19.12.11

Le parole dei senegalesi antidoto contro il disprezzo

 Concita De Gregorio (La Repubblica)

In questi anni si è diffuso il disprezzo. Provo a mettere a fuoco questa frase semplice e mite, persino riduttiva, in un certo senso pudica: la frase di un senegalese fiorentino colta dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti al corteo di Firenze in morte di due ragazzi uccisi martedì scorso a colpi di pistola da un “cacciatore di negri”. Un tizio sui cinquanta, l´assassino. Troppo giovane per essere stato fascista davvero – quando il partito fascista, o almeno il Msi esisteva ancora – e però fascista di ritorno. Fascista di Casa Pound e figlio degli anni dell´odio e del disprezzo, appunto, dei diversi e dei più deboli. Del “padroni a casa nostra” – canone leghista ma non solo – gli anni scellerati in cui mascherato dal sorriso da squali dei corruttori si è fatto strada il cinismo egoista e squallido, opportunista, di chi mostrava al pubblico che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua e fatevi sotto coi mezzi che avete, le parole o le spranghe, l´ignoranza a far da padrona, pazienza per chi non può difendersi. “In questi anni si è diffuso il disprezzo” è una sintesi gentile, prova vergogna per chi si dovrebbe vergognare, non dice della paura seminata come fertilizzante elettorale, della stupidità e della sistematica distruzione del sapere che l´ha scientificamente, consapevolmente coltivata. Da quanti anni? Venti, trenta o persino di più? A chi addosseranno i libri di storia la responsabilità politica dello sfacelo nelle cui macerie ci aggiriamo increduli, spaventati dall´odore di polveri che non sappiamo se e quando si riveleranno esplosive ben oltre quei due colpi di pistola? Solo a Berlusconi? Solo ai signori del denaro o anche, ben prima, già sul finire degli anni Settanta e poi negli Ottanta, a una classe politica esangue e pronta a lasciarsi comprare o spazzare via, brodo di coltura dell´Uomo della provvidenza prossimo venturo? Da quanti anni in questo Paese mancano lo sguardo, il sorriso, l´intelligenza la generosità e il coraggio di qualcuno capace di pensare il bene di tutti a scapito del suo? Qualcuno capace di vedere quel che gli altri ancora non vedono e provare a realizzarlo: senza un tornaconto privato, perché è l´unica strada possibile ed è giusta, persino. Pazienza se costa.
Mi scuso per la lunga premessa ma è che avevo negli occhi e nelle orecchie le immagini del corteo dei senegalesi di Firenze nelle ore in cui chiudevo il secondo dei due libri appena usciti per una piccolissima casa editrice, Alphabeta, che raccontano come fosse un romanzo d´avventura una straordinaria storia davvero accaduta in Italia negli anni Settanta. Una storia di cui i nostri ventenni sanno poco o niente e quanto sarebbe importante che la conoscessero, invece, per dare una direzione e un senso costruttivo alla loro sacrosanta indignazione. C´era una volta la città dei matti e Marco Cavallo – poderosi tomi, non libriccini – narrano l´incredibile magnifica rivoluzione condotta controcorrente da un pugno di donne e di uomini guidati da Franco Basaglia. Raccontano come sia stato possibile far approvare, in Italia, nei giorni dei sequestro Moro, una legge che riguardava apparentemente una irrilevante minoranza di persone, i matti dei manicomi. E siccome allora, davvero, molti dei “matti” erano semplicemente vittime delle violenze di quel tempo, non è poi così difficile per quanto sia – lo riconosco – sommamente impreciso pensare che il posto che occupavano i matti negli anni di Basaglia l´abbiano adesso i neri d´Africa e gli afgani e i migranti dei barconi che muoiono speronati al largo delle nostre coste. Numeri, volti senza identità, estranei, stranieri, diversi da noi che si insinuano nelle strade e nelle piazze proprio come, usciti dai manicomi, Boris e Mara, Margherita e suo figlio cercavano senza trovarlo un posto in un appartamento a Gorizia, a Trieste. La cronaca dell´assemblea in cui i cittadini “normali” denunciano come l´apertura dei centri di igiene mentale nel loro quartiere faccia perdere valore alle loro case, la paura delle “donne per bene” di fronte a “quelli là”, l´ostilità, la chiusura. L´atteggiamento dei politici, così prudente, così diffidente, anche a sinistra: perché non bisogna perdere di vista il fatto che sarà pure giusto che i matti escano dai manicomi ma la gente non li vuole e il nostro elettorato sono la gente, non i matti. Ecco, c´è più di una suggestione, come vedete.
Poi penso anche, forse con una punta di ottimismo, che questo sia il tempo giusto per ricominciare a raccontare – a ricordare – storie come quella. Il film di Marco Turco, C´era una volta la città dei matti, è andato in onda nel 2010 in Rai ed ha avuto un successo straordinario. Sette, otto milioni di spettatori. Fabrizio Gifuni, il sorriso di Basaglia redivivo. Un sorriso che guarisce e che illumina. Il libro che esce oggi contiene i due dvd del film tv e il corposissimo trattamento scritto da Elena Bucaccio, Katja Kolia, Alessandro Sermoneta e Marco Turco. Il trattamento è tutto il materiale raccolto per la preparazione del film. Un romanzo storico, un documento meticoloso e avvincente che racconta centinaia di storie, di vicende minori che si intrecciano alla cronaca grande, Tina Anselmi e la Dc di allora, i volontari da tutto il mondo, Zavoli e la Rai com´era, l´Italia di chi sognava il futuro e quella di chi conservava il passato nel presente, impaurita.
Marco Cavallo è il diario di Giuliano Scabia che racconta la storia del cavallo azzurro di cartapesta che – cavallo di Troia alla rovescia – ha portato fuori dai manicomi i biglietti dei reclusi chiusi nella pancia ed è diventato il simbolo del dialogo, è ristampato qui, rispetto all´edizione Einaudi del ‘76, coi contributi di Basaglia stesso e di Peppe dell´Acqua, allora giovane medico oggi direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Dell´Acqua racconta come questa storia ci porti fino ad oggi: all´interesse attivo di Giorgio Napolitano per la chiusure dei manicomi giudiziari, per esempio, sconcio e ferita ancora aperta. Quest´estate Marco Cavallo, il cavallo blu di cartapesta emblema della via crucis dei senza volto, senza diritti, sans papiers di ogni tempo ha fatto il suo ingresso al Teatro Valle Occupato, avamposto della tutela dei Beni comuni e supplente di una sinistra smarrita e divisa. È arrivato coi suoi quarant´anni che parevano quattro. I ragazzi, giovanissimi, lo hanno applaudito e festeggiato senza conoscerne, spesso, la storia. È stata una festa di teatro e di strada, un momento magnifico. I giornali non ne hanno quasi parlato, le televisioni per nulla. Il fatto è che in questi anni si è diffuso il disprezzo. L´antidoto è a rilascio lento, come certe medicine omeopatiche, e comincia dalle parole senza rabbia dei senegalesi di Firenze e da due libri così.

2.12.11

Saremo mai un paese normale?

Antonio Armano (Saturno - Il Fatto Quotidiano)

Festeggiamo i 150 anni dell’Unità passando, come dice David Gilmour (vedi intervista di Alessio Altichieri su The Pursuit of Italy), dall’anomalia Berlusconi all’eccezione Mario Monti: saremo mai un paese normale? Cambierà qualcosa o tutto cambia solo in apparenza come nella migliore tradizione trasformista e gattopardista? Guardando a ritroso: Tangentopoli e gli attentati a Falcone e Borsellino, quasi mezzo secolo di Dc senza alternanza, il terrorismo, il Fascismo… Dimentichiamo qualcosa: P2? Gladio? Bisogna tornare al Risorgimento per ritrovare l’orgoglio? In altre parole: di che ci stupiamo? Bè non è che – da destra a sinistra, da Francesco Perfetti ad Angelo d’Orsi passando per Emilio Gentile e Mario Isnenghi – una visione così apocalittica sia accettata: «C’è da temere che un libro come quello di Gilmour abbia successo – dice Gentile, docente alla Sapienza – sono luoghi comuni, cose dette e ridette. Non mi stupisco che nessuno voglia pubblicarlo qui».

«Non soffro di un senso di anormalità. Anormalità rispetto a quale modello?», dice Isnenghi, professore all’università di Venezia e autore di Dieci lezioni sull’Italia contemporanea, in uscita per Donzelli.

Gentile contesta l’accusa di gattopardismo rivolta all’Italia a partire dall’espressione stessa: «Sarebbe più corretto parlare di tancredismo, attribuire il trasformismo, la volontà di cambiare tutto affinché nulla cambi, a Tancredi, nipote del Gattopardo. Il Gattopardo, il Principe di Salina, è tutto tranne che trasformista, è un disgraziato che si trova a vivere a cavallo di due epoche. Il romanzo, la filosofia dell’autore, piuttosto è nichilista. Si apre col ritrovamento del cadavere del soldato in giardino e si chiude con la carcassa del cane Benedicò scagliata dalla finestra che si trasforma in polvere. Purtroppo l’espressione gattopardismo si è radicata anche se sbagliata ma non si può riferire al Principe di Salina né al romanzo».

Perfetti, docente di storia alla Luiss e firma del “Giornale”, non ama fare analisi di lungo periodo, accostamenti tra epoche e figure distanti, preferisce concentrarsi su singoli momenti e vede aspetti positivi nel berlusconismo (pur prendendo atto del fallimento): «Berlusconi ha saputo convogliare l’antipolitica in politica nel momento difficile di Tangentopoli. Ha ristabilito l’alternanza al governo. Prima avevamo un situazione bloccata. Ha rimesso in circolo i voti della destra missina che si trovavano in frigo. L’aspetto negativo è stato entrare in politica anche per interesse personale. Dobbiamo però distinguere. Tra il primo governo Berlusconi e l’ultimo c’è una bella differenza. La componente liberale che aveva dato la spinta e anche l’immagine, è stata accantonata».

Per Angelo d’Orsi, docente di storia all’università di Torino, il trasformismo in Italia è un fenomeno che riguarda gli intellettuali: «Giuliano Ferrara lo manderei in Siberia visto che conosce la realtà russa, gli farebbe bene anche alla linea. Lui è stato un campione nel giustificare qualsiasi cosa facesse Berlusconi. E gran parte degli editorialisti del “Corriere” hanno aspettato troppo per sganciarsi da Berlusconi. Hanno fatto anche loro gli equilibristi: sì è vero in questo sbaglia però… Ernesto Loggia Delle Galline, ehm Galli Della Loggia, Piero Ostellino, Pigi Battista». L’idealtipo del rinnegato, dell’intellettuale passato da sinistra a destra (la direzione del trasformismo), per d’Orsi è Mussolini già direttore dell’“Avanti!”. Quotidiano finito nelle mani di Lavitola e che ora si pretende, in modo ridicolo, «di far rinascere affidandolo a Rino Formica!».

Su un punto tutti concordano: se esiste un’anomalia italiana, innegabile, congenita, strutturale, è il Vaticano. Per Gentile, la presenza nel territorio italiano di una piccola città dotata di una grande potere spirituale crea problemi per la laicità dello stato. Ma invita a non fare troppa dietrologia: «Se pensassi che dietro a ogni azione del governo sia possibile rintracciare un disegno del Vaticano smetterei di fare questo mestiere. A che servirebbe? Il Vaticano appoggia tutti i governi in carica. È ministeriale per vocazione. Per un’ambiguità di fondo. Il Papa è anche capo di Stato».

Perfetti riconosce l’anomalia vaticana, rispetto alle democrazie di stampo anglosassone ma anche a Francia e Spagna; e dice: «Il mondo cattolico ha sempre appoggiato Berlusconi, a parte una frangia legata al vecchio dossettismo. Poi, per reazione a certi comportamenti privati, l’ha mollato. E pure per il liberismo selvaggio. Ora credo che dopo la caduta del governo esista un disegno per ricreare la democrazia cristiana, un blocco dei cattolici in politica che possa esercitare almeno il ruolo di ago della bilancia».

Rincara la dose d’Orsi: «In questo governo si vede una forte impronta vaticana, un progetto di egemonia cattolica, il tentativo di dettare l’agenda politica. Non più soltanto un potere d’indirizzo. Da tempo le dichiarazioni della Cei e del Papa sono quotidiane. Il Vaticano concede appoggi in cambio di esenzioni e privilegi. Il finanziamento alla scuola cattolica è uno scandalo. La vera anomalia italiana è questa. Ci indigniamo tanto per quel che accade nei paesi islamici e non per quel che succede in Italia. La religione deve tornare a essere un fatto privato. Le gerarchie cattoliche hanno esitato a lungo prima di prendere le distanze da Berlusconi, hanno aspettato che si muovessero prima altri poteri forti. La Marcegaglia è stata più coraggiosa e dura del Papa».

Per quanto tutti attacchino Gilmour, la visione che emerge è piuttosto desolante. Almeno nell’età moderna, Risorgimento a parte: «Nella mia Storia d’Italia – dice Isnenghi – insegno a essere fieri del Risorgimento. La Germania, che si viene formando in parallelo, non ha un Mazzini o un Garibaldi. Dobbiamo vergognarci meno di noi stessi. Me la prendo con alcuni stereotipi. Come quello del paese da operetta. Siamo un paese tragico. Abbiamo avuto un regicidio, l’assassinio Matteotti,  piazzale Loreto… Ecco, se una cosa si può dire di Berlusconi, è che ha fatto molto per identificarci con lo stereotipo del paese da operetta. Con il comportamento che ha tenuto all’estero soprattutto. Siamo diventati “il paese del cucù”… In Italia si mescola l’elemento tragico e quello operettistico, pizza, mandolino e stragi di mafia… Abbiamo intere regioni in mano alla criminalità organizzata ma giudici che chiedono di essere mandati là per combatterla. Io ragionerei in termini di dualismo, di conflitto, non di normalità e anormalità. Normalità e anormalità rispetto a quale modello?»

Per quanto esalti il Risorgimento, Isnenghi vede una costante storica nella figura del dittatore pro tempore, Garibaldi, Cadorna, il Duce, Berlusconi. Un bisogno di affiliazione, di una figura forte e affascinante da adorare. Tutto discende dal Papa. Poi diventa una versione attualizzata del (Santo) padre: «Un padre giovane, con cui andare al bar, all’osteria o al casino». Al casino in particolare. Gentile invita infine a tenersi lontano dalle eccessive generalizzazioni e lamentazioni: le anomalie toccano ogni paese e gli italiani sono molto cambiati in 150 anni di storia. A non cambiare mai è la classe politica: «Quando Obama incontra Napolitano penso che il nostro presidente era già in parlamento quando quello americano non era ancora nato».

24.11.11

La crisi non aspetta

Massimo Giannini  (La Repubblica)

Dall´«uomo dei sogni» all´«uomo dei miracoli»? Nessuno si era illuso: il passaggio dal Venditore di Arcore al Professore della Bocconi non poteva bastare a risolvere i guai dell´Italia. Ma ora che la «dittatura dello spread» pesa sulla democrazia dei popoli, Monti non può esitare: serve una svolta immediata, per uscire da questa crisi. La tempesta finanziaria è globale. Squassa l´Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania paga dazio, come dimostra l´inaudito insuccesso dell´asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell´intera Eurozona.Ma l´Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l´euro. È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale.
C´è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli «irriducibili» della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema «non era Berlusconi». È l´ennesimo tentativo di mistificare la verità. L´«effetto Monti», sui mercati, c´è stato eccome. Per una settimana, dal giorno dell´incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi. Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il «teorema Roubini» non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l´Italia un risparmio secco di 100 punti base. La «Papi tax» è esistita, insomma. E noi l´abbiamo pagata.
Ma ora c´è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell´opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell´economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell´emiciclo di Westminster: «L´Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra… L´Italia vive una situazione di seria emergenza… dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l´anello debole dell´Europa… Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l´occasione per riscattare il Paese».
Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un´élite tecnocratica di alta qualità. E poi la «missione fiducia» nel consesso internazionale: l´altro ieri l´Eurogruppo e l´incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy. Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l´Italia nell´unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l´aveva inopinatamente sradicata: l´Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un «battutista» che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua.
Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: «Non ci aspettiamo miracoli», «il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona». Ma poi avverte: «La situazione italiana rimane difficilissima», «il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità storica e una sfida immensa». Questo lo sa anche il governo di Roma. Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l´obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l´azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri «operativo», lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana. L´Agenda Monti, così come il premier l´ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un´Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d´anzianità. Dalla lotta all´evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all´imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità: stavolta «chi ha di più, dovrà dare di più». Sarà misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici.
La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il «fattore tempo» sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la «luna di miele» che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale. Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso «dividendo»: la discontinuità e la credibilità. Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani.

17.11.11

Manifesto for European Common Goods

da  http://www.europeancommongoods.org/

La crisi che colpisce l'economia mondiale e di conseguenza l'euro in questi mesi richiede una risposta radicalmente diversa da quelle attualmente programmate e realizzate. Il modo in cui l'Europa, i suoi governi e gli elettori si occuperanno della crisi greca creerà un precedente importante per la prossima crisi ed i connessi rischi di default nazionali.
Le decisioni probabili del governo greco, praticamente lasciato solo, come altri governi in simili crisi di debito, si basano sulla massiccia vendita di beni pubblici a compratori non meglio identificati in modo da raccogliere il denaro necessario per garantire prestiti ulteriori.
Questa decisione è sbagliata non solo sul piano politico, ma anche in termini pratici. Politicamente abbiamo avuto ampie dimostrazioni nel quarto di secolo passato che la deregulation e le privatizzazioni non sono sinonimo di efficienza, investimenti, modernizzazione e competitività.


Al contrario, c'è un lungo elenco in Europa e nel mondo, di clamorosi fallimenti e di distruzione di valore da parte di quelle stesse forze di mercato che erano invece state celebrate come portatrici di soluzioni durature a tutti i problemi dell'economia nazionale e internazionale.
L'ultima crisi economica e finanziaria del mercato globale ha dimostrato oltre ogni dubbio che i mercati da soli non sono in grado di governarsi, che non esiste la mano invisibile che bilancia i diversi interessi e che il denaro pubblico ha salvato gli stessi oligopoli che in teoria non avrebbero dovuto esistere in un ambiente competitivo sano, favorito da un mercato liberalizzato. Ma come non ci sono pranzi gratis, così non esiste un mercato deregolato che pensi al bene comune.
Noi crediamo fortemente, ispirati da una visione politica ed etica nonché dall’esperienza pratica, che le politiche pubbliche non possono solo limitarsi a regolamentare il neolaissez-faire, a sostenere interessi privati in nome di una presunta competitività nazionale o limitarsi a ridistribuire un reddito in diminuzione.
Le politiche pubbliche devono tutelare gli interessi pubblici, sotto controllo democratico, il che significa che hanno il compito di promuovere beni pubblici e investimenti a lungo termine, sostenuti da una gestione efficiente e da una tassazione sensata che tenda al bene della società.


Invece di lasciare che le proprietà pubbliche della Grecia siano svendute a prezzi ridicoli a grandi potenze, che hanno un forte interesse a controllare i mercati per rinforzare la loro competitività (fatalmente a discapito dei nostri interessi), o ad investitori privati che sono totalmente irresponsabili verso la società, gli elettori e gl’interessi nazionali, proponiamo di utilizzare in modo più efficace il denaro pubblico che abbiamo già impegnato nei prestiti della UE e del Fondo Monetario Internazionale, oltre che nelle misure di sostegno della BCE.
I beni pubblici greci, come quelli di altri paesi a rischio, dovrebbero essere venduti ad un raggruppamento economico europeo, pubblico o partecipato da quota di maggioranza pubblica, in modo da ottenere il denaro necessario direttamente da governi e istituzioni internazionali.
Questo permette di proteggere due interessi vitali a livello europeo e nazionale:
* I beni saranno rimborsabili da parte del paese interessato nei tempi necessari ed a condizioni ragionevoli o produrranno profitti proporzionali ai governi, ma la loro gestione avverrà tenendo conto delle esigenze economiche e sociali. Se esistono i fondi sovrani, non si vede perché imprese pubbliche, adeguatamente gestite e vigilate, siano inconcepibili.
* I beni rimarrebbero patrimonio economico e industriale europeo, invece di essere dispersi nel mondo, soggetti ad futuro molto incerto. L'Europa ha creato una formidabile entità integrata, soprattutto a livello economico: sarebbe un suicidio se, nei momenti di massima emergenza, l'Europa si rifiutasse di attuare una politica industriale di semplice buon senso.

16.11.11

Bombardamento a tappeto sull'euro

di Marcello Bussi (Milano Finanza)
Crescono i sospetti su Goldman Sachs regista dell'attacco. Le similitudini con la crisi subprime. La rigidità tedesca non consente alla Ue e alla Bce di schierare difese efficaci

Anche l'Austria è a rischio. Eppure sono disciplinati e parlano tedesco. Ma ieri lo spread del Paese alpino è salito al livello record di 181, appena più in basso di quello della Francia (186), che ormai sembra condannata a perdere la tripla A. Per non parlare della Spagna che vola a 451 punti base, con il rendimento del bond decennale al 6,308%, mentre quello del Belgio sfiora ormai il 5% (4,896%) con lo spread a 309.

Davanti a questa ecatombe non stupisce che l'effetto Monti sia già finito e lo spread dell'Italia continui a viaggiare sopra 500, mentre il rendimento del Btp abbia sfondato di nuovo il tetto del 7%. Se poi qualcuno avesse nostalgia delle volgarità di Umberto Bossi, si consoli con il premier olandese Mark Rutte: i Paesi che violano le regole economiche «devono essere cacciati via a pedate» dall'euro, ha minacciato ieri. I dirigenti della compagnia aerea low cost easyJet hanno così annunciato di avere preparato dei piani di contingenza nel caso in cui l'euro dovesse disintegrarsi.

Si tratta di un rischio serio e imminente? Se si guarda all'Austria si direbbe di no: il rapporto debito pubblico/pil è al 75%, i conti sono solidi. Eppure anche Vienna è sotto attacco. Ma questa evidente assurdità rende plausibili le voci, circolate un anno e mezzo fa e riportate dal Wall Street Journal, su un incontro avvenuto ai primi di febbraio del 2010 a New York tra un pugno di hedge fund, tra cui i colossi Sac Capital Advisors e Soros Fund Management, che avrebbero deciso, ispirati da Goldman Sachs, di puntare sulla parità euro-dollaro.

Guarda caso, pochi giorni dopo George Soros dichiarò pubblicamente che se i Paesi dell'Ue non avessero messo a posto i loro conti pubblici, «l'euro sarebbe andato a pezzi». Si dice da tempo che la speculazione punti proprio a questo risultato. E i parallelismi con la crisi subprime, che ha portato al fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008, cominciano a essere inquietanti. Da quel disastro solo Goldman Sachs, guidata da Lloyd Blankfein, è uscita più forte di prima. Quella stessa Goldman Sachs il cui ex ceo Henry Paulson è stato l'artefice, in qualità di segretario al Tesoro Usa, del salvataggio da 700 miliardi di dollari delle banche americane.

La stessa Goldman Sachs che, secondo l'inchiesta di una commissione del Senato Usa, avrebbe prima gonfiato la bolla dei subprime e poi scommesso contro di essa per lucrare sul crollo del mercato immobiliare americano. Il tutto mentre continuava a confezionare titoli tossici rimpinzati di subprime da sbolognare ad altri più sfortunati clienti. Insomma, Goldman gonfia la bolla e guadagna, scommette sul suo scoppio e guadagna, dopodiché si ritrova con un suo uomo, in questo caso Paulson, a rimettere insieme i cocci.

L'eurocaos, si sa, ha avuto origine dal fatto che la Grecia ha truccato i conti per entrare nell'euro e poi ha continuato a farlo per renderli meno disastrosi, fino a quando il gioco è diventato così spudorato da essere scoperto. Goldman Sachs ha offerto la sua consulenza tecnica per il maquillage dei conti, dopodiché è diventato premier, fortemente voluto dai mercati, Lucas Papademos, consulente di Goldman Sachs e governatore della Banca centrale greca ai tempi dei primi trucchi.

Altro uomo chiave della crisi è il presidente del consiglio incaricato Mario Monti, anch'egli consulente di Goldman dal 2005. Per non parlare del presidente della Bce, Mario Draghi, che dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l'Europa. Se venisse seguito il copione dei subprime, sarebbe tutto perfetto: Goldman gonfia la bolla dell'euro, aiutando un Paese sull'orlo del fallimento come la Grecia a entrarvi, poi scommette sulla sua fine e si trova come per caso uomini a lei vicini nei punti di snodo della crisi: la Bce, l'Italia e la Grecia. Coincidenze che fanno pensare. Detto questo, Goldman non ha l'obiettivo politico di distruggere l'euro.

L'unico suo obiettivo è quello di fare profitti. E poco importa in che modo essi vengono realizzati, se a danno di uno Stato o di una grande azienda. Goldman attacca l'euro perché non ha difesa. La riforma del Fondo salva-Stati (Efsf) rischia di slittare ancora, mentre la Bce non è prestatore di ultima istanza a causa dell'opposizione della Germania, la cui rigidità fa paradossalmente il gioco degli speculatori. Secondo Romano Prodi, Goldman e le sue sorelle dispongono di una potenza di fuoco di almeno 12 mila miliardi di dollari, mentre Eurolandia risponde con piani di austerità che la mandano in recessione. La partita è troppo facile, è naturale che Goldman la giochi fino in fondo.

15.11.11

Parlamentari e manager, lo specchio dei privilegi. Ricche baby pensioni, maturate per un giorno di lavoro e senza cumulo

 da Siciliainformazioni


Baby pensionati
( nome cognome, classe,  ramo, pensione lorda annuale -  mensile - al giorno, ente)

Mauro SANTINELLI 1947 telefonia 1.173.205,15 - 90.246,55 -  3.258,90  INPS
Mauro GAMBARO 1944 finanza 665.083,64 - 51.160,28 - 1.847,45  INPS
Alberto DE PETRIS 1943 telefonia 653.567,20 - 50.274,40 - 1.815,46  INPDAI
Germano FANELLI 1948 elettronica 600.747,68 - 46.211,36 - 1.668,74  INPS
Vito GAMBERALE 1944 telefonia 574.102,23 - 44.161,71 - 1.594,72  INPS
Alberto GIORDANO 1941 finanza 549.193,74 - 42.245,67 - 1.525,53 INPS
Federico IMBERT 1951 finanza 539.775,62 - 41.521,20 - 1.499,37  INPS
Giovanni CONSORTE 1948 finanza 372.000,00 - 28.593,00 - 1.033,33  INPS
Ivano SACCHETTI 1944 finanza 371.000,00 - 28.560,00 - 1.030,55  INPS
Ernesto PAOLILLO 1946 finanza 342.000,00 - 26.327,00 -  950,00 INPS


PENSIONE PER 1 GIORNO DI LAVORO

nome cognome attività svolta per pensione/mese lorda ente

Luca BONESCHI parlamentare 1 giorno 3.108,00 Camera
Piero CRAVERI parlamentare 8 giorni 3.108,00 Senato
Angelo PEZZANA parlamentare 8 giorni 3.108,00 Camera
Toni NEGRI parlamentare 64 giorni 3.108,00 Camera
Paolo PRODI parlamentare 126 giorni 3.108,00 Camera
Clemente MASTELLA giornalista 397 giorni (?) INPGI
Oscar Luigi SCALFARO magistrato 3 anni 7.796,85 INPDAP


(nome cognome attività svolta in pensione a pensione/mese lorda ente)


Manuela MARRONE in BOSSI insegnante 39 anni 766,37 INPDAP
Giuseppe GAMBALE parlamentare 42 anni 8.455,00 Camera
Antonio DI PIETRO magistrato 44 anni 2.644,57 Inpdap
Rainer Stefano MASERA banchiere 44 anni 18.413,00 INPS
Pier Domenico GALLO banchiere 45 anni 18.000,00 INPS
Rino PISCITELLI parlamentare 47 anni 7.959,00 Camera
Pier Carmelo RUSSO assessore Sicilia 47 anni 10.980,00 Regione Sicilia
Mario SARCINELLI banchiere 48 anni 15.000,00 INPS
Alfonso PECORARO SCANIO parlamentare 49 anni 8.836,00 Camera
Vittorio SGARBI parlamentare 54 anni 8.455,00 Camera

3 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Romano PRODI
4.246,00 INPDAP
4.725,00 Parlamento
5.283,00 Unione Europea

2 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Luciano VIOLANTE
7.317,00 INPDAP
9.363,00 Camera
Publio FIORI
16.000,00 INPDAP
10.631,00 Camera

2 PENSIONI E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensioni/mese lorde +
stipendio lordo
ente
Giuliano AMATO
22.048,00 INPDAP
9.363,00 Parlamento
(?) stipendio di Deutsche Bank
Lamberto DINI
18.000,00 Bankitalia
7.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Carlo Azelio CIAMPI
30.000,00 Bankitalia
4.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giulio ANDREOTTI
5.823,00 INPDAP
5.086,00 INPGI
19.053,75 stipendio da parlamentare

1 PENSIONE E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensione/mese lorda +
stipendio lordo
ente
Renato BRUNETTA
4.352,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giuseppe FIORONI
2.008,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Rocco BUTTIGLIONE
5.498,00 INPDAP
19.053,00 stipendio da parlamentare
Achille SERRA
22.451,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Mario DRAGHI
14.843,00 INPDAP
37.500,00 stipendio Bankitalia
Cesare GERONZI
22.037,00 INPS
417.500,00 stipendio Ass. Generali

12.11.11

Buonanotte

Massimo Gramellini

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.

E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.

4.11.11

Perché non sciogliere il popolo?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?
No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.
E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».
In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.
Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

23.10.11

Post-coloniali?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Qualche osservazione.

Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.

Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.

Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste.
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato.
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.

Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.

Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.

21.10.11

Se anche la Bce fa il tifo per il reddito di cittadinanza

di Giovanni Perazzoli

C’è un punto nella famosa lettera della Bce che non ha suscitato il dovuto interesse. Leggo che insieme all’“accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” bisognerà stabilire “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”.

Non voglio parlare adesso delle molte possibili critiche alla lettera (una tra tutte, il fatto che non faccia una parola sull’evasione fiscale italiana, ribadendo così l'orientamento generale che a pagare la crisi non debbano essere coloro che l'hanno provocata). Noto però con stupore che nessuno ha dato il giusto rilievo al passaggio citato sopra.

A proposito del quale, bisogna subito rilevare che esso induce a prendere atto di due fatti. Il primo è che, se si propone di istituire un’assicurazione sulla disoccupazione, evidentemente una simile assicurazione in Italia non c’è. Mentre c'è in Europa.
Il secondo fatto è che, per realizzare questa assicurazione sulla disoccupazione, non mancano i soldi.

Non mi pare poco. Nel momento estremo della crisi, quella stessa lettera della Banca Centrale Europea che consiglia il risparmio all’osso per tenere sotto controllo il debito pubblico, consiglia anche di introdurre in Italia un sussidio di disoccupazione. Il quale, evidentemente, dovrà immaginarsi analogo a quello degli altri paesi europei (dove anche chi non lavora ha un reddito garantito), ovvero corrispondente alle direttive europee sottoscritte e mai applicate dall’Italia (e dalla Grecia). Non credo che la Bce possa infatti proporre qualcosa di contrario o di diverso rispetto alle direttive europee.

Ma perché nessuno ne ha parlato? Certo, non sfugge il contesto drammatico nel quale cade la proposta dell’istituzione di questa “assicurazione sulla disoccupazione”. Tanto meno però deve sfuggire il fatto che, su questo specifico punto, niente il governo abbia “recepito”, e che nulla la sinistra abbia detto, spiegato, chiarito.

Invece, sarebbe essenziale dire, spiegare e chiarire. Anche perché in Italia sorprendentemente pochi sanno di che cosa si tratta, e gli equivoci sono continui. Ad esempio Franco Berardi, su questo sito si chiede con ironia se “la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei”; Beppe Grillo in un post dichiara che il suo movimento, come altri movimenti europei, da sempre sostiene il reddito di cittadinanza per i disoccupati. Sono solo due esempi.

Per evitare equivoci controproducenti per l’Italia, meglio allora essere chiari. I disoccupati europei non devono aspettare i banchieri centrali o il movimento indicato da Grillo per avere un “reddito di cittadinanza”, perché hanno già un “reddito di cittadinanza”. In Gran Bretagna la prima formula è del 1911 (National Insurance Act), in Belgio del 1915. La Francia – che è stata tra le ultime nazione ad adottare una forma di reddito di cittadinanza – lo ha istituito ormai più di vent’anni fa (RMI, Revenu minimum d'insertion, ora è stato riformato e migliorato e si chiama RSA). Tutti i paesi europei, ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria, hanno forme di “reddito di cittadinanza”. In generale, queste forme di sussidi sono illimitate nel tempo, con l’unica condizione della ricerca attiva di un lavoro da parte di chi ne usufruisce; ad esse si devono aggiungere altri aiuti per l’alloggio, integrazioni per i redditi sotto una certa soglia etc. (In calce i riferimenti a Wikipedia ). Il sostegno del reddito è, del resto, uno dei pilastri del welfare state, come la scuola, la sanità, la pensione.

Perché allora ci sono dei movimenti europei che chiedono il “reddito di cittadinanza”? Perché questi movimenti vogliono andare oltre quello che già hanno. Infatti, una cosa è il sussidio di disoccupazione, un’altra il reddito universale. Spesso si prende il “reddito di cittadinanza” come un sussidio rivolto al disoccupato; l’idea di questi movimenti è invece intendere il “reddito di cittadinanza” nel senso di un reddito rivolto a tutti, che lavorino o meno. Ma la differenza non deve occultare che le forme di sussidio di disoccupazione o di reddito minimo garantito europee costituiscono di fatto una forma di reddito universale o di cittadinanza perché comunque, per così dire, nessuno resta senza un euro in tasca. Tanto più che a questi sussidi si accede con la maggiore età anche se non si è mai avuta un’occupazione in precedenza.

Tuttavia, il fatto non è il diritto; e l’idea che il sussidio riguardi il disoccupato in cerca di lavoro non è un aspetto neutrale di questo istituto. Ed è per questo che in Europa esistono dei movimenti che vogliono andare oltre il tipo di reddito di cittadinanza come indennità di disoccupazione o integrazione del reddito. Le teorie proposte sono molto interessanti, ma in Italia hanno involontariamente confuso le acque, che erano già torbide per conto loro. Poiché in Italia non è noto che in Europa i disoccupati usufruiscono di una serie di sussidi e di facilitazioni, si può cadere nell’errore di credere che i movimenti per il reddito universale vogliano un sussidio per i disoccupati. Il che non è vero. Anzi, nella formulazione più importante, quella del Basic Income, è vero il contrario. L’idea nuova è che il “reddito di cittadinanza” debba essere pensato non solo per i disoccupati (lo hanno già), ma anche per chi lavora. In generale, l’idea di questi movimenti è che il reddito di cittadinanza debba essere indipendente dal lavoro.

La forma più elaborata e influente di questa teoria politico-economica è quella formulata dal filosofo ed economista belga Philippe van Parijs, dell’università americana di Harvard e della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio). Intorno a lui si è creata anche una rete internazionale molto attiva, formata da economisti, uomini politici, filosofi, studiosi attivisti (Bien http://www.basicincome.org/bien/. In Italia, invece esiste il Bin http://www.bin-italia.org/).

Qui non posso illustrare la teoria di van Parijs. Ma è importante notare, per avere un’idea del dibattito sul welfare state in Europa, che uno degli argomenti da lui utilizzati a favore del Basic Income – ovvero del reddito universale distribuito a tutti, lavoratori o disoccupati – è che esso potrebbe risolvere una delle distorsioni che si imputano alle forme europee di reddito minimo garantito: la “trappola assistenziale”.

Di che cosa si tratta? La disoccupazione sarebbe prodotta in Europa, oltre che dalla crisi e dalla globalizzazione, proprio dai sussidi di disoccupazione. Il disoccupato europeo (non italiano, ovviamente, che ha solo la famiglia, perché un vero welfare in Italia non c'è) può essere incentivato a non lavorare dal sussidio. In effetti, in molti casi, può non essere conveniente da parte del disoccupato cercare un lavoro, visti gli aiuti a cui si ha diritto – sussidio disoccupazione, sostegno economico per i figli, alloggio gratuito, esenzione per le spese sanitarie, contributi per i trasporti, il riscaldamento, il telefono ecc. In particolare, il sussidio si trasformerebbe in un incentivo a non lavorare per le donne, già gravate dalla cura della famiglia. Di fatto, specialmente per i lavori meno qualificati, le somme percepite finiscono per essere equivalenti a quelle del sussidio: è stato calcolato che in Germania la differenza tra un basso salario e il sussidio sarebbe di circa 100 euro.

Ora, secondo van Parijs, un’allocazione universale uguale per tutti (seguita da una tassazione per fascia reddito che tolga quanto anche ai ricchi viene dato con il Basic Income) disinnescherebbe la trappola assistenziale perché invertirebbe la direzione dell’incentivo: lavorare non comporterebbe la perdita dei vantaggi che si hanno non lavorando. Facciamo l’ipostesi di un reddito minimo corrisposto a tutti di 1000 euro. Ricchi e poveri percepirebbero tutti mille euro, salvo il fatto che i più ricchi verrebbero tassati di mille euro (quello che prendono lo restituiscono con le tasse). La differenza rispetto alle forme di reddito garantito europee è che non ci sarebbe più il disoccupato “assistito”; lavorare e quanto lavorare sarebbe una scelta, prevedendosi anche il caso di chi, rinunciando a un certo livello di consumi, preferisca non lavorare (per avere, ad esempio, tempo libero o per dedicarsi ai figli) o preferisce lavori meno remunerati (ad esempio, vicini al volontariato ecc.). Nel caso di una donna, tornare al lavoro dopo avere avuto un figlio non sarebbe disincentivato dal venire meno del sussidio, ma verrebbe al contrario incentivato grazie alla più alta retribuzione.

I costi? Secondo van Parijs dovrebbero essere inferiori a quelli che servono attualmente per finanziare in media il welfare europeo, soprattutto perché il suo Basic Income prevede l’azzerarsi di tutti gli altri sussidi e aiuti. Uno dei libri più importanti di van Parjis – Real Freedom for All: What (if anything) can justify capitalism?, Clarendon Press, 1995 – ha in copertina un tizio che se la spassa sul windsurf. L’autore racconta che la scelta della copertina riprende il caso su cui aveva discusso con il filosofo americano John Rawls: una società giusta può prevedere la libertà di scegliere di non lavorare, per passare il tempo a fare windsurf su una spiaggia assolata?

Il Basic income, secondo van Parijs, dovrebbe contribuire a modificare profondamente l’incidenza dell'esclusione dal lavoro, della povertà e rendere la società più giusta non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse, ma anche, ed è questo l’aspetto più importante, dal punto di vista della libertà delle scelte. La Bocconi ha pubblicato in traduzione italiana nel 2006 un bel libro di van Parijs, Il reddito minimo universale, dove si possono trovare tutte le informazioni sul tema.

Ogni lettore italiano percepisce immediatamente la distanza siderale tra questi problemi e quelli italiani. Quanti di noi avrebbero mai sospettato che il disoccupato potesse stare meglio dell’occupato? E invece, anche se può stupire, in Germania, Francia, Olanda ecc., il difetto (vero o presunto) di incentivare la disoccupazione attribuito al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) è uno dei temi chiave del dibattito politico sul welfare state. E comunque, la destra non propone di cancellarlo, ma di ridurne l'impatto sulla disoccupazione, inducendo il disoccupato ad accettare il lavoro offerto dall’ufficio di collocamento, anche se questo corrisponde solo in parte alla propria qualifica professionale. Secondo la riforma del governo conservatore britannico di Cameron, il disoccupato che rifiutasse per tre volte un lavoro ragionevolmente vicino alla sua formazione professionale resterebbe tre anni senza sussidio. È facile capire che proprio questa politica restrittiva ha innescato la crescita di movimenti più radicali che intendono svincolare del tutto il reddito minimo garantito dal lavoro. E la posizione di van Parijs è estremamente interessante, soprattutto nella crisi attuale.

Complessivamente, restando al presente, il reddito di cittadinanza esistente in Europa ha, comunque, più vantaggi che svantaggi; non è infatti solo un rimedio “alla povertà” (il fatto che in Italia di questi temi si discuta sotto il profilo del “rimedio alla povertà” è un indicatore quasi infallibile della confusione regnate), ma è un istituto che accresce la disposizione al rischio di impresa (perché crea una rete di protezione), che rinsalda il legame sociale e nazionale (come notava Eric Hobsbawm ne Il secolo breve), che abbatte il clientelismo e la classe politica che da esso si alimenta.

Non da ultimo, la flessibilità sul lavoro è ben altra cosa se esiste una rete seria di protezione (ma deve essere seria e non un surrogato di Europa, come lo sono alcune attuali leggi regionali). Si potrebbe allora anche immaginare una società diversa da quella che viene difesa solo perché non si ha davanti un'alternativa. La diffusione in Europa del movimento per il “reddito universale” avviene sulla base di anni di sussidi che non sono rivolti a chi ha perso il lavoro, ma a chi non lavora o, pur lavorando, non guadagna abbastanza.

Perché guardare indietro e non avanti? In fondo, una società ingessata nella quale l’operaio farà per tutta la vita l’operaio, e deve anche ringraziare il parroco o l’assessore che lo ha raccomandato perché venisse assunto, non è proprio un modello di società giusta e libera. Il posto fisso in un mondo a sua volta fisso è una condanna mascherata, che penalizza i più deboli: trovato il posto, guai a te se non ti comporti bene e non ti metti in riga (devi pure pagare le rate del mutuo). I conflitti sul lavoro? Le donne che devono sopportare il superiore che ci prova? Sono situazioni che non hanno via di scampo, tranne ricorre all’avvocato e al tribunale in caso di licenziamento. Ma questa rappresentazione della società, che è in fondo frutto dell’immaginario sovietico della vecchia sinistra (uno mondo, del resto, speculare a quello del film Pleasantville, stile anni ’50, in cui ogni individuo “è” per il ruolo che ha, secondo un legge inesorabile, sempre presupposta come giusta, che distingue chi è in alto e chi è in basso nella gerarchia sociale), ha impedito fin qui in Italia l’adozione di una forma di assicurazione sulla disoccupazione sul modello delle socialdemocrazie europee (che erano “piccolo borghesi”). Una rete solida darebbe a tutti invece una di quelle opportunità che sono il metro di una società giusta e libera: la possibilità di cambiare vita (che molto spesso significa la possibilità di migliorare le proprie condizioni di partenze).

È curioso che da noi si continui ad ignorare una realtà europea esistente, tutt’altro che utopistica (perché rodata in mille modi e difesa nella sua sostanza sia da destra che da sinistra), e così normale e consueta che ce la viene a proporre addirittura il banchiere centrale europeo.

Spero di aver dato un’idea di quello che in margine alla lettera della Bce non è stato detto.

Francia: Rmi (Revenu minimum d'insertion); Rsa (Revenu de solidarité active)Gran Bretagna: Jobseeker's AllowanceGermania: Arbeitslosengeld II

Presidente, more solito!

Commento di Silvio Berlusconi alla morte di Gheddafi: "Sic transit gloria mundi!". E la frase fa il giro del mondo.

Da uno che ha baciato l’anello al dittatore di Tripoli in vita non potevamo aspettarci che un glorificazione in morte: “Sic transit gloria mundi”.

Silvio Berlusconi non ci ha nemmeno pensato un attimo e la sua frase ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ma lui è abituato così. Parla “apertis verbis”, insomma chiaro e franco, come nella recente occasione del nome del suo nuovo partito. E lo fa “coram populo”, senza chiedersi “cui prodest?”, senza assolutamente riflettere, almeno una volta, “cum grano salis”.

Certo “de gustibus non disputandum est”. Eppure sarebbe meglio farlo: “Sapiens ut loquatur multo prius consideret” (un sapiente prima di parlare deve molto pensare). Ma non sembra la regola del nostro Presidente. Forse, dopo quel baciamano, era naturale associare gloria a Gheddafi: “Promissio boni viri est obligatio”. (Le promesse delle persone per bene sono un impegno che va mantenuto). Anche con una fulminea dichiarazione “post mortem”.

Il Cavaliere parla “pro domo sua”, “sic et sempliceter”, anzi “ ridendo dicere verum”, “sine ira et studio”, neppure “una tantum”. E non lo fa “ob torto collo”, ma, “mirabile visu” (cosa incredibile a dirsi), insomma “more solito”, “ex abrupto” (all’improvviso) “ex abundantia cordis” (dal profondo del cuore).

Cosa c’è stato tra lui e Gheddafi? Forse un “do ut des”? Se fosse vero sarebbe stato meglio una “damnatio memoriae” piuttosto che esercitarsi nel “carpem diem”, nel cogliere l’attimo di una dichiarazione “ad hoc” sicuramente ed esageratamente “ad abundantiam”. Tutto questo “absit iniuria verbo”, sia detto senza offesa.

8.10.11

Siate curiosi siate folli

di Steve Jobs (testo integrale in italiano della celebre conferenza a Stanford - L'Espresso)

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo. Il credo del capo di Apple
(27 dicembre 2006)

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. La prima storia è su una cosa che io chiamo 'unire i puntini' di una vita. Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? è iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente!". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.


Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita

Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.

Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.

Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.

Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.

Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.

Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.

Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.

La terza storia è a proposito della morte.

Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.

Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.

Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.


Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.

Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto

Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. è l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. è stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. è stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. è stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.

Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.

traduzione di Antonio Dini

7.10.11

Scuola: 10 BUGIE

Giuseppe Caliceti (da rete scuole)

Ci sono almeno 10 bugie sulla scuola ripetute ossessivamente ai genitori italiani dal ministro all'Istruzione-Pinocchio che ci ritroviamo. Vale la pena smascherarle: perchè i genitori degli studenti conoscano la verità.
1. Più merito a scuola? Falso. Prima che fosse – immeritatamente - Ministro all'Istruzione, la scuola primaria italiana era al 1° posto in Europa per qualità, ora al 13° (dati Ocse). Di che merito parla?
2. In Italia ci sono troppi insegnanti? Falso. Sono in media con gli altri paesi europei. Ma Gelmini non dice che conta anche i docenti di sostegno, in altri paesi pagati dal ministero all'istruzione: così falsifica un corretto confronto. Dire poi che ci sono più bidelli che carabinieri è tendenzioso: fortunatamente è ancora così in ogni paese del mondo. Lo scandalo sarebbe il contrario. Saremmo in un paese militarizzato.
3. Le scuole private sono meglio della pubblica? No. Nel 2007, dati Ocse, gli studenti usciti dalla pubblica erano mediamente più preparati di quelli usciti dalle private. Ma si è tagliato i fondi alla pubblica. Ancora: di che merito si parla?
4. Abbiamo una scuola più funzionale ed efficiente? No. Se un docente è assente, niente supplenti: gli studenti sono sparpagliati in altre classi senza svolgere il programma previsto. Gelmini ha inoltre ridotto il tempo scuola: ore a scuola degli studenti. E l'offerta formativa: ciò che viene loro insegnato. Per risparmiare.
5. Gli edifici scolastici sono a norma di sicurezza? Quasi la metà no. Anche quelle che lo erano, con le famose classi-pollaio, non lo sono più. In caso di terremoto o di incendio chi è responsabile della sicurezza? Nessuno lo sa. E più studenti ci sono per classe, meno qualità c'è a scuola: gli studenti hanno meno possibilità di essere seguiti dai docenti. Il resto sono chiacchiere.
6. La scuola è aperta a tutti? C'è un “tetto” massimo per classe del 30% di studenti di origine straniera. Considerando stranieri anche i nati e sempre vissuti in Italia, che parlano bene l'italiano. E' discriminante. E in Italia abbiamo già un record negativo sulla dispersione scolastica: studenti che abbandonano la scuola.
7. La nostra scuola è solidale? No. Il ministro ha ridotto le ore di aiuto agli studenti disabili. Attualmente si parla di sponsorizzazione dei disabili per pagar loro docenti di sostegno. Un disabile sponsorizzato dalla FIAT? No. Pagheranno di più i suoi genitori, pagheranno caro. E chi non ha denaro?
8. La scuola sa valutare? Con i test Invalsi la valutazione degli studenti è meno trasparente di una pagella. E' un sondaggio parziale e umiliante. E poi perché l'Invasi chiede anche titolo di studio e professione dei genitori dello studente? Se è di origine italiana o no? Se attualmente è disoccupato? E la privacy?
9. Gelmini aveva detto: Non toccherò il tempo pieno. Ma 'ha toccato: abolendo la compresenza e trasformandolo in un doposcuola. Paradosso: proprio chi lparlava di “maestro unico”, sottopone a ogni bambino un carosello di sei, otto, dieci docenti. Ha trasformato l'elementare in una media: la scuola in Italia più problematica.
10. L'Italia spende troppo per la scuola? Al contrario: spendiamo troppo poco. In rapporto al Pil, nelle spese per la scuola, in Europa, siamo al penultimo posto: dietro di noi c'è solo la Slovacchia. E i docenti sono tra i meno pagati al mondo. Si dice che in periodo di crisi occorre tagliare. Dipende sempre dalle scelte. Per esempio, le spese militari sono aumentate. Germania, Stati Uniti, India invece di tagliare, hanno aumentato le spese per la scuola. Strategicamente. Per il loro futuro di paese. Per quello dei loro giovani. la scuola di oggi non è più quella di cui si parla nella nostra Costituzione.

5.10.11

La nostra vergogna - Così il degrado del lavoro sta uccidendo la speranza

Luciano Gallino (La Repubblica)

Nella tragedia di Barletta sono presenti i peggiori ingredienti che un talento malvagio possa mettere insieme per farci provare dolore e vergogna.
Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

Titoli a picco

Marina Corradi (Avvenire)

Donne vere e un viso da copertina

Maria aveva 14 anni, faceva il primo anno di liceo classico e lunedì era uscita un’ora prima da scuola perché mancava un insegnante. Così è andata a trovare il padre, al maglificio di via Mura Spirito Santo, a Barletta. È rimasta sotto le macerie. Assieme a quattro operaie, in uno scantinato dove in quanti esattamente lavorassero non si sa; e dove le crepe aperte nei muri non erano bastate a far dichiarare l’edificio inagibile.

Ma questa tragedia del Sud, dal sapore così amaro e così antico, come la somma ineluttabile di endemici mali, ieri sulle prime pagine era eclissata dai titoli cubitali su Amanda Knox, assolta dall’accusa di omicidio dell’amica Meredith Kerch. Dopo un processo tanto seguito dai media, da essere diventato simile a una fiction; con la protagonista così bella e fotogenica da indurre a un inconscio equivoco – come se il delitto di Perugia, fosse solo un film.

Già, i giornali, alzerà la spalle qualcuno. Sì, i giornali, certo. Ma i giornali, oggi più scientificamente che mai, danno spazio a ciò che presumono che i lettori desiderino e che i lettori s’abituano a considerare il pane quotidiano dell’informazione. Dunque, è vero che il circo mediatico a volte va fuori controllo, ma è anche vero che lo fa per soddisfare la domanda (vera e indotta) del "mercato". Allora ci si può domandare che Paese è, quello in cui una sciagura che mescola irregolarità edilizie, inadempienze di controlli e lavoro in nero, e fa cinque morti, interessa tanto di meno del destino di una bella ragazza e del suo amico, in primo grado condannati per un omicidio terribile, e a torto o a ragione diventati quasi dei foschi eroi, nella penombra di incertezza che tuttora avvolge ciò che veramente avvenne quella notte, a Perugia. Se si misurasse aritmeticamente lo spazio occupato dai titoli su Amanda e su Barletta, ieri, si vedrebbe che la prima vince quattro a uno; e anche di più, se persino il più grande e il più rigoroso dei giornali "di sinistra" ieri per Maria e le altre non hanno trovato uno spicchio in prima pagina.

Del resto, anche le dieci pagine di sbobinatura di intercettazioni su escort e festini che ultimamente occupavano quotidianamente molti quotidiani, davvero, nella dovizia di particolari, rispondevano solo a un dovere di cronaca? Oppure soddisfare tutte le curiosità dei lettori rende – o da questa illusione – in termini di tiratura? Ma di nuovo, parlando di sistema mediatico, finiamo col parlare anche di chi giustifica e alimenta certe logiche. Perché ad Amanda i titoli di apertura e per quattro donne morte lavorando e per la giovanissima Maria un titoletto basso o anche niente? Forse perché l’omicidio di Perugia, già assurdo e strabiliante nei suoi dati, tanto è stato sezionato e romanzato da diventare agli occhi di chi legge un feuilletton nero, più estremo di ogni immaginazione, e dunque in fondo percepito come irreale. Come Avetrana, con quel Michele Misseri che ora in tv chiamano amabilmente "zio", come uno di casa; come se anche Sarah Scazzi fosse fiction, e non fosse morta per davvero.

L’audience premia, dicono, le storie utili a portarci altrove, lontano da noi – almeno per un po’. Mentre quel crollo di Barletta, dove donne "oscure" lavoravano disagiatamente in uno scantinato, per quattro soldi e senza garanzie, mentre la casa si crepava e i controlli tardavano, ecco, questa storia non va assolutamente bene per distrarsi, per evadere, per non pensare. E dunque niente o titolo basso, "di piede", come si dice in gergo giornalistico.

Non è che vogliamo fare moralismi. È che ci preoccupa, e quasi ci spaventa, un Paese in cui un delitto con una bella imputata diventa fiction e titolo cubitale, e un’amara sciagura di case mal costruite e burocrazia polverosa e cinque morti non interessa, o interessa molto meno. Ci preoccupa, come preoccuperebbe un amico che si isolasse davanti alla tv, ignorando che in casa il lavoro manca, l’affitto è in arretrato e i figli fanno tutte le notti le tre. E la realtà? E la volontà, e la fatica per cambiarla? A volte, sgradevole e insistente, ci afferra il pensiero che quella crisi morale che sempre addebitiamo solo alla politica, alla finanza, alle varie "gerarchie", in realtà tocchi anche, nel profondo, noi.

4.10.11

Il tifo della platea americana

Vittorio Zucconi (La Repubblica)

Amanda è innocente. Dunque l´America è innocente. Le campane a festa dei televisori americani si sono sciolte alle 9 e 50 della sera, nel finale di un dramma che ha assolto due innocenti e sembra aver lavato l´onore della nazione che l´aveva seguita come un´eroina.

«Drammatico! Drammatico!» esclamava agitato Wolf Blitzer della Cnn nel Te Deum collettivo di un´America che si era identificata con quella ragazza diventata legalmente e ingiustamente assassina, in terra straniera, come se le parole dovessero sottolineare quello che da quattro anni era stato costruito in un crescendo rossiniano. L´America che pretende il diritto di processare, giudicare a volte giustiziare anche cittadini stranieri come è accaduto in passato, aveva trovato in Amanda Knox il segno di un´offesa nazionalistica, ancor prima che giudiziario, vista la evidente precarietà degli indizi contro di lei e contro Raffaele Sollecito. E persino il Dipartimento di Stato ieri sera ha ritenuto di dover esprimere la propria soddisfazione per "l´attenta considerazione della vicenda nell´ambito del sistema giudiziario italiano".
L´America processa, ma non tollera di essere processata. Quella che nella narrazione dell´accusa era stata descritta come una diavolessa affamata di sesso e di orge, era cresciuta, in proporzione inversa nella opinione pubblica Usa, come una casta diva caduta in una ragnatela di uomini inetti e malvagi.
La veglia di una nazione eccitata da una giornata di «slow news», di scarse e banali notizie - un incendio in Texas, le udienze del processo per la morte di Michael Jackson e l´immancabile «prima neve» caduta sulla Pennsylvania - era cominciata con l´orazione autodifensiva della «Fanciulla del West», tradotta in simultanea su tutte le reti di notizie 24/7, a tutte le ore tutti i giorni.
Nella fame insaziabile delle reti televisive «all news», di notiziari continui come Cnn, Fox News, Msnbc, casi come questo processo al processo, dove la vera imputata era la Giustizia italiana e i suoi misteriosi riti, sono nutrimento perfetto per quella che i giornalisti delle tv chiamano «the beast», la belva che va continuamente alimentata. Casi come questo della studentessa impigliata nel fermaglio di un reggiseno e nel mondo crepuscolare di una città straniera sono stati perfetto melodramma, con prologo, coro, balletti, luci di riflettori accesi nella notte contro la facciata del Tribunale di Perugia, gabbioni, poliziotti e carabinieri in uniforme come in un film dell´orrore. Un film verità, con quinte, scenari, comparse, protagonisti, sangue, sesso e la perfetta «ingenue», la vittima travolta dal destino e salvata in extremis. «Dobbiamo capire che siamo di fronte a un sistema giudiziario completamente diverso dal nostro» spiegava James Tubin, l´esperto legale della Cnn ed ex magistrato lui stesso, illustrando i misteri del processo d´Appello italiano. L´elemento dell´esotico, la forza della penombra di un´antica, bellissima e innocente città umbra, sono stati scenari essenziali nella sceneggiatura di un dramma profondo e autentico nella sostanza di una vita stroncata, quella della vittime e di due vite appese a una sentenza, quella di Sollecito e della Knox.
Ed era curioso che nel tribunale dell´opinione pubblica americana, quello che ha processato e condannato la macchina delle indagini «approssimative», «contaminate nelle prove», «condotte con guanti sporchi» e «al di sotto degli standard minimi internazionali» secondo l´esperto dello Fbi e professore alla Boise State University, Greg Hampikian interpellato da ogni studo tv, non si accennasse mai alla sola vittima certa, Meredith Kercher. L´invocazione della vittima è uno dei mantra della giustizia americana, ma non per Meredith.
L´incubo di Amanda era diventato la delizia dei produttori di televisione, decisi a titillare e quindi tenersi stretto il pubblico con un conto alla rovescia durato le undici ore della Camera di Consiglio e rinfocolato dal sempre efficace trucco delle «breaking news». Quindici minuti, quattro minuti, annunciavano gli inviati e le inviate, narrando i dettagli delle ore in cella di Amanda «che recitava preghiere e intonava salmi e inni religiosi», elemento cruciale per il folto pubblico di devoti cristiani.
«Si terge le lacrime dal viso» mormorava l´anchor woman di Fox News, con il groppo lei stessa in gola, mentre la segretaria del gruppo di sostegno e di ascolto a Seattle, «Friends of Amanda» raccontava che nella città sul Pacifico gli amici e i sostenitori innocentisti «si erano raccolti alle quattro e mezza del mattino», a nove fusi orari da Perugia, «per fare colazione insieme, farsi coraggio e ascoltare le parole di Amanda». Alla fine, un processo a una cultura diversa, uno scontro di culture, prima che un caso giudiziario. Se un sonoro resterà per sempre nella memoria dei telespettatori americani che hanno seguito il lancio dell´assoluzione alla una del pomeriggio di Seattle sarà il coro di «buuuu» e di «vergogna» udito all´uscita dall´aula, mescolato alle grida di «vittoria, vittoria», secondo lo schema del tifo calcistico e delle curve. Amanda, appena avrà il proprio passaporto convalidato, volerà verso le isole, le foreste e gli istmi del Nord Ovest. «Ma perchè gli italiani non vogliono credere che questa ragazza sia innocente?» si domandava Wolf Blitzer. Dimenticando che sono stati giudici e giurati italiani a scrivere il lieto fino del melodramma.

30.9.11

L’Iva sale di 1 punto, i prezzi anche del 7%

Dai pedaggi ai cd, alla benzina: aumenti oltre l’incremento di impostaDe

Il 17 settembre è scattato, per effetto della manovra, l'aumento dell'Iva. Sono passati dal 20 al 21% i detersivi, i giocattoli, le tv ma anche auto, moto, abbigliamento, scarpe, computer, vino, cioccolata, calzature e una serie di altri servizi. E da un giorno all'altro sono aumentati i prezzi. Dell'1%, penserà il più ingenuo. Non proprio. L'effetto dell'operazione, scattata per rimpinguare le casse dello Stato tra i 4 e i 5 miliardi l'anno, sta diventando un po' più complessa. Soprattutto per i consumatori.

Le associazioni lo avevano annunciato: il rischio è un aumento indiscriminato dei prezzi. Tant'è. La benzina è subito volata a 1,7 euro al litro (per poi ripiegare: ieri oscillava tra 1,63 e 1,64 euro), le sigarette sono aumentate in media del 4%, con punte del 15% per il tabacco trinciato. Ma non solo. L'Adoc, l'associazione per la difesa e l'orientamento dei consumatori, ha preso carta e penna e con l'aiuto dei suoi volontari, ha monitorato alcuni negozi in tutta Italia prima e dopo l'innalzamento dell'aliquota. Il risultato? Oggi per fare un corso in piscina potremmo spendere al mese il 5,4% in più e per l'aperitivo con gli amici, aumenti del 3,2%. Certo, si tratta solo di un campione e alcuni prezzi (come nel caso degli aperitivi) sono solo una media di quelli rilevati sul territorio nazionale (nessuno ha mai pagato per un happy hour 7,75 euro). Ma dai risultati finali si ha un'idea di quanto, l'aumento dell'imposta sul valore aggiunto, stia impattando sui nostri acquisti.

Il Codacons poi fa notare: «Se l'Iva passa dal 20 al 21%, non significa che un bene che prima veniva 1 euro ora passa a 1,01 euro. Bisogna scorporare e considerare il prezzo del bene senza Iva, e su quello applicare l'Iva maggiore al 21%». Giusto. Lo abbiamo fatto, ma anche così i conti non tornano. Lo dimostrano, oltre ai calcoli (nella tabella sopra) le decine e decine di segnalazioni arrivate proprio all'associazione presieduta da Carlo Rienzi. Simile a questa: «Stamattina al solito bar, la tazzina di espresso - scrive un consumatore di Roma - mi è stata fatta pagare 0,90 euro contro gli ottanta centesimi pre-Iva. È una truffa».

Un caso tutto particolare è quello dei cd musicali, un mercato che con l'avvento della musica digitale è sempre più in crisi. Innumerevoli gli appelli degli artisti che negli anni passati hanno implorato di far scendere l'aliquota Iva sui cd dal 20 al 4%. Al danno, oggi, si aggiunge la beffa. «A questo punto auspichiamo una decisione sotto il 5% a livello comunitario» commenta Enzo Mazza, presidente della Fimi (Federazione industria musicale italiana). Nel frattempo i prezzi dei cd, anziché scendere per contrastare il fenomeno del download (illegale) e della pirateria, sono saliti. Nei negozi monitorati dall'associazione, al netto delle offerte e delle promozioni, sono passati da 19,40 euro a 20,90 euro.

Con un incremento lontano da quell'uno per cento. E vediamo perché: il prezzo medio dei cd prima del 17 settembre, era di 19,40 euro. Scorporando l'Iva si arriva a un prezzo base di 16,16 euro. Applicando l'Iva al 21%, il risultato è di 19,55 euro. Eppure il prezzo finale al consumatore è di 20,90 euro. Il 7,7% in più se confrontiamo il prezzo prima e dopo l'aumento dell'imposta. Il 6,9% in più se confrontiamo il prezzo del cd per come doveva essere con l'Iva al 21% (19,55 euro) e com'è invece oggi (20,90 euro). «Questo non aiuta né il commercio né i consumatori - aggiunge Carlo Pileri, presidente dell'Adoc -, che in alcuni casi rinunciano all'acquisto. Senza parlare delle sigarette, una vera e propria speculazione di Stato. E a parlare è un non fumatore: a fronte dell'aumento dell'Iva sono stati alzate anche le accise per un totale di 15-20 centesimi a pacchetto». E poi ci sono le autostrade. A sollevare il caso è stata questa volta Altroconsumo: «I pedaggi autostradali - spiegano dall'associazione - sono una delle categorie di servizi interessati dal recente aumento dell'Iva. Nulla di strano, quindi, se sono state adeguate le tariffe. Peccato che sia stato fatto per scaglioni di 10 centesimi e non applicando matematicamente l'1% in più come previsto dalla manovra finanziaria. Cosa significa? Che a Como, ad esempio il pedaggio è passato da 1,90 euro a 2,00 euro, con un incremento reale del 5,26%».
«Un arrotondamento disciplinato dal decreto interministeriale 10440/28/133 del 12 novembre 2001, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Ministero dell'Economia e delle Finanze» fanno sapere da Autostrade per l'Italia. «In pratica, su una cifra da uno a dieci - spiegano - se l'incremento dell'Iva fa arrivare la tariffa a quattro, si arrotonda per difetto (zero). Ma se l'incremento fa arrivare il pedaggio a sei, si arrotonda per eccesso (dieci)». E così ci sono caselli dove l'aumento dell'Iva non ha fatto registrare alcun tipo di incremento (ad esempio Lainate) e altri dove invece il pedaggio è aumentato per eccesso. I comaschi si rassegnino.

Qualche giorno fa è intervenuto sull'argomento anche Mr Prezzi, Roberto Sambuco che ha avviato, in coordinamento con la Guardia di Finanza e gli uffici del Mise, delle azioni di verifica e ispezione. Oltre a un tavolo anti-speculazione. Subito sono seguiti i commenti sarcastici del Codacons: «Mister Prezzi si è svegliato dal letargo in cui sembrava essere caduto - ha detto Rienzi -. Peccato però che i controlli di cui parla andavano realizzati molti giorni fa, ossia ancor prima dell'entrata in vigore dell'aumento». Dall'altra parte, quella delle aziende, c'è chi ha deciso di farsi carico dell'aumento senza alzare i prezzi dei cartellini. Zara, Esselunga, Benetton, solo per citarne alcuni, assorbiranno l'incremento dell'imposta senza riversarla sui consumatori. Almeno per ora.

Corinna De Cesare