27.4.15

Derivati. Le scommesse sbagliate sul calo dei tassi. Un conto miliardario per i contribuenti


In quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici, soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit)

Sergio Rizzo

Discutiamo da settimane della possibile esistenza nei conti pubblici di un tesoretto di 1,6 miliardi e scopriamo ora che lo scorso anno il Tesoro ha bruciato con i derivati una somma pari a ben due di quei presunti tesoretti. Tre miliardi e trecento milioni, per l’esattezza. Due tesoretti lo scorso anno, quasi due nel 2013, altri due e mezzo nel 2012, e ancora un paio l’anno precedente. Più un altro tesoretto e mezzo, ha spiegato Stefania Rimini per Report di Milena Gabanelli, causa rinegoziazioni dei contratti di cui sopra. Il risultato è che in quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici. Per capirci, è la somma che il governo Renzi dovrà trovare quest’anno per evitare l’aumento delle tasse contemplato dalle clausole di salvaguardia. Tutti soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit). Quelle, appunto, con cui il Tesoro ha sottoscritto una decina d’anni fa i contratti di finanza derivata.
Per quale motivo l’ha fatto? Gli esperti spiegano che quei contratti sono come delle polizze assicurative. Servirebbero a coprire parte del debito pubblico dal rischio di aumento dei tassi d’interesse e dal conseguente aggravio della spesa. Come funziona è presto detto. Il Tesoro si impegna a pagare alla banca, di solito una delle grandi major internazionali del ramo, un tasso fisso su un certo ammontare di debito pubblico. Poniamo che sia il 4 per cento annuo. La banca, a sua volta, corrisponde allo Stato italiano un interesse variabile misurato sull’ Euribor. Se quest’ultimo è più alto del tasso fisso, il Tesoro ci guadagna la differenza. Ma se è più basso, ci rimette. Oggi che i tassi sono a zero, ci rimette tutto.
Il caso vuole che quei contratti siano stati stipulati pochi anni prima della crisi finanziaria e del crollo verticale dei tassi. E per un ammontare gigantesco: 160 miliardi. Il che rende evidente come quell’operazione, lungi dall’essere una polizza assicurativa contro un rischio finanziario, sia diventata essa stessa un rischio finanziario incalcolabile.
Spiegano i tecnici ministeriali che quando si è deciso di ricorrere ai derivati il mercato dei tassi era in altalena, più su che giù. Andrebbe però ricordato come fra il 2000 e il 2002 l’ Euribor fosse precipitato dal 5 al 2 per cento. Mentre l’ingresso nell’euro tutto poteva far immaginare tranne l’impennata inarrestabile dei tassi.
Questo fa apparire ancora più avventurose le decisioni prese in quegli anni, che hanno finito per favorire soltanto le banche vanificando parte del risparmio sul servizio del debito garantito dalla moneta unica. Qualche numero? Nel 2011 abbiamo speso per interessi 78 miliardi: cifra identica in termini nominali a quella del 2001, quando c’era ancora la lira e il volume dei titoli di Stato in circolazione era nettamente inferiore.
In termini reali il risparmio è stato di ben 18 miliardi, ridotti però a 15 per quella sconsiderata iniziativa sui derivati. I maligni potrebbero anche malignare a proposito di certi passaggi di alti papaveri del Tesoro ai vertici di certe grandi banche internazionali. Ma c’è da dire che all’inizio degli anni Duemila la febbre dei derivati non contagiava solo via XX settembre, bensì anche le amministrazioni locali. Qualcuno di loro ne è uscito con le ossa rotte.
Già nel 2014 la Procura della Corte dei conti, nella relazione sull’apertura dell’anno giudiziario, aveva sottolineato i pericoli crescenti causati da queste operazioni, facendo presente che il rapporto fra deficit pubblico e pil del 2013 sarebbe stato ben migliore (il 2,8 anziché il 3 per cento) senza un salasso di 3,2 miliardi provocato dai derivati, dei quali 250 milioni a carico dei Comuni. E il 10 febbraio scorso ha rincarato la dose, argomentando che «con crescente frequenza tali contratti sono stati utilizzati non tanto con finalità di copertura, bensì con intenti di tipo speculativo incrementando paradossalmente, in caso di utilizzo distorto, una nuova rilevante fonte di rischio e di conseguente danno erariale». Il problema è che fermare questo bagno di sangue non è affatto facile. Rinegoziare i contratti costa un sacco di soldi: e pagano sempre i contribuenti. A differenza dei responsabili.

22.4.15

MobileGeddon, come funziona il nuovo algoritmo di Google

Se segui le notizie del mondo Google avrai sentito che l’usabilità da dispositivi mobili da oggi sarà un fattore di posizionamento: ecco cosa cambia
da Wired
Ormai lo sappiamo tutti e ne abbiamo già parlato anche qui su Wired.it: le ricerche da mobile hanno superato in tutto il mondo le ricerche da desktop, tutti noi utilizziamo ormai quotidianamente lo smartphone per le nostre ricerche e Google per offrire risultati di ricerca di qualità deve assicurarsi che le pagine siano visibili per gli utenti che eseguono la ricerca.
Per questo motivo di recente abbiamo annunciato che i risultati delle ricerche eseguite da mobile considereranno l’ottimizzazione per dispositivi mobili come un fattore di posizionamento. Questo significa che Google favorirà nel posizionamento i siti ottimizzati e questo permetterà agli utenti di ottenere una migliore esperienza di navigazione da dispositivi mobili questo non avrà influenza sulle ricerche da desktop.
Google riconoscerà se il tuo sito è mobile friendly grazie a diverse caratteristiche che abbiamo identificato come necessarie per l’usabilità dei siti web da mobile, come ad esempio l’impostazione della viewport corretta, la presenza di contenuti non visibili da dispositivi mobili, o la presenza di link troppo piccoli e ravvicinati per essere toccati su uno schermo touch.
Se ancora non sei sicuro che il tuo sito sia mobile friendly utilizza il test di compatibilità e identifica quali cose puoi migliorare per soddisfare i tuoi utenti.
Per supportare chi ha un sito web in questa transizione abbiamo reso disponibili guide per l’ottimizzazione e lo strumento di usabilità sui dispositivi mobili grazie a questo strumento potrai capire come Google vede il tuo sito e quali azioni sono necessarie per rendere il tuo sito accessibile per gli utenti connessi da smartphone.
Se hai bisogno di supporto nel rendere il tuo sito mobile-friendly chiedi l’aiuto di un un esperto nel Forum di assistenza o sulla community ufficiale.

20.4.15

Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza

Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale)

Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo.

Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea.

Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.

Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.

Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.

Se dovessi disegnare i viaggi di mio fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.

Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi. Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai una volta a vedere New York e l’Empire State Building?

Per un europeo i viaggi sono una costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.

Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.

Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo, si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi, stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua geografia e non per qualcosa che hai commesso.

Viaggiare è un diritto esclusivo del nord, di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo rese conto.

È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare.

Ho capito quello che stava succedendo solo nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore come proprio.

Ora è tutto diverso.

Potrei dire che c’è solo indifferenza in giro.

Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce che ci ha divorato l’anima.

L’ho sperimentato sulla mia pelle quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.

Una signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.

“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto. La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente, l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.

Anche la parola “tragedia” forse è fuori luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.

Nessuno di noi è sceso in piazza per chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.

19.4.15

Ma non era il paese arcobaleno? (BuongiornoAfrica)- JOHANNESBURG, SACCHEGGI E ATTACCHI AGLI IMMIGRATI (Il Sole 24 Ore)

Raffaele Masto (BuogiornoAfrica)

Le violenze razziste in Sudafrica non sono nuove. Esplodono periodicamente e non sono nuove nemmeno nella storia. Sempre, quando c’è la crisi, quando le risorse sono poche, quando le classi dirigenti non riescono (o non vogliono) dividere la ricchezza i più poveri finiscono per contendersi violentemente le briciole. Il razzismo quasi sempre è il pretesto migliore per occultare quella che veramente è la posta in gioco.

Il Sudafrica è una economia emergente, membro dei BRICS, con grandi risorse e protagonista di una crescita, negli anni scorsi, veramente formidabile. L’ex paese dell’Apartheid è anche un grande investitore in Africa, capace di fare concorrenza a potenze come la Cina, l’India, la Malesia e le vecchie potenze europee.

Nonostante tutto questo, nonostante la sua storia, nonostante Mandela, non è riuscito ad esprimere una classe politica capace realmente di fare a meno del razzismo.

Le violenze xenofobe di questi giorni sono proprio il frutto della incapacità della classe politica di promuovere uno sviluppo equo. Il razzismo in Sudafrica, tra l’altro, è il prodotto della chiusura del governo e delle multinazionali (nelle quali il governo è tra i principali azionisti) davanti agli scioperi del settore minerario, del platino e dell’oro, e del settore automobilistico.

Settimane e mesi di scioperi non sono riusciti a far lievitare i salari a livelli almeno dignitosi. Anzi, alcuni scioperi, come quello di Marikana (34 minatori uccisi dalla polizia con colpi alle spalle) si sono trasformati in eccidi che non avevano nulla da invidiare a quelli del regime dell’apartheid.

I lavoratori che, nonostante lotte eroiche non riescono a vincere, finiscono per vedere negli immigrati dei concorrenti, dei rivali che fanno diminuire il loro potere contrattuale. Ecco, il razzismo di questi giorni, è figlio di quegli avvenimenti ma anche delle colpevoli incapacità dei paesi vicini ai quali appartengono gli immigrati che subiscono violenze.

Lo Zimbabwe del dinosauro Mugabe, per esempio, che ha affamato la sua popolazione che ha finito per vedere nel Sudafrica una terra dove, forse, si poteva sopravvivere. O il Mozambico del miracolo economico nel quale però la classe dirigente non è mai cambiata e la popolazione rurale è rimasta ai tempi del colonialismo.

Insomma il razzismo di oggi in Sudafrica è una guerra tra i più poveri, tra qli ultimi di una scala sociale che non è molto cambiata dai tempi dell’apartheid ad oggi. Allora c’era il razzismo tra bianchi e neri, ora tra neri e neri.

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Paolo Brera (ilsole24ore)


IL SUDAFRICA sperava di aver spento l'incendio, e invece in strada sono tornati i machete e la furia, le urla e i saccheggi, il sangue e le proteste. Sei morti e un'ottantina di arresti in due settimane, cinquemila stranieri costretti a fuggire lasciandosi dietro una vita per nascondersi in stadi presidiati dalla polizia, o in campi allestiti alla meglio. Kenya, Malawi e Zimbabwe hanno invitato i loro concittadini ad abbandonare subito il paese, e la multinazionale Sasol ha rimpatriato 340 lavoratori sudafricani dallo stabilimento in Mozambico per paura di ritorsioni. «Sono scioccato e disgustato — dice il presidente dello Zimbabwe,Robert Mugabe —da quello che è successo a Durban, dove cinque o sei persone sono state arse vive da membri della comunità zulu». La xenofobia — male antico cresciuto tra le pieghe dell'a
partheid, quando i bianchi opponevano indiani e neri di altri paesi africani per contendere il lavoro ai neri cui avevano tolto terre e proprietà—di tanto in tanto torna a bruciare case e a rapire vite: nove anni fa toccò a Città del Capo, sette anni fa a Johannesburg; oggi l'odio divampa in mezzo paese. Il maremoto di violenze iniziato dieci giorni fa a Durban si è propagato alle township di Johannesburg dove venerdì sera la polizia ha sparato all'impazzata pallottole di gomma per tentare di riportare la calma, tra arresti, aggressioni e saccheggi. Una crisi così violenta da spaventare il paese e da suggerire al presidente Zuma di rinunciare al viaggio di Stato in Indonesia. Ogni notte è un incubo: neri contro neri e poveri contro poveri, in un paese devastato dalle contraddizioni e dalla disoccupazione al 25%. Non sono i bianchi nel mirino della furia, ma altri neri africani provenienti dalla Nigeria o dalla Somalia dall'Etiopia, dallo Zimbabwe.«Ci rubano il lavoro», dicono nei ghetti delle periferie di Durban e Johannesburg. Le ultime violenze, venerdì, sono divampate ad Alexandra, la "township" più difficile di Johannesburg in cui i neri sopravvivono dividendosi un gabinetto in decine di famiglie tra pidocchi e topi, martoriati dall'Aids e dalle gang che s'ammazzano per strada. il quartiere che ospita la prima case in cui approdò Mandela appena arrivato in città, una casa-stanza con il tetto di lamiera che affaccia in un cortile sgangherato nella baraccopoli. Lì accanto, venerdì, la polizia in tenuta antisommossa sparava pallottole di gomma a uomini con i machete in mano, pronti ad assaltare i negozietti degli stranieri atterriti. Alla radice dell'esplosione d'odio c'è una frase scellerata pronunciata —o«tradotta male»,secondo la sua versione— dal re zulu Goodwill Zwelithini secondo cui gli stranieri devono «fare i bagagli e andarsene a casa loro» perché rubano il lavoro ai sudafricani. Parole che sentiamo anche in Italia, ma che diventano benzina in un paese in cui la violenza, la povertà e l'estrema ineguaglianza sono una miccia perennemente accesa. Quando un negoziante straniero di Durban ha sparato a quattro ladri uccidendo per errore una cliente sudafricana, la folla infuriata è scesa in strada minacciando e attaccando gli stranieri, assaltando e derubando migliaia di negozi. Dalle periferie di Umlazi e Kwa Mashu a Durban a quelle di Primrose e Benoni a Johannesburg, il furore spaventa l'intero Sudafrica. «È preoccupante —dice il presidente Zuma, che ieri a Durban ha visitato il campo di Chatsworth per gli stranieri sfollati —i problemi, se ci sono, vanno risolti diversamente».
 




9.4.15

Soros, Piketty e un pizzico di Ocse. La rivoluzione è (anche) un pranzo di gala

Ecco gli aedi della "diseguaglianza" nel dibattito pubblico mondiale, nel corso di un seminario a porte chiuse cui il Foglio ha partecipato

di Marco Valerio Lo Prete (ilfoglio.it)

Parigi, dal nostro inviato. Metti assieme sullo stesso palco il finanziere e filantropo di origine ungherese George Soros, l'economista da best-seller francese Thomas Piketty, il Premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz e il segretario generale dell'Ocse Angel Gurria. Aggiungi, sullo sfondo, la scritta a caratteri cubitali "Liberté, égalité, fragilité". Ecco dunque, riunita ieri sera a Parigi, in un seminario a porte chiuse cui il Foglio ha partecipato, l'avanguardia più agguerrita della battaglia globale e mediatica alla diseguaglianza. Battaglia che a tratti tracima perfino, almeno a parole, nella lotta al capitalismo per come oggi lo conosciamo.

"Viviamo in tempi che generano ansia", ha esordito Rob Johnson, presidente dell'Institute for New Economic Thinking (Inet), think tank progressista fondato nel 2009 grazie alla mente, al cuore e al portafoglio di Soros, e capace oramai di attirare economisti, studiosi e policy maker prestigiosi e trasversali. "Anche tra i più fortunati tra di noi, non faccio che imbattermi in amici profondamente allarmati – dice Johnson guardando la platea parigina – Non c'è manager d'azienda o persona ricca che non abbia paura di un mondo che appare fuori controllo". Perché sconfiggere la diseguaglianza - è uno dei leitmotiv della serata - non è obiettivo di cui si possano giovare solo i più sfortunati tra noi. Dopodiché, nell'evento introduttivo di una tre giorni di seminari scientifici ai massimi livelli, è tutto un crescendo di toni. Anatole Kaletsky, editorialista ben poco mainstream del New York Times, conferma: "Quando parlammo per la prima volta con George (Soros, ndr), a Londra nel 2009, realizzammo che quella iniziata ufficialmente con il crollo di Lehman Brothers non era una crisi nel capitalismo, ma una crisi del capitalismo".

A quel punto tocca a George Soros – nato Gyorgy Schwartz a Budapest nel 1930, il protagonista indiscusso di imponenti operazioni finanziarie che nel 1992 costrinsero la sterlina inglese e la lira italiana a uscire dallo Sme (Sistema monetario europeo) – raccogliere la prima standing ovation, quando dichiara che l'obiettivo fondamentale di Inet, cioè della sua creatura che celebra in questi giorni il quinto simposio annuale organizzato in partnership con il think tank canadese Cigi, è nientemeno che "la demolizione del monopolio della dottrina economica oggi esistente". Nel corso della serata qualcuno dei nomi dei presunti "monopolisti" del vecchio e stantio liberismo alla fine verrà pure fuori: poche sorprese, c'è il defunto presidente americano Ronald Reagan; poi c'è un economista che ha collaborato con lo stesso Reagan e che è ancora in auge nell'accademia a stelle e strisce, come Martin Feldstein; infine un altro premio Nobel per l'Economia come Robert Lucas.

Ma il mattatore teorico della serata "liberté, égalité, fragilité" non poteva che essere l'economista francese Thomas Piketty, unico scravattato in stile Alexis Tsipras, che ieri sera ha colto l'occasione per sintetizzare i punti essenziali del suo libro-tormentone, "Il Capitale nel XXI Secolo", una disamina su disuguaglianza del reddito, disuguaglianza della ricchezza e crescente "patrimonalizzazione" oligarchica delle nostre società contemporanee, a scapito di chi il reddito se lo guadagna con il lavoro quotidiano. Un libro la cui versione originale dell'estate 2013, in lingua francese, era praticamente passata inosservata al grande pubblico europeo e mondiale; poi, una volta tradotto nel 2014 da Harvard University Press, ecco che lo stesso saggio si è trasformato per qualche mese nel volume che non potevi non avere nella tua libreria. Merito delle tesi di Piketty, ovvio, della loro capacità di fare presa e di non affondare sotto le centinaia di tabelle e dati (poi variamente contestati) che le corredavano, e infine merito del battage mediatico-pubblicitario di opinionisti del calibro di Paul Krugman, ancora una volta americano. Senza dimenticare che ieri Piketty, dal palco dell'Inet, ha voluto rendere gli onori pure al padrone di casa: se non ci fosse stato il finanziamento del think tank di Soros, ha detto l'economista, molte delle serie statistiche su cui si fonda il suo studio non sarebbero nemmeno esistite.

L'economista francese ha spiegato tra le altre cose perché, nelle società in cui la rendita generata dal capitale assume sempre maggiore peso rispetto al reddito da lavoro, come accade in maniera esagerata in Europa e Giappone, eventuali squilibri nella formazione dei prezzi possono avere un effetto amplificato su queste ricchezze "patrimoniali" crescenti. Le bolle immobiliari giapponese e spagnola insegnano. Inoltre lo strapotere della rendita da capitale, aumentando il peso specifico delle origini socio-economiche di ciascuno di noi, frena la mobilità sociale. E questi sono soltanto due esempi di come occorra regolare in maniera innovativa le nostre economie, ha detto l'economista.

Che poi non ha mancato di fare un riferimento piuttosto dettagliato all'Italia. Quando ha osservato che il nostro paese è diventato negli anni l'ultimo tra i grandi paesi per valore del "capitale pubblico" accumulato, mentre è il primo per quanto riguarda il "capitale privato" (immobili privati, patrimoni familiari, e chi più ne ha più ne metta). Arrivando al paradosso per cui "l'Italia ha oramai più debito pubblico che asset di proprietà pubblica. Se anche privatizzasse tutti i beni nelle mani dello Stato - ha osservato Piketty - l'Italia rimarrebbe comunque con un debito pari al 67% del Pil. Ma forse oggi il paese paga, in interessi sul debito pubblico, più di quanto non pagherebbe se alienasse tutte le sue scuole e poi si mettesse a pagare l'affitto". L'economista francese per una volta turboliberista? No, si tratta solo di un paradosso, utile poi per criticare "l'amnesia storica" che oggi affligge "Germania e Francia" che insistono con il chiedere "all'Italia e ai paesi mediterranei di ripagare il loro debito pubblico a suon di avanzi primari, dopo che la stessa Germania nel Secondo dopoguerra smaltì il suo debito grazie a ristrutturazioni e inflazione straordinarie".

Oratori pugnaci, insomma, quelli riunitisi ieri sera a Parigi. E certo non senza qualche numero e pezza d'appoggio. Come quelli forniti dal solitamente più diplomatico Gurrìa, segretario generale dell'Ocse, che però ieri si è lasciato trascinare dal fermento egualitarista dell'evento. Così il segretario generale dell'Organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del pianeta ha prima rivendicato che l'Ocse ha battuto quasi tutti sul tempo nel sollevare ufficialmente il problema "diseguaglianza", seppure prima del 2008 - ha quasi fatto ammenda Gurrìa - si era troppo ecceduto con i punti interrogativi. Oggi la diseguaglianza c'è, è cresciuta, e non si discute: "Il reddito del 10 per cento dei cittadini più ricchi nei paesi dell'Ocse - ha detto - è 10 volte il reddito della fascia di cittadini più poveri". Ancora: "Le persone di famiglie ad alto reddito, nei nostri paesi sviluppati, possono vivere in media anche 10 anni in più di quelle che vengono da background umili". Conclusione: "Occorre una maggiore integrazione nell'economia di donne, migranti e disabili. E ricchi devono pagare l'ammontare di tasse che gli spetta". Soros in platea annuisce convinto.

Quando tocca a Joseph Stiglitz concludere, sul banco degli imputati salgono ufficialmente gli Stati Uniti. Sono loro, dice il Premio Nobel, l'inferno in terra quando si tratta di diseguaglianza economica e sociale. Ne stanno risentendo tutti, poveri e ricchi che siano. "L'American dream è compromesso", dice. Verrebbe naturale chiedere al prof. come è possibile che tanti giovani europei - e non soltanto loro - siano tornati in questi anni a varcare l'Oceano per tentare la fortuna negli Stati Uniti, abbandonando l'Europa più egualitaria e giusta; forse che un po' di mobilità sociale in più ancora alberghi da quelle parti? Ma gli oratori hanno sforato rispetto alla scaletta iniziale, dunque non c'è stato tempo di raccogliere le domande dal pubblico. Soltanto qualche minuto per Piketty per autografare un paio di copie del suo libro, scattare una foto, e lasciare che la sua giovane assistente salti come-se-nulla-fosse la fila davanti al guardaroba per recuperargli la borsa.

4.4.15

Chomsky: «Accordo farsa»

Giuseppe Acconcia

Intervista. Il filosofo anarchico americano: «È tutta propaganda occidentale, i veri alleati degli Usa sono gli Stati sunniti. Per l’Iran il nucleare è solo un deterrente nei confronti di Israele»

Abbiamo rag­giunto al tele­fono negli Stati uniti Noam Chom­sky. Lin­gui­sta, anar­chico e filo­sofo del Mas­sa­chu­set­tes Insti­tute of Tech­no­logy, Chom­sky è autore di pie­tre miliari del pen­siero moderno e teo­rico per una pro­fonda cri­tica del sistema media­tico. Memo­ra­bile è il suo dibat­tito sulla natura umana con Michel Fou­cault (1971). Abbiamo discusso con Chom­sky dell’intesa pre­li­mi­nare sul pro­gramma nucleare ira­niano, rag­giunta gio­vedì a Losanna e della situa­zione del Medio Oriente.

Che ne pensa di que­sta danza sul nucleare ira­niano, andata avanti per dodici anni?

L’Iran sospetta che nono­stante l’accordo, i Repub­bli­cani si rifiu­te­ranno di can­cel­lare le san­zioni. E così l’obiettivo prin­ci­pale delle auto­rità ira­niane è che le san­zioni non siano sotto il con­trollo del Con­gresso: que­sta sarebbe una tra­ge­dia. Vedremo se que­sto punto ci sarà nel testo defi­ni­tivo. La mia sen­sa­zione è che tutto il nego­ziato sul nucleare sia una farsa. Non c’è nes­sun motivo per cui l’Iran non possa avere un pro­gramma nucleare secondo il Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione (Tnp) che ha sottoscritto.

Per­ché parla di farsa in rife­ri­mento ai col­lo­qui sul nucleare?

Gli Stati uniti e i suoi alleati affer­mano che la comu­nità inter­na­zio­nale ha chie­sto all’Iran di fare delle con­ces­sioni per arri­vare a un’intesa. Ma i Paesi non alli­neati, che rap­pre­sen­tano il 70% della popo­la­zione mon­diale, hanno sem­pre soste­nuto gli sforzi nucleari ira­niani. Eppure la pro­pa­ganda occi­den­tale è uno stru­mento potente, per que­sto è andata avanti per tanto tempo que­sta farsa.

La solu­zione della con­tro­ver­sia potrebbe disin­ne­scare il set­ta­ri­smo che infiamma il Medio Oriente?

La que­stione cen­trale è che gli stati sun­niti sono i prin­ci­pali alleati degli Stati uniti. Gli amici degli Usa sono i fon­da­men­ta­li­sti più estre­mi­sti e vogliono domi­nare la regione. L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Sau­dita non vuole mai e poi mai un anta­go­ni­sta, un deter­rente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la pre­oc­cu­pa­zione per gli Stati uniti? Si trat­te­rebbe sola­mente di un deter­rente. Nes­suno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, per­ché il paese sarebbe vapo­riz­zato all’istante e gli aya­tol­lah di certo non vogliono sui­ci­darsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deter­rente con­tro l’aggressività di Israele nella regione. È que­sto che gli Stati uniti non vogliono.

Ma Neta­nyahu non passa giorno che non gridi con­tro l’intesa con l’Iran e ora la respinge?

Israele per­se­gue una poli­tica siste­ma­tica di con­qui­sta di tutto quello che vuole per inte­grarlo nella Grande Israele in vio­la­zione dei trat­tati di Oslo. Gaza è deva­stata. Que­ste poli­ti­che sono appog­giate dagli Stati uniti e, se con­ti­nue­ranno a soste­nere Israele, non cam­bie­ranno mai. In que­ste set­ti­mane, tutta la stampa main­stream Usa ha pub­bli­cato arti­coli in cui si chie­deva agli Stati uniti di attac­care l’Iran. Per­ché la stampa ira­niana non fa lo stesso? Il pre­sup­po­sto occi­den­tale è l’imperialismo. In nome di que­sto prin­ci­pio all’Occidente tutto è permesso.

Esi­stono due posi­zioni oppo­ste tra Repub­bli­cani e l’amministrazione Obama nei con­flitti in Medio oriente?

I Repub­bli­cani sono un par­tito fasci­sta. Lo stesso Barack Obama è ter­ri­bile ma meno dei Repub­bli­cani. Il prin­ci­pale errore di Obama però è la sua cam­pa­gna con i droni. Se l’Iran facesse lo stesso con­tro gli uffi­ciali citati negli arti­coli della stampa Usa, come rea­gi­reb­bero gli Stati uniti? La guerra dei droni è la più grande ope­ra­zione ter­ro­ri­stica mai esi­stita: pro­gram­mata per ucci­dere chiun­que sia sospet­tato di poterci dan­neg­giare. Le ope­ra­zioni con droni in Paki­stan faranno cre­scere il numero dei jiha­di­sti. Quando hanno ini­ziato, al-Qaeda era solo nelle zone tri­bali di Afgha­ni­stan e Paki­stan ora è in tutto il mondo. Ma di que­sto non si può par­lare nei media occidentali.

Crede che biso­gna temere l’avanzata degli Hou­thi in Yemen?

In Yemen è vero che l’Iran dà soste­gno agli Hou­thi, lo stesso fa l’Arabia Sau­dita con i suoi, seb­bene alla fine si tratti di un con­flitto interno. Nella pro­pa­ganda occi­den­tale però se gli Stati uniti sosten­gono una forza quella è legit­tima. In Iraq, l’Iran sostiene il governo eletto. I con­si­glieri ira­niani for­mano la classe diri­gente ira­chena e sono pro­ta­go­ni­sti delle prin­ci­pali bat­ta­glie nel paese. Il governo ira­cheno ha chie­sto l’aiuto ira­niano e rin­gra­zia le sue auto­rità. Ma gli Stati uniti con­dan­nano l’influenza ira­niana in Iraq: è dav­vero comico.

Crede che que­sto atteg­gia­mento occi­den­tale ali­menti il ter­ro­ri­smo dello Stato islamico?

Lo Stato isla­mico è una mostruo­sità, ma non è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Sau­dita che pro­paga una ver­sione estre­mi­sta, waha­bita, dell’Islam. Da Riad arri­vano ton­nel­late di soldi e l’ideologia per dif­fon­dere il fon­da­men­ta­li­smo nel mondo arabo. Certo a que­sto punto nep­pure ai sau­diti piace quello che hanno creato. Que­sta è la con­se­guenza diretta dei deva­stanti attac­chi degli Stati uniti in Iraq del 2003 e degli attac­chi della Nato in Libia del 2011 che hanno esa­spe­rato il con­flitto sunniti-sciiti dif­fon­den­dolo in tutta la regione. In Libia que­sto ha com­por­tato l’incremento del numero di mili­zie e una quan­tità di armi senza pre­ce­denti che pro­ven­gono da Africa e Medio oriente. I bom­bar­da­menti della Nato hanno fatto aumen­tare il numero delle vit­time di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Ara­bia Sau­dita ed Emi­rati stanno ucci­dendo una grande quan­tità di per­sone nei campi pro­fu­ghi. Ma anche que­sta guerra è desti­nata a fal­lire e non può com­por­tare altro che la dif­fu­sione del jihadismo.

Pochi mesi fa non par­la­vamo di ter­ro­ri­smo ma di «pri­ma­vere». Esi­ste un rap­porto tra i movi­menti sociali euro­pei e le rivolte in Medio Oriente?

Ci sono delle simi­li­tu­dini. Il mag­gior esem­pio del pas­sato è l’America latina: com­ple­ta­mente sotto il con­trollo degli Stati uniti che impo­ne­vano dit­ta­tori dap­per­tutto. Ora il Sud Ame­rica è abba­stanza libero dal con­trollo stra­niero. Que­sto è uno svi­luppo di grande impor­tanza. Molti poli­tici latino-americani sono legati ai par­titi Pode­mos in Spa­gna e Syriza in Gre­cia. Com­bat­tono tutti la stessa bat­ta­glia con­tro il neo-liberismo. Ma la rea­zione tede­sca alla vit­to­ria di Tsi­pras in Gre­cia è sel­vag­gia, ipo­crita. Nel 1953 l’Europa con­cesse alla Ger­ma­nia di tagliare gli inte­ressi sul debito. Ma ora impone misure repres­sive alla Gre­cia dopo che Ber­lino l’ha deva­stata nella seconda guerra mondiale.

Men­tre i movi­menti in Medio Oriente sono finiti con il ritorno dei dit­ta­tori, come il pre­si­dente egi­ziano al-Sisi?

Stati uniti ed Europa hanno soste­nuto i più bru­tali dit­ta­tori in tutto il mondo. In que­sto momento in Egitto si vivono i giorni più bui della sua sto­ria moderna. Que­sto è l’imperialismo tra­di­zio­nale, il potere della pro­pa­ganda non è cam­biato. I gior­nali in Europa lo descri­vono come un modello nono­stante sia un assas­sino bru­tale, un dit­ta­tore duro che ha represso la popo­lare orga­niz­za­zione dei Fra­telli musul­mani men­tre nel Sinai si con­ti­nua a con­su­mare una guerra.