20.1.16

Le mestruazioni sono una cosa seria


Un rituale durante la festa di Rishi Panchami a Kathmandu, Nepal, il 18 settembre 2015. Secondo la tradizione il bagno sacro purifica le donne dai peccati commessi nei giorni in cui hanno le mestruazioni.
  • 19 Gen 2016 15.33

Le mestruazioni sono una cosa seria

Igiaba Scego
Ogni mese spendo circa otto euro in assorbenti. Ho un flusso abbondante (per non parlare delle perdite premestruali) e i 18 pezzi di una confezione non mi bastano mai. Nella mia vita ho usato anche tamponi interni e pure quelli costano parecchio. Su ogni confezione pago come tutte l’iva – quella sui prodotti sanitari femminili – che è pari al 22 per cento. L’assorbente, il tampax o la coppetta vaginale non sono considerati beni essenziali. Non sono come il pane o un giornale, secondo lo stato italiano. Noi donne abbiamo il ciclo ogni mese, ma per il paese in cui vivo questo è un dettaglio. Come un dettaglio sono i crampi, quelle emicranie che ti staccheresti la testa a morsi, quel sangue che ti scorre tra le gambe. Un po’ come se tutto questo non fosse davvero importante per la nostra bella Italia.
Ed ecco che ogni mese ci cade addosso, direttamente sul portafoglio, quella maledetta iva al 22 per cento. Quando il leader della nuova formazione Possibile, Giuseppe Civati, ha depositato in parlamento un provvedimento per abbattere quel muro del 22 per cento ho fatto, come molte, i salti di gioia. Finalmente un provvedimento che aggiungeva le confezioni di assorbenti e in generale i prodotti igienico-sanitari tra i beni essenziali. Finalmente qualcuno, e per di più un uomo, ha pensato alle “mie cose”.
Appena l’iniziativa è stata annunciata Giuseppe Civati è stato travolto da una pioggia di sberleffi. Tanti i maschietti che hanno ironizzato sulla faccenda e molti, sempre maschietti, hanno giudicato iniquo il provvedimento.
In un tweet qualcuno si è spinto a dire:

Quispano @pa5quino
A @civati ! se la è la novità rossa a sinistra di @matteorenzi cominciamo male male.Idee su lavoro,casa,energia e tec ne abbiamo?

Insomma in rete e fuori la tampon tax è diventata una barzelletta.
Ma barzelletta non è, cari maschietti.
Mi rivolgo a voi perché noi donne già sappiamo che le mestruazioni sono una cosa seria. Lo sanno milioni di donne in Italia, e non solo, che ogni mese vivono la fatica (e sì, anche la gioia) di sanguinare.
L’attivista, voce del femminismo statunitense, Gloria Steinem negli anni settanta non a caso aveva scritto un saggio – ancora molto attuale – dal titolo If men could menstruate (Se gli uomini avessero le mestruazioni). Steinem scrive: “Cosa accadrebbe, per esempio, se di colpo, magicamente, gli uomini avessero le mestruazioni e le donne no? La risposta è chiara: le mestruazioni diventerebbero un invidiabile evento mascolino di cui vantarsi”.


Usa molta ironia Gloria Steinem, un’ironia amara, che mostra il divario profondo tra l’universo maschile e quello femminile: ed ecco che “sorgerebbe un nuovo istituto nazionale per la dismenorrea, voluto dal congresso; e i medici farebbero poca ricerca sugli infarti, di cui gli uomini non soffrirebbero grazie agli ormoni, ma si concentrerebbero sui crampi”. Oppure “Gli uomini si saluterebbero dicendo ‘Oggi ti vedo proprio bene’ e risponderebbero ‘Ci credo, ho le mie cose!’”.
L’ultimo tabù
“Gli uomini”, scrive Steinem, “convincerebbero le donne che il sesso è più piacevole in quel periodo del mese” e “I prodotti sanitari sarebbero forniti gratuitamente dal governo: ovviamente, alcuni uomini pagherebbero per il prestigio dato da marche celebri come i Tamponi Paul Newman o gli Assorbenti Muhammad Ali e ci sarebbero prodotti ad hoc tipo Per il flusso leggero da scapoli”.
Da destra a sinistra tutti a litigarsi le mestruazioni mascoline che naturalmente si trasformerebbero non solo nella faccenda più figa dell’universo, ma, come ribadisce Gloria Steinem, in uno strumento di potere.
Invece come sappiamo il ciclo mestruale è stato – ahinoi – demonizzato a più livelli. Tra battute e prese di distanza la donna mestruata è sempre stata considerata strana, da evitare, irritabile, a volte perfino un soggetto pericoloso.
Vi ricordate Carrie di Stephen King? Lì le prime mestruazioni della ragazza creano più di uno scompiglio e un evento naturale come il menarca è associato a Satana in persona. Il mestruo non piace, è un tabù, anzi forse è l’ultimo tabù.
La donna mestruata è considerata da parecchie religioni impura, addirittura in ebraico c’è la parola niddah per definirla. Niddah è di fatto la donna che ha avuto le sue mestruazioni e non ha svolto il mikveh, ovvero il rituale di purificazione. Nel Levitico 15:19-30 è infatti detto: “Quando una donna avrà i suoi corsi e il sangue le fluirà dalla carne, la sua impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera”.
Anche nell’islam dopo le mestruazioni la donna non prega e deve fare un bagno purificatore prima di compiere le preghiere canoniche. Ricordo ancora come in Somalia, il mio paese d’origine, la donna durante il ciclo era definita nijas, impura. Mia madre mi ha detto che tra i pastori nomadi tra i quali è nata, una donna era isolata in quei giorni e allontanata dalle pratiche quotidiane. “Ti chiamavano nijas e non potevi macellare le bestie o svolgere qualsiasi attività”. E anche chi oggi non considera la donna mestruata impura (penso all’occidente in cui vivo) ci tratta comunque come un soggetto altamente infiammabile.
Un felice sanguinamento
Insomma queste benedette mestruazioni ci sono, ma il mondo tende a parlarne il meno possibile e quando ne parla lo fa sempre sottovoce. Questo tabù di fatto accomuna tutti i patriarcati, da oriente a occidente. Forse sono differenti le modalità di azione, ma la discriminazione direi che è proprio la stessa. Ancora oggi, se ci fate caso, nelle pubblicità delle più grandi marche di assorbenti il rosso mestruale è bandito. Al suo posto appare nel nostro piccolo schermo casalingo un flusso blu, quasi trasparente, che non solo nasconde, ma rimuove qualcosa che in fin dei conti è solo parte della natura di ogni donna.
In India, pochi mesi fa c’è stata una protesta di donne per ribadire che loro sanguinano ogni mese e va bene così. Sembra ovvio ribadirlo. Ma nel subcontinente indiano il mestruo è un grandissimo tabù e niente è davvero ovvio quando si parla di mestruazioni.
Tutto è nato intorno al tempio Sreedharma Sastha di Sabarimal, uno dei più conosciuti e visitati del Kerala. Prayar Gopalakrishnan che ha preso in carico la gestione del tempio ha di fatto impedito l’ingresso alle donne in età fertile, perché non sapeva bene come distinguere le pure da quelle impure, ovvero le mestruate dalle non mestruate.
Il religioso indù ha riferito ad alcuni reporter locali che avrebbe potuto farle entrare solo se avesse avuto in dotazione un dispositivo simile al metal detector manuale da passare sul ventre delle pellegrine. Naturalmente queste affermazioni hanno mandato su tutte le furie le donne indiane e soprattutto quelle del Kerala. La studente Nikita Azad (già dal nome si capisce che è una tipa combattiva) ha lanciato una campagna su Facebook #HappyToBleed alla quale hanno subito aderito migliaia di donne in tutto il subcontinente. Messaggi, cartelli e perfino assorbenti sono stati usati come vessilli per rompere il tabù e cominciare finalmente a parlare di questo loro felice e naturale sanguinamento.
Non a caso molte ong si stanno specializzando in assorbenti
Un’altra donna ha portato lo scorso agosto le mestruazioni sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Il suo nome è Kiran Gandhi, anni 26. Kiran è diventata famosa per aver corso la scorsa maratona di Londra senza tamponi interni o assorbenti. Nel suo blog ha spiegato il doppio proposito che ha animato la sua iniziativa. Il primo era quello di mostrare alle donne che non c’è niente di cui vergognarsi nel sangue mestruale. Il secondo invece puntava a richiamare l’attenzione del mondo sulla difficoltà che hanno molte donne nel comprare gli assorbenti.
Motori dell’emancipazione femminile
Ci sembra facile, quasi automatico comprare un pacco dei nostri amati assorbenti sotto casa e usarli. Ma è un gesto che non sempre è così naturale. Me ne sono accorta ad Hargheisa, nella Somalia del nord, dove ero andata per partecipare a una fiera del libro. Lì un pacco di assorbenti costava quanto uno stipendio locale (a volte anche più). Dove poi, è bene ricordarlo, sono ancora in pochi ad avere uno stipendio regolare. Molte donne, e non solo in Somalia purtroppo, non hanno accesso a questi prodotti. Un imprenditore del luogo, che aveva messo sul mercato gli assorbenti/pannolini Nune (molto famosi in tante zone del corno d’Africa) mi ha detto all’epoca che “le mestruazioni sono un grosso tabù sia in Somalia sia nel Somaliland. Da noi le ragazze rilavano e riusano lo stesso assorbente mille e mille volte con il rischio altissimo di infezioni vaginali”.

A Bhaktapur, in Nepal, l’11 febbraio 2014, durante la festa Swasthani Brata Katha nella quale le donne che hanno le mestruazioni vengono isolate dagli altri fedeli. - Navesh Chitrakar, Reuters/Contrasto
A Bhaktapur, in Nepal, l’11 febbraio 2014, durante la festa Swasthani Brata Katha nella quale le donne che hanno le mestruazioni vengono isolate dagli altri fedeli.
Ricordo ancora la faccia seria dell’imprenditore, un giovane della diaspora somala nato negli Stati Uniti e tornato in Africa per rendersi utile. E di fatto si è reso utile. Per impedire che le ragazze smettessero di andare a scuola a causa del ciclo (molte infatti erano costrette a non uscire dai familiari o smettevano perché la vergogna di macchiarsi era insostenibile) si è inventato insieme a una ong locale una distribuzione gratuita di assorbenti da prelevare direttamente a scuola.
Hargheisa non è un eccezione, non lo è Mogadiscio e anche molte zone dell’India sono ancora in questa condizione. E non a caso molte ong si stanno specializzando in assorbenti.
Oggi gli assorbenti ci sembrano oggetti scontati, quasi banali. Ma sono stati uno dei motori dell’emancipazione delle donne. Le donne infatti per secoli hanno usato di tutto per assorbire il sangue mestruale che colava a fiotti tra le loro cosce. Per disperazione e per necessità si è ficcato lì sotto praticamente qualsiasi cosa. Dai papiri avvolti delle antiche egiziane a tamponi fai da te fatti con fiori di cotone, foglie, carta, muschio, lana e perfino pelli animali.
Poi sono arrivate le spugnette, gli stracci da cucina e per le donne più ricche gli avanzi di tessuto. E anche la mutanda come la conosciamo oggi non esisteva. Le donne si dovevano ingegnare ogni volta a fissare in maniera creativa quelle strane cose che si mettevano tra le cosce per impedite al flusso di uscire e macchiare. Ed ecco che tra spilli, calzoncini, corde di vario genere le donne di ogni tempo si sono attrezzate ognuna come poteva. Mia madre per fortuna sua ha avuto il menarca tardi, viveva già a Mogadiscio. Ma si ricorda di donne che facevano buche per terra e stavano lì per ore accucciate come cani. Mia madre è stata fortunata perché la sorella, la zia Faduma, era ostetrica e la sua dose di assorbenti al mese la riceveva gratuitamente. Ma non per tutte era così. “Molte mie amiche semplicemente non uscivano di casa”, mi ha detto.
A volte, però, parlare troppo di mestruazioni può portare non solo alle battute di bassa lega, ma addirittura alla censura
Anche in occidente alla fin fine l’assorbente è scoperta recente. Solo durante la prima guerra mondiale alcune infermiere hanno intuito che le bende di cellulosa che usavano per le ferite dei soldati assorbivano il flusso meglio del cotone. E da lì l’industria ha seguito letteralmente il flusso. E non smette di seguirlo ancora oggi.
Da qualche anno l’ex tennista Annabel Croft ha inventato una linea di lingerie per sportive. Molti prodotti sono dedicati alle tenniste e alle cavallerizze, braghettoni enormi quasi ottocenteschi, adatti per quei giorni lì. Annabel ha infatti confessato al Guardian che il ciclo l’aveva sempre preoccupata. Quella divisa sportiva delle tenniste che più bianca non si può e quelle gonne così corte erano un vero tormento. Come fare a non macchiarle? E poi un giorno la madre si è presentata con dei mutandoni enormi come un costume da bagno anni sessanta e Annabel è riuscita a superare il suo personale trauma da ciclo indossandoli e poi creando la sua linea di lingerie Diary Doll.
Forse è nello sport che il ciclo colpisce di più le donne. Le sportive ai nostri occhi sono semidee pronte a ogni battaglia come delle moderne amazzoni, niente può spaventarle. O preoccuparle. E invece hanno il ciclo anche loro. Ogni donna che ci viene in mente, da Federica Pellegrini a Serena Williams, sanguina in quei giorni. E il ciclo, ovvero la stanchezza e la spossatezza che arrivano con le mestruazioni, colpisce pure loro. Ma in poche erano autorizzate ad ammetterlo. Almeno finché non è arrivata Heather Watson che ha candidamente ammesso in televisione che è stata tutta colpa del ciclo se ha perso gli Open d’Australia.
Evviva, qualcuna finalmente si azzardava a confessare a voce alta questo segreto di Pulcinella conosciuto dalle donne di ogni epoca.
A volte, però, parlare troppo di mestruazioni può portare non solo alle battute di bassa lega (come quelle che stanno perseguitando in queste ore il povero Giuseppe Civati), ma addirittura alla censura.
È successo a Rupi Kaur, una poeta pachistana che vive in Canada. La foto incriminata mostra Rapi Kaur sdraiata sul letto di casa e con il pantalone macchiato dal sangue mestruale. L’istantanea apparteneva a una serie di foto artistiche, Period (che l’artista ha realizzato con la sorella Prabh) ed è stata censurata per ben due volte da Instagram. Rupi Kaur si è detta meravigliata dall’eco e dal dibattito creato dal lavoro che lei e Prabh hanno messo in piedi. Non immaginava quanto il tema fosse tabù ancora anche in occidente. Chiaramente, dopo il clamore creato dagli articoli e dagli utenti inferociti per il trattamento riservato alle due sorelle, Instagram ha presentato le sue scuse e ha rimesso online la foto. Ma questo ci dice che una parità mestruale non l’abbiamo ancora ottenuta.
Io per esempio da piccola chiamavo il flusso mestruale Guglielmo, perché avevo un testo di letteratura italiana, il Guglielmino Grosser, con la copertina di un rosso acceso
Una mia amica mi ha confessato che la parola “mestruazioni” la mette a disagio. “Non la uso”, mi ha detto, “provo un po’ di vergogna”. E non è un caso isolato. Ogni donna pur di non chiamare mestruazioni le sue “cose” si è inventata dei nomignoli buffi ed evocativi per celare il misfatto.
Ed ecco che le nostre nonne dicevano “è arrivato il marchese”, perché pare che questi poveri marchesi usassero palandrane rosso fuoco come abito da cerimonia. D’altronde giubbe rosse era un altro nome dato al flusso mestruale. Io, per esempio, da piccola chiamavo il flusso mestruale Guglielmo, era tutto un “mi ha chiamato Guglielmo” o “Domani mi viene a prendere Guglielmo”. Perché avevo un testo di letteratura italiana, il Guglielmino Grosser, con la copertina di un rosso acceso. Ci vergognavamo e ci vergogniamo ancora perché la società ci ha inculcato un’idea insana di sporcizia e peccato legato a questo evento mensile.
Nessuno, di fatto, ci ha mai detto che il ciclo fa parte di noi come l’aria che respiriamo o come il battito delle nostre ciglia. Ed ecco che per anni siamo sgattaiolate furtive, come se fossimo Arsenio Lupin, per buttare nella spazzatura l’assorbente incriminato, lontano dallo sguardo dei maschi di famiglia – siano essi padri, fratelli o mariti. Insomma noi donne, cari maschietti, siamo vissute in un incubo creato dai vostri pregiudizi.
Invece di deridere Giuseppe Civati sarebbe ora che uomini e donne si mettessero insieme per superare questo stato di cose e anche per trovare una soluzione all’inquinamento di cui anche miliardi di assorbenti sono colpevoli. Cosa fare? Dalle coppette vaginali agli assorbenti biodegradabili il mondo si sta attrezzando.
Quindi smettetela di ridere e fatevi venire qualche buona idea per tener pulito insieme a noi il pianeta.
E ricordatevi che le mestruazioni sono una cosa seria.
Molto seria. Senza di loro forse non ci sarebbe la vita. Probabilmente nemmeno la vostra.

10.1.16

Il corpo delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro terra

Lo scrittore algerino sui fatti di Colonia: “Del rifugiato vediamo lo status, non la cultura. E così l’accoglienza si limita a burocrazia e carità, senza tenere conto dei pregiudizi culturali e delle trappole religiose”
Nel mondo di Allah il sesso rappresenta la miseria più grande
L’islamismo è attentato a quel desiderio che esplode in Occidente

di Kamel Daoud.

Cos’è accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli aggressori e come di sicuro come la pensano gli occidentali.
Il “fatto” in se” è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato, terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le “nostre” donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano contro l’accoglienza ai rifugiati. I colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Il “fatto” ha già riaperto il dibattito sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo “accogliendo o asserragliandosi”.
Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali proiettano pregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna.
In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna — fondamentale per la modernità dell’Occidente — rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità.
Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: «La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere».
È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della “virtù”.
Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente (quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza” stessa della sua modernità — laddove l’aggressore non ha visto altro che un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.
Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è “pubblico” e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa semplicemente distribuire “carte” ma richiede di accettare un contratto sociale con la modernità.
Nel mondo di “Allah”, il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri “fedeli”, evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka. L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché “da noi” non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza.
Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri, sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di uccidere.
I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei “valori” da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico.

Tutti i branchi dei maschi

Da quando le donne occidentali e italiane sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni?
di Natalia Aspesi

Quella notte le donne venivano aggredite, spogliate, picchiate, derubate.
Venivano derise da un muro di maschi stranieri organizzati, e intanto ai maschi poliziotti tutto sembrava un gioco festoso da non interrompere, e i maschi cittadini che presumibilmente accompagnavano le donne o comunque attraversavano la piazza come loro preferivano guardare dall’altra parte, evitando di intervenire a difendere le vittime assalite da maschi migranti e apparentemente non armati, quindi pericolosi ma non troppo.
Quella notte, a Colonia, ma anche altrove, le donne si sono ritrovate completamente sole, tra maschi violenti, maschi indifferenti, maschi spaventati. Di nuovo dentro la loro storia secolare di isolamento, impotenza, sopraffazione, abbandono, pericolo, che ogni tanto sembra finita e invece non lo è mai: probabilmente ancora una volta usate per consentire a un branco di maschi di disprezzarle e rimetterle al loro posto di sottomissione e irrilevanza, e a un altro branco di maschi di ergersi, dopo i fatti e solo a parole, a indispensabili protettori, a eroici paladini della loro libertà, che per secoli hanno ostacolato e ostacolano tuttora; e a un altro branco ancora a servirsene come pedine di una sporca politica.
Ma da quando le donne, e si parla solo di quelle occidentali, e in particolare le italiane, sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni? Ci sono frammenti di realtà che rinascono dalla memoria individuale o scopri in un film: e per esempio negli Anni ’50 il ricordo che se il parto metteva a rischio la vita della madre o del bambino, era il marito che doveva scegliere chi poteva vivere, ed era sempre il bambino. Oppure, nel recente grande film tedesco Il labirinto del silenzio, un giornale radio della fine degli Anni ’50 informa che da quel momento le donne, se sposate, potranno lavorare solo col consenso del marito. Piccoli omicidi, minuscoli ostacoli, dentro un mondo di esclusione e impotenza delle donne, di supremazia e potere degli uomini.
Certo le donne fanno i ministri e i capi di Stato, spesso benissimo ma è sempre non sulla loro capacità politica ma sul loro corpo di donna che gli avversari l’attaccano: culona, non la scoperei mai, lesbicaccia, cesso eccetera. Gli attacchi sul web contro i pensieri delle donne, metti povere loro che non gli piaccia Zalone e lo mettano su Facebook: le minacce di morte sono il meno, e i più violenti verbalmente, se le avessero davanti, forse strapperebbero loro gli slip come a Colonia.
Anche le donne occidentali non sono quiete da nessuna parte, in piazza le assaltano gli immigrati ma spesso il branco è del paese, e anche in casa devono stare attente, gli stessi loro uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccar loro la testa.