24.8.05

Ultime nuove su una leggenda in pelle e ossa

Si vocifera che la causa originaria dell'avversione nutrita da Thomas Pynchon per le macchine fotografiche stia nei suoi due incisivi particolarmente sporgenti, che lo farebbero somigliare a una sorta di Bugs Bunny. Vero o meno, lo scrittore è stato al gioco
Uno squarcio nella riservatezza del grande recluso si era già aperto quando la sua agente vendette a un collezionista di feticci le centoventi lettere dello scrittore. Che nel gennaio 2004 decise di svelare il suono della sua voce trasformandosi in un cartone dei Simpsons
TOMMASO PINCIO
Esserci o non esserci. Concedersi senza remore al lettore per fare di sé il protagonista assoluto dei propri libri o nascondersi, invece, trasfigurandosi in personaggi immaginari, pseudonimi elusivi o esistenze rigorosamente appartate? Ecco un dilemma che uno scrittore non può aggirare tanto facilmente. Stabilire in quali forme e misura, e soprattutto se apparire è il tavolo sul quale gli scrittori spesso si giocano ciò che hanno da raccontare. Tutt'altro che rari sono i casi come quello dell'iniziatore del genere poliziesco in Giappone, Hirai Tari, il cui pseudonimo Edogawa Rampo significa «quattro passi lungo il fiume Edo» ma si pronuncia «Edgar Allan Poe». Da qualunque parte si voglia considerare il problema, una cosa è certa: l'identità tocca nel profondo un nervo particolarmente esposto della letteratura. Altrettanto indubbio è che nessuna riflessione al riguardo può evitare di soffermarsi su Thomas Pynchon, colui che più di ogni altro nel nostro tempo ha incarnato la figura dello scrittore invisibile. Ma siccome la completa sparizione di un individuo è operazione estremamente complessa se non impossibile, nemmeno a Pynchon è riuscito di cancellare tutte le tracce. A parte le fin troppo note foto che lo ritraggono ancora ragazzo nei panni di studente universitario e marinaio, uno squarcio significativo nella cortina della sua riservatezza è stato aperto da Candida Donadio, suo agente dal 1963 al 1982.

A onor del vero gli squarci sono ben più di uno. Centoventi per l'esattezza perché tante sono le lettere che lo scrittore scrisse alla Donadio nel corso degli anni e che lei ha pensato bene di vendere per una ragguardevole somma a Carter Burden, uomo d'affari, politico, mecenate e collezionista di feticci letterari. Il grande recluso ovviamente non ha gradito affatto il gesto e per bocca del proprio avvocato ha mandato a dire che non si è mai sentito di «un agente che venda lettere di un cliente salvo dopo la morte di questi».

Il destino ha voluto che il primo a morire fosse Burden. Le lettere sono state così donate alla Pierpont Morgan Library che le ha messe a disposizione degli studiosi. Coloro i quali ottengono il permesso di visionarle scoprono che Pynchon è anche un essere umano oltre che un genio letterario. In altre parole, scoprono una persona che convive con rabbie, passioni e insicurezze in tutto e per tutto simili a quelle di chiunque altro; scoprono che perfino gli scrittori invisibili possono essere in ansia per le prosaiche faccende che assillano tanti scrittori visibili: contratti, diritti d'autore, recensioni e via discorrendo.

Che Pynchon fosse umano, magari perfino troppo umano, non dovrebbe sorprendere nessuno. Tuttavia la sola idea che un simile materiale epistolare esista e sia consultabile ha un che di stonato. Carne e ossa sono orpelli che non addicono a una leggenda. E Pynchon lo è, leggenda. Si pensi a come iniziò il mito della sua irreperibilità. Era il 1963 e Time Magazine stava lavorando al solito articolo sui più brillanti scrittori della nuova generazione di allora. Giustamente si pensò che un posto nell'olimpo dovesse essere riservato a Thomas Pynchon il quale aveva appena pubblicato un romanzo molto apprezzato dalla critica, V. C'era pero un ostacolo: il giovane autore non voleva assolutamente essere fotografato. Sembrava vivesse a Città del Messico e che la gente del luogo gli avesse affibbiato il soprannome di Pancho Villa per via dell'enorme paio di baffi con i quali egli intendeva nascondere se stesso e due incisivi particolarmente sporgenti. In un modo o nell'altro il fotografo del Time riuscì rintracciarlo ma se lo fece scappare sul più bello. Con la destrezza di un consumato escapista, Pynchon saltò all'improvviso su un autobus dileguandosi tra le montagne messicane.

Per le sue modalità, questa fuga richiama alla memoria le scene di certi cartoni animati e in fondo è proprio così che va intesa. Ciò che rende unica la riservatezza di Pynchon non è che sia tanto estrema bensì che sia diventata col tempo una specie di forma d'arte parallela alla scrittura, un'arte che ha molto da spartire con il mondo dei cartoni animati. Si vocifera infatti che la causa originaria dell'avversione per gli obiettivi delle macchine fotografiche vada ricercata proprio nei due incisivi particolarmente sporgenti. Lo scrittore avrebbe ritenuto di non essere socialmente presentabile in quanto quei due denti da castoro lo facevano somigliare a una specie Bugs Bunny dall'aria non troppo sveglia. Poco importa stabilire se e in quale misura simili dicerie corrispondano al vero. L'essenziale è che Pynchon sia stato al gioco e che abbia contribuito ad alimentarlo disseminando la propria opera di elementi quali il cane parlante di Mason & Dixon o i rocamboleschi inseguimenti alla Gatto Silvestro e uccellino Titti di Vineland. Ma è nell'introduzione ai racconti giovanili di Un lento apprendistato che - parlando in prima persona - Pynchon diventa inequivocabile: «Il mio atteggiamento è il seguente: voglia il cielo che i cartoni animati di Bip Bip non svaniscano mai dagli schermi».

Era perciò praticamente inevitabile che l'unica apparizione pubblica di Pynchon dovesse avvenire in forma di pupazzo disegnato. Il grande evento risale al gennaio 2004 e ha avuto quale teatro la Diatriba di una massaia infuriata ovvero una puntata dei famigerati Simpsons in cui Marge è alle prese con ambizioni di scrittrice. Dopo avere partorito un improbabile polpettone ispirato a Moby Dick che ha per titolo Il cuore fiocinato, la moglie di Homer deve risolvere il problema di trovare qualche autore famoso disposto a sponsorizzarla. Entra così in scena lui, il grande recluso. Il volto coperto da una busta di carta marrone con due buchi in corrispondenza degli occhi, Pynchon telefona a Marge proponendole di usare la seguente frase per il lancio pubblicitario: «Thomas Pynchon ha amato questo libro almeno quanto ama le macchine fotografiche». Neanche il tempo di mettere giù il ricevitore ed ecco l'autore sbracciarsi in direzione di alcune persone che sfrecciano in automobile davanti alla sua abitazione. «Ehi voi», urla. «Fatevi una foto in compagnia di uno scrittore inavvicinabile. Oggi l'autografo è gratis. Fermi, non andate via».

È solo in parte una caricatura perché a prestare la voce a questo Pynchon simpsioniano è lo stesso autore. Trattasi dunque di autentico cammeo, seppure parziale. Dopo quasi mezzo secolo di onorata ed elevata letteratura, il grande recluso si è finalmente deciso a svelare una pezzo di sé al pubblico. Ha fatto sentire tutti che suono ha la sua voce trasformandosi in un cartone animato, accettando di buon grado di entrare nel Ghota delle celebrità affiliate alle creature di Matt Groening. Il che è certamente un modo per ironizzare sul fatto che rimanere nell'ombra può rivelarsi una strategia promozionale ma è anche un modo che la dice lunga sul fatto che uno scrittore - si mostri o no - rimane comunque uno scherzo di natura o, se preferite, di letteratura.
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12.8.05

Fuori mercato

MARIA TERESA CARBONE
Nel 2002, l'ultimo anno per cui sono disponibili dati completi sulla situazione dell'editoria italiana, sono usciti nel nostro paese circa 53.000 titoli fra novità e ristampe, per un totale di 254 milioni di copie che, dopo essere state stampate, si sono rovesciate sui banchi delle librerie come una gigantesca slavina di carta. Il rapporto dell'ufficio studi dell'Associazione Italiana Editori (da cui queste cifre sono state prese) si affretta a sottolineare che - nonostante l'apparenza - il numero dei titoli pubblicati in Italia non solo non è esagerato, ma anzi ci pone agli ultimi posti della classifica europea: 0,95 titoli per mille abitanti pubblicati in Italia contro 0,97 in Francia, 1,01 in Germania, 1, 45 in Svezia e addirittura 1,60 in Spagna e 1,85 nel Regno Unito (anche se, nota magnanimo il rapporto, la diffusione dello spagnolo e dell'inglese rende difficile il confronto). Dietro di noi, per lo meno nella vecchia Europa dei Quindici, ci sono soltanto il Portogallo e la Grecia, che pubblica 0,62 titoli per mille abitanti. Fin troppo facile obiettare che, in un paese dove - sono sempre i dati dell'Aie - legge «almeno un libro non scolastico l'anno» soltanto un italiano su due (il 52,9 per cento della popolazione con più di sei anni), un aumento dei titoli in commercio può risultare rischioso, se alla crescita della produzione editoriale non si affianca una seria politica pubblica di incentivo alla lettura attraverso sostegni alle scuole e alle biblioteche. Quello che l'indagine dell'Aie non dice, infatti, è quanto succede dopo che questa imponente massa cartacea è approdata in libreria: quante, fra le novità più o meno luccicanti e incellophanate proseguiranno lungo il loro cammino e finiranno - come dovrebbe essere, o per lo meno come si augurano gli editori - sugli scaffali delle biblioteche di casa? e quante invece saranno costrette, dopo un breve soggiorno sui banchi, a ritornare malinconicamente al mittente negli scatoloni delle rese editoriali?

Il problema è che oggi nessuna libreria italiana, neanche il più sterminato megastore, è in grado di contenere tutti i titoli in commercio, e questo fatto, se da un lato impone naturalmente scelte drastiche (che nella maggior parte dei casi premiano i best-seller, veri o presunti, a detrimento dei titoli proposti dalle sigle meno «muscolose»), d'altro lato accorcia sempre di più la vita di un volume in libreria. Ancora fino a pochi anni fa una novità poteva rimanere visibile sui banchi due o tre mesi, mentre oggi si è calcolato che la durata media di esposizione di un nuovo titolo si aggiri intorno ai trenta giorni.

Succede così sempre più spesso che un libro, anche recente, scompaia. A volte rimane in catalogo, ma è di difficile reperimento (e qui spesso si rivelano preziose le piccole librerie indipendenti - purtroppo sempre più rare - che, a differenza della maggior parte dei megastore, continuano ad attivare in modo relativamente efficiente sistemi di ordinazione per i loro clienti). In altri casi, cambia circuito, finisce nei punti-vendita dei remainders, o nei cataloghi di librerie per corrispondenza o in rete, in attesa di una possibile riscoperta: pochi oggi se ne ricordano, ma i primi libri di Ian McEwan o di Milan Kundera o (per citare un caso più recente) dell'ultimo premio Nobel per la letteratura, l'austriaca Elfriede Jelinek, sono passati per il purgatorio dei «libri a metà prezzo». O infine, e accade più di frequente di quanto non si pensi, scompare per davvero: viene mandato al macero, carta che ritorna a essere solo ed esclusivamente carta.

A questi libri «introvabili» - testi vecchi e nuovi, a volte piccoli (o grandi) classici dimenticati - dedichiamo lo spazio che si apre oggi e che continuerà nelle prossime settimane, attraverso la proposta di volumi e di autori che meritano di essere riletti, o letti per la prima volta anche a distanza di anni dalla loro pubblicazione. È un invito agli editori a non inseguire solo le novità e a non trascurare il loro catalogo, che per una casa editrice degna di questo nome dovrebbe rappresentare il patrimonio più importante. Ma è anche un invito ai lettori a non impigrirsi e a non accettare solo quello che passa il mercato.
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10.8.05

Karl Marx Show

Il Moro prossimo venturo
«Karl Marx Show», romanzo picaresco sulla famiglia Marx ai tempi del crollo del Muro
AUGUSTO ILLUMINATI
Il Moro si aggira per Londonistan, non troppo sorpreso, dato che aveva visto dilagare i ristorantini pakistani intorno a Dean Street e più tardi, durante i picnic intorno agli Hampstead Ponds, mica tanto lontano dall'ultima sua casa e dall'estremo domicilio cimiteriale di Highgate, si era imbattuto in svariate famigliole con turbanti, fazzolettoni, barbe e spiedini. I confini passavano dentro tutta la città, probabilmente all'interno di ogni generazione di immigrati. Quel che gli riusciva nuovo e inquietante, dopo essersi spinto con il tube fino a Finsbury Park, era il visibile manifestarsi di un'opposizione radicale all'Impero (vittoriano? hardt-negriano?) in forme decisamente sgradevoli. Non era il solito discorso del vecchio nemico Bakunin e peggio ancora dei suoi seguaci nichilisti alla Neciaiev, ma addirittura un fanatico terrorismo religioso, che appariva quasi l'unica alternativa effettiva al trionfo del mercato capitalistico e allo zelante allineamento delle aristocrazie operaie - se ancora operaie potevano chiamarsi. Che fine aveva fatto l'oppio dei popoli? - l'altro, quello fumabile e iniettabile continuava a fluire tranquillamente dagli stessi paesi da cui provenivano attentatori, dirottatori, smerciatori e ristoratori etnici. Ancora una volta le sue previsioni erano smentite e le analisi confermate.

Il capitalismo andava malissimo e produceva catastrofi sempre maggiori, ma i suoi avversari (di becchini non era proprio il caso di parlare) non erano affatto quelli che lui aveva auspicato e in parte anche organizzato al tempo della I e II Internazionale. Anche le più simpatiche moltitudini arcobalenate lo lasciavano perplesso, al pari del maggio francese: un casino come la Comune di Parigi e per di più disarmate. Quei clowns poi a Gleneagles, proprio come il pagliaccio Bakunin, il suo alter ego a spasso nel tempo...

Questo sarebbe forse oggi il supplemento di riflessioni del Marx incazzato e curioso rispetto alla stesura 1993 del libro di Juan Goytisolo, La saga de los Marx, oggi ben tradotto da Chiara Vighi (unico rilievo: l'improbabile moscovita rue Arbat di p. 46) con il titolo Karl Marx Show per L'ancora-Cargo (Napoli, pp. 199, € 12,50). Marx e la numerosa e tribolata famiglia (compresa Helena Demuth, ossia la fedele Lenchen) viaggiano nel tempo, assistono ai misfatti staliniani e brezhneviani, alla perestrojka, al crollo del muro, agli sbarchi degli albanesi illusi di trovare le ricchezze di Dallas in Puglia, alle controversie sul fallimento del marxismo e del socialismo reale, ma constatano anche il dilagare della miseria e dell'oppressione nel terzo mondo, il regresso economico e culturale dell'est europeo, le terrificanti migrazioni di fine secolo.

La soap La baronne rouge sulla vita di Jenny von Westphalen, la nobile e sfortunata moglie di Marx, seguita da un dibattito con specialisti assortiti e interrotta da una nuova invasione di albanesi, interseca e conclude le peripezie del romanzo, prima che la parola sia lasciata all'appassionata testimonianza di Lenchen, apologia dell'uomo Marx più che del pensatore e del politico.

L'idea conduttrice di Goytisolo è che il filosofo di Treviri ha azzeccato le denuncie e fallito le profezie: proprio quando il tracollo del socialismo reale ha screditato la dottrina marxista, il trionfo del monetarismo e della libera impresa ha riportato il mondo alle condizioni di sfruttamento selvaggio e anarchico della rivoluzione industriale descritta nel Capitale, con l'aggravante di conflitti tribali e rigurgiti nazionalistici che nel XIX secolo si erano attenuati, almeno in Europa. I soprusi e i crimini dei sistemi che al marxismo più o meno speciosamente si richiamavano e che in qualche modo l'autoritarismo di Marx stesso aveva prefigurato passano in secondo piano rispetto ai disastri di un mondo sconvolto dalla globalizzazione e dal pensiero unico, dalla banalizzazione relativistica e dalla devastazione mafiosa e ambientale. Crollano le statue, si bruciano le edizioni di stato, mentre le antiche analisi vengono spaventosamente convalidate da guerre e nuove povertà. I rivoluzionari devono riconoscere che il loro tempo è concluso e che se ne apre un altro, diversamente rivoluzionario che però li esclude.

A questo sparigliamento delle certezze corrisponde la forma ucronica e picaresca del romanzo, il suo saltare dalla fine ottocento agli anni `80 e `90 del secolo successivo, dalle mitologie e miserie rivoluzionarie alle mitologie e miserie mediatiche, dalle lettere e resoconti sulla vita londinese della famiglia Marx agli approcci postmoderni, femministi e televisivi che ne destrutturano e strumentalizzano le vicende per fare cassa o sbandierare ideologie alternative. Lo spettacolo ha risucchiato e neutralizzato gli orrori della storia, disattivando ogni possibile giudizio in un perpetuo Porta a Porta. A volte il gioco riesce, a volte meno, e il libro è fatto sia per dispiacere al lettore marxista ortodosso sia per rovinare il progetto (nella finzione) dell'editore, che avrebbe voluto un romanzo scandalistico e denigratorio. Che naturalmente è uscito ed è stato ampiamente tradotto, ma per esempio in Italia appare almeno un decennio dopo le versioni inglese e francese, sebbene il suo autore non si possa dire certo sconosciuto alle mode dei passati decenni e magari oggi, con la sua attenzione alle tragedie balcaniche e al mondo islamico, potrebbe offrirci qualche utile suggerimento.
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7.8.05

Istantanee di scrittura

«Copyleft» a cura di Girolamo Grammatico
ERNESTO MILANESI
Copyleft fino in fondo: l'antologia di testi narrativi e poetici appena pubblicata da Alberto Gaffi Editore (pp. 192 pagine, euro 7) si può scaricare liberamente dal sito dell'editore romano, riprodurre in libertà, diffondere in rete. Stampata con carta ecosostenibile, la raccolta ha anche il pregio di sostenere «Terre di mezzo», il progetto dei senza fissa dimora. L'agile volume con la copertina verde mela della collana Evasioni riunisce le esperienze letterarie che sono il frutto della quarta edizione del MArteLive di Roma: «un contesto informale, distante dalla fredda perfezione dei momenti istituzionali, ma forte dell'artigiana capacità dello stare insieme», sottolinea nell'introduzione Girolamo Grammatico, che ha curato la versione editoriale del ciclo di nove appuntamenti. «I nostri reading - scrive ancora Grammatico - si sono svolti la sera, fra birra e musica, tra la stanchezza del giorno e l'ambiguità della notte, tra l'idea della letteratura e la voglia di viverla».

Storie, racconti, suggestioni, spunti, narrazioni che sgorgano naturalmente da ciò che il sottotitolo definisce come «istantanee dal sommerso letterario». Copyleft muove dalla consolidata riflessione di Wu Ming 2 («Le storie sono di tutti e nessuno deve poterne bloccare la libera diffusione») ed esplora l'orizzonte con i contributi che allargano i cerchi del sasso lanciato nello stagno dal collettivo bolognese.

Girolamo De Michele condensa in sei pagine la storia che «il Togliatti» dipana avvitando il silenziatore alla pistola, mentre Saverio Fattori con Monica Mazzitelli trovano una soluzione narrativa più ampia nel racconto «In carcere le notti passavano lente». Per i seguaci della newsletter Giap! non sono certo novità la favola dei trecento boscaioli dell'imperatore o l'intervista sulla strategia del «copyleft» con Wu Ming 2, ma nel ventaglio dell'antologia rientrano anche pagine capaci di confermare la vitalità delle nuove generazioni. Sono i ragazzi nati all'inizio degli anni Settanta che ora si misurano con il mondo delle parole, come il romano vero Claudio Morici e quello d'adozione Michele Governatori oppure il siciliano Fabrizio Pizzuto. Ma Copyleft si apre anche con i lampi dei versi di Mauro Pettorruso alle prese con la filosofia e la medicina, il volontariato sociale e una vita in bilico. E regala il dialogo notturno con il colombo Gu-Gu dell'avvocato di Pola (ed ex ufficiale della marina) Drazan Gunjaca, alle prese con l'eredità del conflitto jugoslavo, perfino di fronte al suo singolare interlocutore.

Dentro Copyleft si trovano anche sorprendenti variazioni. Come il «manuale per giovani borghesi che vogliono apparire ribelli» di Paola Guagliumi oppure la «Lapa» che il protagonista rincorre dentro le pagine firmate da Mauro Mirci, altra voce narrante della Sicilia. A sfogliare i vari testi, questi ragazzi trasmettono al lettore un po' della loro passione. E, soprattutto, non sono un codice a barre.
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1.8.05

Quattro tendoni per la Rete

A Liempde, in Olanda, «What the Hack», il raduno hacker più importante d'Europa
RICCARDO BAGNATO
Tempi duri per il paese dei tulipani. Dopo l'omicidio del leader dell'estrema destra Pim Fortuyn nel maggio del 2002 e del regista Theo Van Gogh nello scorso novembre. Dopo la crisi di governo, il no degli olandesi alla costituzione europea e la partecipazione militare alla guerra in Iraq, il paese che ha fatto della tolleranza la propria bandiera si appresta infatti ad approvare un pacchetto sicurezza da cui Internet, e in particolare il movimento hacker olandese, potrebbe uscire ulteriormente mortificato. Ed è in questo clima che si sta svolgendo il raduno hacker europeo «What the Hack» (un gioco di parole fra «what the heck», che cavolo, e la parola hacker) nei pressi di Liempde, vicino alla città di Eindhoven. Qui, su quasi 10mila metri quadrati di campo hanno piantato la propria tenda oltre 2000 appassionati, al di sotto delle previsioni e in leggera flessione rispetto al precedente appuntamento di quattro anni fa a Twente, sempre in Olanda. Quattro tendoni da circo ospitano gli oltre 50 seminari, dedicati soprattutto alle tecniche di sicurezza informatica e allo sviluppo del free software, e dove l'ha fatta da padrone la presentazione della versione Gnu/Linux chiamata Ubuntu, la più utilizzata (insieme alla storica Debian) da chi, sulle amache, per terra, nei tedoni o nella propria tenda si è connesso alla rete via cavo o senza fili.

L'hanno chiamata la «Woodstock degli smanettoni», ma in realtà, grazie alla perfetta organizzazione logistica e a un programma di conferenze estremamente variegato, il clima che si respira è quasi accademico, e non potrebbe essere altrimenti. Fra i partecipanti, infatti, la maggior parte non ha finito gli studi, molti sono ricercatori, o programmatori coinvolti direttamente nell'organizzazione. Come Rudi Cilibrasi, che però, qui a Liempde, non è venuto a parlare di software o algoritmi, bensì di epatite C. Newyorkese, programmatore senior del kernel di Linux e fino al 2000 dipendente Microsoft, oggi dedica il proprio tempo e le proprie competenze perché i medicinali contro l'epatite C, di cui è affetto, non siano coperti da copyright (www.hcvaction.org). Oppure come Felix, 22 anni, studente all'università di Bochum in Germania, che è venuto a Liempde dopo essere stato alla conferenza hacker tedesca «CCC» a Berlino lo scorso dicembre. «Qui ci sono più partecipanti e soprattutto l'evento è più internazionale, molti americani, ed europei da tutti i paesi». Assenti giustificati gli asiatici, indiani e pakistani in primis, noti per essere eccellenti programmatori. «Ci sono altri raduni molto importanti anche in India» dice Felix «e forse per questo non sono qui». A questo si può solo aggiungere che, a guardare con quali computer sono venuti la maggior parte dei partecipanti, ad ascoltare le loro storie e i loro progetti, stiamo parlando di una fascia previlegiata di persone, il cui impegno civile però non è venuto meno, anche a fronte di buoni guadagni. Così, per esempio, è nato il progetto MultimedijaIniinsitut di Zagabria, in Croazia, (www.mi2.hr), presentato da Nenad Romic-Marcell, da cui, due anni fa, è stato finanziato lo sviluppo di un gestionale per organizzazioni non governative. «Attualmente siamo rimasti senza fondi» dice Nenad «ma siamo fiduciosi perché abbiamo visto che questo software serve, è utile, e lo chiedono in molti. Per ora siamo alla prima versione, ma speriamo di poterlo terminare per il 2006». Il problema è che «in Italia siamo molto indietro e non si investe nel futuro» aggiunge Jaromil, programmatore italiano trasferitosi in Olanda «si va avanti al risparmio, quando invece bisognerebbe rischiare».

A Liempde, infine, non poteva mancare il mondo dei blogger, che qui reclamano uno spazio e un ruolo nel mondo dell'informazione, accusato di essere vittima delle multinazionali e della pubblicità e per questo di nascondere la verità sulla guerra e sul terrorismo. Vero o falso, il tema sembra comunque ripercorrere ogni presentazione o incontro, tanto che lo stesso «What the hack» ha rischiato di non aver luogo a causa delle preoccupazioni dei sindaci delle città vicine che, a giugno, avevano revocato il permesso di utilizzo del suolo pubblico. «E' stato un fraintendimento» dice Rop Gonggrijp, fondatore della manifestazione «tutto è stato chiarito e ora si sta svolgendo al meglio».
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