7.6.09

Il voto troppo tiepido per l’Europa

Con l’Europa ci suc­cede un po’ quel­lo che succedeva a Sant’Agostino col tempo: se non gli chie­devano cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di apparte­nenza all’Europa — a una civiltà comune e ben di­stinta non solo da quelle di altri continenti, Asia o Africa, ma anche, sia pure in modo assai più sfuma­to, da quella americana sua discendente — non si lascia definire. Non certo soltanto, ma forse anche per questo il voto per il Parlamento Europeo, no­nostante la campagna elet­torale, è generalmente eu­roscettico. È un voto tiepi­do, perché si elegge un Parlamento che non è pro­prio veramente tale, nella pienezza dei suoi poteri; nel quale in linea generale non si varano le leggi da cui più dipende il nostro destino. Gli eletti non po­tranno decidere, almeno direttamente, se paghere­mo più o meno tasse, se potremo fare il testamen­to biologico o no, se la no­stra Costituzione sarà o no sfregiata.

In Italia ci si interessa al­le prossime elezioni euro­pee pensando non tanto al­l’Europa, quanto alle riper­cussioni che esse avranno sulla politica interna del nostro Paese. Pochi pensa­no a ciò che, nonostante i limiti che purtroppo vinco­lano il Parlamento Euro­peo, gli eletti possono co­munque fare in tanti setto­ri, promuovendo o ostaco­lando misure di grande im­portanza, lavorando al compimento dell’Unione Europea, che prima o do­po — piuttosto dopo che prima, purtroppo — do­vrà divenire la nostra più forte realtà e i cui poteri si spera saranno un bel gior­no più importanti, per tut­ti, di quelli dei singoli go­verni nazionali, così come oggi il governo dell’Italia mi interessa più di quello della mia pur amata Regio­ne Friuli-Venezia Giulia.

Ma pochi pensano real­mente con passione all’Eu­ropa, come invece pensa­vano e sentivano i suoi pa­dri fondatori. In un artico­lo uscito l’1.5.2009 sul «Pic­colo », Ferdinando Camon riportava, ad esempio, al­cune dichiarazioni che il ministro Brunetta avrebbe rilasciato a una Miss Vene­to poi non ammessa fra le candidate al Parlamento: secondo tali dichiarazioni, il Parlamento Europeo «non conta niente». L’af­fermazione attribuita al ministro Brunetta è impor­tante, perché sembra riflet­tere un atteggiamento dif­fuso, forse anche fra i can­didati al Parlamento stes­so. Si ha l’impressione che molti di essi conoscano molto meglio i problemi italiani di quelli europei che, se eletti, avranno la re­sponsabilità di affrontare e cercare di risolvere.

Si ha l’impressione, no­nostante tante nobili e va­ghe dichiarazioni pro­grammatiche, che nume­rosi candidati al Parlamen­to Europeo, prima di legge­re ad esempio l’articolo di Ivo Caizzi sul «Corriere», non sapessero esattamen­te che cosa ha fatto la legi­slatura europea ora tra­scorsa, di che cosa si è oc­cupata, quali problemi — tariffari, etici, sociali — ha trattato, con successo o meno, e quali problemi concreti attendono al var­co la legislatura europea che inizierà tra poco.

È facile fare generiche dichiarazioni sulla cultura o sulla libertà, ma è ben più difficile occuparsi di quegli innumerevoli, ingarbu­gliati, apparentemente prosaici aspetti in cui la libertà e la cultura si incarnano concre­tamente.

È strano che, posto che la testimonianza della Miss Veneto riportata da Camon sia at­tendibile, il ministro Brunetta — dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato — abbia fatto quelle dichiarazioni sull’irrilevan­za del Parlamento Europeo quasi con soddi­sfazione anziché con tristezza, in quanto, se ciò che egli dice corrispondesse alla realtà, sarebbe la constatazione di un male, che do­vrebbe invitare a correggerlo.

Se l’Europa non esiste ancora abbastanza, questa è una disgrazia o almeno una fase di stallo che va superata. Dovremmo sentirci, armoniosamente e con altrettanta intensità, europei ed italiani nello stesso modo in cui ci sentiamo — a parte qualche ringhioso bo­tolo di provincia, incapace di guardare oltre la sua cuccia — italiani e lombardi o marchi­giani.

Non occorre scomodare Mazzini, Croce o Curtius, che ci hanno insegnato l’unità spiri­tuale, culturale dell’Europa. C’è una realtà materiale ancora più importante. Oggi i pro­blemi che ci investono coinvolgono l’Europa intera, dalla crisi finanziaria alla pressione dell’immigrazione; così come l’economia di Milano non può crollare senza ripercuotersi su Bologna o su Bari, ogni singolo Stato tra­scina in parte con sé, nel bene e nel male, tutti gli altri e ne è trascinato. Sarebbe ridico­lo che l’immigrazione fosse regolata a Taran­to da leggi diverse da quelle in vigore a Geno­va ed è ormai ridicola una politica diversa a Parigi e a Berlino rispetto ai problemi che in­teressano tutti gli europei. Se la realtà mate­riale, per tutti, è europea, essa deve tradursi, prima o poi, in una realtà politica anche for­male ben più forte e compatta di quella at­tuale, che riduca i singoli Stati a funzioni so­stanzialmente regionali, peraltro assai im­portanti.

L’Europa fonda la sua civiltà, rispetto ad altre pure grandi, sul primato dell’individuo rispetto alla totalità e perciò è stata la madre del liberalismo e della democrazia. A diffe­renza di alcuni cugini d’oltre Atlantico, la va­lorizzazione europea dell’individuo non è l’esaltazione del cowboy che basta a se stes­so e si fa giustizia da sé, bensì dell’individuo quale «animale politico», come diceva Ari­stotele, che si pone in relazione con la socie­tà e si sente responsabile della sorte di tutti i componenti della Polis, perché sa che il suo benessere esige, per essere veramente vissu­to e goduto, il benessere o almeno la decen­za di chi gli vive intorno. In tal senso, il socia­lismo è profondamente europeo e le civiltà o gli Stati che non hanno conosciuto il socia­lismo (s’intende quello democratico) non so­no europei. Sono, possono e debbono esse­re nostri buoni vicini, ma non sono noi.

L’esigenza di un futuro vero Stato euro­peo e la fiducia nel suo avvento non escludo­no lo scetticismo circa i tempi e le difficoltà della sua necessaria realizzazione. Ci saran­no regressivi rigurgiti di egoismi nazionali, paure fondate e infondate che ostacoleran­no le iniziative più preveggenti, meschinità, elefantiasi burocratiche, scontri fra particola­rismi, difese di privilegi e anche di enti e isti­tuzioni inutili e costose. Chi crede nell’Euro­pa sarà contento se si farà ogni tanto un pas­so avanti e mezzo passo indietro. La demo­crazia, ha scritto Günter Grass lodandola per questo, ha il passo della lumaca.

Non invidiamo dunque gli eletti, nono­stante la loro cospicua remunerazione, per­ché — a parte i cinici che si candidano maga­ri solo per lucro e i narcisisti, peggiori di lo­ro, per vanità — il lavoro degli eletti onesti sarà duro, prosaico e noioso. Lo è del resto ogni autentico lavoro politico. Ma anche quello della madre di famiglia (oggi lo fanno un po’ pure i giovani padri, ma non tanto) che si occupa dei figli e della casa è fatto di tante cose di per sé non esaltanti, lavare, asciugare, fare la spesa, stirare, eppure… An­che questa, in fondo, è politica, cura di ciò che concorre al bene della Polis; non per nul­la Lenin diceva che una brava madre di fami­glia poteva essere commissario del popolo. Forse anche parlamentare europea, meglio di altre più appariscenti categorie femmini­li.


Claudio Magris
corriere.it

6.6.09

Dove porta l'odio dell'altro

BARBARA SPINELLI

Tra il discorso di giovedì all’Università del Cairo e la commemorazione dello sbarco in Normandia che avrà luogo oggi in Francia, Barack Obama ha scelto la sosta a Buchenwald, il campo di morte dove tra il 1937 e il 1945 furono rinchiusi 250 mila esseri umani provenienti da cinquanta Paesi diversi.

Morirono uccisi in 56 mila: 11 mila ebrei, gran parte del gruppo dirigente comunista a partire dal suo capo Ernst Thälmann, centinaia di soldati russi, e omosessuali, Rom, Sinti, uomini malati ritenuti «inabili al lavoro». Il Cairo, Buchenwald, la Normandia: tre luoghi e tre date si intrecciano, compongono insieme una storia e un tempo più vasto. Il passato dà pienezza al presente, il Ventesimo Secolo parla al Ventunesimo conferendogli profondità. In ambedue i secoli c’è sete di liberazione, in ambedue è questione di edificare un dopoguerra. Il 6 giugno 1944 in Normandia l’Europa fu liberata dal nazismo, l’11 febbraio 1945 furono i superstiti di Buchenwald a salvarsi. Oggi tocca uscire da un’altra guerra, prima che precipiti in ennesimi orrori e distruzioni: tocca, come ha detto al Cairo il Presidente, metter fine all’infausta guerra tra civiltà. La criminalizzazione dell’Islam deve finire, perché il rischio è grande di punire la diversità nel diverso, e di considerare la diversità un pericolo. Tutte e tre le tappe - Il Cairo, Buchenwald, la Normandia - narrano la difficile edificazione di un dopoguerra meno buio, fondato sulla memoria viva del passato.

Nel suo discorso a Buchenwald Obama ha sottolineato la centralità della memoria, perché non esiste ricominciamento che possa farne a meno. Soprattutto quando si è messi a cospetto di orrori talmente dolorosi che nello spettatore «subentra il mutismo, l’incapacità di proferire verbo» (accadde allo zio Charlie Payne, soldato che partecipò alla liberazione del campo: «per mesi», tornato in America, si chiuse nel silenzio). Eisenhower ne ebbe coscienza, quando vedendo il drappello di scheletri viventi accanto alle baracche disse a sè stesso e decise: bisogna che tutti vedano in immagine quel che sto guardando (tutti: tedeschi, giornalisti, soldati e deputati americani) altrimenti verrà il giorno in cui l’impensabile diverrà un’opinione.

Anche questa decisione ha voluto rammentare Obama, e anche in questo caso le tre tappe del suo viaggio si incrociano e quasi si fondono. Non si inizia una nuova relazione tra Islam e Occidente negando quel che è accaduto durante il nazismo. Non ci si mette a fabbricare un dopoguerra «raccontando menzogne sulla nostra storia». Obama sarà intransigente con lo Stato israeliano, giovedì ha definito «intollerabile» la vita dei palestinesi che vivono in terre di occupazione e ha chiesto al governo di Gerusalemme di smettere subito gli insediamenti, ma tutto questo ha senso se si riconosce quel che gli ebrei hanno sofferto e come avvenne la distruzione dell’ebraismo in Europa. Se si tocca con mano la verità storica come lui ha fatto ieri con Angela Merkel. A Buchenwald, è una guerra giusta che il Presidente Usa ricorda: l'ultima, forse, che gli americani considerino unanimemente tale. Tutti i conflitti successivi - Corea, Vietnam, Iraq - furono contestati.

Obama ha una propensione, forte, a connettere storie e tempi disparati; a creare mosaici molto ramificati, cosmopoliti. Anche la scelta di Buchenwald e di Dresda è colma di significati. Buchenwald fu innanzitutto massacro del diverso. Elie Wiesel, che ha accompagnato il Presidente assieme a un altro ex detenuto di Buchenwald, Bertrand Herz, ha usato ieri un’immagine tremenda: «Il primo esperimento di globalizzazione è stato fatto a Buchenwald, con il solo scopo di diminuire l’umanità degli esseri umani». Ma il luogo dove Hitler decretò la «distruzione attraverso il lavoro» fu anche qualcos’altro: fu simbolo della resistenza, perché i detenuti alla fine si organizzarono e presero il controllo del Lager. Quando i comandanti del campo si resero conto che le truppe Usa si stavano avvicinando, tentarono un’evacuazione dei detenuti (le «marce della morte») e i prigionieri salvarono centinaia di bambini e detenuti nascondendoli. Poi contattarono via radio i militari statunitensi e facilitarono il loro arrivo, l’11 aprile 1945.

Anche la visita di Dresda è significativa: è un esempio luminoso della politica della memoria in Germania, proprio perché evoca la vendetta atroce che si abbatté su di essa (Dresda subì un bombardamento alleato che fece 35 mila morti). Buchenwald simboleggia infine l’altro totalitarismo del ’900: il campo infatti non fu chiuso nel ’45, trovandosi prima in zona sovietica e poi in Germania comunista. Restò aperto fino al 1950: i morti per sevizie furono 7 mila.

Ricominciare la storia è ricordare dove può condurre l’odio dell’altro, e sapere che sempre può riaccendersi trasformandosi: oggi prende le forme, ha detto Obama, «del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, della xenofobia, del sessismo».

Le parole sono importanti per Obama, il suo viaggio in Medio Oriente ed Europa lo dimostra. E proprio perché sono importanti, non si può stravolgerle con bugie e revisionismi. A Ahmadinejad il Presidente ha offerto giovedì il dialogo, giungendo fino a confessare il coinvolgimento americano nella liquidazione violenta di Mohammed Mossadeq (il primo ministro entrato in conflitto con lo Scià negli Anni 50: «Gli Usa svolsero un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano eletto democraticamente», ha ammesso al Cairo), ma gli ha anche detto: ecco, prima di qualsiasi dialogo è a Buchenwald che devi mentalmente venire, sono queste pietre che devi toccare come le sto toccando io. Altrimenti ogni parola è infangata, e il dono della lingua dato agli umani è insensato. Altrimenti succede come ai nazisti, che fabbricarono un mostro presso Weimar, la città di Goethe e Schiller, e sul cancello del Lager scrissero, a grandi lettere, A OGNUNO IL SUO - JEDEM DAS SEINE, mostrando come uno dei più nobili precetti del diritto romano possa pervertirsi e divenire il più cinico e mortifero segno di odio.

lastampa.it

5.6.09

Piccoli pensieri

Un tempo si pensava che la mente dei bambini avesse capacità limitate. Ma ora scopriamo che è più creativa e aperta di quella degli adulti

jonah lehrer, the boston globe, stati uniti

Cosa si prova a essere un bambino nei primi mesi di vita? Qualche secolo fa questa domanda sarebbe sembrata assurda: dietro quell’aspetto così dolce, avrebbero risposto gli scienziati dell’epoca, c’è solo una mente vuota. In quella fase della vita, infatti, mancano quasi tutte le capacità che definiscono la mente umana, come la parola e la possibilità di ragionare. Cartesio sosteneva che il bambino piccolo è tutto concentrato sulle sensazioni, irrimediabilmente intrappolato nel lusso confuso dell’hic et nunc. Secondo questa visione, un neonato è solo un grumo di bisogni, un fagotto di rilessi che sa solo mangiare e piangere. Pensare come un bambino piccolo, insomma, significa non pensare. La scienza moderna è quasi sempre stata d’accordo con questa teoria. Per decenni gli studiosi hanno descritto tutte le cose che un bambino piccolo non può fare a causa del suo cervello poco sviluppato: non può concentrarsi su un’attività, non può rimandare le gratificazioni e non può nemmeno esprimere i suoi desideri. Di recente, però, gli scienziati hanno cominciato a mettere in discussione le loro certezze. Usando tecniche e strumenti di ricerca innovativi, hanno scoperto che la mente dei bambini piccoli in realtà è molto attiva e riesce ad acquisire un’incredibile quantità di informazioni in un tempo relativamente breve. Diversamente dalla mente adulta, che si concentra su una limitata fetta di realtà, quella del bambino può assorbire una gamma di sensazioni molto più ampia. In un certo senso, i bambini sono più consapevoli del mondo di noi adulti. Questa ipercoscienza comporta diversi vantaggi. Innanzitutto, permette ai bambini di capire come funziona il mondo a un ritmo incredibilmente veloce. Anche se alla nascita sono totalmente impotenti, nel giro di pochi anni i bambini imparano tutto, dalla lingua alle attività motorie complesse come camminare. Secondo questa nuova teoria, le caratteristiche mentali dei bambini un tempo considerate carenze di sviluppo (come l’incapacità di concentrare l’attenzione), in realtà favoriscono l’apprendimento. Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che, in alcuni casi, agli adulti farebbe bene regredire a uno stato mentale infantile. Nonostante i suoi vantaggi, infatti, la maturità può inibire la creatività e spingere le persone a concentrarsi sulle cose sbagliate. Quando dobbiamo selezionare dei dati all’interno di una serie di informazioni apparentemente irrilevanti, o creare qualcosa di completamente nuovo, faremmo meglio a pensare come bambini piccoli. “Abbiamo sempre avuto un’idea fuorviante della mente dei bambini”, sostiene Alison Gopnik, una psicologa dell’università della California, autrice del libro The philosophical baby. “Nei primi anni di vita”, spiega, “il cervello è perfettamente strutturato per il compito che deve svolgere: imparare come funziona il mondo. In alcuni casi un cervello completamente sviluppato può perfino essere d’ostacolo”.
Un cervello più flessibile
Una delle implicazioni più sorprendenti di queste nuove ricerche riguarda la coscienza del bambino. Gli scienziati hanno sempre dato per scontato che i bambini fossero molto meno coscienti degli adulti. Secondo Gopnik, invece, sotto molti aspetti è vero il contrario. L’esperienza del bambino è come quella di un adulto che vede un film molto avvincente o che visita una città straniera, dove anche le cose più comuni sembrano nuove ed eccitanti. “Per un bambino”, spiega Gopnik, “ogni giorno è come andare a Disneyland per la prima volta. Provate a fare una passeggiata con un bambino di due anni. Vi renderete subito conto che vede cose che voi neanche notate”. C’è qualcosa di paradossale nel tentativo di studiare la vita interiore del bambino. Tanto per cominciare, non possiamo fargli domande. I bambini piccoli non possono descrivere le loro sensazioni e le loro emozioni né sono in grado di esprimere il piacere che provano quando gli viene dato un ciuccio o un peluche. Agli occhi di uno scienziato, la mente infantile è impenetrabile come una scatola nera. Negli ultimi anni, però, i ricercatori hanno trovato nuovi metodi per entrare nella testa dei bambini. Hanno misurato la densità del tessuto cerebrale, analizzato lo sviluppo delle connessioni neurali e studiato i movimenti degli occhi. Confrontando l’anatomia del loro cervello con quella di un adulto, gli scienziati possono formulare delle ipotesi sull’esperienza nel mondo infantile. Queste nuove tecniche di ricerca hanno permesso di scoprire cose sorprendenti. È emerso, per esempio, che il cervello di un bambino piccolo contiene in realtà più cellule cerebrali, o neuroni, di quello adulto. Nel momento stesso in cui apriamo gli occhi, i nostri neuroni avviano un processo di “sfoltimento”. Cominciano, cioè, a eliminare le connessioni neurali apparentemente inutili. Inoltre nei bambini le varie parti della corteccia cerebrale, che è il centro delle sensazioni e del pensiero superiore, sono collegate meglio rispetto a quelle della corteccia adulta. Queste differenze anatomiche non sono solo un segno di immaturità. Sono uno strumento importante che permette ai bambini di assimilare facilmente una grande quantità di informazioni. Anche se rende il cervello più efficiente, il processo di sfoltimento può ridurre la nostra capacità di pensare e di apprendere, perché siamo meno capaci di adattarci a nuove situazioni e di assorbire nuove informazioni. È come se ci fosse una sorta di compensazione tra la flessibilità della mente e la sua efficienza. Questo spiega in parte perché un bambino piccolo può imparare tre lingue contemporaneamente ma non è capace di allacciarsi le scarpe. Il cervello dei bambini nei primi anni di vita non è solo più denso e flessibile. È anche costruito in modo diverso: ha molti meno neurotrasmettitori inibitori, le sostanze chimiche che impediscono ai neuroni di attivarsi. Questo fa pensare che la mente del bambino, rispetto a quella dell’adulto, sia più affollata di pensieri fugaci e di sensazioni casuali. Mentre gli adulti bloccano automaticamente le informazioni irrilevanti, come il ronzio di un condizionatore d’aria o una conversazione tra estranei al tavolo vicino, i bambini assimilano tutto. Assorbono la realtà senza filtri. Si spiega così la profonda differenza nel modo in cui gli adulti e i bambini osservano il mondo. Se negli adulti l’attenzione funziona come un riflettore, un raggio direzionale che illumina un particolare aspetto della realtà, nei bambini piccoli somiglia più a una lanterna, che getta una luce diffusa su tutto quello che li circonda. “C’è chi dice che gli adulti sono più capaci di prestare attenzione rispetto ai bambini”, scrive Gopnik. “Ma non è esatto: sono solo più bravi a concentrarsi su un unico aspetto, escludendo il resto”. Pensiamo, per esempio, a cosa succede quando si mostra a dei bambini in età prescolare l’immagine di una persona (per comodità la chiameremo Jane) che guarda una fotografia di famiglia. Se si chiede ai bambini cosa sta guardando Jane, risponderanno subito che guarda le persone nella fotografia. Ma non si fermeranno qui: diranno anche che sta guardando la cornice, il muro dietro la fotografia e la sedia che intravede con la coda dell’occhio. In altre parole, i bambini saranno convinti che Jane presti attenzione a tutto quello che può vedere.
Il gioco delle due carte
Anche se non permette di rimanere concentrati su un’unica attività (i bambini in età prescolare si distraggono facilmente), questa forma di attenzione meno focalizzata presenta dei vantaggi. Per esempio, favorisce una migliore capacità di memoria, soprattutto quando si tratta di ricordare informazioni che in un dato momento sembravano secondarie. John Hagen, uno psicologo dell’università del Michigan, ha progettato un test per capire il rapporto tra concentrazione e memoria. A un bambino vengono mostrate due carte alla volta. Gli viene chiesto di memorizzare la carta di destra e di ignorare quella di sinistra. I bambini più grandi e gli adulti svolgono più facilmente questo compito, perché sono in grado di orientare l’attenzione. I bambini piccoli, invece, ricordano spesso la carta di sinistra: la loro lanterna, infatti, illumina più elementi possibili. Grazie a queste scoperte sulle capacità cognitive infantili e sul modo particolare in cui i bambini prestano attenzione, gli scienziati hanno formulato nuove ipotesi sul funzionamento della mente adulta. Oltre a rimuovere fatti e percezioni irrilevanti, a quanto pare la capacità di orientare l’attenzione può anche frenare l’immaginazione. A volte la mente funziona meglio quando smettiamo di controllarla. Le differenze tra l’attenzione dei bambini e quella degli adulti dipendono principalmente dalla corteccia prefrontale, la regione del cervello situata dietro gli occhi. Questa zona è responsabile di una vasta gamma di capacità cognitive, dall’attenzione orientata al pensiero astratto. Nei bambini non è ancora totalmente sviluppata (spesso lo sviluppo si completa solo con l’adolescenza). Gli scienziati hanno sempre sostenuto che all’origine dei cosiddetti comportamenti infantili c’è proprio la mancanza di una corteccia prefrontale pienamente operativa. Ma ora cominciano a rendersi conto che, in alcuni casi, per un adulto è meglio che quella zona del cervello allenti il controllo.
I vantaggi dell’immaturità
I ricercatori della Johns Hopkins university ne hanno avuto la conferma studiando l’attività cerebrale di alcuni musicisti jazz. Mentre suonavano una speciale tastiera, all’interno di un apparecchio per la risonanza magnetica, gli artisti mostravano un’attività ridotta della corteccia prefrontale durante la fase di improvvisazione: solo disattivando quella zona del cervello riuscivano a inventare nuove melodie. Gli scienziati paragonano questo stato di rilassatezza mentale alla fase Rem del sonno, alla meditazione e ad altre attività creative, come la composizione di poesie. Ma somiglia molto anche al modo di pensare dei bambini piccoli. Non a caso Baudelaire diceva che “il genio è l’infanzia ritrovata quando vogliamo”. L’immaturità del cervello dei bambini comporta anche un altro vantaggio: la capacità di assorbimento. Visionando le scansioni cerebrali di adulti che guardavano un film di Clint Eastwood, Rafael Malach, dell’università ebraica di Gerusalemme, ha notato uno strano schema di attività: la regione prefrontale era bloccata, mentre le zone posteriori del cervello associate alla percezione visiva erano attive. Come osserva Gopnik, questo stato mentale – la sensazione di essere completamente presi da qualcosa – ci ricorda quello che provavamo da bambini: “L’esperienza è così vivida che perdiamo la consapevolezza di noi stessi”. Ma non è solo il cinema a riportarci allo stato mentale infantile. Secondo Gopnik ci sono altre esperienze, dalla meditazione zen alla contemplazione, che possono produrre stati di coscienza così intensi da offuscare completamente l’io: “È l’estasi di cui scrivevano i poeti romantici”. Blake lo chiamava “vedere un mondo in un granello di sabbia”. Se non potessimo mai tornare a questa coscienza infantile, avremmo difficoltà a svolgere i compiti in cui bisogna lasciarsi andare e abbandonarsi completamente a quello che si sta facendo: per esempio girare un risotto o risolvere un cruciverba. Quei momenti sono spesso definiti attività di “lusso”. Il maestro zen Shunryu Suzuki, invece, definiva questo stato “mente di principiante”, perché permette agli adulti di pensare come bambini, di essere aperti a tutte le possibilità e liberi da preconcetti. Gopnik lo ha sperimentato personalmente: “Uno scienziato ha bisogno di pensare in entrambi i modi”, spiega. “Nella maggior parte dei casi ha bisogno di concentrarsi per analizzare i dati. Ma per essere creativo deve avere la mente libera. Quando il suo modo di pensare non funziona, deve trovarne uno nuovo”. In quei momenti, dice, dobbiamo ritrovare l’innocenza dei bambini, allentare le redini dell’attenzione e guardare con occhi nuovi il mondo che stiamo ancora cercando di capire.
© 2009 by Jonah Lehrer. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara.
(jonah lehrer collabora con il Boston Globe, Wired, Seed, Nature e il New Yorker. Ha scritto Proust era un neuroscienziato (Codice 2008). Il suo prossimo libro, Come decidiamo, sarà pubblicato da Codice a giugno. Il suo sito è Jonahlehrer.com)

Intelligenza sorprendente
A due anni e mezzo i bambini hanno già dei princìpi morali, ma sono anche in grado di modificarli.
Intervista con la psicologa americana Alison Gopnik (evan lerner, seed magazine, stati uniti )

Che utilità può avere, per noi adulti, una maggiore comprensione di quello che succede nella mente dei bambini?
Una delle cose che abbiamo scoperto è che l’immaginazione, spesso considerata una prerogativa della mente adulta, è presente già nei bambini piccoli, in dall’età di 18 mesi. Ed è strettamente collegata alla loro necessità di capire come funziona il mondo. Non sviluppiamo la capacità di immaginare solo per il nostro piacere. È una facoltà innata, legata al modo in cui affrontiamo la struttura causale del mondo reale. Abbiamo creato un modello computazionale di sviluppo usando quelle che gli informatici chiamano reti bayesiane. Questo modello dimostra sistematicamente che la comprensione del processo causale permette di immaginare nuove possibilità. Se il cervello dei bambini funziona in questo modo, vuol dire che l’immaginazione e l’apprendimento procedono di pari passo.
Secondo lei le teorie della mente del bambino proposte da Freud e Piaget sono sbagliate. Cosa sappiamo oggi che loro non sapevano?
Sia Piaget sia Freud pensavano che il motivo per cui i bambini inventano giochi così fantasiosi è che non sanno distinguere la fantasia dalla realtà. Ma molte delle ricerche più recenti dimostrano esattamente il contrario. I bambini distinguono benissimo tra fantasia e realtà, ma sono interessati a esplorarle entrambe.
Come facciamo a interrogare la mente di persone che non sanno ancora comunicare?
I bambini non sono molto bravi a dire spontaneamente quello che pensano. Agli adulti possiamo proporre un questionario e studiare le loro risposte. Ai neonati e ai bambini piccoli, ovviamente, no. Così, invece di ascoltare quello che dicono, dobbiamo osservare quello che fanno. Questo metodo funziona se si usano domande molto precise, che prevedono risposte semplici. Invece di chiedere a un bambino di spiegare come funziona una macchina giocattolo, gli chiediamo: “Pensi che sia questo blocco a farla muovere? Oppure quest’altro?”. In questo modo è possibile dimostrare che i bambini riescono a elaborare informazioni statistiche molto complesse. Nel caso della macchina, per esempio, sono in grado di valutare le probabilità condizionate, cioè il rapporto tra alcuni blocchi e l’accensione o lo spegnimento della macchina. Se adesso provassi a descriverle la sequenza degli eventi che si verificano in uno di questi esperimenti, probabilmente farei qualche errore e alla fine lei non riuscirebbe a ricordarla tutta: è una cosa abbastanza complicata anche per un adulto. Ma quando si presenta a un bambino questa complessa serie di relazioni e gli si chiede di mettere in moto o di fermare la macchina, lui fa la cosa giusta. Anche se coscientemente non sa come funzionano le probabilità condizionate, inconsciamente tiene conto delle informazioni. E lo fa esattamente come i sofisticati programmi di apprendimento delle reti bayesiane.
Che succede nel caso di inferenze causali meno oggettive, per esempio quelle legate alla moralità?
Le rispondo con uno dei miei esperimenti preferiti. È abbastanza diffuso nella comunità scientifica, anche se in pochi ne hanno capito l’importanza. Permette di dimostrare che i bambini, a due anni e mezzo, riescono già a capire la differenza tra princìpi morali e princìpi convenzionali. In pratica gli si fanno delle domande su cosa considerano giusto. Per esempio, è giusto picchiare un compagno d’asilo se tutti dicono che si può fare? Oppure non appendere il cappotto nello spogliatoio se tutti dicono che non bisogna appenderlo? I bambini rispondono tutti che picchiare qualcuno è sbagliato, mentre la risposta sul cappotto può cambiare a seconda dell’asilo nido che frequentano. A due anni sembrano già rendersi conto della differenza tra il tipo di moralità che nasce dal rispetto per gli altri e quello che nasce da regole convenzionali. Capiscono che entrambe le cose sono importanti, ma in modo diverso. È una cosa incredibile.
Che implicazioni ha tutto questo per la filosofia?
In un certo senso, bisogna tornare indietro al diciottesimo secolo. David Hume, per esempio, pensava che la sua scienza fosse teoretica: secondo lui, le scoperte scientifiche non erano separate da quelle filosofiche. I filosofi moderni dicono spesso che possiamo rispondere alle “grandi domande” guardando alla scienza. Ma la scienza, soprattutto la psicologia evolutiva, ci può dire molto anche sulla filosofia. Ci può dire qual è il nostro punto di partenza, che cosa impariamo, e quali sono gli aspetti fondamentali della natura umana. Alcuni filosofi sono molto vicini alla teoria della psicologia evoluzionista: per loro tutto è innato e geneticamente determinato. Ma una delle scoperte più importanti, nel campo della psicologia dell’età evolutiva, è che esiste anche una grande capacità di cambiamento. E ora cominciamo a capire come avviene quel cambiamento a livello neurologico e computazionale. Lo stesso discorso vale per il nostro sviluppo morale. Finora gli psicologi morali ci hanno sempre detto che abbiamo un istinto morale innato, una specie di grammatica morale inconscia. Studiando i bambini, però, si scopre che alcune di queste intuizioni morali sono innate, ma possono anche essere modificate. Per certi versi, penso che la capacità di cambiare sia una delle facoltà più peculiari dell’uomo. Siamo in grado di dire: “Il modo in cui mi sono comportato finora non funziona, quindi è sbagliato”. E questo ci permette di cambiare e di migliorare i princìpi morali da cui siamo partiti.

Internazionale 798, 5 giugno 2009

4.6.09

Il ridicolo nella storia

di Alberto Asor Rosa

Penso che sarebbe opportuna una riflessione sul ruolo del ridicolo nella storia. Ridicolo: «Che suscita il riso, che induce a considerazioni derisorie e spregiative perché manca di ragionevolezza, di buon senso o di giudizio...; che espone al dileggio chi lo compie, lo mantiene o lo prova in quanto provocato da assurde convinzioni o privo di ragionevoli motivazioni...; sciocco, irragionevole, insensato, stolto» (Grande Dizionario della lingua italiana, detto il Battaglia, XVI).
Mi venivano in mente tutte queste considerazioni, e altre ancora, visionando mesi fa uno di quei bei documentari, ricchi di filmati d'epoca, che Nicola Caracciolo ha dedicato al Novecento italiano: e precisamente quel mazzetto di fotogrammi, destinato a durare una manciata di secondi, ma di straordinarie eloquenza (è il caso di dirlo), in cui Benito Mussolini, in fez, divisa e decorazioni, annunzia dal balcone di Palazzo Venezia a Roma la conquista dell'Impero: gli occhi spiritati, i pugni piantati sui fianchi, la mascella immarcescibile che, levata al cielo, ondeggia, tre o quattro volte avanti e indietro per asseverare alla folla, intensamente e persuasivamente, il pensiero appena espresso. Dio mio, ho pensato, come ha potuto questo osceno buffone, questo artistucolo da avanspettacolo, bandato con quelle volgari camuffature carnevalesche, sedurre per anni la grande maggioranza di una popolazione dal passato non del tutto inesperto e primitivo? Come, di fronte ad un tale spettacolo, la folla che gremiva la storica piazza, invece di acclamarlo forsennatamente, non lo ha liquidato all'istante con una colossale risata?
Altrettanto si potrebbe dire del suo più caro collega e amico, il forsennato tedesco Adolf Hitler: la cui oratoria alla nazione tedesca, dall'alto della tribuna notturna dello stadio di Norimberga, di fronte a migliaia di uomini schierati disciplinatamente nel quadrato «ordo» nazista (la «differenza tedesca»!), non può non imporci oggi la stessa domanda: come hanno potuto quell'isterico condizionamento, quella sorta di parossistica verve istrionica, quell'esibizione facciale-gestuale da saltimbanco, non suscitare la reazione che il ridicolo, - nelle sue molteplici forme di buffoneria, inverosimiglianza, dissennatezza - dovrebbe sempre suscitare? Ma su questo punto specifico - il ridicolo e la storia tedesca - tornerò più avanti.
Ora è inevitabile - me ne rendo conto - che il pensiero del lettore corra ai tempi nostri: i capelli finti, la bandana stretta, i tacchetti veri, le barzellette spinte, le corna dietro la testa di uno dei Primi Ministri più autorevoli d'Europa, le ossessioni sessuali, le storielle pruriginose, l'eloquio approssimativo e scarsamente italiano, l'interazione ossessiva della menzogna, il disprezzo urlato delle regole, le manie persecutorie, le battute alla vecchietta abruzzese terremotata: «vada, vada a nostre spese in uno degli alberghi della costa e si porti la crema solare!», l'esagerazione e l'irrealismo favolistico delle promesse, l'incultura esibita perfino nel modo di gestire e di vestirsi, il sorriso stereotipato e buffonesco, - insomma, tutto ciò che ci sta tutti i giorni sotto gli occhi dalla mattina alla sera, - compongono i tratti della figura più ridicola che la nostra contemporaneità abbia prodotto, il «ridicolo italiano» nella sua versione più alta e smaccata. Eppure non se ne ride: anzi, nel bene come nel male, la si prende fin troppo sul serio.
Se il quadro è questo, si pongono alcune domande e/o questioni. Innanzi tutto: esistono evidentemente tipi diversi di ridicolo nella storia: da quello grottesco, imperial-reboante, di tipo fascistico, a quello funereo, anzi tendente al macabro, del nazismo, a quello commercial-mediatico dei nostri tempi italiani, variante piccolo-borghese emergente e arrampicatrice della categoria esaminata. Ma tutti hanno, come vedremo, qualcosa in comune. Naturalmente, il ridicolo non si limita alla figura del Capo, da cui tuttavia promana. Si pensi al carnevalesco corteggio dei gerarchi nazisti: a Göring! a Hesse! Si pensi al suo (innegabilmente più guittesco) corrispettivo italiano; Starace Segretario del Pnf! Si pensi all'oggi: Gelmini Ministro della Pubblica Istruzione! La Russa Ministro della Difesa! Carfagna Ministro delle Pari Opportunità! Brunetta Ministro!
Il ridicolo del Capo, usato notte e giorno come fondamentale strumento di captazione del consenso, s'allarga a macchia d'olio, si collega con il ridicolo embrionalmente già presente nelle profondità della società circostante, contamina in qualche caso anche l'opposizione (vi risparmio gli esempi possibili, per non allungare troppo il discorso, ma vi assicuro che ne ho). Poniamo un limite storico-politico alla nostra esposizione: mi pare assolutamente innegabile che il tipo, intellettuale o politico, che potremmo definire democratico o liberal democratico, generalmente si sottrae alla categoria e alla pratica del ridicolo. Non è ridicolo Giovanni Giolitti. Non sono ridicoli Aldo Moro ed Enrico Berlinguer: ovvero lo sono lo stretto necessario che serve loro ed assicurarsi il favore della gente (dunque il ridicolo è connaturato all'esercizio stesso della politica, di qualsiasi politica? Bella domanda: bisognerà tornarci su). Se mai, per una prevalente da parte loro ricusazione dell'esibizionismo attoriale e delle pratiche camuffative, essi sono o appaiono grigi. E infatti di questo loro grigiore li si accusa come di una colpa ed un limite da parte di coloro che scelgono, come pratica politica e culturale, l'esibizionismo e la scena: basti pensare alle offese invereconde lanciate contro uomini come Giolitti e Nitti da un altro grande, grandissimo «ridicoloso» («degno di derisione», ibid) del Novecento italiano, Gabriele d'Annunzio.
La domanda principale di questo ragionamento dovrebbe dunque, se non erro, essere questa: come mai quello che ragionevolmente, e in condizioni normali, avrebbe suscitato soltanto il riso, in certi momenti della storia europea del Novecento (ma fondamentalmente, ahimè, tedesca e italiana), è divenuto una componente essenziale del successo politico di un individuo e della catastrofe culturale che ne è seguita? (e viceversa, beninteso: più esattamente, il processo si muove contemporaneamente in ambedue le direzioni). C'è chi ha già provato a definire le dinamiche di questa che, al limite, va considerata una vera e propria perversione storico-sociale, un morbo dei popoli: e, si parva licet, ci azzardiamo a chiamarlo direttamente in causa. Thomas Mann ha avuto presente ab origine il carattere ridicolo e grottesco dell'esperimento nazista: per lui Hitler, il Grande Dittatore, è in realtà «un oscuro cialtrone», «un infame ossesso», «un brigante», l'«astuto sfruttatore di una crisi mondiale», un «cane rabbioso alla catena», un «artiglio da isterico stretto a pugno», un «infernale vagabondo» (noto di sfuggita: nulla di simile è mai uscito dalla penna d'un grande intellettuale italiano del tempo, ciò non basta a marcare indelebilmente caratteri e vocazioni delle due culture).
Ci sarebbe da aggiungere qualcosa, - per restare al passato -, a proposito di quello che i grandi comici, da Petrolini a Chaplin, hanno detto sull'impura, degradata comicità dei miserabili buffoni che tentarono di fare loro concorrenza, ma lo rimanderemo alla prossima puntata.
Per spiegare come questo spropositato e sovreccitato «ridicoloso» abbia potuto sedurre un popolo dalla grande cultura come quello tedesco, Mann ricorre a due ordini di motivazioni, che possono tornare utili anche a noi. Da una parte, c'è la crisi della democrazia: la sua incapacità a risolvere i problemi di quella società in quella determinata fase storica.
È questa incapacità che apre la strada, a livello di massa, alla perdita di ogni senso del ridicolo (cioè, in altri termini: ad ogni ragionevole percezione dei valori). Dall'altra, c'è quella che io definirei la degenerazione di massa della stessa opzione e logica democratica, il rovesciamento delle normali pratiche di consenso, regolate della legge, in una sorta d'esplosione d'istinti neobarbarici, che non è più in grado di distinguere la luce della ragione (anche in questo caso, come si vede, il processo si muove contemporaneamente nelle due direzioni, dall'alto al basso e dal basso all'alto). Ascoltiamo le parole lucidissime di Mann: «L'immensa ondata di barbarie eccentrica e di volgarità primitiva, plebeamente democratica, prodotto d'impressioni violente, sconcertanti e insieme stimolanti dei nervi, inebrianti, da cui è sopraffatta l'umanità» (da Appel and die Vernunft: ossia «Appello alla ragione», un titolo che è già un programma, tenendo conto che lo scritto apparve nell'ottobre 1930, quando i tedeschi avrebbero ancora potuto tenerne conto, e non lo fecero). Dunque, parafrasando, se ci riesce, si potrebbe dire: il ridicolo come strumento di seduzione politica è il segno infallibile dell'abbandono della tradizione e del campo democratici e dell'apertura di una nuova e inquietante fascia di esperienze che, dittatura o democrazia autoritaria che sia, tendono in un modo o nell'altro a travalicarli; la perdita del senso del ridicolo a livello di massa è la prova più certa della degenerazione di un popolo in un coacervo d'individui staccati, inebriati dal fascino di un qualsiasi, - sostanzialmente replicante anche se formalmente mutante, - «infame ossesso». Intendiamoci: il ridicolo è un po' come la puzza: non tutti l'avvertono nel medesimo istante, qualcuno mai. Cioè: per definizione (definizione culturale e politica) essere in grado di avvertirlo, - vale a dire quel che solitamente definiamo senso del ridicolo, - è un fatto di per sé elitario: è difficile che le masse lo trovino per conto proprio. Però quando le masse lo hanno perso totalmente questo vuole dire che le élites sono state totalmente sconfitte, e questo apre la strada all'egemonia del «buffone»: insomma, è sempre lo stesso discorso, anzi, lo stesso processo, che però risulta declinabile in vari modi.
Per ridere dei loro impareggiabili «ridicolosi» d'un tempo, tedeschi e italiani hanno avuto bisogno d'una terribile guerra, nel corso della quale gli orpelli sono caduti uno ad uno, le divise carnevalesche si sono lacerate e il ghigno nascosto dietro la maschera si è rivelato in tutta la sua terribilità: non si poteva ancora tornare a riderne, - come è accaduto solo più tardi, del tutto a posteriori, quando, a dire la verità, non ce n'era neanche più bisogno, - per il buon motivo che non c'era più niente da ridere. Quale catastrofe dobbiamo aspettarci (e augurarci) perché gli italiani riescano a ridere del «ridicoloso» che oggi li governa?
ilmanifesto.it

1.6.09

Vacuità della politica

Barbara Spinelli

Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.

L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.

Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.

Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce».

Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.

Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.

Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. \ Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.

Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, «di tipo nero o sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).

Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.

In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo.
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