta a partire dalle elaborazioni di Demos e dell'Osservatorio elettorale del LaPolis, dell'Università di Urbino, non permette di produrre scenari politici. Che, peraltro, sono incerti. Di certo c'è solo il fatto che, dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi, in assenza di altri progetti e obiettivi unitari. Ma da domani tutto tornerà instabile. Quanto alla "riduzione" del Bicameralismo paritario e dei poteri del Senato, tutto rinviato. A data da destinarsi.
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29.11.16

Omaggio a Fidel

Lia (ilcircolo.net)
Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.  E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.
E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.
L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è di EcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en  Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.
Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel?  Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.

28.11.16

La fabbrica della clandestinità di stato per i migranti deve essere superata

Annalisa Camilli (Internazionale)

Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia è “una fabbrica della clandestinità di stato”. Lo denuncia il rapporto sulla protezione internazionale pubblicato il 16 novembre da Anci, Cittalia, Fondazione Migrantes e Rete centrale Sprar. Nel 2015 in Italia il 60 per cento delle richieste d’asilo è stato respinto, costringendo migliaia di richiedenti asilo a tornare in una condizione di illegalità dopo mesi di attesa nei centri di accoglienza, senza nessuna speranza di ottenere dei documenti. Al momento l’unico modo per combattere l’illegalità e lo sfruttamento di questo esercito di invisibili è concedergli la protezione umanitaria.
La protezione umanitaria è uno strumento già previsto dal Testo unico sull’immigrazione (cosiddetta legge Bossi-Fini). Basterebbe un decreto del presidente del consiglio per concedere un permesso temporaneo alle circa 170mila persone ospitate nei centri di accoglienza italiani, in fuga da disastri ambientali, persecuzioni politiche e religiose o da varie forme di sfruttamento. Questo tipo di soluzione è già stata usata in passato per la crisi in Kosovo e permetterebbe di sanare una situazione che è fonte di periodiche tensioni sociali.
L’approccio hotspot
Se nel 2014 la metà dei migranti arrivati in Italia si sottraeva al sistema di accoglienza ufficiale per attraversare i valichi di frontiera e raggiungere altri paesi del nord Europa, nel 2015 molte persone sono rimaste bloccate nel nostro paese a causa delle politiche migratorie dell’Unione europea e del ripristino dei controlli alle frontiere dello spazio Schengen. Così l’Italia da paese di transito si è trasformata in paese di destinazione per molti migranti.
Nel 2015 le domande di protezione internazionale sono aumentate del 32 per cento (83.970 domande presentate) rispetto al 2014 a causa del cosiddetto approccio hotspot, previsto dall’agenda europea sull’immigrazione. L’identificazione forzata dei migranti arrivati nell’Unione europea e la ripartizione dei richiedenti asilo in base a un sistema di quote sono i due pilastri di questo sistema che ha mostrato nell’ultimo anno tutte le sue debolezze.
I migranti sono divisi in due categorie: i migranti economici e i richiedenti asilo. Hanno diritto a rimanere in Europa solo i profughi di tre nazionalità: eritrei, siriani e iracheni. Le tre nazionalità, cioè, a cui è riconosciuta una forma di protezione in tutti i 28 paesi dell’Unione europea. Ma è arrivato il momento di dire che questo sistema ha fallito.
Queste persone davvero non avevano diritto a ricevere qualche forma di protezione internazionale?
Molti paesi europei, come l’Ungheria e la Polonia, hanno rifiutato di accogliere i migranti, facendo emergere tutte le contraddizioni interne all’Unione. In un anno sono state ricollocate solo 1.549 persone dall’Italia e 5.437 dalla Grecia su un totale di 160mila previste. Inoltre gli accordi stipulati dall’Europa con la Turchia e con altri paesi d’origine dei migranti hanno determinato una diminuzione degli arrivi di siriani ed eritrei in Italia, dove a fare richiesta d’asilo sono sempre più spesso persone che provengono dall’Africa subsahariana.
Secondo il rapporto Anci, Cittalia, Fondazione Migrantes e Rete centrale Sprar, nel 2015 le prime cinque nazionalità di richiedenti asilo nel nostro paese sono state quelle provenienti da Nigeria, Pakistan, Gambia, Senegal e Bangladesh. I richiedenti asilo di questi paesi, che rappresentano il 60 per cento del totale, non hanno nessuna speranza di rientrare nei programmi di ricollocamento europei e, in Italia, spesso le loro richieste ricevono una valutazione superficiale dalle commissioni territoriali che respingono le domande sulla base di nuove direttive del ministero dell’interno, che riprendono quelle europee. Ma queste persone, che nel corso dell’ultimo anno hanno ricevuto un diniego, davvero non avevano diritto a chiedere l’asilo? La distinzione sembra più politica che giuridica.
Una procedura troppo lenta
In Italia il diritto d’asilo è garantito dall’articolo 10 della costituzione ed è un diritto fondamentale. L’Italia aderisce alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e riconosce di fatto diverse forme di protezione sulla base di una valutazione individuale della storia personale del richiedente asilo. Nella pratica il riconoscimento dell’asilo avviene con una procedura amministrativa che fa capo al ministero dell’interno ed è gestita dalle 47 commissioni territoriali. La decisione della commissione può essere impugnata, come avviene in quasi i tutti i casi di diniego, e può essere portata davanti a tribunali ordinari.
Succede spesso che i dinieghi delle commissioni territoriali siano contraddetti dalle sentenze dei giudici. Non esistono i dati di questo fenomeno perché le autorità non li hanno diffusi, malgrado le richieste delle associazioni e dei ricercatori, come l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il diverso orientamento delle commissioni territoriali e dei tribunali sulla materia farebbe pensare a distanze procedurali tra ministero della giustizia e ministero dell’interno, che finiscono per rendere inutilmente complesso e lungo il riconoscimento di un diritto fondamentale.
Un’alternativa possibile
La creazione di strade legali di ingresso in Europa come i canali umanitari, la concessione di visti per motivi di studio e di lavoro, l’elargizione della protezione umanitaria a tutti i migranti arrivati in Italia che sono transitati dalla Libia e hanno compiuto la traversata del Mediterraneo: queste tre proposte potrebbero essere i pilastri di una nuova politica dell’immigrazione fondata sul buon senso, invece che sulla strumentalizzazione e sulla demonizzazione a scopi politici del fenomeno migratorio.
Delle prime due proposte si discute da tempo. È dimostrata l’efficacia di aprire canali umanitari sul modello di quelli sperimentati dal Libano all’Italia nel 2015 con i profughi siriani dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla chiesa valdese, in collaborazione con il governo italiano. Questi canali sono infatti l’unico strumento efficace per combattere il traffico di esseri umani, un giro d’affari da milioni di euro che viene invece alimentato da una gestione dell’immigrazione incentrata sul tema della sicurezza.
I giuristi hanno inoltre spesso mostrato i limiti del Testo unico sull’immigrazione che ha ristretto la possibilità per i cittadini stranieri di entrare in Italia con visti di studio e di lavoro e in questo modo ha contribuito a spostare il fenomeno migratorio nell’illegalità, senza regolarlo né reprimerlo. Entrare in maniera regolare per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento familiare all’interno dell’Unione europea è sempre più difficile, per questo molti migranti si affidano ai trafficanti e mettono in pericolo le loro vite. La presenza di forza lavoro disponibile, a basso costo e ricattabile perché senza documenti, alimenta il lavoro nero e lo sfruttamento in molti settori dell’economia.

La terza proposta è quella più inedita, anche se negli ultimi tempi l’hanno suggerita tante associazioni che si occupano di migranti. Concedere la protezione umanitaria a tutti i richiedenti asilo, profughi dalla Libia e superstiti della traversata del Mediterraneo, permetterebbe di risolvere diversi problemi. Tutti i 171.938 richiedenti asilo, che attualmente si trovano nei centri di accoglienza italiani, potrebbero ottenere dei documenti temporanei della durata di due anni, indispensabili per uscire dal limbo esistenziale e giuridico in cui si trovano al momento. Potrebbero cercare lavoro, lavorare, prendere una casa in affitto, senza affidarsi ai canali illegali e sommersi del lavoro nero e della criminalità. Potrebbero costruirsi un’autonomia e dipendere meno dall’assistenza pubblica.
“Sta crescendo il popolo di chi riceve il diniego all’asilo, e nel corso dell’anno si potrebbe arrivare a 40mila migranti. Serve valutare, da parte del governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati”, aveva detto nel maggio del 2016 Carlo Perego, presidente della Fondazione Caritas Migrantes. “Le commissioni territoriali di fatto stanno operando sulla base di una lista dei paesi sicuri e stanno negando una forma di protezione internazionale o umanitaria talvolta a nove su dieci richiedenti. Questa situazione creerà un fenomeno grave, perché il governo non sarà in grado di rimpatriare le persone, le persone stesse si renderanno irreperibili e sul territorio si creerà una situazione di insicurezza per le persone migranti o residenti”, aveva aggiunto Perego.
Un rapporto di Medici per i diritti umani presentato lo scorso settembre mostrava una sostanziale inefficacia della suddivisione operata dalle autorità italiane ed europee tra migranti economici e profughi. Infatti più del 90 per cento dei migranti intervistati da Medu in Italia ha raccontato di essere stato vittima di violenza, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine e lungo la rotta migratoria, in particolare in luoghi di detenzione e sequestro in Libia. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato.
La concessione di un permesso temporaneo di residenza per motivi umanitari a queste persone sarebbe una decisione politica saggia e coinciderebbe con il riconoscimento che il conflitto in Libia sta producendo profughi di cui l’Unione europea non può non occuparsi. Per molti dei beneficiari, inoltre, questa misura sarebbe risolutiva, li sottrarrebbe a un’inutile attesa e a un’irregolarità altrettanto inutile, e che va solo a beneficio della criminalità organizzata.

22.11.16

Vivere ai tempi della post-verità


Post-truth, cioè post-verità, è la parola dell’anno per l’Oxford dictionary. La prima notizia è che l’uso di questo termine cresce del duemila per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente. Il termine “denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”. Volendo, potete anche dare un’occhiata al breve video che segnala le altre parole prese in esame per quest’anno: tutte assieme, costituiscono una interessante rassegna delle tendenze e delle idiosincrasie contemporanee.
Tra tutte le parole considerate, post-truth è apparsa come quella che, per dirla con Katherine Martin, a capo dell’edizione americana dell’Oxford dictionary, cattura meglio l’attuale spirito del tempo e ha il potenziale per restare “culturalmente significativa nel lungo periodo”.
Siamo proprio messi bene.
La seconda notizia interessante è che, come non sempre succede, la medesima parola è selezionata dall’Oxford dictionary sia per gli Stati Uniti sia per il Regno Unito. Del resto, tra Brexit e Trump, entrambi i paesi hanno avuto la loro dose da cavallo di post-verità.
Le notizie di Pinocchio
La terza notizia interessante è che la scelta del termine post-truth era stata compiuta già prima che i risultati delle elezioni americane fossero noti. È proprio la recente campagna elettorale statunitense a offrirci una collezione di elementi tale da restituire una vivida idea di quel che significa vivere ai tempi della post-verità.
Dovete sapere che i fact-checker del Washington Post valutano il grado di verità delle affermazioni assegnando Pinocchi. Un Pinocchio corrisponde a una quasi-verità, due Pinocchi sono una verità con omissioni o esagerazioni, tre Pinocchi sono una quasi falsità, o una verità espressa in maniera molto fuorviante, quattro Pinocchi sono una bufala totale.
La verità o la falsità palese sono ininfluenti in termini di successo politico, ma a spararle davvero grosse poi si vince
Infine, un Pinocchio capovolto corrisponde al ritrattare un’affermazione precedente facendo finta di niente, e un segno di spunta (o Geppetto) corrisponde alla pura verità. Bene: nel corso della sua campagna elettorale Trump batte ogni record collezionando ben 59 affermazioni da quattro Pinocchi, e dicendo cose come: “La disoccupazione negli Usa è al 49 per cento” – in realtà è al 5 per cento. Oppure: “Risparmierò 300 miliardi sulle prescrizioni di Medicare” – in realtà l’intera spesa ammonta a 78 miliardi. Clinton rimane nella media: cioè mente, ma più o meno quanto mentono di norma i politici, e le sue menzogne da quattro Pinocchi riguardano quasi esclusivamente la faccenda delle email.
La conclusione ottimistica è che la verità o la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini di successo politico. La conclusione pessimistica è invece che, a spararle davvero grosse blandendo le peggiori emozioni e credenze personali, poi si vince alla grande.
Ma vivere ai tempi della post-verità non è solo questo: mentre Trump spara impunemente raffiche di Pinocchi, più di 300 siti, in quasi la metà dei casi (140) basati a Veles, in Macedonia, e gestiti da smanettoni a cui della politica americana importa meno che nulla, diffondono in rete bufale di estrema destra, le più ghiotte, le più condivise, e dunque le più remunerative.
L’unico obiettivo degli smanettoni è raccattare milioni di clic e fare soldi grazie a Facebook e ad Adsense, la pubblicità di Google. Con le bufale sui social network si possono guadagnare anche diecimila dollari al mese. L’influenza esercitata sui risultati elettorali americani è, chiamiamola così, l’effetto collaterale di un modello d’impresa macedone tanto efficace quanto fuori di testa.
C’è un ulteriore elemento sconcertante. Il Guardian segnala l’esistenza del business macedone della bufala già a fine agosto. Google e Facebook fanno finta di niente e reagiscono solo a frittata fatta, il 14 novembre, dichiarando che non concederanno più pubblicità ai siti e alle pagine di bufale. Ma, fino a tre giorni prima, Zuckerberg negava che Facebook potesse influire sulle elezioni presidenziali, con ciò aggiungendo un ulteriore pezzetto di post-verità all’intero quadro.
Ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti
Se fosse la trama di un romanzo distopico, ci sembrerebbe non solo esagerata, ma troppo stupida. Dai, come è possibile che, per esempio, la gente creda alla bufala che il papa sostiene Donald Trump (quasi centomila condivisioni)? E, d’altra parte, come è possibile che migliaia di analisti, sondaggisti, esperti, giornalisti brillanti e scafatissimi caschino giù dal medesimo pero per ben due volte a distanza di pochi mesi, prima con la Brexit e poi con Trump, continuando a sottovalutare la rilevanza del cocktail velenoso e pervasivo di frustrazione, disinformazione, complottismo e falsità veicolate in rete?
Oh-oh, oggi il 44 per cento della popolazione si “informa” tramite Facebook. È un fatto che, per le élite che si informano in modi più canonici, è difficile da credere, accettare e interiorizzare.
Oh-oh, oggi i social media, ai quali ci piace continuare a pensare come a uno strumento paritario e democratico di interscambio e condivisione, possono trasformarsi, e spesso si trasformano, in palazzi degli specchi nei quali ciascuno cerca e trova solo conferme alle proprie opinioni, e vede riflessi solamente se stesso, la propria rabbia e il proprio malessere.
Gli anglosassoni parlano di “camere dell’eco” (echo-chambers). Un bell’articolo dell’Independent descrive perfettamente il fenomeno delle echo-chambers, dove non esiste la verità dei fatti, perché ciascuno ha selezionato e riceve solo le notizie e i commenti con i quali concorda a priori. Ed eccoci a un altro punto interessante: “Anche noi”, scrive ancora l’Independent, “ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti”. Dunque, ragiona l’Independent, se sono camere dell’eco le pagine d’odio alimentate, per esempio, dalle bufale macedoni, perfino il complesso dei mass media più autorevoli si è trasformato in una grande echo chamber, magari più ariosa e meglio decorata.
Uscire dalla bolla
Questo, credo, succede perché sono state fatte due cose giuste, doverose e legittime, e una sbagliata: giusto e legittimo sbugiardare bufale e menzogne, e ignorarne l’esistenza all’interno della narrazione sui mezzi d’informazione più autorevoli.
Sbagliato e ingenuo, però, sottovalutare la crescente rilevanza e il peso del fenomeno costituito dalla vorticosa diffusione delle bufale, e il conseguente avvento della post-verità. Le bufale e le credenze in sé sono false, ma il fenomeno delle bufale e delle credenze diffuse in rete è del tutto reale.
È così reale da risultare pervasivo. È così reale da causare conseguenze dirompenti. Torniamo per un momento alla Brexit: ce lo ricordiamo tutti, vero?, che nel Regno Unito molte persone sono andate a cercare in rete che cosa sia l’Unione europea solo dopo aver votato contro l’Unione europea in base a emozioni e credenze personali?
Prima, tutti chiusi a crogiolarsi nelle proprie echo-chambers.
Il New York Times disegna questa situazione offrendoci una metafora visiva potente della condizione odierna degli Stati Uniti. Due diverse immagini mostrano il paese dell’oceano trumpista e quello delle isole clintoniane. Con ogni probabilità oggi i due paesi si percepiscono, comunicano e si capiscono talmente poco che potrebbero trovarsi su due pianeti differenti, ciascuno chiuso nella bolla della sua post-verità.
Non ho la più pallida idea di come si possano concretamente migliorare le cose, restituendo all’opinione pubblica nel suo complesso una più fedele e meno post-veritiera rappresentazione del reale. So anche che la complessità del reale è così scoraggiante da spingerci tutti, élite comprese, a rifugiarci ciascuno nella propria bolla.
L’unica cosa di cui sono certa è che per cominciare a prendere contatto con il problema bisogna che qualcuno esca dalla sua bolla. Farlo è sgradevole, è destabilizzante e chiede una serie di assunzioni di responsabilità. Ci vogliono calma, coraggio, realismo e buonsenso: qualità sempre più rare e difficili da coltivare, ai tempi della post-verità.