28.5.09

Blue Book partigiano

di Manuela Cartosio
«Abbiamo le tariffe dell'acqua tra le più basse del mondo e ne paghiamo le conseguenze: il 15% del paese è privo di fognature, il 30% manca di servizi di depurazione». Lasciateci aumentare le tariffe, lasciate che cresca la gestione privata delle reti idriche e, automaticamente, fognature e depurazione copriranno l'intero territorio nazionale. E' la tesi "interessata" del Blue Book 2009, presentato ieri alla sedicesima conferenza europea H2Obiettivo2000, in corso a Bari. Interessata perché il libro è stato curato dell'istituto di ricerca Utilitatis "in collaborazione" con l'Anea. Quest'ultima è l'Associazione nazionale autorità e enti di ambito. I servizi idrici integrati (acquedotti, fognature e depurazione) fanno capo a 91 "Ato" (ambito territoriale ottimale). Di questi, 64 sono ancora a gestione totalmente pubblica, i restanti sono passati alla gestione privata. Un passaggio imposto dalla legge Tremonti dell'agosto 2008, che degrada l'acqua da bene pubblico a risorsa scarsa. Che le multinazionali dell'acqua intendono sfruttare per operazioni finanziarie, certo non per costruire fogne e depuratori. Ciò nonostante, la logica privatistica ha fatto breccia tra gli amministratori di molti "Ato" ancora pubblici.
Fatta questa premessa sulla partigianeria della fonte, è indubbio che in Italia l'acqua costa meno che nel resto d'Europa. Forse un ritocco verso l'alto delle tariffe indurrebbe a sprecarne di meno. Nel 2008 una famiglia di tre componenti ha speso in media per l'acqua solo 20 euro al mese. Le variazioni geografiche sono molto forti. Il costo dell'acqua più alto spetta ad Agrigento, dove per un consumo standard annuo di 200 metri cubi sono stati spesi 440 euro. Seguono Arezzo (410 euro), Pesaro e Urbino (409 euro). All'estremo opposto si trovano Isernia (109 euro l'anno), Treviso (108 euro) e Milano (103 euro). Le differenze di costo derivano in gran parte dalla difficiltà di approvvigionamento. Ma dipendono anche dalle economie di scala: più utenti si servono, meno si spende. Milano beneficia sia dei grandi numeri che di un territorio ricco d'acqua. A Roma il consumo standard costa 177 euro l'anno, il più basso tra le capitali europe (il più alto spetta a Berlino dove si spendono mediamente 968 euro per acqua e servizi fognari e di depurazione). Per trovare metropoli dove l'acqua costa meno, dice il Blue Book, bisogna andare a Miami (169 euro l'anno), Hong Kong (102 euro), Buenos Aires (37 euro).
La rete totale degli acquedotti (337 mila chilometri) raggiunge il 95% della popolazione italiana. Quella fognaria (165 mila chilometri) copre solo l'85%. La percentuale scende al 70% per i sistemi di depurazione. Per questi ultimi la regione più carente è la Sicilia, con una copertura solo del 54%. La Toscana si ferma al 63%, la Campania al 67%, la Sardegna al 68%. La Sardegna divide con la Liguria la maglia nera per le fogne (entrambe coprono il 75%), l'Umbria arriva solo al 77% e il Veneto al 78%.
Solo per gli usi domestici ogni italiano consuma mediamente 200 litri d'acqua al giorno. Il dato è riferito al 2007 ed è stato calcolato dall'Istituto Ambiente Italia-Dexia. I più spreconi sarebbero i torinesi con 243 litri al giorno pro capite. I più risparmiosi sarebbero gli abitanti di Nicosia, un comune della Sicilia, con 143 litri a testa. Il romano medio (221 litri) spreca più del milanese (191), ma meno del parigino (287).
ilmanifesto.it

27.5.09

Economisti alla sbarra, ecco l'atto di accusa

Roberto Perotti

Con la crisi, agli economisti vengono mosse quattro accuse, che ritengo ingiustificate. Eccole.
1) «Gli economisti non hanno previsto la crisi». Su questo punto c'è molta confusione. È importante distinguere fra shock e propagazione degli shock. I primi sono, per definizione, non prevedibili. Dai sismologi non pretendiamo che prevedano i terremoti, ma che ci diano indicazioni di cosa succederà in certe zone se dovesse accadere un terremoto di una certa intensità. Per questo una critica più seria è che gli economisti non hanno saputo prevedere le conseguenze degli shock, una volta che questi si sono realizzati.

2) «Non hanno saputo prevedere né capire, perché la metodologia economica prevalente si basa su modelli troppo astratti e matematici».
Questa critica è frutto dell'ignoranza sugli sviluppi della scienza economica. Per molti qualsiasi differenza dall'approccio discorsivo e informale della "General Theory" di Keynes viene interpretato come il frutto di una forma mentis che costringerebbe la realtà ad accordarsi con modelli astratti. Chi fa questa critica ignora o non capisce l'enorme letteratura prodotta da eccellenti economisti che hanno allo stesso tempo una preparazione formale e una profonda conoscenza dell'economia reale. Spesso ignora e non capisce l'enorme letteratura empirica di economisti seri e assolutamente interessati a comprendere come funziona il mondo in pratica, dediti a testare le teorie economiche con dati macro e micro. E spesso i critici degli economisti non riescono a concepire che uno studioso possa usare un modello per organizzare il proprio pensiero, ma sia abbastanza intelligente per comprenderne i limiti.

3) «Guardano la realtà con la lente perversa di ipotesi assurde come le aspettative razionali, l'informazione completa, i mercati efficienti».
Una tipica variante di questa accusa prende la seguente forma: «Loro non lo sanno, ma noi che viviamo nel mondo e non nelle nuvole o nella turris eburnea dell'università sappiamo che i mercati non sono efficienti, che ci sono asimmetrie informative, che i prezzi degli asset possono deviare per lungo tempo dai fondamentali...».
Anche questa critica è frutto di una profonda ignoranza degli sviluppi dell'economia degli ultimi 30 anni, che si è dedicata in gran parte proprio allo studio di miriadi di deviazioni dall'ipotesi d'efficienza e d'informazione perfetta. Solo per fare un esempio, un'enorme ricerca studia teoricamente ed empiricamente come e perché vi possano essere bolle nei prezzi degli asset; e una enorme letteratura studia gli incentivi dei manager in presenza di asimmetrie informative.

4) «Molti non economisti hanno previsto la crisi».
Questo è falso. Dire per anni «la globalizzazione ha effetti perversi», «la nostra economia è eccessivamente finanziarizzata», oppure «l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sull'economia reale» o ancora «il liberismo sfrenato comporta problemi sociali che solo gli economisti possono ignorare», non significa avere previsto la crisi. Accuse, tutte queste, a mio avviso infondate o strumentali. Ci sono però accuse realmente rilevanti. Vediamone alcune.
La stragrande maggioranza degli economisti non ha previsto né capito la crisi finanziaria perché era totalmente all'oscuro di alcuni fondamentali sviluppi del mercato del credito. Per mesi e anni siamo andati avanti a dibattere le spiegazioni e le implicazioni del fenomeno chiave dei primi anni 2000: il basso tasso d'interesse.
Ma mentre avveniva questo dibattito, i macroeconomisti hanno perso di vista completamente uno sviluppo ben più importante, cioè l'enorme evoluzione del mercato del credito. Con tassi d'interesse molto bassi, l'unico modo di rendere redditizia l'attività d'intermediazione delle banche era indebitarsi molto per comprare attività finanziarie, cioè aumentare la leva finanziaria.
Ma per fare questo, le banche dovevano trovare modi per sbarazzarsi del rischio di queste attività, sia perché in alcuni casi i regolatori non permettevano di eccedere una certa leva finanziaria per le attività più rischiose, sia perché le banche stesse non volevano detenere troppe attività rischiose.

Ciò portò a due sviluppi:
1) Le banche crearono un sistema bancario ombra, delle entità formalmente fuori bilancio in cui piazzarono le attività più rischiose; dotarono queste entità di un minimo di capitale, ma la gran parte dei fondi la raccolsero sul mercato con scadenza brevissima, anche giornaliera (commercial papers e repurchase agreements). Queste entità fuori bilancio avevano una garanzia esplicita o implicita delle banche, ma permisero di ridurre il capitale che le banche dovevano detenere, cioè di aumentare la leva finanziaria. Le entità spesso cartolarizzarono le attività trasferite dalle banche e le vendettero, spesso alle banche stesse.
2) Le banche decisero di detenere quantità sempre crescenti di titoli cartolarizzati, cioè di titoli creati dall'impacchettamento di centinaia o migliaia di mutui sottostanti, oppure di prestiti ai consumatori o alle imprese.

Per capire lo sviluppo successivo, è importante comprendere com'erano strutturati questi titoli cartolarizzati. Per consentire di ottenere rendimenti elevati da titoli apparentemente poco rischiosi, questi titoli erano divisi in tranche. La prima tranche (junior tranche) è la più rischiosa; se qualche mutuo sottostante va in default, la prima a esserne toccata è la junior tranche. L'ultima tranche (senior tranche) è apparentemente molto poco rischiosa: comincia a perdere valore solo se più del 10% dei muti va in default - una percentuale impensabile fino a tre anni fa.
Il 99% degli economisti italiani, ancora nell'estate del 2007, era all'oscuro di questi sviluppi, o al massimo ne aveva un'idea molto confusa. Ma ancora più vaga era la consapevolezza degli sviluppi e delle implicazioni successive. La teoria prevalente era che la cartolarizzazione permettesse di spandere il rischio dei vari tipi di credito al di fuori del sistema bancario, cioè da soggetti ad alta leva finanziaria a soggetti (come fondi pensione e fondi del mercato monetario) a bassa leva finanziaria.

Ma mentre i titoli più rischiosi (le junior tranche) vanno a ruba perché, essendo più rischiosi, danno rendimenti più alti, le senior tranche spesso rimangono nei portafogli delle banche o delle entità fuori bilancio. Con poche eccezioni (JP Morgan), le banche non se ne curano, perché sono ritenuti assolutamente sicuri. Nel 2008, banche ed entità fuori bilancio detenevano probabilmente il 50% di queste senior tranche. Lungi dall'aver diversificato i rischi, banche e shadow banking system avevano fatto un enorme investimento in economic catastrophe bonds, cioè in titoli di fatto rischiosissimi perché davano un rendimento generalmente elevato ma molto basso proprio nel momento peggiore, cioè nel caso di una recessione globale.
Gli acquirenti di questi titoli spesso cercarono di assicurarsi contro il rischio di default dei sottostanti. Lo fanno assicurandosi con monolines, compagnie di assicurazione precedentemente dedite all'assicurazione dei titoli municipali ma che ora tentano di espandersi. Ma le monolines avevano un leverage di 150, e fu presto chiaro a molti che non erano in grado di assicurare niente. Ma non fu chiaro per esempio a Merrill Lynch, i cui dirigenti pensavano di essersi assicurati con le monolines. Altri si assicurano con i credit default swaps, il cui mercato raggiunge a un certo punto quattro volte il Pil statunitense! Ma anche questi titoli sono esposti al rischio sistemico. Singolarmente, una banca poteva ritenere di aver fatto hedging; ma da un punto di vista macroeconomico il mercato non stava fornendo alcun hedge, anzi stava incrementando il rischio. Questo aspetto era compito dei macroeconomisti, ma essi non se ne resero conto a causa della loro mancanza d'informazione sui recenti sviluppi del mercato del credito.

Anche di questi due ultimi sviluppi gli economisti erano sostanzialmente ignari. Ancora nell'estate del 2008 è lecito affermare che la stragrande maggioranza degli economisti non si resero conto che il sistema finanziario aveva misspriced il rischio in un modo abissale consentendo alle banche di investire percentuali gigantesche del proprio attivo in catastrophe bonds, e l'irrilevanza (anzi la pericolosità) macroeconomica delle assicurazioni fornite dal mercato.
Come abbiamo imparato dal marzo del 2008, le banche centrali erano male equipaggiate a intervenire in questi mercati a difesa di queste istituzioni. Nel marzo del 2008 i problemi di Bear Stearns misero a nudo il quasi collasso dei mercati dei Cds e dei repos. Ma questi sono mercati di cui gli economisti non si sono mai occupati, perché in condizioni normali funzionano senza alcun problema, e di cui non avevano compreso il ruolo fondamentale nel nuovo sistema del credito. L'esempio più lampante fu la decisione della Bce di alzare i tassi nell'estate del 2008, quando già Bear Stearns era saltata esattamente per i motivi esposti sopra. Molti economisti accademici appoggiarono la decisione della Bce, perché così suggeriva la Taylor rule. Ma molta acqua era passata sotto i ponti, e per parlare di politica monetaria non era più sufficiente essere esperti di Taylor rule. Semplicemente, non avevamo idea di quanto lontano dal classico modello delle banche commerciali il mercato del credito era arrivato. Non avevamo idea delle grandezze e delle implicazioni macroeconomiche di tutto questo.

Eppure continuavamo a parlare di politica monetaria, quando era impossibile parlare di politica monetaria se non si conoscevano degli sviluppi recenti del mercato del credito. Come ha sostenuto con forza John Taylor in Getting Off Track, il problema non era tanto un classico problema di liquidità, quanto un problema di rischio di controparte in mercati a brevissimo termine. Ma il rischio di controparte non ha mai giocato il minimo ruolo nelle teorie monetarie più accreditate.
Poiché economisti di valore erano alla guida delle maggiori banche centrali, ci siamo convinti che il mondo fosse in buone mani. Ma non ci siamo resi conto che anch'essi, come gli altri, all'inizio sono stati tremendamente impreparati a comprendere i nuovi sviluppi.

Gli economisti hanno giocato troppo facilmente allo scaricabarile con politici e regolatori. Invece di studiare i dettagli del mercato del credito, hanno cercato di cavarsi dall'impiccio con facilità usando facili riferimenti al problema del moral hazard causato dai politici e a quello della regolamentazione.

Il moral hazard avviene quando le banche e le altre istituzioni finanziarie sanno che i politici, di fronte a una crisi, le salveranno. Questo ovviamente le incoraggia a prendere rischi molto maggiori di quanto sarebbe prudente e ottimale dal punto di vista del sistema economico nel suo complesso.
Il moral hazard è un vecchio cavallo di battaglia degli economisti, che generalmente si oppongono ai salvataggi bancari. Salvo poi criticare i policy makers per non avere salvato Lehman Brothers, causando il caos che è seguito al 14 settembre. Ma molti economisti hanno cambiato idea sul mancato salvataggio di Lehman Brothers proprio perché non si erano resi conto di cosa comportasse lasciar fallire una banca di investimento in un mercato del credito completamente cambiato. Proprio perché avevano una vaga idea dell'estensione e del ruolo del mercato dei Cds, pochissimi economisti si erano resi conto delle conseguenze quasi fatali che vi sarebbero state nel mercato dei Cds.

Alle prime avvisaglie di difficoltà, gli economisti hanno anche cercato di salvarsi con frasi del tipo «gli eccessi nel mercato del credito possono essere corretti con un'appropriata regolamentazione». Ma fino al 2006, finché Greenspan e poi Bernanke erano nettamente contrari a qualsiasi regolamentazione, dove erano gli economisti? Se i politici avessero tentato d'imporre più regolamentazione, cosa avrebbero detto gli economisti? Ma soprattutto, pochi economisti hanno avuto il coraggio di sporcarsi le mani dicendo esattamente quale regolamentazione si sarebbe dovuta imporre. Né poteva essere altrimenti, perché la stragrande maggioranza aveva una comprensione così limitata degli aspetti tecnici da non poter offrire suggerimenti competenti in materia di regolamentazione.
È stato anche facile per gli economisti scaricare le colpe sulla Greenspan put. Ma tutto questo ex post. Dove erano gli economisti quando il mondo inneggiava a Greenspan come il salvatore dell'economia mondiale?
sole24ore.it

25.5.09

I perdenti che vivono di sconfitte

BARBARA SPINELLI

Hans Magnus Enzensberger, scrittore tedesco, li chiama i perdenti radicali. Sono coloro che non si guardano intorno e non cercano di capire come il mondo si disfa e si rifà, quando sono alle prese con traumi sociali, ma vivono le calamità come una specie di giudizio universale anticipato. Non hanno altra misura che se stessi: sono loro le uniche grandi vittime, loro gli umiliati e gli offesi. La solidarietà con popoli o persone che soffrono più di loro è inesistente. Potrebbero anche non essere perdenti in modo radicale, potrebbero sforzarsi di vedere quel che in ogni crisi è opportunità, mutazione. Ma la scelta che hanno fatto di essere perdenti ha qualcosa di definitivo, di fatale. La realtà ha poco peso in quel che dicono e che pretendono di vedere.

C’era un po’ di tutto questo nei tumulti della scorsa settimana a Torino: prima al Lingotto, quando alcuni appartenenti ai Comitati di base hanno contestato e malmenato il sindacalista Rinaldini, segretario della Fiom; poi il 18 e 19 maggio, quando due-trecento violenti hanno rovinato la manifestazione dell’Onda e scatenato, come avevano promesso, una guerriglia urbana davanti al Castello del Valentino dove si svolgeva il G-8 dei rettori. L’uso del nome G-8 è stato una provocazione stupida, certo: dopo gli eventi del 2001 a Genova, la sigla evoca un potere che agisce impunemente con inaudita violenza. Ma una sigla errata non giustifica le armi scelte nei tumulti torinesi: gli spintoni brutali al Lingotto e poi, al G-8 universitario, i sassi, le spranghe, i fumogeni, i caschi e le mazze, gli estintori, le auto e i bidoni incendiati.

La storia non si ripete mai eguale a se stessa e nessun movimento ripete le gesta anteriori. Non è nemmeno vero che la tragedia si ripete in farsa, come diceva Marx. La storia è capriccio inopinato e anche quello che dopo chiamiamo tragedia non era all’inizio che gioco, parola. Rudi Dutschke non era affatto un terrorista, ma fu lui, nel febbraio 1966, ad auspicare la guerriglia urbana nelle democrazie. Spesso le tragedie cominciano con discorsi che tollerano, incitano: i romanzi di Dostoevskij - i Demoni, i Fratelli Karamazov - narrano precisamente questo. Uno parla con leggerezza, poi arriva il perdente radicale e passa all’atto cruento. Per questo è giustificato quel che ha scritto Luigi La Spina, il 20 maggio su La Stampa: la memoria di passate violenze «può essere un incubo, ma anche un vaccino».

La crisi economica che stiamo vivendo è una prova, ben più grave per milioni di persone di quel che conobbe la generazione del ’68 o ’77: non a caso i tumulti tendono ovunque a moltiplicarsi (periferie in rivolta, sequestri di manager). Per questo converrà studiarne le radici, e comunque non sottovalutarli. Ma occorrerà farlo evitando se possibile le scorciatoie, che sono due. La prima consiste nel concentrarsi esclusivamente sull’ordine pubblico, reprimendo ogni scontento come se il legame tra scontento e terrorismo fosse automatico. È la via militarizzata, simile alla guerra mondiale al terrore: il male è combattuto solo con le armi. Non meno insidiosa tuttavia è la seconda scorciatoia. È la via che psicologizza, socio-analizza: che condona piccole violenze, e tratta gli estremisti come fossero bambini, non cittadini maggiorenni. Essa rinuncia a indicare il limite invalicabile delle proteste, e s’accomoda - soprattutto in Italia - con una cultura dell’illegalità diffusa sin nei vertici dello Stato. La gioventù è un soffio scottante che viene e che va: basta fidarsi della biologia. La psicologia ha fatto molti danni nell’ultimo secolo e mezzo.

I politici e le classi dirigenti non sono incolpevoli, in questa faccenda. Se si accumulano tante incomprensioni, se piccoli ma numerosi gruppi sono attratti dalla violenza e faticano a guardare il mondo come cambia, è anche perché sono rari i responsabili che esplorano e dicono quel che davvero sta accadendo. I più cercano di nascondere gli scombussolamenti che la crisi porta con sé: il rischio che nella vita di ciascuno si dilata, i risparmi e i salari che scemano, la vasta trasformazione dei costumi che s’imporrà. Gian Enrico Rusconi spiega le differenze che esistono, ad esempio, fra italiani e tedeschi: ci sono sciagure anche in Germania, ma minore tensione sociale. Questo perché il cittadino è meglio informato, da politici e stampa. Diversamente dai governanti italiani, i tedeschi «non hanno mai diffuso ottimismo di maniera» (La Stampa, 17-5).

vIn Italia e a Torino quel che infiamma gli spiriti è da qualche tempo la Fiat. Quanti impieghi saranno sacrificati per salvare l’industria dandole l’indispensabile dimensione transnazionale? E lo Stato che fa, per proteggere il lavoro italiano? Il caso è emblematico perché rivela tre pericoli al tempo stesso: lo stacco dalla realtà, il nazional-protezionismo, e il nuovo potere dello Stato in questa crisi (uno Stato intrusivo più che spendaccione, scrive Martin Wolf sul Financial Times). Occultare la realtà vuol dire aspettare che «tutto torni come prima, meglio di prima» (Berlusconi, 17-5). Vuol dire ignorare quel che nella crisi dell’auto non è episodico. L’auto ha conosciuto un’espansione straordinaria grazie al petrolio abbondante e poco caro, e all’indifferenza verso il clima devastato. Tante scelte sono legate a quell’epoca - i Suv, il fenomeno delle città residenziali periferiche, i suburbia americani dai quali ci si muove essenzialmente con automobili - e son destinate a diminuire o sparire (è la tesi di James Kunstler, nel libro The Long Emergency uscito nel 2006).

Oggi siamo a un bivio, e il risparmio energetico voluto da Obama lo attesta: ogni auto nuova deve avere un motore capace di fare 35,5 miglia per ogni gallone (57,1 chilometri con 3,8 litri). Un mutamento che può incoraggiare la reinvenzione dell’industria ma che sarà costoso per tutti: consumatori, imprese, operai, politici bisognosi di popolarità. Quel che dice Sergio Marchionne è difficilmente confutabile: si producono troppe auto nel mondo (95 milioni) per un pianeta che va tutelato. 20 milioni sono di troppo. I manifestanti al Lingotto scandivano, lunedì: «Marchionne, tu vvò fà l'americano», occultando anch’essi la realtà. Se si vuol aggiustare il clima, occorre dire queste verità e trarne conclusioni. Secondo alcuni studiosi, bisogna uscire dal mondo auto-industriale: puntando sul trasporto pubblico e su veicoli che risparmino energia drasticamente. Lo scrive l’economista Emma Rothschild in un saggio sul New York Review of Books del 26 febbraio, nel quale è criticata la vista corta di produttori e governi. Lo scrive l’analista Max Fraser il 13 maggio su The Nation. Fraser cita le parole di una sindacalista americana, Dianne Feeley, ex lavoratrice alla Ford: «Salvare l’industria dell’auto così com’è non ci darà impieghi, non ci metterà sulla buona strada per il clima, non aiuterà le nostre città. La strategia deve concentrarsi su come salvare la classe operaia e le nostre comunità».

Marchionne dice un’altra cosa importante: l’America ha più mezzi di noi europei, pur traversando una crisi maggiore. Ha un governo unitario, sindacati che cooperano. L’Europa non è a questo punto: qui è lotta di ogni nazione contro le altre, qui non si pensa in grande (geograficamente, industrialmente, politicamente). Non stupisce che sia così anche dentro le società, come spiega bene lo storico Marco Revelli: al classico conflitto verticale - tra lavoratori e impresa - si sta sostituendo il conflitto orizzontale: lavoratori contro lavoratori, nazioni contro nazioni. Ogni scheggia mira a farsi vedere, «come in un reality show» (La Stampa, 18-5).

Il perdente radicale vive di scontri orizzontali e reality show. Vive di sconfitte, che teme ma segretamente agogna. Esattamente come i mercati, i perdenti radicali «si scatenano quando sentono odore del sangue».

23.5.09

Marketing lessicale sui libri di scuola

di Marina Boscaino, Marco Gastavigna

Anche la Fiera di Torino è stata un'occasione per parlare, da un punto di vista generale, del rapporto tra libro cartaceo e ebook: integrazione o conflitto? Il Tar del Lazio ha recentemente sospeso la circolare ministeriale sull'adozione dei testi: è stata violata l'autonomia delle scuole e la libertà di insegnamento attraverso l'imposizione di limiti e restrizioni non coerenti. L'auspicio è che la sospensione - considerata l'imminenza della scadenza - rilanci nelle scuole una specifica discussione sui libri digitali, finora quasi del tutto assente. L'impressione per ora è quella di trovarsi davanti ad un'occasione perduta, sacrificata a facili logiche interventiste, a una «modernità» che rischia sempre più di non coincidere con «qualità».
Il consueto decreto che regola l'adozione dei libri di testo definisce le caratteristiche tecnologiche di riferimento per selezionare quello che rimane lo strumento didattico e formativo fondamentale. Il silenzio più o meno indifferente (o ignorante?) di media e mondo della scuola rischia di accreditare come rivoluzione una potenziale, probabile involuzione, se non si rifletterà adeguatamente, senza timori reverenziali, sulle implicazioni culturali del provvedimento. Impresa tanto più ardua, quanto più si configura l'inaugurazione di un mercato alternativo: quando ci sono interessi economici da tutelare l'incentivo al dialogo si stempera fatalmente. Il mondo della scuola, poi, abituato a circolari che inverano realtà inesistenti e incapace di fronteggiarne (se non di notarne) improvvisazione e approssimazione, consegna tutto ciò che è «digitale» a presunti specialisti. A fronte di qualche voce critica, ben più numerosi sono gli entusiasti di una sedicente innovazione metodologica - erronea equazione tra modernità e positività: gli strumenti digitali supererebbero tout court il supporto cartaceo, obsoleto sul piano non solo tecnologico, ma anche comunicativo.
«A sinistra» vi sarebbe poi un'aprioristica denigrazione, da qualcuno già attribuita ai promotori del ricorso al Tar e alle organizzazioni sindacali e alle associazioni che li hanno sostenuti: l'ostilità preconcetta al ministro Gelmini spingerebbe ad opporsi ad un circolo certamente virtuoso, negandone gli aspetti positivi. Non è affatto così. Siamo di fronte ad un'operazione politicamente demagogica, pertanto pericolosa; e culturalmente superficiale, quindi pericolosissima. Riduzione del peso degli zainetti e del costo dei libri: queste le premesse dell'introduzione obbligatoria di libri digitali a partire dal 2012 (da confermare obbligatoriamente per 6 anni). Inoltre: «il passaggio al testo digitale consente di accrescere la funzionalità dei libri di testo in forma tradizionale e di arricchire di nuove funzionalità (...) gli ambienti di apprendimento. A sua volta il testo in forma mista favorisce la possibilità di accedere a schede o testi di approfondimento, tramite appositi link». Peso e costi interesserebbero soprattutto l'opinione pubblica. Il dogma del miglioramento di didattica e apprendimenti spingerebbe i docenti a valorizzare l'impiego di strumenti elettronici. Il mercato, infine, solleciterebbe miracolosamente gli editori a un'aperta concorrenza, che li vedrebbe aggiornare con lieta solerzia i testi - peraltro già adottati e in uso presso le scuole - con nuovi materiali da Internet.
Il decreto esige la massima compatibilità dei prodotti digitali con dispositivi e programmi già presumibilmente in possesso degli studenti: disposizione in sé incontestabile. Non è chiaro però - o forse viene volutamente taciuto - a carico di chi saranno le spese necessarie per permettere a tutti gli allievi di tutte le classi di tutte le scuole della Repubblica di fruire appieno dei nuovi, palingenetici prodotti culturali. Ogni studente dovrà entrare in possesso esclusivo di un pc (se non di un più costoso ebook reader, al momento gadget per lettori appassionati), salvo sdoganare gli appena vietati cellulari e lettori di musica e video, alcuni dei quali in grado di leggere testi, seppure su schermi di dimensioni così piccole da risultare probabilmente un deterrente.
L'impresa non sembra insomma alla portata della scuola pubblica, vittima peraltro di uno spregiudicato disinvestimento, di presunti risparmi che dall'anno prossimo falcidieranno le risorse formative - nonostante la recentissima promessa da parte di Brunetta di «un milione di minipc». Non resterebbe allora che rivolgersi direttamente alle famiglie, per poi cozzare con un altro gigantesco problema infrastrutturale: le aule della stragrande maggioranza delle scuole non permetterebbero di alimentare un dispositivo elettronico per ogni studente in condizioni di sicurezza. È rocambolesco immaginare - considerando i colpevoli ritardi sull'edilizia scolastica - che vi siano da qualche parte i fondi per far fronte a questa necessità. Così come quelli che servirebbero per consentire a tutti e dovunque un ingresso diretto e filtrato a Internet, onde utilizzarne le «potenzialità per l'aggiornamento delle informazioni, accesso a dati remoti e altri servizi integrativi», considerate caratteristiche imprescindibili dei libri scolastici innovati.
L'operazione rischia di ridursi nella maggioranza dei casi al download dei libri, da stampare poi completamente o in parte. Dubitiamo che questa soluzione, che si prospetta quanto mai confusa e disordinata, possa far risparmire davvero le famiglie, che alla fine di una filiera tecnologica così articolata potrebbero vedere zainetti zeppi di brutti libri di carta, avvilenti e avviliti. Inoltre, il fatto che molti editori abbiano riverniciato per l'occasione i loro siti con materiali di repertorio, in modo da soddifare formalmente i requisiti, dimostra solo che nell'immaginario tutto può cambiare a patto nella sostanza nulla cambi.
L'impraticabilità della proposta è evidente. Ma non è l'elemento più grave di questa suprema prova di marketing lessicale. Digitalzzare strumenti didattici non è in sé - se non in letture inconsapevoli o capziose - scelta positiva o negativa. Le motivazioni taumaturgiche, che inverano realtà irreali, sono molto meno negative dell'assenza di riflessione sulla validità culturale dei prodotti, sostituita da profluvi di indicazioni tecnico-giuridiche.
La scuola deve interrogarsi sulla propria latitanza critica. Si rischia che l'impresa si trasformi in una legittimazione istituzionale di operazioni riprovevoli da parte di soggetti spregiudicati. Che a motivare le opzioni e a determinare le scelte, sia l'arrembaggio al mercato, e non autorevolezza, affidabilità di contenuti e di dimensione dinamica, potenzialità inclusive. Un ulteriore inedebolimento degli apprendimenti, ma anche e soprattutto della funzione politica e di cittadinanza civile e democratica della scuola, sarebbe una ricaduta esiziale.
ilmanifesto.it

18.5.09

La rabbia e la favola

MARIO DEAGLIO

Un declino annunciato: la scivolata dei salari medi italiani è un’ulteriore conferma del lento affondare della nostra economia, poco presente nei settori avanzati, dall’elevata produttività che consente alti salari, soffocata da una tassazione molto pesante, peraltro necessaria per far fronte all’elevato debito pubblico e da contributi sociali da record, indispensabili per pagare le pensioni a un Paese sempre più composto da vecchi. Questa situazione difficile si colloca su un contesto di tensioni e sfilacciamento sociale messo in luce dalle notizie degli ultimi due giorni.

Sabato a Torino, di fronte alla storica palazzina del Lingotto, il segretario generale della Fiom veniva tirato giù dal palco da militanti dello Slai Cobas davanti a 15 mila operai - i quali, in tempi non lontani, avrebbero reagito vigorosamente - preoccupati per il loro posto di lavoro; poche ore più tardi, nella stessa Torino e nella centralissima e ancora più storica piazza San Carlo, una folla stimata in almeno tre volte tanto si accalcava a un «evento» di Mediaset realizzato per illustrare la nuova televisione digitale incentrata sul programma «Amici», una competizione in grado di aprire ai vincitori le porte del successo televisivo.

Sempre nella stessa piazza, nella giornata di ieri coloro che aspiravano a partecipare alla trasmissione «Grande Fratello» (anch’essa considerata una scorciatoia a fama, celebrità e successo mediatico) formavano una coda lunga circa mezzo chilometro.

Le vicende parallele e apparentemente diversissime del Lingotto e di piazza San Carlo rappresentano due facce della stessa moneta: si tratta di due risposte, irrazionali e prive di progettualità, a una crisi che, se raggiunge le sue punte più visibili nell’economia reale e nella finanza, si configura ogni giorno di più come crisi di valori e di sistema e contro la quale i rimedi razionali si sono sinora dimostrati inadeguati o insufficienti. Non si tratta, del resto, di un fenomeno soltanto italiano, anche se i dati salariali sull’Italia mostrano che proprio da noi raggiunge punte molto elevate.

Di fronte alle prospettive sempre più incerte e alle minacce sempre più concrete di perdere il lavoro, in tutto l’Occidente le due risposte estreme sono quelle di un ricorso alla violenza e di un ricorso alla fortuna che porti un successo improvviso o, quanto meno, all’evasione in un mondo di favola, lontano dalle asprezze e dalle incertezze della vita di tutti i giorni. C’è chi reagisce cercando di buttar giù tutto con una spallata, magari anche il palco di una manifestazione sindacale, e chi cerca di reagire con una risata, che spesso suona un po’ innaturale, a un evento televisivo o cerca l’onda della fortuna grazie a questo evento.

In Francia, la protesta assume le forme, ormai note, del «sequestro dei manager»; ad Atene quelle della rottura delle vetrine dei negozi di lusso. Nello stesso giorno del Lingotto, a Berlino sono sfilati centomila manifestanti con striscioni su cui era scritto «Sozial statt Kapital!», ossia «Il sociale al posto del capitale!», un’evidente impossibilità economica ma un buon termometro delle istanze di chi vede a rischio non solo il proprio posto di lavoro ma anche il proprio modello di vita. Parallelamente cresce la popolarità di programmi che assicurano ai partecipanti notorietà e redditi elevati e continua la fortuna, anche su Internet, di chi costruisce mondi artificiali in cui evadere di fronte a una realtà che non si riesce più a sopportare.

Coloro che cercano soluzioni efficaci di tipo razionale a una situazione economico-sociale che sembra scivolare fuori di ogni controllo devono tener conto di questi bisogni profondi, di quest’insoddisfazione radicale; non basta controllare i deficit pubblici, risanare i tessuti malati dell’economia, sfornare ricette teoriche di rilancio. Dai dati dell’Ocse si ricava che è indispensabile, ma non sufficiente, far sì che questo Paese sia in grado di pagare salari più elevati grazie ad attività più produttive. L’insoddisfazione, però, in Italia, ha radici più profonde e, se non se ne tiene conto, i rimedi dei tecnici paiono destinati al fallimento; ci vorrebbe una grande visione politica che, per il momento, proprio non si profila all’orizzonte non solo in Italia ma neppure nel resto del mondo (dopo la «fiammata» iniziale di Obama, ormai largamente esauritasi, come spiegava su queste colonne qualche giorno fa Enzo Bettiza) e una massa di persone incerte che si sentono trascurate dall’economia e ignorate dalla politica. E potrebbero risultare sempre più inclini a travolgere i palchi delle manifestazione serie e ad accalcarsi attorno a quelle che promettono facili evasioni.
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Sbarchi, il grande bluff. L'ultima frontiera è a Est

Pochi clandestini dall’Africa, ora passano da Turchia e Balcani. La metà entra con visto o permesso di soggiorno, poi sparisce
GUIDO RUOTOLO

E adesso che Lampedusa diventerà il fortino abbandonato, l’avamposto o la retrovia di quell’Europa che non vedeva l’invasione, che lasciava sola l’Italia a tentare di arginare il flusso di immigrati, ci sentiremo tutti un po’ orfani. E questo perché il governo ha imboccato la linea della fermezza, dei respingimenti in mare. E’ come se all’improvviso si fosse creata una (sbagliata) consapevolezza: non vedremo più le immagini drammatiche delle carrette stracolme di disperati che approdavano a Lampedusa o sulle coste siciliane. E dunque, questo vorrà dire che avremo risolto il problema degli sbarchi dei clandestini. Ovvero, abbiamo risolto il problema dei clandestini? E’ il clima della campagna elettorale a fare brutti scherzi, perché in realtà i clandestini continuano ad arrivare in Italia. Anzi, già ci sono da un pezzo. E’ vero, negli ultimi tempi quelli di Lampedusa erano soprattutto richiedenti asilo, africani scappati dalle guerre del Corno d’Africa (il 70% delle 31.200 domande d’asilo presentate nel 2008 riguardano extracomunitari sbarcati in Sicilia).

Non più i soliti tunisini o egiziani che, rispediti a casa con gli accordi di riammissione, per il momento si sono fermati. Ma ora che abbiamo sciolto il dilemma del rispetto della Convenzione di Ginevra (negando di violarla), abbiamo l’occasione di scoprire che invece di guardare al sud dirimpettaio delle coste nordafricane, dobbiamo girare il nostro sguardo ai porti dell’Adriatico o della Liguria, agli aeroporti del Nord, o a quello di Roma. Prendere atto che entrano via terra dagli altri Paesi europei, dalle frontiere Schengen che non ci sono più. E lo fanno sia da clandestini che da «overstayers», che vuol dire che si tratta di extracomunitari entrati regolarmente nel nostro Paese ma che sono diventati irregolari perché è scaduto il visto turistico o il permesso di soggiorno. Arrivano nei porti di Bari, Ancona, Brindisi, Trieste, Venezia, Savona, Genova a bordo di tir, di automezzi, come «merci» camuffate tra fusti di arancia o cassette di mele. Come la droga, come le sigarette di contrabbando. Ad Ancona, addirittura, nell’autunno scorso, ne hanno trovati tutti in una volta 67 (erano curdi, iracheni e afghani) in un doppiofondo di un tir con targa tedesca e autista greco. I clandestini hanno dichiarato di aver pagato dai 400 ai 1.000 euro a testa per il viaggio. Erano diretti nei paesi del Nord-Europa. Il tir era sbarcato da un traghetto della «Minoan Lines» salpato dal porto greco di Igoumenitsa.

E nel marzo scorso, sempre nel porto di Ancona, sono stati trovati tre afghani nascosti tra 78 fusti di arancia su di un tir, sbarcato sempre da una nave greca. Ogni anno, le forze di polizia di Ancona respingono 2.500 clandestini, gran parte dei quali rimandati in Grecia, paese di transito (e dell’Unione Europea). Complessivamente, l’anno scorso alle frontiere terrestri (i porti) sono stati respinti circa 8.000 extracomunitari. Una goccia, rispetto alla realtà. Perché i controlli sui tir, come è noto, si fanno a campione. E tutte le segnalazioni investigative sostengono che questa filiera curda-afghana-irachena transita per l'Italia diretta in Belgio, in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Svizzera. Tutti gli esperti che si occupano del fenomeno dell’immigrazione - dalla Caritas alle organizzazioni sindacali, dai tecnici delle forze di polizia alle associazioni degli stranieri in Italia - concordano nel dire che la porta d’ingresso nel Paese di Lampedusa e della Sicilia rappresenta solo il 10% (per alcuni il 7%) della massa di immigrati irregolari presenti sul territorio nazionale. Se prendiamo come metro di paragone gli sbarchi del 2007 (20.453) - perché quelli dell’anno successivo e dei primi tre mesi di quest’anno, con i loro picchi altissimi, 36.952 nel 2008, 4.000 nei primi tre mesi dell’anno in corso, farebbero sballare di molto la media ponderata - sono circa 200.000 gli irregolari che ogni anno entrano in Italia. Molti poi emigrano negli altri Paesi della Ue, una quota si regolarizza, un’altra finisce in carcere per aver commesso reati, un’altra ancora viene espulsa, riportata nei paesi di origine.

Gli esperti concordano, dunque, nello stimare in mezzo milione il numero dei clandestini attualmente presenti in Italia. Se è vero che le carrette del mare di Lampedusa o di Pozzallo rappresentano solo il 10% dei clandestini, il 40% di irregolari arriva via terra-mare (esempio: Grecia). il grosso, il 50%, riguarda i cosiddetti «overstayers». Desaparecidos sono diventati anche i cubani. Sì, dall’Isola di Fidel erano arrivati, nel 2008, trecento cittadini di Cuba. Ma di questi ne sono ripartiti solo 100. Che fine hanno fatto gli altri 200? Una volta erano clandestini i romeni che, oggi, sono diventati cittadini della Unione Europea. E sui cinesi, da sempre si favoleggia che il numero dei presenti rimane sempre lo stesso, o poco più, perché i nuovi arrivati prendono i documenti di quelli passati ad altra vita. A leggere poi le statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si apprende che al 31 dicembre scorso, nelle nostre carceri erano detenuti complessivamente 21.562 stranieri: il 51% si tratta di africani, il 37% di europei (che comprendono anche gli ex Paesi dell’Est o dei Balcani).

I detenuti marocchini hanno su tutti il primato: sono 4.714. Il prefetto Antonio Manganelli, Capo della Polizia, spiegava sabato che come la mafia è stata l’emergenza degli Anni 90, così oggi la questione criminale legata all’immigrazione clandestina rappresenta la nuova emergenza: «Un terzo dei reati è commesso da clandestini. Il rapporto fra reati e clandestinità è pari al 60-70%, in certe parti del Paese». Come dire: il clandestino commette il 60% dei reati. Una grande confusione regna sotto il cielo degli stranieri in Italia. Secondo l’Istat, agli inizi del 2008 erano 3.433.000 quelli regolari e residenti nel Paese. Mezzo milione in più rispetto a due anni prima. Per la Caritas, gli stranieri sono 4 milioni. Insomma, su 15 cittadini, uno è straniero. Addirittura, uno straniero ogni dieci lavoratori. Nel marzo scorso, il ministero del Lavoro ha distribuito le quote del decreto flussi del 2008: 150.000 nuovi permessi. Ma ancora mezzo milione di famiglie e imprese italiane aspettano risposte alle domande dei flussi d’ingresso.

Due anni fa ne furono presentate 700.000: 130.000 sono state accolte, 70.000 respinte. Le altre 500.000, appunto, aspettano ancora una risposta. Teoricamente, si tratta di domande per poter assumere cittadini extracomunitari che aspettano nei loro paesi d’origine il semaforo verde per poter venire a lavorare in Italia. In realtà, sono qui da anni. Lavorano, creano ricchezza, soddisfano le esigenze delle famiglie (colf e badanti). Ma adesso - quando sarà approvato il pacchetto sicurezza che prevede anche il reato di clandestinità - se pizzicati dalle forze di polizia, come ha assicurato il sottosegretario Alfredo Mantovano, saranno espulsi.

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17.5.09

Immigrati urla e silenzi

BARBARA SPINELLI

Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura - in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati - è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.

Negli ultimi vent'anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.

George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra - contro il terrore - era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.

Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.

Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).

Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.

La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.

Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.

Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando.

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16.5.09

Lo strano caso di monsieur L.M. smemorato ma con falsi ricordi

Parigi, primo caso al mondo di 'iperamnesia confabulatoria', una variante della sindrome di Korsakoff. L'uomo parla di episodi dettagliati della sua vita. Che però non sono mai accaduti

"Il primo giorno d'estate del 1979 indossavo un paio di pantaloncini rossi e una maglietta bianca, mentre nel lontano 13 marzo del 1976 ricordo perfettamente di essere andato a pesca". A parlare non è una persona con la memoria da elefante, ma un uomo colpito da amnesia, anzi da quella che è stata battezzata per l'occasione 'iperamnesia confabulatoria': l'uomo, 68 anni e privo di lesioni cerebrali, ha perso la memoria ma è fermamente convinto di ricordare nel dettaglio ogni giorno della sua vita.

Lo strano caso è stato descritto da Gianfranco Dalla Barba, da 20 anni in Francia presso l'Inserm Pavillon Claude Bernard Hopital de la Salpetriere di Parigi e da due anni docente presso l'università di Trieste, nonché medaglia d'oro alla sciabola alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984 e poi bronzo a Seul.

Secondo quanto riferito sulla rivista Cortex da Gianfranco Dalla Barba, il suo paziente, L.M. ex magazziniere presso una compagnia aerea, sostiene di ricordarsi esattamente quello che ha fatto un qualunque giorno di 20 anni fa, atteggiamento del tutto inconsueto perché normalmente alla domanda 'cosa hai fatto il 13 marzo del 1986' tutti rispondiamo sempre 'non lo so'.

Il paziente non è assolutamente cosciente del proprio disturbo, ha spiegato Dalla Barba, e in più pretende di ricordare cose che né persone sane né persone con normali forme di amnesia confabulatoria come la sua dicono di ricordare. Si tratta di un caso unico, ha aggiunto lo scienziato, che però "porta ulteriore sostegno alla mia teoria che c'è indipendenza tra memoria e coscienza, dimostra che ricordare è uno stato di coscienza specifico, che io chiamo 'Coscienza Temporale' che può non aver niente a che fare con ciò che è accaduto in realtà".

Ad L.M., un passato di alcolista, è stata diagnosticata la sindrome di Korsakoff, una condizione caratterizzata da grave amnesia e confabulazione, ovvero produzione di falsi ricordi e completa inconsapevolezza della propria perdita di memoria, "il lato più affascinante dei pazienti che confabulano, perché sono 'oggettivamente' amneiici e 'soggettivamente' normali (per sè stessi)", ha spiegato Dalla Barba.

15.5.09

Quando il premier disse: «Quelle navi non vanno fermate»

Berlusconi, la tragedia degli albanesi in Puglia del ’97 e le critiche a Prodi: no ai blocchi, il diritto non lo prevede

Gian Antonio Stella

Il 30 marzo del 1997, giorno di Pasqua, Silvio Berlusconi è a Brindisi con i 34 albanesi sopravvissuti al naufragio del 28 marzo (Ansa/Caricato)
«Dov’è la cipolla, piagnina?» Erano i primi di aprile del ’97 e il leghista Daniele Roscia, sfot­tendo Silvio Berlusconi per le lacrime versate sugli albanesi morti sulla nave speronata da una corvetta della Marina italia­na, non poteva immaginare che un giorno il Cavaliere avrebbe blindato con la fiducia un decreto come quello di ieri fortissimamente voluto dalla Lega.

Rileggere quanto disse allo­ra il leader azzurro, deciso a sot­tolineare i contrasti dentro il governo Prodi che per arginare gli sbarchi in Puglia aveva vara­to il pattugliamento delle coste andando incontro alla spaven­tosa tragedia della «Kater I Ra­des » affondata con una mano­vra sbagliata dalla «Sibilla», è fonte di sorprese. Per comincia­re, secondo l’Ansa, il leader az­zurro accorso a Brindisi a in­contrare i sopravvissuti, ricor­dò che «l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugia­ti aveva espresso deplorazione su questa misura del blocco na­vale: ora dopo quello che è suc­cesso, dobbiamo riscattare la nostra immagine e dobbiamo fare tutto ciò che le nostre pos­sibilità ci consentono, non so­lo con il nostro esercito per pro­teggere gli aiuti, ma dobbiamo essere tutti noi generosi». Quindi, offerta ospitalità per­sonale a una dozzina di profu­ghi, espresse «le sue riserve sul pattugliamento» e smentì asso­lutamente a Repubblica che Ro­mano Prodi l’avesse preavverti­to: «Non sono stato informato né di blocchi né di pattuglia­menti. Prodi mi aveva informa­to dell’intervento finalmente possibile in Albania, dicendo­mi che era stato trovato un ac­cordo con i paesi di cui mi ha fatto i nomi — Portogallo, Fran­cia, Grecia ed altri — per una missione di pace. Su questo, io ho detto 'Sono pienamente d’accordo'. Tra l’altro ho stu­diato diritto della navigazione, a suo tempo: so che nessuno può fermare navi civili in ac­que non territoriali, non è pre­visto assolutamente un diritto di questo genere da parte di nessuno Stato. Se avessi senti­to parlare di blocco navale, avrei subito drizzato le anten­ne».

Di più, aggiunse all’Ansa: «Credo che l’Italia non possa ac­cettare di dare al mondo l’im­magine di chi butta a mare qualcuno che fugge da un Pae­se vicino, temendo per la sua vita, cercando salvezza e scam­po in un paese che ritiene ami­co. Il nostro dovere è quello di dare temporaneo accoglimen­to a chi si trova in queste condi­zioni ». E chiuse: «Dobbiamo la­vare questa macchia, che sarà pure venuta dalla sfortuna, ma che è venuta da una decisione che non si doveva prendere».

Il giorno dopo, mentre a sini­stra si sbranavano sul tema del­l’accoglienza e tentavano di ar­ginare l’indignazione svento­lando un sondaggio secondo cui, come avrebbe scritto Filip­po Ceccarelli, appena un quar­to degli intervistati giudicava il pianto berlusconiano «since­ro », il Cavaliere spiegava a Raf­faella Silipo, de La Stampa d’es­sere schifato dalle reazioni: «Vogliono strumentalizzare il mio gesto e trasformare una grande tragedia in una piccola e sciagurata polemica politica. D’altronde è inevitabile, quan­do si guarda con occhi sporchi a cose chiare e pulite». A farlo precipitare in Puglia, spiegò, era stata l’indifferenza degli al­tri: «Vede, io li ho visti, i super­stiti del naufragio. Erano dispe­rati. E nessuno era lì con loro, nessuno gli ha detto niente, ca­pito? Si parla di settanta morti, venti bambini, una tragedia pa­ragonabile a Ustica, e questi qui, dal presidente della Repub­blica al presidente del Consi­glio al ministro della Difesa, re­stano a casa loro? È drammati­co ». Dodici anni dopo, riesami­nati gli studi di «diritto della navigazione» a proposito dei pattugliamenti navali, ha cam­biato parere: «Fuori dai confini vale il nostro diritto, previsto dai trattati internazionali, di re­spingerli ». E il voto di ieri, mar­cato dal trionfo della Lega Nord, sigilla la conclusione di un percorso di progressivo av­vicinamento ai temi cari al Car­roccio.

Daremo a Silvio la tessera perché si è 'pontidizzato'», gongolava giorni fa Roberto Calderoli. Padano ad honorem. Una onorificenza che gli sareb­be stata difficile da guadagnare quel giorno in cui, nella intervi­sta citata a La Stampa dopo la tragedia della nave albanese, confidò pensieri che in bocca altrui gli suonerebbero, dicia­mo così, «buonisti» e «cattoco­munisti »: «Siamo stati chiusi nell’egoismo, non possiamo permettere che succeda più nel nostro Paese. Non possiamo chiudere le porte, 58 milioni di italiani che stanno bene non possono respingere povere per­sone che vengono qui per cer­care un po’ di libertà. Doman­diamoci se la tragedia non è an­che dovuta, almeno in parte a quel coro di ''gettateli a mare, sono tutti delinquenti'' sentito nei giorni scorsi».

Un monito antirazzista, iro­nizzerà qualcuno, arrivato do­dici anni prima di quello di Giorgio Napolitano...

corriere.it

14.5.09

Pubblico-Privato: dieci domande a Berlusconi

Incoerenze di un caso politico.

Quella festa a Casoria e le parole di Veronica. Il padre di Noemi e le candidature Pdl. Il Cavaliere non ha accettato di farsi intervistare da Repubblica. Da oggi uno speciale multimediale alla ricerca di una verità

Giuseppe D'Avanzo

Repubblica ha chiesto, nei giorni scorsi, di rivolgere al presidente del Consiglio dieci domande sulle incoerenze e le omissioni di una storia che molti definiscono “di Veronica” o “di Noemi” e nessuno azzarda a definire per quel che è o appare: un “caso Berlusconi”. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, lunedì, ha chiesto due giorni per dare una risposta. Quella risposta non è arrivata. Per non dissimulare, come vuole il nuovo conformismo dell’informazione italiana, ciò che dovrebbe essere chiarito, pubblichiamo oggi le domande che avremmo voluto rivolgere al premier e le contraddizioni che abbiamo ritenuto di riscontrare tra le sue dichiarazioni e quelle degli altri protagonisti della vicenda. Silvio Berlusconi ha detto: «Credo che chi è incaricato di una funzione pubblica, come il presidente del Consiglio, possa accettare la continuazione di un rapporto [con la sua consorte, Veronica Lario] soltanto se si chiarisce chi ha provocato questa situazione». (Porta a Porta, 5 maggio 2009).Repubblica concorda con Silvio Berlusconi. E’ evidente che, nonostante il frastuono mediatico di queste ore, non si discute di un divorzio o di una separazione, affare privato di due coniugi. Come ha chiaro il premier, la questione interroga i comportamenti di «un incaricato di una funzione pubblica». In quanto tali, quei comportamenti sono sempre di pubblico interesse e non possono essere circoscritti a un ambito familiare. D’altronde, la signora Veronica Lario, nelle sue dichiarazioni del 29 aprile e del 3 maggio, offre all’attenzione dell’opinione pubblica due certezze personali e una domanda.Le due certezze descrivono, tra il pubblico e il privato, i comportamenti del presidente del Consiglio: «Mio marito frequenta minorenni»; «Mio marito non sta bene».La domanda, posta dalla signora all’opinione pubblica e a chi in vario modo la rappresenta, è invece tutta politica e chiama in causa le pratiche del «potere», il suo modo di essere, che si degrada e si avvilisce pericolosamente quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate “veline” senza altro merito che un bell’aspetto e la prossimità al premier.Ha detto la signora Lario: «Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne (...). Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore». (Ansa, 28 aprile, 22:31)Silvio Berlusconi ha replicato, a caldo, evocando un complotto «della sinistra e della sua stampa che non riescono ad accettare la mia popolarità al 75 per cento (…) Tutto falso, nato dalla trappola in cui anche mia moglie purtroppo è caduta. Le veline sono inesistenti. Un’assoluta falsità». (Porta a porta, 5 maggio)E’ il primo ingombro che bisogna verificare. Questa storia è soltanto una trappola bene organizzata? E' vero, se di complotto si tratta, che nasconde la mano della sinistra e della «sua stampa»?Tre evidenze lo escludono.Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una “velina” alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12, nella rubrica Indiscreto a Palazzo si legge che «Barbara Matera punta a un seggio europeo». «Soubrette, già “Letterata” del Chiambretti c’è, poi “Letteronza” della Gialappa’s, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri», la Matera, scrive il Giornale, «ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. “Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto”». «E si vede», commenta il giornale di casa Berlusconi.Il secondo giornale che svela «la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare» è Libero, il 22 aprile. Notizia e foto di prima pagina con «Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello e le gemelle De Vivo dell’Isola dei famosi, possibili candidate alle elezioni europee». A pagina 12, le rivelazioni: «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» è il titolo. «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» è il sommario.Per Libero le «showgirl», che dovranno superare un colloquio, sono 21 (in lista i candidati a un seggio di Bruxelles, come si sa, sono 72). I nomi che si leggono nella cronaca sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite.Difficile sostenere che Il Giornale e Libero siano fogli di sinistra. Come è arduo credere che la Fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini, sia un pensatoio vicino al partito democratico. Il think tank, diretto dal professor Alessandro Campi, vuole «far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione». Coerentemente critica l’uso di «uno stereotipo femminile mortificante» e con un’analisi della politologa Sofia Ventura avverte che «il “velinismo” non serve». Nell’articolo si legge: «Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con disinvoltura, denota uno scarso rispetto, da un lato, per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro; dall’altro, per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima».Sofia Ventura conclude: «Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi. Le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse».Quando la signora Lario prende (buonultima) la parola per censurare il “velinismo” - e «il ciarpame senza pudore» del potere - non si muove nel vuoto, ma su un terreno già smosso dalle rivelazioni dei giornali vicini al premier e dalle analisi critiche di intellettuali prossimi alla maggioranza di governo.Questo “caso” non ha inizio con un intrigo, come protesta Berlusconi, ma trova la sua trasparente ragione nella preoccupazione di ambienti della destra per un «impoverimento della qualità democratica di un paese» (ancora la Ventura).Rimosso il presunto «complotto», resta il “caso” politico, dunque. Un “caso” che diventa anche familiare, quando Veronica Lario scopre che Silvio Berlusconi ha partecipato a Napoli alla festa di compleanno di una diciottenne (Repubblica, 28 aprile). E ancora una volta politico quando la signora, annunciando la sua volontà di divorziare, denuncia pubblicamente i comportamenti di un marito che, «incaricato di una pubblica funzione», «frequenta minorenni», prigioniero com’è di un disagio che minaccia il suo equilibrio psicofisico.Il presidente del Consiglio ha replicato ai rilievi della signora Lario con due interviste alla carta stampata (Corriere della Sera e la Stampa, 4 maggio) e con un lungo monologo a Porta a Porta (5 maggio).In queste tre sortite pubbliche, la ricostruzione degli avvenimenti di cui si discute (la candidatura di giovani donne selezionate per la loro bellezza e amicizia con il premier; il suo affetto per Noemi Letizia, maggiorenne il 26 aprile; la partecipazione alla festa di compleanno; il lungo sodalizio amicale con la famiglia Letizia) ha avuto, da parte di Berlusconi, una parola definitiva, ma o contraddittoria o omissiva.Berlusconi nega di aver mai avuto intenzione di candidare «soubrette». «Non avevamo messo in lista nessuna “velina”» (Corriere, 4 maggio) Noemi lo chiama «papi». Perché? A chi glielo chiede, replica: «E’ uno scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chiamino papi. Non crede?» (Corriere, 4 maggio). Berlusconi è più preciso con la Stampa (4 maggio): «Io frequenterei, come ha detto la signora [Lario], delle diciassettenni. E’ una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre punto e basta. Lo giuro!»E’ la stessa versione offerta a France2 (6maggio). Quando il presidente del Consiglio spiega le circostanze della frequentazione con Noemi Letizia – si tratta di un’antica amicizia di natura politica con il padre, dice – il giornalista lo interrompe per chiedere: «…dunque [Noemi] non è una ragazza che lei conosceva personalmente?».Berlusconi risponde: «No, ho avuto l’occasione di conoscerla con i suoi genitori. Questo è tutto».La versione di Berlusconi è contraddetta in tutti i suoi elementi dalle interviste che Noemi Letizia concede.Noemi così ricostruisce il suo legame affettivo con il presidente del Consiglio: «Mi vuole bene come a un figlia. E anch’io, noi tutti gli siamo molto legati». (Repubblica, 29 aprile)Al Corriere del Mezzogiorno, il 28 aprile, consegna dettagli chiave.«[Berlusconi, papi] mi ha allevata (…) E’ un amico di famiglia. Dei miei genitori (…) non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno [per il mio compleanno], ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un’altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni. (…) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (…) Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca e dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore. (…) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità. (…) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio».Nel racconto di Noemi c’è la narrazione di un rapporto diretto, intenso con il presidente del Consiglio. Che le fa tre regali per il 16°, 17° e 18° compleanno. Quindi, si può concludere, Berlusconi ha conosciuto Noemi quindicenne. Nel loro rapporto non c’è alcun ruolo o presenza dei genitori. Noemi non vi fa alcun riferimento e non è corretta dalla madre, presente al colloquio con Angelo Agrippa del Corriere del Mezzogiorno. Berlusconi ha tentato di ridimensionare il legame con la minorenne: «Ho incontrato la ragazza due o tre volte, non ricordo, e sempre alla presenza dei genitori». I genitori non hanno ancora confermato le parole del premier.Durante l’incontro con il giornalista, la signora Anna Palumbo - madre di Noemi - interviene soltanto per specificare le circostanze in cui Berlusconi ha conosciuto suo marito, Benedetto “Elio” Letizia. Dice: «[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più».Noemi non è così evasiva quando affronta una delle questioni decisive per questa storia. E’ addirittura esplicita. Ella ritiene di poter ottenere da Berlusconi l’opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o scranno a Montecitorio. Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle attenzioni (o promesse) di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche di farefuturo, il think tank di Gianfranco Fini («Le donne non sono gingilli») e della signora Lario («Ciarpame senza pudore»).Quando e dove e come si sono conosciuti Berlusconi e Benedetto Letizia è un altro enigma di questa storia che raccoglie versioni successive e contraddittorie.A Varsavia Berlusconi dice: «[Benedetto] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l’autista di Craxi». (Ansa, 29 aprile, 16:34)Quando la circostanza è subito negata da Bobo Craxi («Cado dalle nuvole. L’autista di mio padre si chiamava Nicola, era veneto, ed è morto da qualche anno», Ansa, 29 aprile, 16:57), Palazzo Chigi con un imbarazzato ritardo di venti ore, smentisce a sua volta: «Si rileva che il presidente Berlusconi non ha mai detto che il signor Letizia fosse autista dell’on. Bettino Craxi» (Ansa, 30 aprile, 12:30).Dal suo canto, Letizia non vuole ricordare in pubblico come e dove e quando ha conosciuto Berlusconi. Chi lo interroga raccoglie soltanto parole vuote. «Volete sapere come ho conosciuto Berlusconi? Va bene, ve lo dico, però allora vi racconto anche come ho conosciuto tutte le persone che conosco…». (Corriere, 10 maggio)In qualche altra occasione, il rifiuto di Letizia a raccontare il primo incontro con il futuro premier è ancora più categorico:«Non ho alcuna intenzione di farlo» (Oggi, in edicola il 6 maggio)Anche Noemi non ha voglia di offrire rievocazioni: «Non ricordo i particolari [di come è nato il contatto familiare], queste cose ai miei genitori non le ho chieste. Non è che si siano incrociati sul lavoro: mio padre è un dipendente comunale...». (Repubblica, 29 aprile)Un ricordo vivo del primo incontro tra Berlusconi e Letizia sembra averlo Arcangelo Martino, un ex assessore socialista al comune di Napoli, oggi vicino al partito del presidente del Consiglio. «Fra il 1987 e il 1993 sono stato grande amico di Bettino Craxi. Tutti i mercoledì andavo a trovarlo a Roma all’hotel Raphael, una consuetudine. Mi accompagnava sempre qualcuno del mio staff e quel qualcuno era quasi sempre Elio Letizia (…) Parecchie volte è capitato che al Raphael ci fosse Silvio Berlusconi. E’ lì che ho presentato i due che poi hanno fatto amicizia». (Corriere della sera, 10 maggio).Il ricordo di Arcangelo Martino è sconfessato con nettezza ancora una volta da Bobo Craxi. «Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell’hotel Raphael (…) Lo stesso Martino credo che sia passato qualche volta a salutare mio padre». (Repubblica, 11 maggio)Chiara anche la smentita di uomini che furono accanto al leader socialista: Gianni De Michelis («Mai sentito nominare Letizia»); Gennaro Acquaviva («Mai sentito nominare Letizia, neanche dai napoletani»); Giulio Di Donato («Questo signor Letizia, nel panorama napoletano e campano dei socialisti, non esisteva, a mia memoria»). Ancora più efficace la contestazione di Stefano Caldoro: «Proprio nei primi anni novanta, abitavo al Raphael tutte le volte che mi fermavo a Roma. Si scherzava sulla intraprendenza di Martino (…) ma escludo categoricamente di aver mai visto e sentito che questo Letizia venisse presentato a Craxi. Perché mai l’avrebbero dovuto presentare? Non era un dirigente, non era un esponente del sociale, non era un militante» (Ancora Repubblica, 11 maggio 2009).L’occasione dell’incontro tra Berlusconi e Letizia è ancora da chiarire. Come i tempi della decisione del presidente del Consiglio di partecipare alla festa di compleanno di Noemi. Al Corriere della sera, 4 maggio, così Berlusconi ha spiegato la sua presenza a Napoli: «Racconto come è andata veramente. Quel giorno mi telefona il padre, un mio amico da tanti anni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avanzamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. La casa è vicina all’aeroporto. Non molla. Io non so dir di no. Eravamo in anticipo di un’ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per compleanni e matrimoni».Berlusconi, dunque, partecipa alla festa per un atto di affetto nei confronti di Elio Letizia. Non si parla di Noemi né di altra necessità politica o urgenza di altra natura. Diversa la versione offerta, lo stesso giorno (4 maggio) alla Stampa: «Suo padre, che conoscevo da tempo, mi ha telefonato per chiedermi se lasciavo fuori Martusciello (Flavio, consigliere regionale del PdL) dalle liste per le Europee, io gli ho spiegato che avrei cercato di mettere sia l’ex-questore Malvano (Franco, già candidato a sindaco di Napoli) sia Martusciello e che stavo arrivando a Napoli per dare una spinta ai contratti per i nuovi termovalorizzatori che sono frenati dalla burocrazia. A quel punto lui mi ha interrotto e mi ha detto: “Stavi venendo a Napoli? Io stasera festeggio il diciottesimo compleanno di Noemi, perché non vieni con un brindisi, lo facciamo in un locale poco distante dall’aeroporto. Ti prego vieni sarebbe il più bel regalo della mia vita”. Così ci sono andato…».Berlusconi aggiunge qualche dettaglio in più nel solco di questa versione, il 5 maggio, durante Porta a Porta: «Ero al salone del Mobile della Fiera di Rho, imbarazzato per i cori “Meno male che Silvio c’e”, “Magico” e il capitano dell’elicottero mi ha detto che era in arrivo entro mezz’ora un temporale che ci avrebbe costretto ad andare in macchina a Linate. Per questo siamo partiti in anticipo e [visto il tempo a disposizione, prima di] una riunione politica che avevo in serata [con il ristorante a soli tre minuti dall’aeroporto] sono entrato…»Anche questa ricostruzione trova delle evidenze che la contraddicono. Berlusconi giunge a Napoli con un regalo per Noemi, «cerchi concentrici in oro rosa arricchiti da una cascata di diamanti bianchi montati su oro bianco, 6mila euro, il ciondolo è anche nella collezione di Sophia Loren» (Gente, 19 maggio). Si è molto discusso di questa circostanza che, al contrario, non pare molto significativa: il presidente potrebbe aver a bordo del suo aereo dei cadeaux da distribuire secondo necessità.Più interessante è che l’aereo di Berlusconi giunga a Napoli con un’ora di anticipo rispetto all’inizio della festa e il presidente attenda nell’aeromobile per un’ora prima di muoversi ed entrare «cinque minuti dopo l’arrivo in sala di Noemi» (Annozero, 7 maggio). Secondo la testimonianza di un fotografo, ingaggiato dal patron del ristorante “Villa Santa Chiara”, si sapeva da sabato 25 aprile dell’arrivo del premier e, in ogni caso, la “bonifica” della sala da parte della polizia è stata predisposta già nella mattinata, «alle 15», per alcune fonti del Dipartimento di sicurezza. (Repubblica, 9 maggio).Sembra di poter dire che non c’è stato alcun cambio di programma a Rho nel tardo pomeriggio di domenica 26 aprile. La partecipazione alla festa di Noemi era già nell’agenda del presidente da giorni, come dimostrano la “bonifica”, l’attesa in aereo, l’arrivo nel ristorante subito quasi contestualmente all’ingresso della diciottenne come per un copione precedentemente preparato. C’è un’ultima contraddizione da sciogliere. La scelta o indicazione delle “veline” da candidare è stata opera di Berlusconi? A Porta a Porta, 5 maggio, il presidente del Consiglio sostiene di non aver messo becco nella candidature europee: «Le candidature per le Europee non sono state gestite direttamente dal premier. Ad occuparsene sono stati i tre coordinatori del PdL Bondi, La Russa e Verdini che “da migliaia di segnalazioni sono giunti a 500 schede” per individuare i 72 candidati si sono orientati secondo le indicazioni del congresso, spazio ai giovani e alla donne. Tra questi candidati nessuna è qualificabile come velina» (resoconto delle parole del premier a Porta a porta, 5 maggio, tratto dal Giornale, 6 maggio). Berlusconi ammette però di avere discusso con Elio Letizia (non è un dirigente del PdL né, che si sappia, un iscritto al partito) le candidature di Malvano e Martusciello e per farlo lo raggiunge addirittura a Napoli alla festa di sua figlia. La circostanza appare contraddittoria e, senza altre spiegazioni, inverosimile. Il rosario di incoerenze che si incardina sulla questione politica posta da farefuturo e dalla signora Lario (come Berlusconi seleziona le classi dirigenti) sollecita di rivolgere a Berlusconi dieci domande:

1. Quando e come Berlusconi ha conosciuto il padre di Noemi Letizia, Elio?

2. Nel corso di questa amicizia, che il premier dice «lunga», quante volte si sono incontrati e dove e in quale occasioni?

3. Ogni amicizia ha una sua ragione, che matura soprattutto nel tempo e in questo caso – come ammette anche Berlusconi – il tempo non è mancato. Come il capo del governo descriverebbe le ragioni della sua amicizia con Benedetto Letizia?

4. Naturalmente il presidente del Consiglio discute le candidature del suo partito con chi vuole e quando vuole. Ma è stato lo stesso Berlusconi a dire che non si è occupato direttamente della selezione dei candidati, perché farlo allora con Letizia, peraltro non iscritto né militante né dirigente del suo partito né cittadino particolarmente influente nella società meridionale?

5. Quando Berlusconi ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?

6. Quante volte Berlusconi ha avuto modo di incontrare Noemi e dove?

7. Berlusconi si occupa dell’istruzione, della vita e del futuro di Noemi. Sostiene finanziariamente la sua famiglia?

8. E’ vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l’accesso alla scena politica e questo «uso strumentale del corpo femminile», per il premier, non «impoverisce la qualità democratica di un paese» come gli rimproverano personalità e istituzioni culturali vicine al suo partito?

9. Veronica Lario ha detto che il marito «frequenta minorenni». Al di là di Noemi, ci sono altre minorenni che il premier incontra o «alleva», per usare senza ironia un’espressione della ragazza di Napoli?

10. Veronica Lario ha detto: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile». Geriatri (come il professor Gianfranco Salvioli, dell’Università di Modena) ritengono che i comportamenti ossessivi nei confronti del sesso, censurati da Veronica Lario, potrebbero essere l’esito di «una degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità». Quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?

larepubblica.it

Il proconsole d'Abruzzo

di Concita De Gregorio
Guido Bertolaso ha chiamato il vescovo: «Basta, me ne vado, troppe lamentele». Aveva appena letto l'editoriale del «Centro», il quotidiano degli abruzzesi. Si chiedeva - prima che l'afa soffochi le tendopoli - di sistemare gli sfollati in prefabbricati. Questo racconta Marco Bucciantini dall'Aquila. Di come il capo della Protezione Civile (e di molto altro) abbia chiamato l'arcivescovo Giuseppe Molinari per dirgli «tenete la gente tranquilla». Di come il vescovo abbia dapprima radunato i parroci chiedendo loro un lavoro «tenda a tenda» per sedare gli sfollati, di come poi abbia scritto alla presidente della Provincia, un tempo sua allieva, rimproverandola col tono dell'antico professore di «fare politica» fomentando i malumori. Caro arcivescovo, gli ha scritto in risposta la presidente Pezzopane: «Proprio lei mi ha insegnato a privilegiare prima di tutto chi è in difficoltà. Sollecitando attenzione per le persone in tenda e chiedendo per loro tempi brevi e migliori sistemazioni ho assecondato la necessità di rispetto per le loro vite già provate». La gente in Abruzzo non può aspettare i fasti e le gare di architetti del G8. Servono soldi e risposte subito e come ora anche il ministro Tremonti sa sul fronte dei denari c'è un problema serio. Vittorio Emiliani racconta punto per punto come si declini la demagogia e la pubblicistica di corte. Il proconsole delle emergenze, ora assurto anche al rango di guida dei vescovi in supplenza del passeggero vestito di bianco che qualche settimana fa portava in auto, dovrebbe piuttosto dare risposte concrete alle popolazioni prima che photo opportunity al premier per le tv.

Passa alla Camera con tre sì alla fiducia chiesta dal governo il decreto sicurezza, prima manovra nello scambio politico di «gentilezze» alla Lega di cui parliamo da settimane. Le intercettazioni seguiranno. Intanto arrivano le «ronde» e il reato di immigrazione clandestina (passibile di multe da cinque a diecimila euro) con obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali. I presidi spia, i medici spia. Il rischio che non si denuncino le nascite dei figli di immigrati è uno dei punti - i bambini invisibili - su cui i vescovi fanno sentire la loro voce accanto a quella dell'opposizione: «Il grande tema sotto silenzio è quello dell'integrazione», dice la Cei. Un eufemismo. Un modo paludato per dire che passano leggi razziste, xenofobe. Leggi razziali, le chiama ormai così anche la stampa estera. Roberto Rossi ci racconta il mondo degli highlander. Non sono i protagonisti di una saga nordica. Molti cittadini li hanno incontrati. Di solito sono giovani, spesso anche simpatici, ed eleganti. Aprono le loro borse piene di moduli e di brochure come si trattasse di scrigni di gioielli e offrono «prodotti finanziari» capaci di garantire un sereno futuro attraverso pensioni, assicurazioni, rendite perpetue. Ma chi sono in realtà i «promotori finanziari»? Nient'altro che venditori al servizio delle banche. Non fanno l'interesse del cliente ma quello dell'azienda che li remunera (spesso poco, e infatti solo due su 50 ce la fanno). Spesso nascondono informazioni essenziali. A volte compiono delle vere e proprie truffe. Intanto sparisce di fatto la class action sepolta da un voto al Senato: non sarà più retroattiva, dunque a che serve? Salvi i truffatori, pazienza per i truffati. Urgente trovare qualche vescovo che li conforti.
unità.it

12.5.09

Il rispetto dei diritti

Concita De Gregorio

Vorrei mettere in chiaro una cosa semplice. Non siamo «favorevoli all’immigrazione clandestina». Non credo che la destra voglia la sicurezza dei cittadini (italiani) e la sinistra invece desideri metterla a tremendo repentaglio accogliendo chiunque si affacci ai nostri confini, criminali in fuga compresi. Non è questione di essere buoni o cattivi, cattolici compassionevoli o atei cinici (si possono anche invertire gli attributi). Si tratta piuttosto di osservare le regole, i diritti umani e il diritto internazionale, se possibile il senso della storia e quel che ci ha insegnato. Allora quindi, nel caso del diritto di asilo, si tratta di stipulare degli accordi coi paesi di provenienza - è un lavoro politico più faticoso e lungo del semplice esercizio della forza ai confini, è vero, ma è quel che ci si aspetta da un governo. Si tratta di riconoscere le persone: quelle che hanno il diritto d’asilo e quelle che non lo hanno. Di accogliere le prime e respingere le seconde. Si può fare, con l’Albania è stato fatto. Si tratta, prima ancora, di mettersi seduti a scrivere una legge organica sul diritto d’asilo: l’Italia è uno dei pochissimi paesi che non l’abbia. Perché non impieghiamo il tempo e le energie a scriverla? È una proposta formale: lanciamo una sfida all’Europa che ci condanna. L’Italia è una delle porte di accesso al continente: i nostri confini sono i più accessibili dunque sono i confini di tutti. Il nostro problema è il loro problema, risolviamolo insieme. Per farlo in modo credibile però bisogna che rispettiamo il diritto. Segnala Amnesty International, rapporto 2006: «Nonostante sia Stato parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati l’Italia non si è ancora dotata di una legge specifica e completa sul diritto di asilo». Facciamolo, no, ministro Maroni.

Due parole sul perché sia così importante. Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, ha detto che l’azione dell’Italia «mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza ricorrendo al diritto d’asilo». Il diritto d’asilo è previsto dall’articolo 10 della nostra Costituzione. «Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». Perché abbiamo questa norma nella Carta? Perché è stata scritta che erano passati poco più di due anni dalla caduta del fascismo e dalla fine della guerra. Vediamo i nomi di alcuni di quelli che la scrissero. Giorgio Amendola, Giuseppe Di Vittorio, Emilio Lussu, Sandro Pertini, Leo Valiani: tutti costoro, durante il fascismo, trovarono asilo politico in Francia o in Inghilterra. È molto apprezzabile che una serie di personalità della destra, ultimo Alemanno, condannino ora il regime. Le condanne però è meglio esprimerle durante, non 60 anni dopo. Potremmo esercitarci ad immaginare che ogni immigrato che chiede asilo politico sia il Pertini del suo paese. C’è purtroppo quel problema. La Costituzione inattuata. Allora quando siamo censurati dall’Europa anziché replicare come Malta («Siamo piccoli») proviamo a rispondere con l’esercizio del diritto e non della forza. La differenza con Malta è che l’Italia è un paese grande. Potrebbe essere un grande paese.

unità.it

9.5.09

Da Pdf ad Air, caccia allo standard

di Marco Magrini

All'inizio fu il Pdf. Il portable document format nasce nel '93, partorito dalla Adobe di San Josè, nella solita Silicon Valley, nel tentativo di creare uno standard universale per leggere documenti elettronici - giornali inclusi - mantenendo l'impaginazione e indipendentemente dal computer usato. C'è voluto del tempo, ci sono stati errori da correggere, ma alla fine è riuscito nell'impresa. Il Pdf è il formato usato dalle case editrici per distribuire i giornali elettronicamente agli abbonati. Anche di più: il quotidiano che avete in mano, quando nottetempo spedisce le pagine ai centri stampa in Italia e all'estero, non fa altro che inviare un Pdf ad alta risoluzione.
Lo standard di casa Adobe però, non ha salvato i giornali dall'erosione di lettori innescata dell'oceano di notizie gratuite sul web. Nella Silicon Valley, c'è un detto: «Per sostituire una tecnologia, quella nuova dev'essere dieci volte meglio». Al momento, nonostante Rupert Murdoch annunci di voler far pagare le notizie in formato elettronico, non esiste una tecnologia che - nel rappresentare un giornale, con la sua grafica e la sua gerarchia delle notizie - sia dieci volte meglio della carta.
È solo questione di tempo. Laboratori di ricerca e imprese di tutto il mondo stanno lavorando all'anello mancante della rivoluzione editoriale: il software e l'hardware che, messi insieme, migliorino di dieci volte la carta. Allora sì, che il giornale digitale a pagamento potrebbe finalmente funzionare.
La solita Adobe, ci sta provando. Il domani del Pdf si chiama Air. In poche parole, è un ambiente operativo multipiattaforma (Pc, Mac, smartphone) che consente di far girare applicazioni prodotte dalle case editrici - già battezzate appzines, da application e magazines - dentro alle quali si replica, enormemente arricchita, l'esperienza di sfogliare un quotidiano o una rivista.
Immaginate di avere davanti la prima pagina di un quotidiano, più o meno con l'attuale impianto grafico. Però la foto è in realtà una galleria fotografica che si muove con un click (o strusciando il dito sul touchscreen). Oppure può essere un filmato, eseguibile a piacere. Il testo si legge meglio che sulla carta e, con un'altra ditata, scorre in giù o in su. Certo, sono le notizie di ieri, eppure costantemente aggiornate. In alto, scorrono le breaking news. Nella pagina sportiva, i gol si vedono. Nella sezione spettacoli, la lettura della recensione è accompagnata da un brano audio del concerto. Nella rubrica dei giochi, si può ancora fare il cruciverba. Non sarebbe dieci volte meglio della carta?
Al New York Times, scommettono di sì. Il laboratorio di ricerca e sviluppo del giornale, che a Manhattan chiamano forse ingiustamente Gray Lady, la signora in grigio, ha deciso di scommettere su Air. La data di debutto è ignota, ma sia il Times che il fratello International Herald Tribune saranno disponibili come appzine, vere e proprie applicazioni Air che si possono scaricare e poi leggere comodamente, anche senza connessione in rete.
Visto che Air è già scaricabile gratuitamente, qualche sorta di giornale in formato appzine c'è già. (Red)wire è un settimanale di musica che costa 5 dollari al mese e ne dirotta la metà a sostegno dell'Africa. Nel numero gratuito di prova (una prova difficile: per scaricarlo, dovete far credere al server di essere in America) c'è Noel Gallagher degli Oasis che canta una canzone in esclusiva per (Red)wire, seduto in un gabinetto chitarra in mano.
Il bello di Adobe Air è che il giornale si impagina automaticamente a seconda dello strumento usato per leggerlo. Peccato che non ce ne sia ancora uno che non faccia rimpiangere la carta. Il Kindle di Amazon, lanciato anche in una versione più grande e più adatta ai giornali, è fantastico per i libri, ma funziona solo in America (il download avviene tramite una rete cellulare di proprietà Amazon) e le sue ridotte potenzialità (serve solo per leggere) sembrano limitarne l'adozione.
Ma, anche qui, è questione di poco tempo. La Plastic Logic di Cambridge, ad esempio, sta per uscire con il primo schermo a polimeri plastici, pieghevole. Si dice che la Apple presenterà in estate un nuovo tablet, una specie di grande iPhone che potrebbe spiazzare il Kindle. L'ultimo gradino per qualcosa che sia dieci volte meglio della carta, è ormai prossimo ad essere scalato. Forse forse, Rupert Murdoch ha un po' troppa fretta.

ilsole24ore

Arriva il maxi-Kindle per i quotidiani

Il futuro dell'editoria, secondo il fondatore di Amazon Jeff Bezos, si chiama Kindle DX. La versione "deluxe" del lettore digitale per libri prodotto dall'azienda statunitense è stata presentata ieri a New York e la stampa di tutto il mondo si sta chiedendo se non potrà essere una risposta almeno parziale alla crisi del settore. [ndr: Amazon Kindle 2: ma in Italia si sa cosa sia un E-book? | myTechnology]

Kindle DX è dotato di uno schermo da 9,7 pollici (il Kindle per "tascabili" ha uno schermo più piccolo, da 6 pollici) e memoria interna per 3,2 Gigabyte. Soprattutto, Kindle ha batterie che durano più di una settimana, la capacità di scaricare libri e giornali direttamente dalla rete di telefonia mobile (in standard Evdo-Cdma, che non è presente in Europa) e utilizza un display con tecnologia E-Ink.

La caratteristica dell'E-Ink o inchiostro digitale è quella di avere consumi bassissimi e una nitidezza d'immagine paragonabile a quella della carta stampata A differenza del monitor di un computer, l'E-Ink non ha una fonte di illuminazione e il forte contrasto permette di leggerlo all'aperto in pieno sole. Tuttavia, lo schermo ha una risoluzione limitata, in bianco e nero (con 16 toni di grigio) e con un ciclo di refresh molto lento che non consente di mostrare video o animazioni.

La versione DX di Kindle, dopo che a novembre 2007 era stata presentata la prima generazione di Kindle "normale" e a febbraio di quest'anno la seconda, arriva con una serie di alleanze ed accordi commerciali stipulati da Amazon. Infatti, oltre al mercato dei libri in formato digitale, Kindle è pensato anche per visualizzare documenti realizzati dal suo utilizzatore (con lo standard Pdf), giornali e riviste a cui abbonarsi e che si possono scaricare automaticamente ogni mattina, libri di testo scolastici e manuali tecnici per impieghi universitari o in stabilimenti di produzione e fabbriche in cui sia necessario avere la documentazione dei prodotti a portata di mano.

Fra gli accordi più significativi stipulati da Amazon per il nuovo Kindle DX, ci sono quelli con gli editori del Washington Post, il Boston Globe e il New York Times. L'obiettivo delle sperimentazioni che inizieranno questa estate è di commercializzare in formato digitale i quotidiani in aeree del Paese in cui non c'è una distribuzione fisica. È una mossa inedita e segna un vecchio sogni dei grandi editori di qualità degli Stati Uniti, paese in cui la stampa locale ha un ruolo preponderante rispetto a quella nazionale e in cui domina il modello delle grandi catene di piccoli giornali.

Il nuovo Kindle non si presenta però privo di difetti. Elevato il costo (489 dollari, rispetto al già costoso Kindle2 da 359 dollari), estremamente chiusa la piattaforma (i documenti dell'utente si possono caricare su Kindle solo inviandoli per email ad Amazon, che può anche far pagare un piccolo costo per la conversione) e molto limitata l'interattività con Internet. Si può accedere a un dizionario online e al popolare sito enciclopedico Wikipedia, ma non è prevista la possibilità di navigare il web o di utilizzare un software per la posta elettronica. La piccola tastiera alla base dell'apparecchio ha poi una funzionalità molto limitata, soprattutto serve per impostare le ricerche più che non per scrivere testi più lunghi.

Secondo gli analisti statunitensi del mercato editoriale, il vero punto di forza del Kindle DX sarebbe nella sua "chiusura" ad Internet. La piattaforma proprietaria realizzata da Amazon e simile concettualmente alla coppia iPod-iTunes di Apple, infatti, propone agli editori un modello di affari molto tradizionale. In pratica, vendere le singole copie o gli abbonamenti per giornali e libri direttamente in formato digitale, con un pagamento diretto dell'utente. Un sistema molto più lineare rispetto a quello del web, dove ancora non è stato trovato un modello di business universale per il settore dell'editoria.

Amazon non ha mai fornito i dati di vendita delle prime generazioni dell'apparecchio con schermo più piccolo, il Kindle originale per il quale sono peraltro già disponibili giornali e riviste in formato elettronico. Le stime esterne parlano però di circa 500mila Kindle venduti con una percentuale significativa delle vendite tramite il sito americano di Amazon dei libri disponibili.

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