11.7.13

Biblioteche da sogno

Daniela Daniele (il manifesto)

In mostra a Roma la scultrice americana che inscatolò il mondo in grandi scaffali a parete

La signora dell’arte cubo-dadaista, Louise Nevel­son, sarà in mostra nella capi­tale, presso la Fon­da­zione Roma, ancora per una decina di giorni. Idea­trice di enormi strut­ture lignee pre­va­len­te­mente rea­liz­zate in bianco o nero, e in regale ver­nice dorata, Nevel­son dis­si­mula nel rigore della sua scelta mono­cro­ma­tica il calore della mate­ria in cui inta­glia le sue opere. Ad ecce­zione delle poche crea­zioni in legno natu­rale ispi­rate all’arte povera, nell’eleganza dei suoi assem­blaggi a pre­va­lere sono sem­pre gli estremi e, se il bianco è «festivo» come il sole, nella sua scul­tura è il nero a fare da padrone per­ché, come si legge in uno dei suoi fram­menti con­ser­vati negli archivi di arte ame­ri­cana dello Smi­th­so­nian Insti­tute, «la luce del giorno ha una forma, invece il buio è una cosa sola».
Vicina ai poeti del Black Moun­tain (da Cree­ley a Olson), Nevel­son usò anche la scrit­tura per rac­con­tare la sua vita da «Queen of the black black»: così si auto­de­finì in una poe­sia pub­bli­cata su Art News nel 1961.
Dama soli­ta­ria dalle lunga ciglia di zibel­lino che, come scrisse Edward Albee in occa­sione della retro­spet­tiva del 1980 al Whit­ney, nascon­de­vano grandi occhi «di pro­fondo non­sense», fu inclusa da Frank O’Hara tra le figure più rap­pre­sen­ta­tive della mostra del 1965 Modern Sculp­ture Usa. Ma, in realtà, gli altri scul­tori erano molto più gio­vani di lei che, amica di Bette Davis e Robert Rau­schen­berg, anti­cipò l’espressionismo astratto senza farne parte. Come dichiara nel libro-intervista curato dalla sua assi­stente Diana Mac­Kown (Dawns and Dusks, Scrib­ner, 1976) fu nell’Europa delle avan­guar­die che decise di «capire il cubo» quale «chiave di una sta­bi­lità» capace di tra­durre «natura in strut­tura» poi­ché «è nel pre­ciso istante in cui il cer­chio rien­tra in un qua­drato che si rag­giunge la piena con­sa­pe­vo­lezza».
Pro­prio a par­tire dalla lezione cubo-dadaista, Nevel­son diede vita a una ver­sione per­so­na­lis­sima delle
«sca­tole» magi­che: dalla boîte di Mar­cel Duchamp a
quelle ame­ri­cane di Joseph Cor­nell, rac­col­gono in cor­nici geo­me­tri­che l’estrema disar­ti­co­la­zione Dada e la crea­tiva ete­ro­ge­neità degli ambienti Merz­bau. Jean Arp pone Sch­wit­ters all’origine dell’asimmetria stu­diata delle sue archi­tet­ture, che si tra­sfor­mano nella more­sca Cat­te­drale cele­ste in cui lo scul­tore, in una lirica del ’60, vide «la fac­ciata d’America».

COL­LE­ZIONE A PROVA DI NUBIFRAGIO

Nata Ber­lia­w­sky da fami­glia ebrea venuta da una Kiev rus­si­fi­cata dagli zar, Nevel­son rag­giunse pic­co­lis­sima nel Maine il padre com­mer­ciante (ovvia­mente in legnami), e a nove anni, davanti a un gesso di Gio­vanna d’Arco, decise che sarebbe diven­tata una scul­trice («e non voglio che il colore mi aiuti», chiarì pro­gram­ma­ti­ca­mente di fronte a un’attonita biblio­te­ca­ria). Fu que­sta infles­si­bi­lità a sal­varla dall’impulso distrut­tivo a cam­biare di colpo vita e luo­ghi. Ancora gio­va­nis­sima sposò, senza quasi cono­scerlo, un agente di Wall Street russo-lettone di vent’anni più vec­chio di lei, che lasciò dopo un figlio e molte crisi esi­sten­ziali per dedi­carsi alla ricerca arti­stica prima in tea­tro, e poi a Monaco, dove stu­diò col pit­tore bava­rese Hans Hof­mann, poco prima che espa­triasse in Ame­rica, in fuga dal nazi­smo.
Nes­sun trauma appa­rente in quella sepa­ra­zione, per­ché la prio­rità dell’arte si coglie sem­pre nelle dichia­ra­zioni di Nevel­son, spesso cau­sti­che e auto­ce­le­bra­tive. È a Nar­cis­sus che dedica un’altra poe­sia: «Ho osato guardare/ E mi piace ciò che ho visto./Bene, io bene, io bene io, per me». E poi ancora, «guar­dare non signi­fica aver visto/Il vero fine è guar­dare senza esser visti…/Ho visto il luogo della libertà/Ho visto la terra dei liberi…ho guar­dato nel luogo/dell’inerzia/dentro il silen­zio».
Il senso di colpa e il biso­gno di risar­cire il figlio per la sua assenza la inse­guirà per tutta la vita, senza però riu­scire a fer­marla: «Figlio mio per­ché doveva suc­ce­dere che noi due diven­tas­simo un tale mistero per entrambi?…Quando cre­sci, non rim­pro­ve­rarmi per le con­di­zioni in cui sei cre­sciuto. Per­ché chissà che non rie­sca a volare più in alto… e forse mai in alto abba­stanza come avrei voluto fare…Sono ancora in mare aperto….l’umanità è così lenta… e non so in quale terra sal­pare, vedo solo che qui vene­riamo idoli cada­ve­rici, non realtà…Ho rag­giunto il senso della distanza…come può essere? Dove mi sta portando?…Sì temo proprio/di avere una distanza…Il grande oltre mi chiama».
Il rac­conto di viag­gio che informa le sue scul­ture è la fiaba nera di un per­corso acci­den­tato che, come si legge in una «sin­tesi» del 1955, le impone di andare, per­ché «un arti­sta crea­tivo non può restar­sene nel suo cor­tile». È del 1933 la prima mostra di que­sta Sposa della Luna Nera la quale, sul modello celibe ducham­piano, «si reca in molti continenti…/Le imma­gini sui muri sono le imma­gini che lei ricorda».
L’importante retro­spet­tiva alle­stita a Palazzo Sciarra da Bruno Corà (aperta al pub­blico fino al 21 luglio) ritrova la suc­ces­sione di «atmo­sfere e ambienti» rico­struiti al Whit­ney Museum nel 1980. Quello che Nevel­son con­si­de­rava «il museo ame­ri­cano per eccel­lenza» (sto­ri­ca­mente, anche sede della sua prima retro­spet­tiva nel 1967) pos­siede tut­tora il mag­gior numero delle sue opere, a prova di nubi­fra­gio gra­zie agli inter­venti di ristrut­tu­ra­zione con­tro gli effetti deva­stanti del cam­bio cli­ma­tico. Dall’allestimento del Whit­ney dell’80, Corà pare assu­mere il modello di per­corso mean­drico che dispone le opere in una tor­tuosa suc­ces­sione di stanze mono­cro­ma­ti­che, in base a un movi­mento che rimanda alle tor­sioni metal­li­che e alla fuga con­vessa delle crea­zioni meta­mor­fi­che e, solo di rado, antro­po­morfe della scul­trice. L’unico Per­so­nage in mostra ha una minac­ciosa schiena orlata di acu­lei, e appare gof­fa­mente assorto sulle parti dislo­cate di sé.

META­FI­SICI MURI


Così il suo viag­gio ogget­tuale si satura di ele­menti ete­ro­morfi tra i geo­me­tri­smi tor­men­tosi di un cer­vello in piena che rag­giunge, nell’accostamento dell’incongruo, armo­nie inspe­rate. I «ready-made» di Nevel­son, non meno assor­titi dei col­lage di Bra­que e di Jack­son Mac Low, tro­vano forme diai­re­ti­che e cir­co­lari e, nell’assorbire in forme incon­suete miste­riose let­tere e alfa­beti rove­sciati, tra­di­scono la cifra con­cet­tua­li­sta degli assem­blaggi di Mac Low e Bale­strini.
Ma ciò che li distin­gue dal modello gene­ra­tivo ducham­piano è la scelta ambi­ziosa della scul­trice di dare ad essi un’imponente dimen­sione archi­tet­to­nica, come aveva fatto Har­riet Hosmer nella prima metà dell’Ottocento, quando rein­ter­pretò le squi­si­tezze del neo­clas­si­ci­smo cano­viano nel gigan­ti­smo del suo omag­gio a Tho­mas Hart Ben­ton.
Pro­prio l’imponenza alle­go­rica di quelle colonne gre­che, total­mente eman­ci­pate da ogni fun­zio­na­lità, spinse Phi­lip John­son nel ’59 ad affian­carle ideal­mente alle sue archi­tet­ture post­mo­derne. Si pensi ai «muri» che rive­stono intere pareti in oro trans­lu­cido, debor­danti di coni meta­fi­sici e di nic­chie che accol­gono un’idea ipo­te­tica di vaso e di cas­setto, quasi a non voler tra­dire l’attesa di una fami­liare ogget­tua­lità.
È quanto avviene nell’Omag­gio all’universo (1968) che si offre al visi­ta­tore come cor­nice acco­gliente per ami­che­voli con­ver­sa­zioni a mezza voce, facendo con­vi­vere forme appa­ren­te­mente dome­sti­che con le crip­ti­che sim­bo­lo­gie che l’autrice annota pun­tual­mente nel suo bre­via­rio com­po­si­tivo. Per­ché è sem­pre nel suo «dia­rio dei sogni» che Nevel­son attri­bui­sce alla vera sacra­lità una qua­lità bizan­tina, alla bel­li­ge­ranza un tratto assiro, alla morte rituale una realtà atzeca, all’eternità una pre­ro­ga­tiva egi­zia, alla domi­na­zione sovie­tica la con­ti­nuità dello stato, all’inflazione una decli­na­zione fasci­sta, alla pro­crea­zione il carat­tere di un’ossessione nazi­sta, al potere un volto ame­ri­cano, allo stile greco la chiave di un movi­mento libe­rato dalla rigi­dità degli anti­chi, per farsi arte indi­vi­duale nel gotico che dis­solve il potere sull’universo dell’uomo rina­sci­men­tale.
Negli scritti e fram­menti di Nevel­son, ogni archi­tet­tura trova una matrice archeo­lo­gica, con la pre­senza inter­ro­ga­tiva di gigan­te­sche foto in bianco e nero intente «a guar­dare il mondo attra­verso qual­cosa di distil­lato e mai diretto», come nell’allestimento del 1965 di Tiny Alice di Edward Albee. Pro­prio il dram­ma­turgo ame­ri­cano, che accom­pa­gnava spesso la scul­trice a rac­cat­tare per le strade di Lit­tle Italy legna abban­do­nata da far rina­scere in una serie di pezzi unici (stele, colonne, mono­liti), sot­to­li­neò l’anima eco­lo­gica di quest’artista Wpa, figlia della Grande Depres­sione, che aveva impa­rato a non spre­care niente nella sua raf­fi­nata pra­tica di rici­clo archi­tet­to­nico.
Si pensi alle pesanti balau­stre pat­tu­mate da una scuola di quar­tiere, subito recu­pe­rate alla furia assem­bla­trice di Nevel­son, con il con­tri­buto musco­lare dei pazienti arti­giani armati di fiamma ossi­drica e attrezzi da fab­bro, che lei gui­dava con tono fermo e materno. Erano que­ste masse mono­co­lori la sua rispo­sta all’arguzia fili­forme di Alberto Gia­co­metti e alla minu­zia com­par­ti­men­ta­liz­zata dell’arte di Eduardo Pao­lozzi che le aveva inse­gnato a scom­porre ogni oggetto in minuti ele­menti mec­ca­nici da ripar­tire in un ordine astratto spinto ai con­fini dell’action pain­ting nelle gua­che di Ad Reinhardt.

LIBRE­RIE PER LABIRINTI

È il disor­dine del primo moder­ni­smo che Nevel­son rior­ga­nizza nelle sue fan­ta­sti­che «biblio­te­che ambu­lanti di ana­co­reta», come le defi­ni­sce acu­ta­mente Arp, tra gli incassi impos­si­bili di una visione insieme arcaica e labi­rin­tica, ludica e sel­vag­gia, che prende ora le forme ten­ta­co­lari di una fore­sta tro­pi­cale carica di sim­boli Maya, ora quella meta­fi­sica di «giar­dini lunari», tra i coni d’ombra e gli alberi d’alluminio che l’artista raduna nell’intrico di costru­zioni che Albee definì vere e pro­prie odis­see.
Come l’arte scritto-pittorica di altre sur­rea­li­ste espa­triate del suo tempo — da Kay Sage, Doro­thea Tan­ning, da Leo­nore Fini a Leo­nora Car­ring­ton — la scul­tura di Nevel­son è un’arte soli­ta­ria e fem­mi­nile. La sua serie di figure mulie­bri non alle­go­ri­che fini­sce tutta nelle chine figu­ra­tive a cui la mostra al Museo Sciarra dedica uno spa­zio pic­colo ma signi­fi­ca­tivo. La con­cava pla­sti­cità di que­sti gonfi nudi di donna ricor­dano certi levi­ga­tis­simi mono­vo­lumi di Jean Arp, in omag­gio a un mondo pen­so­sa­mente con­sa­pe­vole che «la linea di una cavi­glia può far girare il mondo», ma anche per­plesso come nel dise­gno cui Don DeLillo dedica nel 2003 il rac­conto Female Nude by Louise Nevel­son, scritto per il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della Paris Review.
Il rac­conto riprende uno schizzo del 1932, l’anno in cui Nevel­son incon­trò l’artista mes­si­cano Diego Rivera, e coglie la sor­presa di una modella che posa nuda per una pit­trice con un libro aperto sulle ginoc­chia. In base alle istru­zioni rice­vute, non dovrà per nes­suna ragione guar­dare. Ma la com­po­si­zione del qua­dro è lunga e la modella appro­fitta degli istanti in cui la pit­trice si ferma a cor­reg­gere un tratto sba­gliato per sbir­ciare il con­te­nuto del libro. E allora legge di una donna in posa in uno stu­dio d’artista sulla tre­di­ce­sima strada, e sbir­cia la china sot­tile che pro­prio lei sta ori­gi­nando, e raf­fi­gura una donna con lo sguardo nel vuoto, con un libro aperto sulle ginoc­chia sem­pli­ce­mente fir­mato «Nevel­son». La Klara Sax che in Under­world va incon­tro al suo futuro di assem­bla­trice di testate nucleari dimesse nel deserto dell’Arizona è molto pro­ba­bil­mente ispi­rata all’artista corag­giosa che nel 1972 installò pro­prio a Scott­sdale, in Ari­zona, il suo Atmo­sphere and Envi­ron­ment XIII (Win­dows to the West).

5.7.13

Guerra d’indipendenza da Facebook

di Mattia Ferraresi  (Il Foglio)


Piccola rivolta simbolica contro il social network che usa l’algoritmo moralizzatore per limitare le parole conservatrici. Chi dissente su gay, armi e immigrazione è un nemico dell’umanità da additare e bandire  

L’algoritmo moralizzatore di Facebook non dorme mai. Veglia, scruta, scandaglia, draga il mare “big” dei dati come nemmeno gli agenti della Nsa alla ricerca di ignominiose espressioni linguistiche da bandire in nome della decenza comune. Non c’è contesto, sfumatura o intonazione che possa intenerire gli inflessibili guardiani del parlar corretto sul social network, e finisce che l’espressione “froci” usata in un editoriale di questo giornale venga scioccamente bollata come incitamento all’odio. L’algoritmo non va troppo per il sottile. L’hate speech è roba seria, pensano dalle parti della Silicon Valley, mica possiamo lasciar correre qualunque schifezza in questa nostra pulitissima cloaca dell’amicizia internettiana, altrimenti poi sai le lamentele, le querele, gli esposti, i genitori che bloccano i profili dei figli perché Facebook non ha preventivamente bloccato gli orrori altrui e al pranzo della domenica i ragazzi hanno chiamato froci i gay come se nulla fosse.
La politica censoria di Facebook non risponde però soltanto all’esigenza della protezione legale, non è un argine per evitare che gli offesi chiamino l’avvocato. E’ una vidimazione culturale, una patente di liceità linguistica e morale.
Il sistema interroga l’algoritmo come fosse una Pizia per sapere cosa concede il volere del social network, ma almeno la Pizia era ebbra dei “dolci vapori” che inducevano il vaticinio, non consultava policy contrattualizzate per dare responsi. Facebook, insomma, ha creato uno standard e non è difficile capire che lo standard non è fatto soltanto di bandi ai contenuti pedo-pornografici ma è perfettamente sovrapponibile ai dettami della cultura liberal. Per questo ieri, nel giorno dell’indipendenza americana, un pugno di blogger conservatori ha organizzato il “Freedom from Facebook”, boicottaggio del social network che non toglierà nemmeno un minuto di sonno a Mark Zuckerberg ma coglie il senso di un assalto permanente a certi contenuti troppo di destra per poter essere socialmente accettabili.
Milizie armate? Camicie nere? Tirapugni? Saluti romani? Macché. Diane Sori è stata cacciata per sei volte da Facebook perché ha scritto che la sharia è incompatibile con la società americana. Le associazioni che difendono il Secondo emendamento alla Costituzione – che sancisce il diritto degli americani a portare armi – vengono costantemente allontanate dalla piazza facebookiana, un gruppo che critica le politiche d’immigrazione dei democratici non ha potuto postare sul social network l’annuncio di una manifestazione di dissenso contro le idee di Obama (e qui la cosa si fa ulteriormente spinosa: Zuckerberg è l’animatore di una lobby pro immigrazione), la censura di Special Operations Speaks, un gruppo di veterani che faceva campagna contro la rielezione di Obama alla Casa Bianca, ha fatto addirittura infuriare il liberal del portale Slate.
L’account di Todd Starnes, commentatore di Fox News, è stato congelato dopo che lui ha scritto il seguente post: “Sono il più politicamente scorretto possibile. Indosso un cappellino della Nra, mangio panini di Chick-fil-A, leggo il libro di ricette di Paula Deen, bevo un bicchiere enorme di tè zuccherato mentre sulla mia sedia a dondolo Cracker Barrel ascolto la Gaither Vocal Band che canta ‘Jesus Saves’”. Facebook ha ammesso che in questo caso la censura è stata una svista, perché con “un milione di segnalazioni a settimana” un “errore umano” ci può stare, come ha spiegato una portavoce dell’azienda. Errore umano? E l’algoritmo impersonale che non guarda al colore politico degli utenti? I blogger conservatori non hanno mai creduto alla storia della policy senza pregiudizi, pure leggi matematiche applicate, e hanno preso la data del 4 luglio per fare un parallelo fra il giorno in cui i Padri fondatori hanno “espresso il loro dissenso verso Re Giorgio” e quello in cui la comunità si ribella per “essere stata accusata e punita in modo tendenzioso”.
Ma più che l’ingiustizia in sé ciò che preoccupa gli animatori del boicottaggio simbolico è che le linee guida imposte da Facebook sono diventate il criterio con cui la società distingue le opinioni legittime dai deliri impresentabili, il dibattito dall’insulto. Il giudice della Corte suprema Antonin Scalia ha scritto che ormai chi è a favore del matrimonio eterosessuale è considerato un “nemico del genere umano”; su Facebook molte altre opinioni conducono a una rappresentazione simile e l’algoritmo è soltanto il buttafuori di un club che talvolta è molto esclusivo.

3.7.13

Merkel sul lavoro: “I giovani devono essere più mobili”

Intervista alla Cancelliera tedesca:
«Non ci deve essere una generazione perduta, deplorevole il poco impegno dei ceti più ricchi»

Francesca Sforza
inviata a berlino (La Stampa)

Dal birraio greco allo studente italiano, la Conferenza sul lavoro che si apre oggi a Berlino ha due obiettivi: contrastare la disoccupazione giovanile e difendere il lavoro europeo dagli scossoni della crisi con un massiccio sistema di riforme. Ne è convinta la Cancelliera Angela Merkel, che in un’intervista alla Stampa e ad altre cinque grandi testate europee illustra il suo pensiero: c’è una grande responsabilità delle elitès economiche, adesso si tratta di riconquistare la fiducia globale e di garantire più circolazione di cervelli nel mercato del lavoro europeo.

Cancelliera Merkel, mancano meno di novanta giorni alle prossime elezioni federali, come mai soltanto ora la disoccupazione giovanile è entrata di prepotenza nella sua agenda?
La disoccupazione giovanile in Europa mi preoccupa già da molto tempo. L’anno scorso mi sono consultata a questo proposito con i sindacati e i datori di lavoro e quando all’inizio di quest’anno al Consiglio Ue abbiamo approvato il quadro di bilancio dell’Ue per i prossimi anni, siamo riusciti a dedicare 6 miliardi di euro esclusivamente alla lotta contro la disoccupazione giovanile. Il Presidente Hollande e io abbiamo inoltre discusso con rappresentanti di grandi imprese europee su quale possa essere il loro contributo. Ho anche parlato a più riprese con gli industriali tedeschi, chiedendo loro di dare una mano, ad esempio studiando eventuali misure da far poi adottare alla Camera di Commercio greco-tedesca o alle imprese tedesche in Portogallo. L’approvazione del recente bilancio Ue conferma la volontà di procedere in questa direzione.

Cosa risponde a chi vede nel vertice sul Lavoro di domani a Berlino un’operazione di vetrina finalizzata a migliorare l’immagine della Germania, più che di sostanza?
Direi che oggi la disoccupazione giovanile è forse il problema europeo più impellente. E noi tedeschi, che dalla riunificazione abbiamo maturato le nostre esperienze riuscendo a ridurre la disoccupazione con riforme strutturali, ora possiamo mettere a disposizione queste esperienze.

Tornando ai fondi stanziati dal Consiglio Europeo, si potrebbe osservare che il denaro messo a disposizione non risolve il problema. Non è d’accordo anche lei sul fatto che il problema del mercato del lavoro è più profondo?
È vero, e non è possibile risolverlo unicamente con iniezioni di denaro, ci vogliono riforme sagge. Per esempio non è saggio che la legislazione sul lavoro in alcuni Paesi venga flessibilizzata soltanto per i giovani e non per i più anziani, che lavorano già da tempo. In momenti economicamente difficili, questo fa aumentare la disoccupazione giovanile. E poi abbiamo bisogno di maggiore mobilità in Europa. Il Ministro Federale del Lavoro Ursula von der Leyen ha molto lavorato per rafforzare la rete di cooperazione Eures tra la Commissione europea e i servizi pubblici per l’impiego. Si tratta di un servizio che può aiutare molte persone a cercare un posto di formazione o di lavoro in un altro Paese.

Resta il fatto che gli aiuti europei spesso non vengono utilizzati, e che le riforme del lavoro in molti Paesi sono bloccate o in fase di stallo. Che cosa la rende ottimista sul fatto che questa volta andrà diversamente?
Con la Conferenza di Berlino iniziamo a scambiare in modo mirato esperienze concrete su misure che funzionano. In questo contesto saranno riuniti i Ministri del lavoro e i capi delle agenzie nazionali per l’impiego, ovvero proprio chi ha esperienza pratica. Non solo, in ambito ue ormai qualcosa l’abbiamo imparato, dal momento che da due anni impieghiamo le risorse dei fondi strutturali in modo più flessibile, destinandole a quei progetti che hanno veramente priorità per la crescita e l’occupazione. Come viene impiegato ora il denaro lo si può vedere dal fatto che per il 2013 nell’Ue prevediamo manovre di bilancio pari complessivamente a oltre dieci miliardi di euro. Nell’Ue dovremmo poi aspirare a procedure omogenee per la fondazione di imprese, ad esempio nel settore informatico, anziché avere 27, e ora 28, regolamentazioni nazionali. Questo sì che spingerebbe gli investitori internazionali a venire in Europa.

Oltre a Pep Guardiola vengono in Germania migliaia di giovani spagnoli, ma anche italiani o greci, che però finiscono per fare soltanto mini-lavori o instaurare rapporti di lavoro precari. E’ d’accordo sul fatto che non può essere un modello?
I giovani che vogliono lavorare in altri Paesi Ue trovano effettivamente situazioni molto diverse, alcuni un buon posto di formazione o un lavoro promettente, altri invece attività più semplici. Ma anche da queste nel corso del tempo, avendo padronanza della lingua, possono passare a lavori migliori. Ad ogni modo non abbiamo intenzione di ampliare il settore a basso salario, poiché proprio di operai specializzati da noi c’è una grande richiesta e non sempre si riesce a colmarla con i lavoratori tedeschi, che naturalmente vogliamo raggiungere per primi. Ripeto: l’Europa necessita di un mercato del lavoro più mobile. A tal fine la naturalezza con cui studenti e accademici si muovono nel mercato interno può essere ancora migliorata per gli operai specializzati, per i quali a volte le barriere linguistiche costituiscono un ostacolo. Pertanto noi vogliamo estendere il programma di scambio europeo Erasmus anche ai giovani in formazione.

Non ha paura del potenziale di contestazione politica della cosiddetta “generazione perduta”?
Se ci sono disfunzioni è compito dei politici fare qualcosa per risolverle. La disoccupazione giovanile in alcuni Paesi è troppo elevata da diversi anni, adesso è cresciuta ulteriormente con la crisi. In un continente che invecchia questa è una situazione insostenibile. Una generazione perduta semplicemente non ci deve essere.

Esiste uno speciale modello tedesco contro la disoccupazione giovanile?
Anche se dal 2005 abbiamo dimezzato la disoccupazione giovanile, i problemi non mancano, ad esempio non tutti i ragazzi che terminano la scuola sono anche effettivamente in grado di affrontare una formazione. Noi dobbiamo occuparci di loro e il modo migliore è e rimane il sistema duale, ossia il mix di formazione scolastica e aziendale. Ormai possiamo offrire un contratto di apprendistato a tutti i giovani che lo vogliano, a differenza di quanto accadeva qualche tempo fa, quando ad esempio la formazione avveniva al di fuori delle aziende, in appositi laboratori per l’apprendistato. Anche se non è possibile per ogni Paese introdurre un sistema duale tutto insieme, la formazione extra-aziendale resta una via d’uscita. E poi vorrei dire un’altra cosa: è un errore puntare esclusivamente sull’accademizzazione dei giovani. In Germania abbiamo visto che anche la valorizzazione di professioni come l’operaio specializzato o il maestro artigiano dà ottimi risultati.

I mercati del lavoro e i dati sulla disoccupazione nei Paesi dell’Europa del Sud non sono paragonabili con quelli tedeschi. Come si fa a ragionare su soluzioni comuni a fronte di situazioni tanto diverse?
In nessun posto si può pensare di eliminare la disoccupazione giovanile in un sol colpo. Le faccio un esempio: dopo l’unificazione tedesca c’è stato un periodo in cui ho sperato che un grande investitore arrivasse nella mia circoscrizione elettorale e mi risolvesse il problema della disoccupazione, che so, al 25 %. Ovviamente quell’investitore non venne mai e in quell’occasione ho capito che la questione andava costruita pezzo per pezzo: dieci posti di lavoro qui, sei lì, cinque da una parte, altri tre da un’altra. L’importante è che sul posto operino consulenti esperti, che conoscono e incontrano regolarmente i giovani. Bisogna da una parte dare loro speranza, ma dall’altro spronarli a impegnarsi personalmente. E come questo possa riuscire al meglio, lo possiamo solo imparare gli uni dagli altri confrontando esperienze pratiche. Qualsiasi struttura centralizzata, sia a Madrid o a Berlino, non potrebbe funzionare.

Lei ha mai avuto paura di rimanere senza lavoro?
Fortunatamente no. Ma nei primi anni della mia carriera politica mi sono chiesta che cosa avrei fatto se all’improvviso la mia esperienza in politica si fosse chiusa. In quel caso pensai che avrei potuto fare la direttrice di un ufficio per l’impiego; è bello poter aiutare le persone a trovare un lavoro.

Beh, adesso diventa “direttrice dell’ufficio europeo per l’impiego”…
…No, il mio compito è un altro. Consiste nel porre le giuste basi politiche in Germania e con i miei colleghi in Europa.

Le difficoltà non mancano: pensi ad esempio al birraio greco. Ha abbassato del 20% il costo del lavoro per unità di prodotto, ma il suo credito è due volte e mezzo più caro che in Germania. Come può diventare competitivo, come farà ad assumere più persone?
Il problema degli alti costi di rifinanziamento delle imprese si è effettivamente rivelato più ostinato di quanto ci aspettassimo in Europa. Per un periodo possono intervenire la Banca Europea degli Investimenti o anche l’Istituto di Credito per la Ricostruzione tedesco (KfW), sull’aiuto del quale il Ministro Federale delle Finanze Schäuble sta negoziando con la Spagna, il Portogallo e prossimamente anche con la Grecia. Io appoggio anche l’intenzione del Primo Ministro greco Samaras di istituire una banca di sostegno greca come partner del KfW. Ma per una soluzione duratura del problema abbiamo bisogno di regole migliori per il settore bancario e quindi soprattutto di una vigilanza bancaria centrale credibile, che potrà restituire la fiducia degli investitori e portare nel lungo termine a interessi più bassi.

Come mai è stato sottovalutato il problema degli interessi per il normale finanziamento del credito?
Perché fino a questo momento non avevamo mai assistito a una perdita così massiccia di fiducia nelle banche, e addirittura nella vigilanza finanziaria. Ma con una vigilanza bancaria europea e stress test più ambiziosi possiamo riconquistare la fiducia perduta.

In Spagna ad esempio la banca di sostegno statale non funziona. Non crede che si debba accelerare sul progetto di un’unione bancaria?
Stiamo facendo progressi in tutti gli aspetti dell’unione bancaria, ma la velocità senza la precisione non aiuta. La vigilanza entrerà in vigore l’anno prossimo. La Banca Centrale Europea deve prima assumere centinaia di persone altamente qualificate e assicurarsi poi la sua reputazione come autorità di vigilanza con severi stress test. Stiamo lavorando per armonizzare i sistemi nazionali di garanzia dei depositi, fermo restando che il sistema tedesco di tutela dei depositi deve rimanere e rimarrà in vigore per la Germania senza variazioni. I Ministri delle finanze inoltre hanno ora concordato una direttiva Ue per la gestione della liquidazione delle banche. Per noi tedeschi è importante il principio secondo cui il controllo e la responsabilità devono collocarsi sullo stesso piano. Determinate possibilità di intervento potranno esserci soltanto apportando modifiche ai Trattati.

Il solo pensiero di modificare i Trattati fa rizzare i capelli a molti suoi colleghi...
Nel corso degli anni non potremo sicuramente fare a meno di modificare i Trattati. Adesso tuttavia dovremmo fare tutto quanto sia possibile senza modifiche ai Trattati, altrimenti ci vorrebbe troppo tempo per ottenere qualcosa. Siamo Stati di diritto, dunque le nostre azioni devono fondarsi sul diritto e sulla legge e sui Trattati. È stato ad esempio così per l’Esm, per il quale abbiamo dovuto insistere su limitate modifiche ai Trattati, ed è così anche per tutte le questioni della vigilanza bancaria.

Oggi la Germania sembra in prima linea nel sostegno ai programmi occupazionali, persino i limiti del deficit vengono resi meno rigidi. È finita l’epoca dell’austerità?
Continuo a non vedere una reale contrapposizione tra solidità del bilancio e crescita. Del resto chiediamoci: come è nata la crisi del debito? L’indebitamento in alcuni Paesi era così elevato che gli investitori non si fidavano più di loro e quindi non acquistavano più i loro titoli. Gli interessi erano saliti alle stelle, i Paesi potevano finanziarsi solo a prezzo di interessi disastrosi. In una situazione simile un maggiore indebitamento non può essere una soluzione. No, i deficit vanno ridotti affinché gli investitori internazionali tornino ad avere fiducia e si creino di nuovo i margini finanziari per investire nel futuro. E in questo contesto abbiamo già fatto un bel po’ di strada in Europa.

Ma gli investitori non guardano soltanto all’ammontare dei debiti…
… Vero, è altrettanto decisivo quanto competitivo è un Paese, quante industrie ha e quanto è efficiente la sua amministrazione. Bisogna guardare se l’andamento dei salari e la produttività divergono troppo. Tutto questo lo abbiamo dolorosamente capito in Europa con lo choc della crisi. A quel punto era chiaro che non si poteva andare avanti così. Quindi, ribadisco, la strada imboccata è quella giusta: consolidamento del bilancio da una parte e fondamentali riforme strutturali dall’altra. Da ciò ha origine una crescita sostenibile. E poi ciascun Paese deve chiedersi concretamente con che cosa può guadagnare denaro, quali industrie vuole e quali servizi. Il settore dell’edilizia da solo non potrà farcela, in Germania lo abbiamo visto quando il boom edilizio dopo la riunificazione ha subito ad un certo momento una battuta d’arresto.

Colpisce tuttavia il fatto che ora Lei cambi tono e parli più di programmi e di investimenti che di risparmi. Non è così?
Le due cose sono legate. Io ho sempre detto che dobbiamo procedere passo dopo passo. Qualcosa lo abbiamo raggiunto: i deficit in Europa si sono all’incirca dimezzati. Adesso non dobbiamo perdere la pazienza.

L’eurozona è l’unica regione del mondo ancora in recessione. Che cosa c’è di sbagliato?
Se nei Paesi colpiti dalla crisi si sgonfia l’ipertrofica amministrazione pubblica, se si riduce un settore edilizio sovradimensionato, non c’è da meravigliarsi che poi quei Paesi non possano crescere. Prendiamo ad esempio le repubbliche baltiche, che dopo duri anni di rinunce, a seguito di riforme incisive, ora stanno di nuovo molto meglio e registrano tutte di nuovo una crescita. L’insegnamento da trarre è che chi orienta le sue strutture alla competitività, nel medio termine torna anche a crescere. Ho l’impressione che in molti Paesi la gente sappia molto bene che cosa sia andato male nel passato. Mi dispiace che oggi soffrono di più proprio coloro che non hanno assolutamente contribuito a questi sviluppi sconsiderati, cioè i giovani o i poveri. Chi aveva il capitale in molti casi ha lasciato da tempo il proprio Paese o ha altre forme di protezione. Credo che i ricchi nei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi potrebbero, con un impegno maggiore, portare più risorse alla collettività. Trovo estremamente deplorevole che le élite economiche si assumano così poca responsabilità per questa situazione.
Perché ha voluto coinvolgere il Fmi nella lotta contro il debito? Gli europei non potevano farcela da soli?
Il Fmi ha un’esperienza nel trattamento degli Stati con un debito eccessivo come nessun’altra istituzione al mondo. Abbiamo beneficiato molto della sua reputazione e della sua cognizione di causa quando si trattava di negoziare i programmi di aiuto con i Paesi interessati.

Proprio nelle ultime settimane il Fmi sta diventando sempre più nervoso riguardo alla sostenibilità del debito greco. Gli statuti potrebbero costringerlo ad uscire. Questo significa che se ciò dovesse avverarsi l’Europa dovrebbe sostenere un programma per il debito della Grecia anche senza il Fmi?
La Grecia ha fatto tangibili passi in avanti grazie al governo Samaras indirizzato molto verso le riforme. Parto dal presupposto che la sostenibilità del debito sussisterà anche in futuro.

Non ci sarà allora un nuovo taglio del debito?
Non lo vedo.

Che messaggio può lanciare, in conclusione, a quei Paesi dell’Europa del Sud che ritengono che le loro economie siano soffocate da una linea tedesca troppo rigida, semplicemente per il fatto che hanno una storia diversa dal punto di vista dello sviluppo economico, magari più incentrata sulle piccole e medie imprese che sulla grande industria?
Se un Paese desidera strutturare la propria economia in modo completamente differente da quella tedesca ben venga. Sono contenta se vie diverse portano al successo. Naturalmente nessuno può contestare la necessità di essere competitivi e di dover lavorare per il benessere e guadagnarselo. Se però guardo all’Italia, alla Spagna o alla Grecia allora vedo settori molto diversi che hanno successo. Non credo che la dimensione sia il parametro determinante per il successo. Quello che conta è che noi tutti siamo consapevoli di quanto il mondo sia cambiato. La Cina, l’India, il Brasile, la Corea del Sud e molti altri Paesi sono da tempo nostri concorrenti nei settori in cui eravamo leader. Noi dobbiamo reagire e cambiare. L’Organizzazione Mondiale del Commercio ci dice che la maggior parte della crescita avviene oggi in parte fuori dal nostro continente. O offriamo a queste regioni del mondo prodotti attraenti ed innovativi o ci rassegniamo a perdere quote di mercato e conseguentemente prosperità ed è proprio questo che non voglio né per la Germania né per l’Europa.

Al congresso del Suo partito a Lipsia nel 2011 era più volte tornata sul tema di un’Europa maggiormente integrata. Oggi il suo programma elettorale è piuttosto diverso al proposito. Quale Europa desidera?
Nell’Ue avremo bisogno nel medio termine di altre modifiche ai Trattati. Ma ora abbiamo problemi più urgenti che dobbiamo affrontare rapidamente, e comunque più rapidamente di quanto non si possano modificare trattati. Nel nostro programma elettorale per le europee ci dedicheremo più intensamente di adesso alle grandi questioni istituzionali. Nel programma per le elezioni al Bundestag abbiamo fissato i prossimi passi necessari.

Ha già rinunciato all’idea di elezione diretta del Presidente della Commissione?
Riguardo a questo argomento sono più scettica rispetto al mio stesso partito, che nel 2011 si era pronunciato in favore dell’elezione diretta. Nel caso di un’elezione diretta del Presidente della Commissione vedo problemi nel tessuto delle istituzioni europee.

Dopo i fatti delle scorse settimane: qual è il posto della Turchia in Europa?
La Turchia è per noi in Europa un partner molto importante e stretto. Stiamo conducendo con la Turchia negoziati ad esito aperto sulla sua adesione. Dopo gli avvenimenti delle ultime settimane l’Europa non è semplicemente passata all’ordine del giorno, perché i diritti umani non sono negoziabili. Il compromesso ora raggiunto, e cioè di poter aprire il prossimo capitolo dei negoziati sull’adesione ad ottobre, dopo la presentazione da parte della Commissione del rapporto sui progressi compiuti, corrisponde ad ambedue le esigenze.

E’ davvero rimasta sorpresa per le dimensioni del Datagate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti? E per quale motivo critica le intercettazioni se poi la Germania ne fa uso per difendere la sua sicurezza?
Come la maggior parte dei tedeschi, so molto bene che più volte servizi stranieri ci hanno aiutato a scoprire gruppi terroristici in Germania e impedire in tempo i loro attentati. Tuttavia, accanto al bisogno di sicurezza va sempre tenuto in conto il bisogno della tutela della privacy, tra ambedue deve essere stabilito un equilibrio. I nostri servizi e i nostri ministeri stanno cercando chiarimenti a tutti i livelli, e quindi anche a livello europeo, per quanto accaduto e perciò anche in merito alle nuove questioni sul tavolo dallo scorso weekend. Ritengo che sia un fatto grave spiare gli amici con cimici nelle nostre ambasciate o nelle rappresentanze dell’Ue, non va proprio. Non siamo più all’epoca della guerra fredda. Non vi è dubbio alcuno che la lotta al terrorismo anche tramite informazioni dei servizi su quanto avviene in internet sia assolutamente necessaria, ma non vi è neanche dubbio alcuno che debba essere mantenuta la proporzione. È questo pensiero che guida la Germania nei colloqui con i nostri partner.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Frédéric Lemaître (Le Monde), Berna Gonzàles Harbour (El Pais), Kate Connolly (The Guardian), Tasos Telloglou (Kathimerini) e Stefan Kornelius (Süddeutsche Zeitung) 

Salvate i soldati della libertà

di BARBARA SPINELLI (La Repubblica)

Alcuni li chiamano talpe, o peggio spie. Altri evocano le gole profonde che negli anni ’70 permisero ai giornali di scoperchiare il Watergate. Sono i tecnici dei servizi segreti o i soldati o gli impiegati che rivelano, sui giornali, le illegalità commesse dalle proprie strutture di comando, dunque dallo Stato.

Oggi tutti questi appellativi sono inappropriati. Non servono a indovinare uomini come Edward Snowden o Bradley Manning: le loro scelte di vita estreme, inaudite. Non spiegano la crepa che per loro tramite si sta aprendo in un rapporto euroamericano fondato sin qui su silenzi, sudditanze, smorte lealtà.

Continuare a chiamarli così significa non capire la rivoluzione che il datagate suscita ovunque nelle democrazie, non solo in America; e il colpo inferto a una superpotenza che si ritrova muta, rimpicciolita, davanti alla cyberguerra cinese. Già nel 2010 fu un terremoto: i tumulti arabi furono accelerati dai segreti che Manning e altri informatori rivelarono a Wikileaks sui corrotti regimi locali, oltre che sui crimini di guerra Usa. Ora è il nostro turno: senza Snowden, l’Europa non si scoprirebbe spiata dall’Agenzia nazionale di sicurezza americana (NSA), quasi fossimo avversari bellici. Perfino il ministro della Difesa Mario Mauro, conservatore, denuncia: «I rapporti tra alleati saranno compromessi, se le informazioni si riveleranno attendibili ».

In un’intervista su questo giornale a Andrea Tarquini, il direttore del settimanale Die Zeit Giovanni di Lorenzo è più esplicito: "Snowden ha voluto mostrare all’opinione pubblica come i servizi segreti possono mentire, e le reazioni positive dei tedeschi al suo tentativo sono un cambiamento fondamentale per il mondo libero. Un terzo dei cittadini si dice disposto a nascondere Snowden. Un terzo, fa un grande partito".

Chiamiamoli dunque con il nome che Snowden e Manning danno a se stessi: whistleblower, cioè coloro che lavorando per un servizio o una ditta non smettono di sentirsi cittadini democratici e soffiano il fischietto, come l’arbitro in una partita, se in casa scorgono misfatti. La costituzione è per loro più importante delle leggi d’appartenenza al gruppo.

Sono i cani da guardia delle democrazie, e somigliano ai rivoluzionari d’un tempo. Vogliono trasformare il mondo, rischiano tutto. Snowden dice: "Non volevo vivere in una società che fa questo tipo di cose. Dove ogni cosa io faccia o dica è registrata". Sono convinti che l’informazione, libera da ogni condizionamento, sia la sola arma dei cittadini quando il potere agisce, in nome del popolo e della sua sicurezza, contro il popolo e le sue libertà. Come i rivoluzionari sono ritenuti traditori, da svilire anche caratterialmente. Infatti sono liquidati come nerd: drogati da internet, narcisisti, impo-litici, asociali.

Ben altra la verità: le notizie date a Wikileaks usano entrare nella filiera «tradizionale», trovando sbocco su quotidiani ad ampia diffusione, attraverso articoli di giornalisti investigativi (è il caso di Glenn Greenwald del Guardian, cui Snowden s’è rivolto). Non sono rivelati, inoltre, i documenti altamente confidenziali. Siamo nell’ambito dell’atto di coscienza per il bene collettivo, non di gesti isolati di individui fuori controllo.

È utile conoscere il tragitto dei moderni whistleblower. Il soldato Manning a un certo punto non ce la fece più, e passò al fondatore di Wikileaks Assange documenti e video su occultati crimini americani: l’attacco aereo del 4 maggio 2009 a Granai in Afghanistan (fra 86 e 147 civili uccisi); il bombardamento del 12 luglio 2007 a Baghdad (11 civili uccisi, tra cui 3 inviati della Reuters. Il video s’intitola Collateral Murder, assassinio collaterale).

Accusato di alto tradimento è l’informatore, non i piloti che ridacchiando freddavano iracheni inermi. Arrestato e incarcerato nel maggio 2010, Manning è sotto processo dal 3 giugno scorso. Un "processo- linciaggio", nota lo scrittore Chris Hedges, visto che l’imputato non può fornire le prove decisive. I documenti che incolpano l’esercito Usa restano confidenziali; e gli è vietato invocare leggi internazionali superiori alla ragione di Stato (princìpi di Norimberga sul diritto a non rispettare gli ordini in presenza di crimini di guerra, Convenzione di Ginevra che proibisce attacchi ai civili).

Gli stessi rischi, se catturato, li corre Snowden, ex tecnico del NSA: ne è consapevole, come appunto i rivoluzionari. A differenza delle vecchie gole profonde, i whistleblower militano per un mondo migliore. Sono molto giovani: Snowden ha 30 anni, Manningne aveva 22 quando mostrò il video a Wikileaks. Sono indifferenti a chi bisbiglia smagato: «Spie ce ne sono state sempre». Non fanno soldi. Alcuni agiscono all’aperto: Snowden ha contattato Greenwald, che da anni scrive sul malefico dualismo libertà-sicurezza. Altri rimangono anonimi finché possono, come Manning. Daniel Ellsberg, il rivelatore dei Pentagon Papers che nel ’71 accelerò la fine dell’aggressione al Vietnam, può essere considerato il capostipite dei whistleblower. Per lui Snowden è un eroe. Quel che ci ha dato è la conoscenza: esiste un’Agenzia, che nel buio sorveglia milioni di cellulari e indirizzi mail in America e nel mondo.

È vero quello che dice il direttore della Zeit: il giudizio dei cittadini tedeschi su Snowden segnala mutamenti profondi, il cui centro è un nuovo tipo di informazione, che passa attraverso la stampa ma nasce in internet. Il giornalista Denver Nicks, autore di un libro su Manning, sostiene che lo spartiacque fu il video Collateral Murder: "È l’inizio dell’era dell’informazione che esplode su se stessa".

L’era dell’informazione sveglia il mondo libero, e non libero. Grazie a Snowden, e a giornalisti come Greenwald, l’Europa s’accorge di essere terra di conquista per l’America, trattata come Mosca trattava i paesi satelliti. Leggendo i rapporti dei servizi Usa pubblicati da Spiegel, i tedeschi scoprono di esser chiamati “alleati di terza classe”: non partner, ma infidi subordinati. La crisi dell’euro ha spinto Obama non a promuovere la federazione europea come l’America postbellica, ma a spiare i Paesi, le loro liti, le comuni istituzioni.

Indignarsi per l’intrusione imperiale non basta. Né basta rifiutare gli F-35. È su se stessa che l’Europa deve gettare uno sguardo indagatore, trasformatore, se vuol svegliarsi dal sonno che l’imprigiona in un atlantismo degenerato in dogma, e che la condanna a restare sempre minorenne. Un’Unione priva di una sua politica estera e di difesa, viziata per decenni dalla tutela americana: questo è sonno dogmatico. Come ipnotizzati, gli europei hanno partecipato alle guerre Usa anti-terrorismo senza mai domandarsi se avessero senso, se fossero vincibili.
Senza mai ridiscuterle con l’alleato. Senza chiedersi – oggi che regna Obama – se i droni che uccidono a sorpresa (i targeted killing in zone belligeranti e non: Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Somalia) siano internazionalmente legali. Dogmaticamente digeriscono una Nato che serve solo gli Usa, quando serve. È stato necessario Snowden per capire che gli Usa offendono la legalità che pretendono insegnare al mondo, e screditano le democrazie tutte.

Il 4 luglio, tanti americani celebreranno la Dichiarazione d’indipendenza manifestando in difesa dell’articolo 4 della Costituzione, che vieta allo Stato di interferire nelle vite dei cittadini. Anche per l’Europa è ora di dichiarare l’indipendenza dall’alleato-segugio. Se avesse coraggio, esaudirebbe il desiderio di quel terzo di cittadini tedeschi che vuol offrire rifugio a Snowden, e protesterebbe contro il linciaggio giuridico di Manning.

Non troverà questo coraggio. Ma potrebbe accorgersi che i suoi cittadini, tutt’altro che minorenni male informati, la pensano diversamente. Orfani di una sinistra che trasforma il mondo, gli europei sono privi di propri whistleblower. È sperabile che ne avremo anche noi.