17.5.11

L’amara sfida del premier sulle preferenze

Gian Antonio Stella

A Milano il dato deludente da capolista. Napoli coperta di promesse, senza successo

«Dal punto di vista politico, quello che conta è il primo turno», esultò Letizia Moratti dopo la vittoria della destra alle ultime provinciali. «È una legge iniqua, va abolito il secondo turno», ribadì Mariastella Gelmini. «È giunto il momento di mettere da parte i ballottaggi: l’ho già detto a Berlusconi ed è d’accordo», sentenziò Ignazio La Russa. Se è così davvero, quella di ieri è stata per il Cavaliere una débâcle. La Moratti può recuperare nel secondo tempo, certo. Ma ormai certe parole sono state strillate, certe scommesse avventurose sono state giocate, certe forzature apocalittiche sono state fatte. Che il boomerang stava tornando indietro, il più violento di quanto temesse, il premier lo ha capito alle otto di sera quando uno dei suoi collaboratori, con aria ferale, gli ha portato i primi risultati delle preferenze a Milano: poco più di 1.600 su quasi un sesto di schede scrutinate. Ahi ahi... Lui aveva voluto candidarsi come capolista, lui aveva chiesto a tutti di battersi allo stremo («andate a conquistare casa per casa, siete missionari della libertà»), lui aveva buttato sul piatto la sfida in più: «Segnate il mio nome come capolista. Se prendo meno delle 53 mila preferenze della volta scorsa, l’opposizione mi fa il funerale ». Ieri notte, quando ormai lo spoglio stava per concludersi, il dato era pressoché dimezzato. Una coltellata all’amor proprio che riassumeva una giornata che mai avrebbe immaginato così perdente. Buone notizie da Latina, grazie alla disfatta del Fli dell’odiato Gianfranco Fini. Qualche consolazione qua e là. Per il resto, male. Male alle Provinciali di Gorizia e di Trieste, malissimo alle Comunali della città giuliana, storicamente di destra, con un umiliante 18% dopo dieci anni di governo, male a Castellanza e in altri centri Lombardi in cui la Lega aveva deciso di andare da sola, male a Torino, male a Bologna con poco più del 15%... Ma è da Napoli e da Milano che sono arrivati i dolori più cocenti. Come poteva immaginare, dopo la trionfale passerella seguita alla rimozione della munnezza di due anni fa e le vittorie a ripetizione alle Regionali e alle Provinciali, di subire per ore l’incubo di non arrivare al 22% e cioè 12 punti sotto i risultati dell’anno scorso? Non avevano teorizzato Claudio Velardi e gli altri maghi elettorali che sotto il Vesuvio contavano di vincere al primo turno? Com’era possibile che arrivassero notizie di una quota intorno al 37 e cioè maledettamente più bassa della somma dei candidati su cui s’era staccata la sinistra? Si era speso lui, di persona, a Napoli. Coprendo la città con una colata lavica di promesse, a costo di fare arrabbiare la Lega: «È pronto un provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case abusive in Campania. Questo ci permetterà di avere il tempo necessario per valutare serenamente il problema in vista di una definitiva soluzione». E poi un regalo da 270 milioni: «A Napoli si sospenderà l’imposta sui rifiuti finché ci sarà un solo sacchetto per strada». E poi ancora una lisciatina ai tifosi: «State tranquilli: mai e poi mai il Milan comprerà Hamsik!». Tutto inutile: 22 percento. Ma è Milano la ferita più profonda. Gian Antonio Stella] «Dal punto di vista politico, quello che conta è il primo turno», esultò Letizia Moratti dopo la vittoria della destra alle ultime provinciali. «È una legge iniqua, va abolito il secondo turno», ribadì Mariastella Gelmini. «È giunto il momento di mettere da parte i ballottaggi: l’ho già detto a Berlusconi ed è d’accordo», sentenziò Ignazio La Russa.

Se è così davvero, quella di ieri è stata per il Cavaliere una débâcle. La Moratti può recuperare nel secondo tempo, certo. Ma ormai certe parole sono state strillate, certe scommesse avventurose sono state giocate, certe forzature apocalittiche sono state fatte. Che il boomerang stava tornando indietro, il più violento di quanto temesse, il premier lo ha capito alle otto di sera quando uno dei suoi collaboratori, con aria ferale, gli ha portato i primi risultati delle preferenze a Milano: poco più di 1.600 su quasi un sesto di schede scrutinate. Ahi ahi...

Lui aveva voluto candidarsi come capolista, lui aveva chiesto a tutti di battersi allo stremo («andate a conquistare casa per casa, siete missionari della libertà»), lui aveva buttato sul piatto la sfida in più: «Segnate il mio nome come capolista. Se prendo meno delle 53 mila preferenze della volta scorsa, l’opposizione mi fa il funerale ». Ieri notte, quando ormai lo spoglio stava per concludersi, il dato era pressoché dimezzato. Una coltellata all’amor proprio che riassumeva una giornata che mai avrebbe immaginato così perdente.

Buone notizie da Latina, grazie alla disfatta del Fli dell’odiato Gianfranco Fini. Qualche consolazione qua e là. Per il resto, male. Male alle Provinciali di Gorizia e di Trieste, malissimo alle Comunali della città giuliana, storicamente di destra, con un umiliante 18% dopo dieci anni di governo, male a Castellanza e in altri centri Lombardi in cui la Lega aveva deciso di andare da sola, male a Torino, male a Bologna con poco più del 15%...

Ma è da Napoli e da Milano che sono arrivati i dolori più cocenti. Come poteva immaginare, dopo la trionfale passerella seguita alla rimozione della munnezza di due anni fa e le vittorie a ripetizione alle Regionali e alle Provinciali, di subire per ore l’incubo di non arrivare al 22% e cioè 12 punti sotto i risultati dell’anno scorso? Non avevano teorizzato Claudio Velardi e gli altri maghi elettorali che sotto il Vesuvio contavano di vincere al primo turno? Com’era possibile che arrivassero notizie di una quota intorno al 37 e cioè maledettamente più bassa della somma dei candidati su cui s’era staccata la sinistra?

Si era speso lui, di persona, a Napoli. Coprendo la città con una colata lavica di promesse, a costo di fare arrabbiare la Lega: «È pronto un provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case abusive in Campania. Questo ci permetterà di avere il tempo necessario per valutare serenamente il problema in vista di una definitiva soluzione». E poi un regalo da 270 milioni: «A Napoli si sospenderà l’imposta sui rifiuti finché ci sarà un solo sacchetto per strada». E poi ancora una lisciatina ai tifosi: «State tranquilli: mai e poi mai il Milan comprerà Hamsik!». Tutto inutile: 22 percento. Ma è Milano la ferita più profonda.


14.5.11

Le ragioni e i segreti del miracolo tedesco

Danilo Taino (Corriere della Sera)

Dalla gestione unitaria della crisi alla centralità delle imprese nel sistema Paese.
La spinta dell`espansione nelle economie emergenti, dalla Cina al Brasile


Patrick Adenauer lo aveva anticipato giovedì pomeriggio, durante la prima giornata del congresso dell`Associazione degli imprenditori di famiglia tedeschi, della quale è presidente uscente. «Il piccolo miracolo economico in corso è in gran parte il risultato del nostro lavoro», aveva detto. Ieri mattina, dunque, una scarica di orgoglio è passata tra i delegati quando l`Ufficio federale di Statistica ha comunicato che, nel primo trimestre del 2011, l`economia della Germania è cresciuta a un ritmo che non si registrava dal giorno della riunificazione, nel 1990. Il secondo Wirschaftswunder è vivo e scalcia, commentavano ieri parecchi industriali: un boom economico non meno importante di quello degli Anni Cinquanta e Sessanta per i figli e i nipoti dei grandi protagonisti del primo.
L`ufficio statistico ha calcolato che tra gennaio e marzo l`economia tedesca è cresciuta dell`1,5% rispetto al trimestre precedente, del 4,9% rispetto a un anno prima. E` il doppio della crescita americana, tanto per fare una proporzione. Per raccontarlo con un`altra statistica, ieri gli imprenditori di famiglia facevano notare che un anno fa gli esperti pensavano che il Prodotto interno lordo tedesco (Pil) non sarebbe tornato ai livelli precedenti la recessione prima dei 2o13: invece lo ha già superato.
Le previsioni dicono che quest`anno la Germania crescerà del 3%, forse del 3,4:
non male per un Paese che entrò nell`euro, 12 anni fa, con la reputazione di malato d`Europa.
Lo sforzo per arrivare a questo risultato è stato fatto dal Paese nel suo insieme: i governi - di destra e di sinistra - che hanno fatto le riforme e hanno sostenuto l`industria durante la violenta recessione, i sindacati che hanno tenuto quasi fermi i salari per un decennio e gli imprenditori che hanno ristrutturato radicalmente le loro imprese e si sono lanciati alla conquista di nuovi mercati, nuovi nel senso che sono soprattutto quelli emergenti.
Non solo le grandi imprese, quelle quotate in Borsa. Anche quelle gestite dalla famiglia che le controlla: di queste, per dire, nove su dieci hanno una presenza internazionale.
«Ci sono già aziende medie e piccole - ha spiegato Jùrgen Fitschen del consiglio di amministrazione della Deutsche Bank - che producono e distribuiscono più in Cina che nel mercato domestico della Germania». Que st`anno - altro dato che racconta molto - le imprese tedesche esporteranno più in Cina che negli Stati Uniti, per la prima volta, e se la tendenza continuerà nel giro di due o tre anni il mercato cinese sarà per loro più importante anche di quello francese, storicamente il primo.
Ieri, l`Ufficio di Statistica ha fatto notare che il risultato record è stato molto influenzato dall`attività domestica. Dal momento che tre giorni fa si era già saputo che in marzo le esportazioni avevano raggiunto livelli record, è facile tracciare il carattere del boom.
Durante la recessione mondiale, che per la Germania fu particolarmente dura data la sua dipendenza dalle esportazioni, il governo accentuò i benefici per l`uso di orari ridotti in fabbrica in cambio dell`impegno delle imprese a non licenziare: sindacati e aziende strinsero la cinghia e, alla fine, superata la fase critica, molte imprese distribuirono una specie di dividendo, un premio legato alla ripresa dei profitti. La Volkswagen, per esempio, a inizio anno ha firmato un accordo nel quale i lavoratori hanno ottenuto un aumento del 3,2% e un bonus di almeno 500 euro a testa.
La Bmw ha distribuito l`anno scorso ai suoi 70 mila lavoratori in Germania un premio medio di 1.060 euro per avere tenuto i nervi saldi durante i momenti più bui.
Lo sforzo comune e l`avere evitato licenziamenti ha fatto sì che le imprese fossero pronte, una volta finita la recessione internazionale, ad aggredire di nuovo i mercati esteri. E così hanno fatto: dopo una caduta del Pil di oltre il 5% nel 2009, l`economia tedesca ha puntato tutto, spudoratamente, sulle esportazioni - tanto che Angela Merkel fu accusata dagli Stati Uniti e dalla Francia di non fare abbastanza per aumentare la domanda mondiale.
Solo dopo ha usato il volano dell`export per aumentare i salari, ridurre la disoccupazione e quindi favorire consumi e investimenti, che è quello che sta succedendo oggi. Ma una cosa è certa, dicevano ieri gli imprenditori di famiglia a congresso: a fare funzionare il circolo virtuoso è la capacità di esportare, di stare sui mercati internazionali, prima di tutto quelli emergenti.
Non mancano i rischi, ovviamente, prima di tutto legati all`andamento dell`economia internazionale dalla quale il Paese è dipendente: una preoccupazione seria, di fronte ai segni di inflazione e di rallentamento economico in alcuni mercati emergenti, i più importanti, ormai, per le aziende tedesche. Ciò nonostante, gli imprenditori ritengono di avere trovato per ora il modello vincente.
Proprio perché in Germania le imprese sono tenute in alta considerazione e quelle di famiglia forse ancora di più - il 95% delle aziende ha una famiglia alla guida - a portare alla loro associazione il massimo messaggio politico è stato il presidente federale Christian Wulff. Il quale ha potuto raccontare del suo viaggio in Brasile e in Sudamerica, a sostegno del business tedesco. Così come Frau Merkel avrebbe potuto illustrare i suoi viaggi in Cina con lo stesso obiettivo, accompagnata da imprese e banche. E` una Germania aggressiva in economia, che si muove abbastanza compatta, in ordine come al solito. E che sta affondando la propria presenza nei mercati dove ormai si decide molto. Ha probabilmente capito quello che uno dei maggiori storici dei mercati finanziari, Russell Napier, spiega così: «Da 15 anni il mondo globalizzato è guidato dai mercati emergenti: lo hanno fatto sostenendo gli Stati Uniti, ma sono loro ad averlo fatto». «Siamo nei Paesi giusti al momento giusto», diceva ieri Adenauer, imprenditore e nipote del padre della Germania moderna.

12.5.11

Sulla carta d'identità «scrittore»

Andrea Bajani

Nell'epoca del professionismo a tutti i costi, degli specialismi, anche lo scrittore è diventato un mestiere che ha diritto a un biglietto da visita nel portafoglio. È stato credo nell'autunno del 2007 che ho tentato di diventare uno scrittore professionista. Ho aperto una partita Iva e sono andato all'ufficio anagrafe a richiedere l'attestazione, sul documento, della mia professione. Pretendevo soltanto che mi certificassero il mio vivere della mia scrittura, tra libri, interventi sui giornali, letture. Insomma, ero pronto a intervenire patentato, come un professionista con la sua valigetta. Ecco, quando ho messo Scrittore sul foglio della richiesta, l'impiegata dell'anagrafe, perplessa, ha guardato prima me, poi ha sfilato da un cassetto un foglio. Con la punta del dito ha passato in rassegna un elenco suppongo di professioni, poi si è alzata, è andata a consultarsi con gli altri impiegati, è tornata a sedersi, e mi ha detto Non esiste la professione di scrittore. Ah. E quindi?, le ho chiesto deluso e già sul piede di guerra. E quindi, mi ha detto lei archiviando la pratica, è un hobby.
Erano anni che aspettavo quel momento, e l'hobbistica mi metteva i bastoni tra le ruote. Il primo romanzo l'avevo scritto in una mansarda senza riscaldamento, due maglioni addosso la sera tardi, un computer lentissimo, e un coinquilino che andava in giro con un asino per le montagne a raccontare la storie della tradizione popolare. Di giorno in quegli anni facevo di tutto, correggevo bozze per molti editori pensando a tutti quegli scrittori che avevano cominciato come correttori, facevo il magazziniere pensando a quegli scrittori che avevano cominciato con lavori di fatica, leggevo i notiziari in una radio pensando a quegli scrittori che avevano cominciato parlando dentro un microfono, e d'estate mi occupavo di una tartaruga d'acqua, in quella stessa radio, non sapendo a che pensare se non a quanti rifiuti produceva. E il resto del tempo leggevo e scrivevo, quando i miei amici uscivano, e quando andavano in vacanza, e le fidanzate si spazientivano. Scrivevo con tutta la furia che avevo, e con tutto il dolore che sentivo, quel male sordo che mi rosicchiava le caviglie tutti i giorni. E pensavo che quella furia mi avrebbe salvato, che le parole sarebbero state più forti e più veloci di quel tarlo, che avrebbero opposto bellezza a dolore. Poi il romanzo l'avevo finito, su in mansarda, un piccolo editore aveva deciso di pubblicarlo, e però poi era fallito proprio il giorno in cui il libro sarebbe dovuto uscire in libreria. Quello era stato il mio esordio, e una sera in casa ero anche scoppiato a piangere, e avevo pensato che il tarlo aveva vinto lui, e le caviglie avevano ripreso a sanguinare, e però poi era arrivato Claudio il cantastorie, mi aveva detto Non fare l'asino.
Poi sono passati degli anni, la mansarda l'ho lasciata, ho preso un alloggio in affitto in un quartiere popolare di Torino, e a furia di scrivere la sera, e durante le vacanze, e di pensare sempre che ne valesse la pena, non mollare, e a furia di far leggere manoscritti e far fallire case editrici, un editore prestigioso ha preso a pubblicarmi. Ed è così che nell'autunno del 2007 ho deciso che era ora che tutto questo fosse riconosciuto e, complice il rinnovo della carta d'identità, che certificassero l'esistenza di quella professione. E oggi c'è scritto Scrittore, sotto la foto. Perché dopo l'umiliazione dell'Hobby, in quell'autunno, ero tornato alla carica, con una borsa con dentro i miei libri e gli articoli di giornali che parlavano di me, e io che facevo notare all'impiegata la corrispondenza tra la foto che c'era negli articoli e il mio nome, che ero appunto io, che quindi Ero uno scrittore. E poi insomma me l'avevano scritto, sfiniti, tra le professioni, anche se in fondo non mi interessava nulla, era una provocazione, vedere che spazio aveva lo scrittore nella cosiddetta società civile. Me l'avevano concesso, alla fine, anche se non ero Geometra, Idraulico, Ingegnere, Architetto Avvocato, o Contadino, ma quella cosa confusa che che siamo, tra bellezza e dolore, con il male che continua a rosicchiare alle caviglie, lo sentiamo tutti la notte, e però c'è anche sempre lo stupore, e la voglia di metterlo tutto in parole, e dividerle con gli altri.
E poi l'anno scorso ho chiuso la partita Iva.

11.5.11

Troppi test banalizzano la scuola

LUCA RICOLFI
Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.

Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.

Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.

Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice. Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.

Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.

Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.

Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.

Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.

Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.

Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.

Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.

Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.

9.5.11

Sotto la barba bianca le ceneri di un mito

Tahar Ben Jelloun (La Repubblica)

Non potendo mostrare le foto di Bin Laden da morto, gli americani hanno scelto di diffondere quelle di un uomo invecchiato, dalla barba bianca. Un uomo imbacuccato in una coperta, una kefiah in testa, mentre col telecomando in mano guarda le sue proprie immagini alla televisione. Si può vedere un ambiente più che modesto, ingombro di fili attaccati qua e là. C´è qualcosa di patetico in questo filmato, privo di audio per non fare pubblicità ad Al Qaeda.
Il nemico numero uno dell´America era di fatto solo un vecchio, nascosto in una stanza per nulla confortevole. Un altro video lo mostra mentre sta leggendo un messaggio: barba tinta di nero, abito bianco, aria serena. Sta minacciando il mondo di nuovi massacri. È il suo mestiere, la sua passione, la sua follia.
Queste immagini hanno uno scopo: quello di distruggere un mito, e di impedire che questo personaggio diventi il martire di una causa che ha provocato la morte di circa novemila persone, in maggioranza cittadini musulmani. Il mondo arabo e musulmano, che ha sofferto per i suoi attentati, non nutre alcun rimpianto per la morte dei quest´uomo che ne ha distrutto la reputazione.
In Marocco, subito dopo l´attentato di Marrakech, ho sentito moltissima gente insultare Bin Laden e augurargli l´inferno: non c´è dunque alcun rischio che la diffusione dei video susciti pietà per la sorte di quel grande criminale. La primavera araba avanza nella riconquista della dignità del cittadino. Non c´è spazio per ricordare Bin Laden. E´ anzi il momento di espellerlo dalla memoria araba, rammentando che quest´uomo ha distrutto migliaia di famiglie in lutto per la morte dei loro cari, dall´Egitto all´Iraq, dall´Algeria alla Tunisia e al Marocco.
Secondo alcuni, è un peccato che una parte dei media abbia omesso di ricordare come Bin Laden avesse collaborato con gli americani in Afganistan, e di far notare come dietro il suo astio e la sua follia omicida vi fosse una sorta di regolamento di conti di ordine personale. Spinto dal narcisismo e dalla megalomania, favoriti oltre tutto da una grande disponibilità di denaro, quest´uomo ha voluto diventare celebre stringendo un patto con il Male, il male assoluto di uccidere gente innocente per una causa priva di senso. Ha sfidato l´islam dei Lumi, predicando invece un ritorno agli albori dell´islam, quello del VII° secolo: un anacronismo che aveva qualcosa di patologico.
Il mondo arabo non ha avuto fortuna in questi ultimi decenni: quando a infangarlo e a bistrattarlo non erano i dittatori quali Saddam, Gheddafi e vari altri, è stato umiliato da psicopatici come Bin Laden o Zawahiri, che hanno fatto dell´islam una religione di odio e di morte.
Oggi l´islam sta ritornando nei cuori e nelle moschee, non più come ideologia jihadista volta a mettere bombe nei caffè o nei bus. Gli islamisti che vedevano in Bin Laden un leader stanno rivedendo le proprie scelte. Che la sua barba fosse bianca o nera, Bin Laden era un assassino. Nessuno piange la sua scomparsa. C´è invece un sollievo generale – anche se gli americani hanno agito come in un film di guerra.
Ma poco importa. Colui che ha fatto male all´America non esiste più. Ora gli arabi sperano di non essere più guardati con sospetto, ma trattati con dignità e rispetto quando si presentano a un confine. Non sono portatori di alcun messaggio postumo di Bin Laden.

Traduzione di Elisabetta Horvat

7.5.11

“Il servizio agli italiani” del Pdl a Pavia lo gestisce l’amico dei boss - Campania: comune commissariato per camorra, ma il sindaco si ricandida

Il Caf creato dal ministro del Turismo apre due sedi nella città lombarda. A gestirlo Dante Labate, consigliere comunale azzurro, più volte intercettato mentre parla al telefono con i referenti delle cosche in Lombardia
Il presidente onorario è Silvio Berlusconi. La sua funzione, quella del classico patronato: “sviluppare ed estendere – come recita lo slogan – il concetto di assistenza al cittadino e all’impresa, offrendo soluzioni concrete a problemi quotidiani, dal settore previdenziale a quello fiscale, dalla formazione al lavoro, alla difesa dei consumatori”. Insomma, “Pdl, al servizio degli italiani” è una specie di Caf azzurro, nato sotto l’egida di B. ma affidato in provincia a figure di partito con uno spiccato radicamento territoriale. E a volte chiacchierate.

A Pavia l’associazione “al servizio degli italiani” arriverà per iniziativa dell’attuale consigliere comunale, naturalmente in quota Pdl, Dante Labate. Ribattezzato sui blog che si occupano di notizie politiche pavesi, “l’iper-intercettato”, Labate ha riempito molte parti dei documenti riguardanti l’ultima grande operazione anti-‘ndrangheta effettuata in Lombardia, la “Infinito”. Spesso era al telefono con Carlo Chiriaco, il direttore sanitario dell’Asl che si vantava di essere tra i capi della ‘ndrangheta a Pavia; e con Pino Neri, il referente per le cosche nella regione motore economico del paese, dopo la morte del grande capo Carmelo Novella.

Labate non è indagato, ma stando alle indagini della distrettuale antimafia di Milano viene, suo malgrado, tirato in ballo da Chiriaco, “colui che si pone – scrivono i magistrati – come mediatore tra il mondo politico pavese e alti esponenti di ‘ndrangheta”.

Labate prosegue però la sua carriera tra le fila del Pdl. Oltre a mantenere la carica in consiglio comunale, fa parte del direttivo dell’Aler di Pavia, l’ente che gestisce gli alloggi popolari. Le recenti cronache, poi, riportano la sua partecipazione alla convention romana in cui l’associazione di patronato è stata costituita, alla presenza di Berlusconi e del ministro Michela Vittoria Brambilla. A quest’ultima il compito di occuparsi dell’organizzazione pratica della struttura. A Pavia sono previste due sedi, tutte nel centro della città: in piazzale Nenni e in corso Manzoni.

Labate s’è sempre detto sereno e minimamente preoccupato di fronte alle indagini della Boccassini e a quanto trapelato su giornali. Del resto, altri componenti della sua famiglia sono finiti nel tritacarne della magistratura. Suo fratello Massimo, anch’egli consigliere comunale ma a Reggio Calabria – città d’origine della famiglia Labate – nel 2007 è stato addirittura arrestato per concorso esterno. Ma nel 2010 il processo lo ha riconosciuto innocente e quindi assolto. Nel febbraio di quello stesso anno Dante Labate commenta l’accaduto nientemeno che con Pino Neri: “Perché c’è un assurdo logico e giuridico in tutti i campi…ma no…ma io me lo auguro…ed è una piena rivalutazione da un punto di vista… perché se lo merita e glielo devono tutti…tutto l’ambiente…”. L’oggetto era naturalmente il reintegro del fratello sulla scena politica e sociale.

Massimo Labate è stato consigliere comunale per Alleanza nazionale nella giunta di Giuseppe Scopelliti, prima che lo stesso diventasse Presidente della Regione Calabria. Proprio Scopelliti sarà a Pavia il prossimo 3 giugno a inaugurare i due centri “al servizio degli italiani”.

Labate li gestirà assieme ai colleghi di consiglio, Giuseppe Arcuri, Carlo Conti e Valerio Gimiliano. Con loro tre minacciò l’uscita dal partito lo scorso novembre, per dei dissidi intestini che paiono rientrati. Il Pdl pavese, infatti, ha dovuto trovare a tutti i costi coesione in vista delle prossime votazioni, in programma il 15 e 16 maggio, per il rinnovo della Provincia. Sui movimenti politici in previsione di quella scadenza, l’antimafia milanese si è abbattuta come uno tsunami. Giancarlo Abelli e Giovanni Alpeggiani, pdl ed entrambi citati nell’inchiesta Infinito (non indagati), hanno mollato Vittorio Poma, l’attuale presidente, colui che avrebbe volentieri replicato il suo mandato. Ma la Lega ne ha preteso la testa, per le dimissioni a cui costrinse Angelo Ciocca, consigliere regionale e assessore in provincia, fotografato assieme a Pino Neri. Sarà Ruggero Invernizzi il candidato del centro destra. Poma lo osteggerà come leader del terzo polo, appoggiato pure da “Rinnovare Pavia” di Enrico Filippi, altro nome citato da Chiriaco ma non penalmente rilevante.
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Camorra, Comune commissariato
ma lui si ricandida sindaco

Giuseppe Corcione corre per tornare primo cittadino a Pago del Vallo di Lauro, in provincia di Avellino
Nel 2009 il Comune di cui era sindaco è stato sciolto per condizionamento camorristico. Dopo due anni di commissione prefettizia il primo cittadino di allora, Giuseppe Corcione, si ricandida alla guida di Pago del Vallo di Lauro, un piccolo paese in provincia di Avellino nel quale il clan Cava è padrone indiscusso e dove ora si torna ora a votare. E sulla scheda c’è ancora lui, Corcione. Una competizione contrassegnata da minacce e intimidazioni. Già a febbraio scorso a un altro candidato, Michele Casciello, è stata incendiata l’auto. Episodio finito anche in un’interrogazione parlamentare e poi scivolato nell’archivio dei casi irrisolti. Tanti da queste parti.

Qui comanda il clan Cava. Un sodalizio criminale, impegnato per anni in una faida sanguinaria contro i rivali dei Graziano. I Cava sono in rapporti militari e di affari con il clan Fabbrocino, egemone nel vesuviano. Il boss Biagio Cava oggi è in carcere. Ed è con lui che Corcione ha stretto contatti, secondo la procura. E’ il settembre 2008 quando l’allora sindaco, oggi candidato, riceve un avviso di conclusione indagine e finisce sotto inchiesta per abuso di ufficio con l’aggravante di aver favorito un clan di camorra, tra gli indagati anche il boss Biagio Cava. Sotto i riflettori dell’antimafia napoletana finisce il puc, piano urbanistico comunale, una vicenda pienamente inserita nelle motivazioni che portano all’azzeramento dell’ente. In sede di rinvio a giudizio, nello scorso ottobre, è caduta l’aggravante per mafia, ma non è bastato per bloccare le procedure di scioglimento. Corcione si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda. L’ex sindaco ha fatto ricorso al Tar contro la decisione del ministro degli Interni e poi al Consiglio di Stato. Il provvedimento di scioglimento ha retto ai giudizi della magistratura amministrativa.

La relazione parla chiaro. “Gli aspetti di condizionamento risultano evidenti in una serie di elementi quali: a) episodi di intimidazione che, ad un’analisi successiva, hanno denotato l’assoggettamento degli organi elettivi alle scelte operate dai sodalizi criminali; b) numerose illegittimità poste in essere dall’amministrazione in riferimento al piano urbanistico comunale, con indubbi vantaggi per taluni esponenti della criminalità locale; c) permessi di costruire privi dei necessari presupposti legittimanti, rilasciati in favore di soggetti controindicati”. Il Consiglio di Stato, lo scorso aprile, ha confermato l’azzeramento nonostante in sede penale sia caduta l’aggravante per mafia “il rilievo di tale vicenda – scrivono i magistrati di Palazzo Spada – per quanto isolatamente possa risultare meno grave di quanto affermato nel provvedimento di scioglimento, non può essere trascurato all’interno di un vasto insieme di elementi indiziari univoci”. La misura dello scioglimento ha, infatti, natura preventiva e censura frequentazioni, parentele, vicinanze, assenza di trasparenza, ben presenti nel caso Pago.

Il massimo organo della giustizia amministrativa si è soffermato su un episodio: “Particolarmente significativa l’aggressione al consigliere, capogruppo di minoranza, Amato Carmine (è il terzo candidato in competizione, ndr), oggetto di denunzia(…), con querela nei confronti di soggetto pluripregiudicato, Vitale Luigi di Sabato, affiliato al clan Cava. Secondo le indagini compiute, l’aggressione sarebbe collegabile all’atteggiamento assunto da parte del capogruppo di minoranza nell’ambito di sedute comunali, tendente a contrapporsi alla volontà del gruppo di maggioranza volta a favorire gli interessi della famiglia Vitale”. Ancora. Nella sentenza che conferma lo scioglimento si cita una delibera di giunta che ampliava la piana organica con la previsione di inserire un posto di autista da affidare al fratello di Vitale, il quale già lavorava nella ditta che gestiva i rifiuti. Edilizia, amicizie, frequentazioni e appalti, la cornice solita dei comuni condizionati dal crimine organizzato. In questo scenario si svolge la campagna elettorale, nel piccolo paese che conta poco più di duemila abitanti. E Corcione al primo punto del suo programma ha inserito la riapprovazione del Puc. Lo stesso piano urbanistico comunale che ha portato l’amministrazione al commissariamento. E così la sfida, più che elettorale, sembra rivolta alla giustizia.

6.5.11

Governo, da Cesario a Villari chi sono i nuovi sottosegretari

Dopo mesi di annunci il “rimpastino”, come lo ha definito Silvio Berlusconi, è arrivato con nove nuovi sottosegretari per rinsaldare la maggioranza e “premiare” quanti si sono spesi il 14 dicembre per sostenere l’esecutivo in occasione del voto di sfiducia alla Camera. Sono stati nominati sottosegretari gli ex finiani Catia Polidori, Roberto Rosso e Giampiero Catone, i Responsabili Bruno Cesario e Riccardo Villari. Alla tranche di nomine di aggiunge quella di Massimo Calearo, nominato consigliere personale del Presidente del Consiglio. Dall’infornata governativa sono rimasti fuori molti che attendevano invece di poter essere inseriti nell’esecutivo. E i malumori non sono tardati a farsi sentire. Mario Baccini e Giuseppe Galati dei Cristiano popolari, che avevano sostenuto il premier e a cui erano stati promessi degli incarichi, si sono fatti sentire: “Prendiamo atto che gli impegni assunti dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non sono stati mantenuti”. Ma certo i posti erano quelli, i pretendenti tanti. Ecco chi sono i nove che hanno conquistato la poltrona.

Roberto Rosso, sottosegretario all’agricoltura. Entra in politica giovanissimo, ad appena 19 anni si iscrive alla Democrazia Cristiana. Nel 1994 aderisce a Forza Italia e viene eletto alla Camera per la prima volta, poi confermato fino a oggi. E’ stato anche coordinatore regionale di Forza Italia in piemonte e nel 2001 si candida sindaco di Torino contro Sergio Chiamparino, perdendo al ballottaggio. Poi entra nel Pdl, nel 2008. Ma quando Fini decide di uscire dalla maggioranza, Roberto Rosso lo segue iscrivendosi al gruppo di Futuro e Libertà. Votando anche la mozione di sfiducia al governo del 14 dicembre scorso. Poi, il 17 febbraio 2011, lascia Fli e torna nel Pdl, dopo aver incontrato Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli.

Luca Bellotti, sottosegretario al welfare. Imprenditore prestato alla politica, viene eletto con Alleanza Nazionale poi con il Pdl alla Camera nel 2008. Nel luglio 2010 esce dal partito di Berlusconi e si iscrive a Futuro e Libertà. Ma torna nel Pdl a metà febbraio.

Daniela Melchiorre, sottosegretario allo sviluppo economico. Nata nella Margherita, poi passata nei Liberal Democratici con Lamberto Dini, si allea con il Pdl, poi si iscrive al gruppo misto, trasloca nel Terzo Polo e, infine, ritorna nel Pdl. Giravolta dopo giravolta arriva finalmente a un posto di sottosegretario. Già nel 2006 con il governo Prodi era stata nominata tecnico sottosegretario alla giustizia, ma l’esecutivo durò poco. Così la poltrona. La 40enne magistrato militare, a Verona poi a Torino, nonché eletta “parlamentare più sexy” dai camionisti italiani, non si è mai preoccupata molto delle critiche ricevute dai colleghi a Montecitorio che la vedono traslocare da una parte all’altra dell’emiciclo. Il ritorno nelle braccia di Berlusconi è avvenuto ad aprile, con il voto in aula a favore del conflitto di attribuzione nel caso Ruby.

Catia Polidori, sottosegretario all’economia. “Non tornerò mai nel Pdl”. Non ha fatto neanche in tempo a dirlo, il dieci dicembre al termine di una cena con Gianfranco Fini, che Catia Polidori aveva già salutato Futuro e Libertà per votare insieme alla maggioranza il 14 dicembre la fiducia al governo. Polidori, uscita poi rientrata nel Pdl, da mesi aspettava una nomina. Che ora è arrivata. Anche a risarcimento degli “attacchi” subito dalla stampa quando i giornali hanno scoperto il suo legame con il fondatore e padrone del Cepu, Polidori, fino a immaginare una parentela fra i due. L’onorevole Angela Napoli denunciò: “Catia Polidori ha votato con il governo la riforma universitaria che parifica le università private alle statali solo per aiutare il suo parente proprietario del Cepu”. Lo stesso premier, del resto, il 19 luglio, parteciò a Novedrate a un’iniziativa all’Ecampus, l’ateneo del Cepu, pochi giorni dopo la riforma voluta dalla Gelmini.

Bruno Cesario, sottosegretario all’economia. Nato politicamente nella Democrazia Cristiana, poi passato ai Popolari e nella Margherita, Bruno Cesario è stato tra i fondatori del Pd, poi dell’Api di Francesco Rutelli e infine dei Responsabili insieme a Domenico Scilipoti e Massimo Calearo.

Aurelio Misiti, sottosegretario alle infrastrutture. Eletto alla Camera nella lista dell’Italia dei Valori Salvatore Aurelio Misiti è poi passato prima al Movimento per l’autonomia poi si è iscritto al gruppo misto e ora sostiene la maggioranza. Fu tra i firmatari della mozione di sfiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre, per poi invece sostenere l’esecutivo.

Riccardo Villari, sottosegretario ai beni culturali. Eletto nel Partito Democratico Villari nel 2009 venne arrivò alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai grazie ai voti del centrodestra. Espulso dal Pd, fu sostituito da Sergio Zavoli in commissione, ma solo dopo giorni di tira e molla sulle dimissioni dall’incarico. Doveva rassegnarle ma proprio non voleva. Le aveva invocate Veltroni, imitato poi dai presidenti di Camera e Senato. Persino Berlusconi è intervenuto a suggerirgli che conveniva se ne andasse. Lui ha resistito settimane prima di cedere. Poi, non potendo tornare nel Pd, si è iscritto al gruppo Misto per poi entrare nel Movimento per l’autonomia, lasciandolo per approdare al gruppo dei Responsabili di cui oggi è presidente al Senato.

Antonio Gentile, sottosegretario all’ambiente. Nato politicamente in Forza Italia e poi eletto nel Pdl non ha mai cambiato casacca.

Giampiero Catone, sottosegretario allo sviluppo economico. Da politico è passato dal Ccd al Pdl per poi aderire a Fli e ritornare da Berlusconi per il voto di fiducia del 14 dicembre. Più note le sue vicende giudiziarie. E’ stato arrestato nel 2001 per associazione a delinquire finalizzata alla truffa aggravata, falso, false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta pluriaggravata: due bancarotte da 25 miliardi di lire l’una e 12 miliardi di finanziamenti a fondo perduto ottenuti, secondo l’accusa, dal ministero dell’Industria con carte e perizie false. E’ stato rinviato a giudizio. Lo è stato anche a l’Aquila, sempre per bancarotta fraudolenta. La stessa procura, inoltre, ha chiuso un’altra indagine che vede Catone indagato per estorsione, con il fratello Mario, dipendente di banca Intesa, per aver spillato 118 mila euro al alcuni dirigenti della società Merkel, millantando interventi politici per risolvere i guai finanziari dell’azienda.