30.9.07

Quella mattina a New York un adolescente in cerca di sé

Ospite dell'iniziativa «Portici di carta» in corso a Torino, Peter Cameron parla del romanzo che l'ha reso celebre e che la «New York Review of Books» ha definito la fiction più acuta sull'11 settembre. Si intitola «Un giorno questo dolore ti sarà utile» e nelle intenzioni dell'autore, attivista per i diritti degli omosessuali per la protezione dell'ambiente, doveva limitare l'attentato allo sfondo. Cameron presenterà il libro a Milano lunedì

Valeria Gennero

Se Woody Allen fosse gay probabilmente racconterebbe storie simili a quelle dei romanzi di Peter Cameron. Ambienti costruiti con un gusto cinematografico per l'uso dei dettagli, dialoghi brillanti e personaggi spesso teneramente impacciati eppure capaci di un umorismo arguto, illuminato da squarci di lirismo di elegante intensità. Nelle opere di Cameron il tema dell'omosessualità, come l'ebraismo in Allen, è un sottotesto tanto costante da diventare quasi impercettibile, mentre memorabili rimangono i modi in cui i protagonisti cercano di venire a patti con le scelte imposte dai pericolosi incroci tra il desiderio e il destino. Tutte qualità che hanno decretato per Cameron un successo nato dal passaparola e che hanno fatto di Quella sera dorata una delle rivelazioni editoriali del 2006. Pubblicato da Adelphi - che ha scommesso sullo scrittore pur dopo il suo esordio in sordina sul mercato italiano vent'anni fa, con la raccolta di racconti minimalisti In un modo o nell'altro (Rizzoli 1987) - Quella sera dorata ha ormai raggiunto la settima edizione. E pochi mesi sono bastati al romanzo successivo, Un giorno questo dolore ti sarà utile (Adelphi 2007) per consolidare la fama di Cameron con un ulteriore successo di critica e di pubblico.
Mentre Quella sera dorata metteva in scena il minuetto emotivo ed erotico di quattro protagonisti diversamente problematici - i tre curatori testamentari del lascito artistico di uno scrittore suicida e il dottorando che cerca di ottenere la loro autorizzazione per scrivere la biografia dalla quale spera di derivare una brillante carriera universitaria - l'ultimo lavoro di Cameron ha al centro una figura solitaria e inquieta, il diciottenne James Sveck. Un giorno questo dolore ti sarà utile è il resoconto in forma di diario delle piccole e grandi catastrofi che accompagnano il passaggio di James all'età adulta, durante l'estate che dovrebbe precedere l'inizio dell'università.
Alla Brown University, dove i facoltosi genitori l'hanno iscritto, James però non vuole andare, perché i coetanei lo annoiano e lo fanno sentire fuori posto. Anche le pressioni dei genitori perché il ragazzo veda uno psicologo si scontrano inizialmente con il suo rifiuto, finché estenuato dalla loro insistenza, nonché dalle goffe espressioni della solidarietà che gli esprimono nella convinzione che sia gay, James comincia una terapia nella New York sonnolenta e soffocante dell'estate 2003. La città diventa mano a mano protagonista, mentre James la attraversa lungo una traiettoria ideale, che unisce il luogo occupato dal World Trade Center prima del crollo ai ricevimenti uptown del Frick Museum, teatro di un'educazione sentimentale dove l'ingenuità travagliata dell'adolescenza si trova a fare i conti con la fragilità altrettanto solitaria e sgomenta dell'età adulta. Il resto ce lo dirà James Cameron, in questi giorni a Torino, dove è ospite dell'iniziativa «Portici di carta».
Lei ha cominciato a pubblicare nel corso degli anni '80, e i suoi esordi sono stati spesso associati al filone narrativo del cosiddetto «minimalismo», che aveva conosciuto una stagione di notevole popolarità anche grazie al sostegno editoriale di riviste di grande diffusione come il «New Yorker». Ha mai sentito di avere dei punti di contatto con altri scrittori legati a quel contesto, figure come Amy Hempel o Ann Beattie?
L'idea del gruppo minimalista è stata una creazione dei media che ha avuto un ottimo riscontro in termini pubblicitari, ma non ci sono mai stati scambi effettivi o collaborazioni. Ammiro i racconti di Amy Hempel, ma è chiaro che tra noi ci sono solo lontane somiglianze stilistiche. Ricordo invece di aver letto Ann Beattie quando ero all'università, e di esserne stato molto influenzato.
Naturalmente, quando parliamo di minimalismo non possiamo non parlare di Raymond Carver; che peraltro lei ha conosciuto, non è vero?
Certo. La cosa strana però è che nel 1981 Ann Beattie era molto più famosa di Carver. Mentre ero all'università Beattie, che aveva appena pubblicato Falling in Place, fu invitata all'Hamilton College per una conferenza. La andai a salutare e le parlai del mio desiderio di scrivere, così lei mi consigliò - tanto per cominciare - di leggere Carver, che io non avevo mai sentito nominare. Andai a cercare i suoi libri alla libreria «Three Lives», nel Greenwich Village, che prima dell'invasione delle grandi catene librarie, era una delle più grandi e fornite di New York. Bene, nemmeno loro avevano mai sentito parlare di Raymond Carver. Dopo alcuni tentativi infruttuosi riuscii finalmente a trovare Vuoi star zitta per favore? in una libreria del centro. Lo lessi con avidità e poi tornai da «Three Lives» per mostrare loro il libro e consigliargli di procurasene qualche copia. Pochissimi anni dopo, Carver divenne improvvisamente una celebrità e fu invitato per un reading proprio alla «Three Lives». Arrivai con più di un'ora di anticipo, ma trovai la libreria già stipata: ero stato io a «presentato» l'autore ai miei amici librai, e paradossalmente mi trovai a non potere assistere al suo trionfo. Ebbi però modo di incontrare Carver in altre occasioni e sono molto orgoglioso di possedere le prime edizioni di tutte le sue opere con una sua dedica molto personale.
Il suo passaggio dal racconto al romanzo è avvenuto in un certo senso un po' a rate: infatti lei fece uscire «Anno bisestile» a puntate su un settimanale. Il fatto di trovarsi a fare i conti con le reazioni dei lettori mano a mano che la storia procedeva l'ha portata a modificare lo sviluppo dell'intreccio?
In effetti, almeno un lettore, che è poi il mio editor alla Harper and Row, ha avuto un impatto importante sulla trama. Secondo lui c'era bisogno di una maggiore tensione drammatica, perciò decisi di aggiungere alla vicenda un omicidio. Col senno di poi penso sia stato un bene, anche se a me interessava soprattutto descrivere un gruppo di personaggi alle prese con la New York fine anni '80, che stava cambiando rapidamente, sia negli spazi urbani che nei confronti di temi come la sessualità e i sentimenti.
Lei è approdato a una ambientazione newyorchese dopo avere scritto romanzi situati in posti più o meno esotici (l'Uruguay per «Quella sera dorata», e un Principato di Andorra sorprendentemente bagnato dal mare nel romanzo omonimo). Che effetto le ha fatto tornare a immergere la sua scrittura a New York?
Uno degli aspetti più evidente è che New York in genere, e il Village in particolare, hanno smesso di essere l'approdo dei giovani artisti. La città è diventata economicamente irraggiungibile, è davvero necessario essere molto ricchi per pensare di poterci sopravvivere. E poi, naturalmente, c'è stato l'11 settembre.
Una recensione sul numero appena uscito della «New York Review of Books» definisce «Un giorno questo dolore ti sarà utile» come «il più acuto tra i romanzi sull'11 settembre».
Però io non ho mai pensato di scrivere un romanzo sull'11 settembre. Nella storia di James gli aspetti significativi sono altri, e del resto ho ricevuto molti messaggi da parte di lettori che si erano immedesimati con il mio personaggio e volevano coindividere con me il loro entusiasmo, ma pochi di questi dedicavano qualche commento alle parti in cui compaiono le torri gemelle. Quel che è più importante, per me, è la novità che questo romanzo rappresenta dal punto di vista del mio stile. Alcuni dei miei primi racconti avevano come voce narrante un ragazzo alle prese con i disagi e le emozioni dell'adolescenza, ma in seguito nei romanzi ho sempre adottato un narratore onnisciente, perché mi sembrava più adatto a rendere conto dei diversi punti di vista. Nel caso di Questo dolore, invece, tutto viene filtrato dalla prospettiva e dalla sensibilità di un ragazzo di diciott'anni. Certo, ho deciso che James frequentasse la Stuyvesant High School, nella zona sud di Manhattan e ho fatto in modo che lui si trovasse lì la mattina dell'attacco. Però volevo che il discorso sull'11 settembre entrasse nella narrazione in modo improvviso, sorprendendo il lettore quando ormai è molto avanti nella conoscenza del personaggio e quindi può registrare l'importanza di quell'avvenimento senza che però esso guadagni tutto il panorama. Del resto, sono spesso gli avvenimenti apparentemente più insignificanti a lasciare tracce durature sulle nostre vite. A mio parere, nella prospettiva di un adolescente, un fatto come l'attacco alle torri gemelle investe soprattutto la difficoltà che prova nel collocare la propria piccola infelicità individuale a confonto con una tragedia così grande. Se ci si sente meno legittimati a soffrire per sé, questo accresce ulteriormente il senso di solitudine.
Qualche anno fa lei ha dichiarato: «Mi è successo talvolta di pensare che le mie opere dovrebbero dare più spazio alla politica, ma ogni volta che che ci ho provato si è rivelata una pessima idea». Le capita ancora di provarci?
No, mi sono messo il cuore in pace. Cerco invece di svolgere un lavoro politico al di fuori della mia attività di scrittore. Per quasi dieci anni, dal 1990 al 1998, ho lavorato con la Fondazione Lambda per la difesa legale e per l'istruzione: è stata la prima organizzazione nazionale per i diritti civili di gay e lesbiche negli Stati Uniti. Adesso collaboro con il Trust for Public Land, una associazione per la protezione dell'ambiente. Credo si tratti di un'altra emergenza che non possiamo permetterci di trascurare.
La sua partecipazione al mondo dell'attivismo omosessuale, unita alla presenza costante di personaggi gay nelle sue opere, hanno fatto sì che negli ultimi anni lei sia stato inserito in antologie di narrativa gay, in raccolte di interviste gay, e indicato spesso come un esempio di «scrittura gay». È un destino che lei condivide con molti degli autori più significativi emersi dopo gli anni '90, da Michael Cunningham a Dale Peck. Cosa pensa dell'idea stessa di una «narrativa gay»?
Lei tocca una questione in cui sono intervenuti recentemente cambiamenti radicali. All'inizio degli anni '80 era impossibile pubblicare un libro con personaggi gay senza essere immediatamente definito «uno scrittore gay», categoria che in effetti indicava soprattutto «uno scrittore che scrive opere per gay»: era un modo di individuare un pubblico che potesse essere attratto dal quel genere di storie. Come a dire che per leggere Madame Bovary è necessario essere donne e preferibilmente adultere. Non credo ci siano legami particolari, al di là di alcune ricorrenze tematiche, tra autori come Cunningham, Peck o me. Mi sento molto più vicino ad autori come Gore Vidal e Edmund White che hanno avuto il coraggio di scrivere opere gay quando ancora lo scandalo che ne derivava era enorme, e così pure il prezzo da pagare in termini personali: è stato il loro coraggio ad aprire la strada ai tanti di noi che intendevano indagare la diversità e la ricchezza della natura umana, consentendoci il privilegio di potere assumere l'orientamento sessuale solo come uno tra i tanti aspetti significativi nel nostro rapporto con gli altri.

ilmanifesto.it

28.9.07

I conti della Chiesa: ecco quanto ci costa

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi
Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro

di CURZIO MALTESE

"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.

Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".

Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.

Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.

Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.

Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?

Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".

A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.

Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

repubblica.it

21.9.07

Modelli di rete per rileggere la storia della classe operaia

Michele Nani

In un recente, ampio saggio dedicato alla «teoria sociale radicale in un mondo post-comunista», After Dialectics, il sociologo Göran Therborn ha tracciato una mappa delle risposte alle sollecitazioni del presente e alla crisi del marxismo offerte dagli intellettuali di sinistra che hanno saputo resistere alle sirene del postmodernismo e del neoliberalismo (per Therborn un «neomodernismo di destra»). Fra i tratti emergenti sarebbe centrale l'«omaggio alle reti»: secondo lo studioso svedese infatti il concetto di network ha rimpiazzato quelli di «struttura» o «organizzazione», che avevano caratterizzato la teoria sociale del Novecento.
Salti di qualità
Le origini del paradigma della «rete» risiedono nella psicologia sociale fra le due guerre (la «sociometria» di Jacob Moreno), con sviluppi postbellici negli «studi di comunità» e nella sociologia della famiglia e della parentela. Dagli anni Sessanta la network analysis ha conosciuto un salto di qualità, grazie alla formalizzazione matematica, agli sviluppi dell'informatica e alla diffusione del computer. La possibilità di esplorare ampie quantità di dati ha portato a innumerevoli applicazioni, fra le quali l'analisi delle «reti» o dei «reticoli» sociali (che ha dato vita anche a una specifica comunità internazionale di ricercatori: www.insna.org). Si tratta di una impostazione che cerca di articolare le relazioni sociali senza schiacciarle su entità compatte, come il «gruppo», sia esso la famiglia, la classe, la generazione.
Alla rigidità delle teorie tradizionali si sostituirebbe così un'attenzione alla fluidità dei processi concreti, centrati sugli individui ma senza cadere nell'individualismo metodologico: i singoli sarebbero infatti «nodi» in una rete di «connessioni», la cui estensione e qualità rappresenta una «risorsa» essenziale nel far fronte a problemi specifici, basti pensare ai casi classici delle «catene» migratorie, delle micro-interazioni sul luogo di lavoro o della ricerca di una casa (a questo proposito può essere utile rileggere l'introduzione della curatrice, Fortunata Piselli, all'antologia di studi classici Reti. L'analisi di network nelle scienze sociali, Donzelli 1995, riedito nel 2001). Per alcuni studiosi si tratta di una nuova teoria della società che renderebbe obsolete le precedenti, mentre per altri di un metodo analitico fra tanti, utile a chiarire alcuni aspetti di un dato problema e compatibile con diversi orientamenti.
L'età dell'informazione
Come ricorda lo stesso Therborn, l'ascesa del lessico della «rete» non è semplicemente il prodotto di un raffinamento intellettuale, bensì il sintomo di una trasformazione nelle stesse relazioni sociali. Infatti gli sviluppi scientifici della network analysis convivono con un diffuso riferimento alle «reti», figlio dell'età di Internet, talora meditato, più spesso generico e allusivo.
L'esempio più illustre di questa disseminazione sono senz'altro i tre volumi dell'Età dell'informazione (Università Bocconi Editore, 2002-2004), nei quali il sociologo catalano Manuel Castells ha descritto le origini e i più recenti sviluppi della «società di rete», modellata dalle nuove concezioni della gestione di impresa e dalle nuove tecnologie dell'informazione.
Le «reti» sono anche al centro dei lavori di molti studiosi di storia, sia in quanto oggetti concreti (le telecomunicazioni, le comunità scientifiche o i flussi migratori), sia quale strumento interpretativo in grado di rendere conto delle relazioni sociali a più livelli, dalla scala locale a quella, sempre più importante, della storia «globale» o «trans-nazionale». Alcuni esempi della produttività di quest'ultima impostazione vengono dal convegno internazionale che per lunga consuetudine si tiene annualmente a Linz, giunto alla quarantatreesima edizione e dedicato alle «reti transnazionali del movimento operaio».
L'appuntamento di Linz nacque durante la guerra fredda come confronto, sul campo della neutrale Austria, fra la storiografie marxiste dell'Est e dell'Ovest in merito alla storia della classe operaia e del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Dopo il crollo del «socialismo reale» il confronto ha saputo rinnovarsi, tentando di stabilire una comunicazione su un asse diverso (Nord/Sud) e affrontando temi quali l'identità nazionale, le migrazioni, i riti, miti e simboli del movimento operaio, le questioni di genere, le biografie collettive (maggiori informazioni sul sito www.ith.or.at, ove si possono anche ordinare i volumi degli atti). Sulla base di un progetto triennale dedicato alla «storia della classe operaia oltre i confini» e della riflessione di due dei coordinatori del convegno, Berthold Unfried (presidente dell'Ith) e Marcel van der Linden (fra gli animatori dell'Iisg, l'Istituto internazionale per la storia sociale di Amsterdam, www.iisg.nl), i contributi presentati a Linz si soffermano su due aspetti fondamentali: lo statuto della «rete» fra realtà sociale e metodo interpretativo e le diverse modalità di organizzazione delle reti.
Rispetto alla prima questione, anche gli studiosi del movimento operaio si articolano fra i due poli estremi della formalizzazione e dell'uso metaforico: da un lato la network analysis si può applicare all'esame quantitativo dello scambio epistolare o delle strutture del Komintern (come suggerito da Bernhard Bayerlein); dall'altro l'idea di «rete» può servire a decolonizzare gli approcci all'internazionalismo e a non isolare le connessioni esterne dagli sviluppi interni agli Stati nazionali (Susan Zimmermann); in mezzo, per così dire, si collocano gli orientamenti strutturati ma non quantitativi, come quello di Ravi Ahuja, che critica l'opposizione fra reti (informali) e istituzioni (gerarchiche) e applica il concetto di network alle trasformazioni trans-territoriali del mercato del lavoro, prendendo a esempio il caso dei marinai indiani fra Otto e Novecento.
Al di là degli aspetti metodologici, le ricerche di storia sociale e culturale presentate a Linz confermano la fertilità del concetto. In una prospettiva di storia sociale, che insiste sulla prospettiva dal basso e sulla vita quotidiana, Dirk Hoerder propone un articolato quadro analitico per l'analisi delle reti migratorie globali, attorno al concetto di «trans-culturale»: i migranti in realtà abbandonano una comunità locale per costruirne un'altra, spesso con compaesani o parenti in senso largo; questo flusso «trans-locale» è condizionato dalle cornici «trans-nazionali» dell'economia, dei trasporti e dei controlli degli Stati di partenza, di arrivo, ma spesso anche di transito.
I centri e le periferie
Saldando storia sociale e storia culturale e raccogliendo l'eredità di Georges Haupt, il grande storico del socialismo internazionale, Augusta Dimou ricostruisce le reti di circolazione delle idee socialiste. Al centro delle sue ricerche è la storia comparata della graduale disseminazione di diversi tipi di socialismo nell'Europa sud-orientale, come adattamento locale di paradigmi elaborati altrove. Nei successivi percorsi del populismo in Serbia, del marxismo classico in Bulgaria e del comunismo in Grecia si disegnano reti di diffusione che collegano quelle periferie ai centri di turno, ma non solcano trasversalmente lo spazio balcanico. Su queste reti sono cruciali i mediatori, gli studenti che frequentano le università straniere o i rifugiati politici che arrivano nei Balcani, ma anche gli intellettuali che per la povertà di impieghi scelgono la carriera di maestro o di insegnante.
Un altro esempio di rete è quello dal Jewish Labour Committee, costruito dal movimento operaio ebraico statunitense nel 1934 per contribuire al salvataggio di importanti dirigenti europei minacciati dall'ascesa del nazismo e, in quanto non comunisti, al di fuori dell'assai più potente rete di soccorso del Komintern. Come ricordano Catherine Collomp e Bruno Groppo, il contributo militante e finanziario della base operaia ebraico-americana ruppe l'isolazionismo dei sindacati statunitensi e consentì di intraprendere un'azione continua che portò all'emigrazione di circa cinquecento socialisti e sindacalisti (ebrei e non), grazie ai rapporti spesso personali con esponenti dell'antifascismo europeo.
Una elastica produttività
Come altri domini della ricerca, anche la storiografia su classe e movimento operaio sta facendo proficuo uso dell'arsenale della «rete», mostrando la possibile estensione dell'assunto di Therborn riguardo il carattere cruciale dell'idea per la teoria sociale post- o neo-marxista. A suo avviso, inoltre, non solo come metodo ma anche dal punto di vista delle ricadute politiche il riferimento al network è neutrale e può dunque convivere con molti indirizzi. Forse proprio questa sua elastica produttività ha ritardato quel lavoro di analisi critica in grado di relativizzarne la portata, esaminandone i limiti: nelle parole dello studioso di Uppsala, la rete sarebbe «un concetto che sta ancora godendosi indisturbato la propria luna di miele».
ilmanifesto.it

20.9.07

Politica: voce per voce i costi per il 2007

Aumentano affitti, indennità e rimborsi. Otto milioni solo per la stampa degli atti parlamentari. La Camera costa 1 miliardo e mezzo. Il 2,9 per cento in più rispetto al 2006. Il finanziamento pubblico dei partiti costa 150 milioni di euro. Ai 14 gruppi parlamentari 34 milioni. I questori: "Le spese crescono meno rispetto all'anno scorso. Ma dobbiamo fare di più"
di CLAUDIA FUSANI

ROMA - Tagli, sprechi, razionalizzazione, austerity... Si dice, si dice, tutti ci provano e lo raccontano inseguendo il vento popolare della "casta" ma poi la realtà è un'altra: la politica costa sempre di più. Come la Camera dei Deputati, la casa dei 630 deputati e di 1.987 dipendenti che nel 2007 costeranno agli italiani un miliardo, 574 milioni e 269 mila euro, il 2,94 per cento in più rispetto al 2006.

Lo scrivono Gabriele Albonetti, Francesco Colucci e Severino Galante, i deputati questori responsabili - anche - dei conti, nell'introduzione alla legge di bilancio 2007, il preventivo dell'anno in votazione questa mattina nell'aula di Montecitorio. I questori sono comunque soddisfatti perché "la richiesta di dotazione (la richiesta di soldi allo Stato) è diminuita di 23,9 milioni rispetto a quella originaria del 2007" e perché l'aumento delle spese "ha un andamento inferiore di oltre un punto e mezzo percentuale rispetto a quello previsto nel 2006". Insomma, c'è un "tendenziale" contenimento della spesa. Un po' troppo poco contenuto, però.

E dire che, scorrendo pagine e tabelle, non è difficile trovare dove tagliare. Ad esempio i tre milioni e 300 mila euro per la ristorazione "gestita da esterni"; oppure i quattro milioni e passa per i noleggi (di cosa e perchè visto che la struttura Camera possiede già moltissimo?); i tre milioni e passa di euro per le assicurazioni: passino quelle dei dipendenti, ma i deputati - 21 mila euro lordi al mese tra indennità e contributi - se le potrebbero anche pagare; gli oltre due milioni per la "locazione dei depositi", perché non basta affittare uffici, servono anche i depositi. L'elenco dei possibili risparmi è lunghissimo. E' un lavoro che ogni capofamiglia deve fare ogni sei mesi. Basta saper frugare nelle voci del bilancio.

Gli aumenti - Le voci che crescono di più - secondo l'analisi contabile fatta dal deputato Sergio D'Elia (Rnp) - sono "le altre indennità dei deputati", leggi i rimborsi, raddoppiate rispetto al 2006: erano 185 mila nel 2007 ma saranno 300 mila. E il "rimborso spese di viaggio dei deputati" è cresciuto del 25 per cento. Aumenta anche la spesa di locazione degli immobili" che sale del 12 per cento, un trend che continuerà anche nel 2008 e nel 2009. E poi le spese di trasporto (treni, aerei, telepass e viacard) e quelle telefoniche.

Le indennità dei deputati - Tra indennità parlamentari, d'ufficio e i rimborsi ("altre indennità"), il conto sale a 94 milioni e 580 mila euro. Nel 2006 erano circa due milioni di euro in meno. Eppure - dicono i questori - negli ultimi due anni sono state via via ridotte, raffreddate e congelate .

Rimborsi spese per 74 milioni - Viaggi, le spese di soggiorno a Roma o altrove e quelle di segreteria più altre voci legate al mandato dei 630 deputati costeranno nel 2007 74 milioni e 600 mila euro, una cifra uguale a quella del 2006.

Assegni vitalizi e rimborso spese per gli ex deputati - Si tratta delle voci di spesa legate ad ex deputati che hanno cessato il mandato. I vitalizi, tra diretti e riversibili, ammontano a 131 milioni e 200 mila euro. Lascia veramente perplessi il milione e 250 mila euro dati agli ex deputati come rimborso viaggi: gratis e biglietti dei treni e dei traghetti, parecchio scontati quelli degli aerei.

Commessi e altri dipendenti - I 1.897 dipendenti della Camera - parliamo di commessi, assistenti, segretari, archivisti e bibliotecari e altre funzioni - costeranno nel 2007 266 milioni e 915 mila euro a cui vanno sommati i 167 milioni e 500 mila euro per quelli in pensione. Insomma, solo di personale dipendente, la Camera costerà quest'anno ai cittadini 434 milioni e 410 mila euro.

181 milioni per affitti, telefono, luce, acqua, gas, cibo, cancelleria, carta igienica, stampa atti parlamentari ... - La voce "acquisto di beni e servizi" è quella su cui le forze politiche promettono di intervenire di più. Con la scure, non con il coltellino. Per gli affitti se ne vanno poco meno di 35 milioni di euro: la maggior parte degli uffici dei deputati, infatti, e dei gruppi parlamentari non sono a Montecitorio ma sparsi nel centro di Roma. Tra Camera, Senato e palazzo Chigi sono state contati 46 edifici. Tutti in affitto. Altri quattordici milioni se ne vanno in spese di "manutenzione ordinaria": il funzionamento di impianti antincendio, elettrici, audio-video, ascensori, e l'elenco è lungo una pagina. Pulizie, lavanderia e smaltimento rifiuti costano circa otto milioni di euro. Tre milioni se ne vanno per le spese telefoniche (di cui "solo" 680 mila per i cellulari) e uno per le spese postali, un fondo riservato ai deputati al netto della trasmissione degli atti parlamentari. "Beni e materiali di consumo", tra cui cibo, cancelleria e prodotti igienici "pesano" per 5 milioni e 725 mila euro. Ma la cifra che più di tutte sembra sprecata riguarda gli otto milioni e 870 mila euro per "la stampa degli atti parlamentari", tonnellate di carta che per il 90 per cento vengono gettate al macero.

Altre curiosità tra "beni e servizi" - La verità è che il preventivo del bilancio della Camera 2007 - 75 pagine di tabelle - assomiglia a un libro delle meraviglie che ogni cittadino dovrebbe poter gustare voce per voce. C'è l'aggiornamento e la formazione professionale del personale (1.780.000 euro); i corsi di lingue, internet, le consulenze professionali e le traduzioni (180 mila euro); le spese per "la comunicazione e l'informazione esterna", come l'affitto di Rai Way per accedere ai canali satellitari (4.150.000); banche dati, rilegature, ristorazione gestita da terzi, la gestione del patrimonio della biblioteca e le consulenze tecnico-professionali (54 milioni e 665 mila euro). E via con liste di servizi, lussi e privilegi. Solo per l'acquisto di giornali e altre pubblicazioni quest'anno la Camera prevede di spendere 750 mila euro. E però poi i deputati leggono per lo più la rassegna stampa.

I 14 gruppi parlamentari - Cinque dell'opposizione, otto della maggioranza, più il gruppo misto. Cinque non hanno la consistenza di deputati (20) prevista dal regolamento per essere riconosciuti. E' questo il punto su cui c'è stata più tensione durante il dibattito in aula. Al di là della loro legittimità, il loro funzionamento - sedi, personale, segreteria e contributi vari - ci costa 34 milioni e 300 mila euro. Nel 2006 erano stati spesi due milioni di euro in meno.

Tre milioni in due anni per verificare il voto - Per controllare l'andamento del voto, nel 2007 spenderemo poco più di un milione di euro. E' una delle poche voci che diminuisce: nel 2006 - l'annus horribilis dell'urna visto che il riconteggio è finito solo adesso con la conferma della vittoria dell'Unione - avevamo speso due milioni e rotti.

Commissioni parlamentari e bicamerali, giunte e comitati - Ci costeranno nel 2007 un milione e 875 mila euro, di cui 300 mila l'Antimafia, 135 mila la Commissione di vigilanza sulla Rai, 75 mila quella sui rifiuti. E' un Parlamento, il nostro, che ci tiene molto ai rapporti internazionali: per attività interparlamentari con paesi stranieri andremo a spendere tre milioni e 195 mila euro. Le missioni costano - viaggi, alberghi, interpreti - e le spese di rappresentanza pure.

Investimenti e acquisti immobili: tutto ciò che fa patrimonio - Passi per i quindici milioni e spiccioli che se ne vanno per il mantenimento degli immobili di proprietà della Camera. Sono un po' più ingiustificati i quasi due milioni spesi per "arredi, mezzi di trasporto, attrezzature d'ufficio". Dieci milioni sono spesi per software e hardware mentre solo 1.775.000 sono destinati al mantenimento del patrimonio artistico e bibliotecario.

I rimborsi ai partiti - E' una cifra da capogiro quella destinata al rimborso ai partiti per le spese elettorali, il famoso o famigerato "finanziamento pubblico ai partiti": 150 milioni di euro. Il meccanismo dei rimborsi elettorali prevede, per legge, un euro per ogni iscritto alle liste. Ai singoli partiti poi il rimborso viene retribuito in base ai voti ottenuti. Cinquanta milioni di euro sono stati distribuiti ai partiti per il rinnovo della Camera; altrettanti per il Parlamento Europeo; cifra analoga per i Consigli regionali. Il Senato grava su un altro bilancio, un altro capitolo delle spese della politica a cui va aggiunto quello di Palazzo Chigi. In tutto, euro più euro meno, il funzionamento della politica costa ai cittadini italiani qualcosa come quattro miliardi di euro ogni anno.

repubblica.it

19.9.07

I quattro cavalieri della globalizzazione

Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali
Walden Bello

Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.
Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.

Washington Consensus Plus
Coscienti dei fallimenti del Washington Consensus, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale stanno ora promuovendo quello che il premio Nobel Joseph Stiglitz ha chiamato con sdegno il Washington Consensus Plus, in base al quale le riforme a favore del libero mercato che pur erano indispensabili non sono state da sole sufficienti. Le riforme finanziarie, per esempio, devono avere sequenzialità, se si vuole evitare debacle come le crisi finanziarie asiatiche degli anni Novanta. Memori della discesa della Russia nel capitalismo mafioso degli anni '90, le due istituzioni ora parlano anche dell'importanza di accompagnare la riforma del mercato con riforme legali e istituzionali che possano far rispettare proprietà privata e contratti. Tra gli altri principi che devono accompagnare gli «aggiustamenti strutturali» ci sono la «buona gestione» e politiche per «sviluppare il capitale umano».
Il mix di riforme istituzionali e sostegno al libero mercato è stato consolidato nei primi anni di questo decennio nei cosiddetti «Programmi strategici per la riduzione della povertà» (in inglese la sigla è Prsp, n.d.r.). Contrariamente a quello che un analista ha definito «neoliberalismo a pugno nudo», i Prsp sono infatti liberal per quanto riguarda i processi decisionali, che devono vedere una consultazione tra le diversi parti interessate tra cui le organizzazioni della società civile. Questo non significa che l'obiettivo dei «programmi contro la povertà» sia diverso da quello del suo antenato - liberalizzazione, deregulation, privatizzazione e commercializzazione della terra e delle risorse -, ma si propone di raggiungerlo attraverso il limitato coinvolgimento delle comunità «interessate». Un coinvolgimento mediato però da organizzazioni non-governative di matrice liberal piuttosto che attraverso la partecipazione dei movimenti sociali. I Psrp sono dunque programmi di aggiustamento strutturale di seconda generazione che cercano di ammorbidire l'impatto negativo delle riforme.

Neoliberismo neoconservatore
Un secondo erede del Washington Consensus è il «neoliberaismo neoconservatore», un approccio che orienta l'operato dell'amministrazione Bush e che ha avuto il suo battesimo con il famoso rapporto del 2000 stilato dalla commissione del Congresso sulle istituzioni multilaterali guidata da Alan Meltzer. Il rapporto sostiene - quantomeno a livello di retorica - una riduzione del debito delle nazioni più povere per dirottare le risorse finanziarie derivanti dalla riduzione del debito alla costituzione di specifici «fondi a concorso». Inoltre, i «fondi a concorso» consentono un coordinamento delle riforme a favore del libero mercato in accordo con la «sicurezza nazionale» statunitense e le strategie delle multinazionali americane.

La «buona» e «cattiva» sinistra
C'è anche un terzo erede del Washington Consensus. Si tratta del «neostrutturalismo», un approccio che viene associato alla Commissione Economica per l'America Latina (Cepal). Secondo la teoria neostrutturalista le politiche neoliberiste sono state troppo costose e a lungo termine non produttive. Per i sostenitori di questo approccio equità e crescita non si escludono a vicenda e potrebbero operare in piena «sinergia». Una minore ineguaglianza dovrebbe infatti sostenere la crescita economica, perché garantisce stabilità politica e macroeconomica, aumenta la capacità di risparmio dei poveri, innalza i livelli di educazione ed espande la domanda aggregata.
I neostrutturalisti propongono quindi politiche di redistribuzione del reddito attraverso politiche sanitarie, educative e abitative. Questo è il tipo di programmi che caratterizza quella che l'opinionista messicano Jorge Castaneda ha chiamato la «buona sinistra» dell'America Latina, riferendosi al governo di Lula in Brasile e all'alleanza governativa «Concertacion» in Cile. Concentrandosi sui trasferimenti per proteggere e potenziare la capacità dei poveri, l'approccio neostrutturalista non interferisce con le forze del mercato al livello di produzione, diversamente dalla linea della «cattiva sinistra» (Hugo Chavez e altri) che interviene direttamente nella produzione e nelle politiche salariali. I neostrutturalisti abbracciano la globalizzazione, e sostengono che un obiettivo chiave delle loro riforme è rendere i paesi più competitivi a livello globale. Siccome le riforme neostrutturaliste puntano a ridurre le disparità di reddito sono considerate una strada per rendere la globalizzazione più appetibile se non popolare.
Secondo l'economista cileno Fernando Leiva le politiche neostrutturaliste rappresentano tuttavia un «paradosso eretico»: la ricerca di una competitività generale da parte delle economie nazionali hanno infatti condotto «alla consolidazione politico-economica delle pratiche neoliberiste». In fondo, il neostrutturalismo come il Washington Consensus Plus non sovvertono il neoliberismo, piuttosto ne mitigano la povertà le ineguaglianze. I programmi mirati anti-povertà del governo Lula possono certamente aver ridotto le fila dei «miserabili», ma l'istituzionalizzazione delle politiche neoliberiste continuano comunque a produrre produrre povertà, ineguaglianza e stagnazione nella più grande realtà economica dell'America Latina.

Socialdemocrazia globale
Accanto al neostrutturaliamo e il neoliberismo neoconservatore ha preso forma e si è sviluppata la «socialdemocrazia globale», un approccio che viene identificato con l'economista Jeffrey Sachs, il sociologo David Held, il premio Nobel Joseph Stiglitz e la ong britannica Oxfam. Diversamente dai tre approcci precedenti, questa prospettiva ammette il fatto che la crescita e l'equità possono essere in conflitto e pone l'equità chiaramente al di sopra della crescita. Questo approccio mette inoltre in dubbio una tesi centrale del neoliberismo, cioè che la liberalizzazione del commercio sia benefica a lungo termine.
Stiglitz sostiene infatti che, nel lungo periodo, la liberalizzazione del commercio potrebbe condurre a una situazione in cui «la maggior parte dei cittadini è messa peggio». Infine i socialdemocratici globali chiedono cambiamenti fondamentali nelle istituzioni e nelle regole della governance globale come l'Fmi, il Wto, e gli accordi sulla proprietà intellettuale per fini commerciali (Trip). David Held, ad esempio, chiede «la riforma, se non l'abolizione completa degli accordi Trip», mentre Stiglitz dice che «i paesi ricchi dovrebbero aprire i mercati ai paesi più poveri, senza reciprocità e senza porre condizioni politiche ed economiche».
I socialdemocratici globali vedono infine nel movimento anti-globalizzazione un alleato, che Sachs ringrazia «per aver messo alla luce le ipocrisie e gli evidenti fallimenti della governance globale e per aver messo fine ad anni di auto-celebrazione dei ricchi e dei potenti». Ma la globalizzazione è però il punto sul quale i socialdemocratici globali pongono il loro aut aut. Questo perché similmente al neoliberismo della prima ora, al Washington Consensus Plus, al neoconservatorismo statunitense e al neostrutturalismo la socialdemocrazia globale vede nella globalizzazione un fenomeno che se fosse gestito bene porterebbe benefici ai più.
I socialdemocratici globali vedono infatti se stessi come i salvatori della globalizzazione, temendo che la sua crisi provochi un ritorno al passato. Di fronte al questa eventualità ricordano le conseguenze nefaste della turbolenta inversione della prima ondata di globalizzazione dopo il 1914. Per Sachs, Held e Stiglitz, il mondo ha dunque bisogno di una globalizzazione socialdemocratica o «illuminata» in cui l'integrazione globale del mercato vada avanti, ma sia gestita in modo equo e sia accompagnata da una progressiva «integrazione sociale globale».
Ci sono diversi problemi che derivano da questa adesione alla globalizzazione da parte della socialdemocrazia globale. Prima di tutto, è discutibile che la rapida integrazione dei mercati e della produzione - l'essenza della globalizzazione - possa avere luogo al di fuori di una cornice neoliberista il cui precetto centrale è abbattere i muri delle tariffe doganali ed eliminare le restrizioni agli investimenti. In secondo luogo, è ugualmente discutibile che, se si potesse pensare a una globalizzazione in regime di equità sociale, questa dovrebbe essere effettivamente desiderabile. Le persone desiderano veramente essere parte di un'economia globale funzionalmente integrata dove scompaiono le barriere tra il nazionale e l'internazionale? Non preferirebbero invece essere parte di sistemi economici che possano essere controllati a livello locale e che siano protetti dall'andamento ondivago dell'economia internazionale? La reazione contro la globalizzazione non dipende infatti solo dalle ineguaglianze e dalla povertà che essa ha creato ma anche dal sentire di uomini e donne che hanno perso ogni parvenza di controllo sull'economia a favore di forze internazionali impersonali. Uno dei temi che riecheggiano maggiormente nel movimento antiglobalizzazione è la richiesta di bloccare la crescita finalizzata alle esportazioni e la creazione di strategie di sviluppo tanto a livello locale che globale, all'interno però di una regolamentazione dell'economia.

La sfida perduta
Il problema fondamentale con gli eredi del Washington Consensus è la loro incapacità di radicare la loro analisi nelle dinamiche del capitalismo come sistema di produzione. In questo modo essi non sono in grado di vedere che la globalizzazione neoliberista non è una nuova fase nell'evoluzione del capitalismo ma un tentativo disperato e fallimentare di superare le crisi di sovraccumulazione, sovrapproduzione e stagnazione che hanno colpito le economie capitalistiche centrali a partire dalla metà degli anni '70. Rompendo il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro nato nel secondo dopoguerra ed eliminando le barriere nazionali al commercio e all'investimento, le politiche economiche neoliberali hanno cercato di invertire la tendenza alla crisi dello sviluppo economico e dei profitti.
Questa «fuga verso il globale» ha avuto luogo sullo sfondo di un processo conflittuale più ampio segnato da una rinnovata competizione inter-imperialista tra i principali centri di potere capitalistico, l'ascesa di nuove centri capitalistici, la destabilizzazione ambientale, un'ulteriore sfruttamento del Sud - quello che David Harvey ha chiamato «accumulazione per espropriazione» - e una resistenza che emerge tutt'intorno.
La globalizzazione ha fallito nel fornire al capitale una via d'uscita dalle sue crisi di accumulazione. Con il suo fallimento, ora vediamo le élite capitaliste che la abbandonano per ritornare a strategie nazionali di protezione e competizione con il sostegno dello stato per il controllo dei mercati e le risorse globali, con la classe capitalista statunitense che fa da apripista. Questo è il contesto che Jeffrey Sachs e altri socialdemocratici non riescono a comprendere quando propongono la loro utopia: la creazione di un «capitalismo globale illuminato» che dovrebbe «umanizzare» la globalizzazione.
Il tardo capitalismo ha un irreversibile logica distruttiva. Invece che impegnarsi nel compito impossibile di umanizzare un fallito progetto globalista, la sfida urgente che ci sta di fronte è gestire il ritiro dalla globalizzazione in modo che non provochi la proliferazione di conflitti incontrollabili e sviluppi destabilizzanti come quelli che segnarono la fine della prima ondata di globalizzazione nel 1914.
Traduzione di Paolo Gerbaudo
ilmanifesto.it

18.9.07

La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente

Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
Toni Negri

In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata. (A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza. Ho tra le mani la recensione che alla traduzione Mignini-Proietti, ha fatto Emanuele Severino ne Il Corriere della Sera. S'intitola: «Spinoza, Dio e il Nulla. Il Maestro del Seicento, lontano dalla religione, ma tentato di negare il mondo» (30 Giugno 2007). Severino aderisce all'affermazione di Mignini che la filosofia di Spinoza rappresenti: «il più radicale ed alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo» - ma, come spesso gli storici della filosofia hanno fatto (allo scopo di neutralizzare questa potente radicalità alternativa), aggiunge che l'immanenza spinozista si sporge sul nulla, che l'assoluto della produzione sembra confondersi in quello della distruzione e che queste spinte opposte «hanno in comune la convinzione decisiva ed abissale che le cose del mondo sono nulla».
Questo sforzo di neutralizzazione è stato probabilmente - nella sua forma più sofisticata - elaborato da Hegel quando, dopo aver affermato che «se non si è spinozisti, non può filosofare» - che cioè solo l'assunzione dell'assoluto e l'immersione in esso aprono alla filosofia - immediatamente aggiunge: non solo Spinoza non ha la capacità di sviluppare quest'assolutezza perché non è trinitario, dialettico, perché è ebreo ma anche perché, «povero tisicuzzo», non ne ha la forza. Quale smalcazonata! Perdura, tuttavia, questo stile di polemica e permette a chi vede nell'essere una tendenza alla morte, di rimproverare a chi scriveva: «l'uomo libero a nulla pensa di meno che alla morte, e la sua saggezza è meditazione non della morte ma della vita» (Ethica), di confondere l'essere e il non essere. Eppure no: «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell'intelletto infinito di Dio» (Ethica). Possiede dunque la potenza del divino - questa natura, questa materia della quale siamo fatti, hanno quella potenza.
Collocandoci dentro una storia di investimenti della potenza spinozista, chiediamoci che cosa sia oggi, come possa per noi configurarsi, il materialismo spinozista. Non è un materialismo dell'oggetto inerte, diremo, e neppure è quello che semplicemente promana da sequenze causali necessarie: è bensì un materialismo delle differenze attive e dei dispositivi soggettivi, ovvero un'affermazione della materia come forza produttiva, attraverso l'attività di quelle modalità che costituiscono la sostanza. Questa linea interpretativa ha, nell'ultimo trentennio dopo il '68, invaso il terreno delle letture spinoziste ed è difficile pensare che oggi, e forse per un lungo periodo, ci si possa dire spinozisti (e quindi cominciare a filosofare) evitandone l'efficia.
Un'etica dell'azione
Da questo punto di vista, la pubblicazione dell'Opera omnia di Spinoza offre un'ottima occasione per la ripresa del dibattito sul problema della cultura di sinistra in Italia. Il socialismo positivista ha finito da tempo di dare i suoi frutti ed anche le rifioriture engelsiane si sono ampiamente dissolte. Quanto al togliattismo, ovvero allo storicismo piegato alle esigenze della politica del partito, anch'esso ha da tempo terminato di esercitare qualche influenza. Che mille fiori fioriscano, allora! In realtà sono già fioriti: non saranno mille ma per quanto minuscolo il campo della critica di sinistra possa essere, è sicuramente originale e sta ridefinendo i suoi orizzonti. Forse già si può dire: questo secolo sarà spinozista! Foucault lo disse per Deleuze, Deleuze lo disse per Marx, Marx lo dice per Spinoza. Ciascuno di questi autori ha proceduto mascherato per chiarirci quell'unico modo di fare una filosofia materialista che apra ad un'etica dell'azione.
Fra gli anni '60 e '70 abbiamo vissuto un'epoca di profondissima crisi dell'ideologia socialista e di critica del pensiero marxiano. Possiamo forse oggi ritrovare le origini spinoziste di quella riflessione. Un esempio fra altri possibili. Quando Althusser definisce una «cesura» radicale nello sviluppo del pensiero marxiano, egli forse non pensa ancora che la rottura fra la metodologia scientifica del Marx maturo ed il suo umanesimo iniziale potesse essere interpretata in termini spinozisti. Solo più tardi, nel momento più difficile della sua conversione postmarxista, confusamente Althusser suggerirà una tale determinante del suo passaggio. Straordinariamente efficace questa allusione! Essa significava che Spinoza ci poteva finalmente liberare da ogni dialettismo, da ogni teleologia; essa affidava la conoscenza alla resistenza e la felicità alla passione razionale della moltitudine. Ecco perché, quando il quadro della lotta per l'emancipazione umana si allarga, e la critica aggancia lo sviluppo capitalistico nella fase della sussunzione reale, nella fase imperiale cioè, nel postcolonialismo - è allora che sulla «cesura» marxiana si impone apertamente la «matrice» spinozista.
È un materialismo dei dispositivi ontologici e della produzione di soggettività che qui apertamente si esprime. È un passaggio storico nel quale stanno tutti coloro che attorno all'emancipazione, hanno sviluppato un pensiero della differenza, antiteleologico ed immanentista.Mario Tronti e Luisa Muraro, nel nostro (grande) piccolo, ma poi tutti gli altri che, del postmoderno, hanno fatto un'arma di emancipazione: la Spivak come gli altri postcoloniali, per parlare solo di alcuni - ma soprattutto ci sta Foucault. È questo il momento nel quale il nuovo materialismo spinozista comincia a produrre i suoi effetti, a mostrarci - attraverso le articolazioni della sostanza - la produttività dei modi, ossia la piega singolare, rivoluzionaria che essi assumono.
L'offensiva storicista
Attenzione tuttavia ai contrefeux che sono opposti a questa nuova fondazione del pensiero materialista o del pensiero politico di una sinistra rivoluzionaria. Vi è chi sostiene che, aderendo a questo materialismo, si rischia di giocare col fuoco, con il vitalismo e/o un irrazionalismo che ormai fan parte del mercato. Redemption business. Tom Nairn ha sostenuto questa tesi in un recente numero del London Review of Books: era la stizzosa reazione di un esponente della vecchia guardia socialista contro le nuove esperienze e i nuovi bisogni del proletariato cognitivo. Più pericolosa, d'altro lato, si è presentata, ben agguerrita, un'offensiva storicista, intesa a neutralizzare «l'anomalia spinoziana». È soprattutto Jonathan Israel - nel suo per altri versi importante Radical Enlightment - che ha operato in questo senso appiattendo la specificità dello spinozismo in un vago illuminismo riformista.
Ma Spinoza non è mai stato un riformista, non ha mai pensato l'essere come una dinamica che non facesse salti: anzi, è proprio su queste rotture, su questa vivace presenza dei modi, sulla singolarità che l'eterno loro garantisce, e sulla libertà, che il futuro si presenta. E così Spinoza rompe con ogni filosofia accademica (ed ogni neutralizzazione del sapere) perché mette la sua metafisica al servizio diretto della liberazione dell'umanità, e dei movimenti, contro le istituzioni del potere. E' da qui che si apre un'alternativa definitiva alla modernità e a tutti i suoi orpelli ideologici.
ilmanifesto.it

La morte dell'istantanea nell'era delle immagini rubate

Il superamento della fotografia come frammento di tempo congelato e il ruolo essenziale delle manipolazioni nel caustico e a tratti debordante pamphlet «Meglio ladro che fotografo» di Ando Gilardi In una società sempre più opaca come è quella attuale, fotografare significa misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sugli indizi e sulle tracce
Antonello Frongia

All'inizio di un recente, folle libretto intitolato Meglio ladro che fotografo, Ando Gilardi lascia cadere tra le righe una piccola osservazione provocatoria: fare fotografie richiede «tanta forza e cultura quanta ce ne vuole per suonare il campanello di una porta». Una volta suonato il campanello, però, quella che si presenta davanti a noi non è un'epifania o un'illuminazione, ma l'immagine duplicata di noi stessi e della nostra società, un rispecchiamento con l'illusione di una scoperta.
Questa scenetta didattica è ricca di implicazioni. Sintetizza due immagini mitiche della storia della fotografia e della sua funzione sociale. Da una parte c'è il «piccolo bastardo abbandonato sulla soglia dell'arte», la condizione eterna della fotografia come tecnica marginale e servile, mai completamente accettata nel novero delle arti maggiori. Dall'altra, c'è il famoso slogan pubblicitario della Kodak di fine Ottocento, «voi premete il pulsante, noi facciamo il resto»: dove il «resto» non è solo il processo di sviluppo e stampa, ma anche l'illusione di trasformare i kodakers (come li chiamava sdegnosamente Stieglitz) in artisti.
Manipolazioni e riappropriazioni
Per Gilardi (come per Benjamin) l'aspetto rivoluzionario della fotografia è proprio l'opposto: l'idea che non abbia nulla da creare o da inventare, ma solo da riprendere e rubare. Il problema del fotografo non è quello di ridefinire stili e forme, ma di fare riproduzioni e disseminare immagini. Il baricentro dell'attenzione si sposta dall'esperienza ineffabile dell'autore all'interpretazione sempre incerta (e per questo tanto più ricca e rinnovabile) di fruitori sempre diversi.
Così per Gilardi i veri autori delle opere che compaiono nei libri di storia dell'arte non sono i pittori, ma i fotografi: sono le loro riproduzioni, anche infedeli, a rendere accessibili quei dipinti e quelle sculture al di fuori dei musei affollati e al tempo stesso iperprotetti. L'avvento delle macchine fotografiche digitali, dei programmi di elaborazione grafica e di internet segneranno secondo Gilardi una nuova era nella storia delle rappresentazioni: la fine di quella che chiama «fotografia fatalistica» o «immagine determinista», il superamento dell'istantanea come frammento di tempo congelato, della sua forma estetica senza passato né futuro, in favore della manipolazione e della riappropriazione.
Meglio ladro che fotografo è un pamphlet a tratti debordante: una libera conversazione tra Ando Gilardi e Patrizia Piccini che sfocia in disquisizioni sull'ideologia, la filosofia e addirittura la teologia, come fa notare a un certo punto la paziente interlocutrice. In effetti non si può essere d'accordo con tutto Gilardi: in particolare, con la sua idea che il mondo (fotografico) sarà salvato da Google e dal «superlativo Photoshop». Ma non si capisce l'ironia e la polemica di questo libro se non si ha in mente chi è Ando Gilardi: un «irregolare» della fotografia che osserva il mondo attuale dalla prospettiva di oltre sessant'anni di lavoro sul campo.
Nato nel 1921, nel 1945 Gilardi è stato fotografo di documentazione per le istruttorie dei processi ai crimini di guerra; negli anni cinquanta ha lavorato nella riproduzione delle opere d'arte e ha documentato il sud per la Cgil di Di Vittorio e per antropologi come Ernesto De Martino; è stato responsabile tecnico di «Popular Photography Italiana» e co-fondatore di «Photo 13», una importante quanto dimenticata rivista sperimentale degli anni settanta; è stato giornalista, curatore di mostre e docente; ha collezionato per decenni immagini anonime, popolari e fuorilegge, che oggi costituiscono la base della sua «Fototeca storica nazionale»; è stato in Italia l'unico storico «sociale» di questi materiali che, come egli stesso suggerisce, vanno considerati come sintomi di processi antropologici piuttosto che come oggetti preziosi di un mercato antiquario.
Meglio ladro che fotografo andrebbe dunque letto nel contesto di una storia della fotografia italiana del dopoguerra che rimane ancora tutta da ricostruire, ma può anche essere visto come un'utile postilla a due testi fondamentali elaborati da Gilardi nel corso degli anni settanta e ultimamente ripubblicati: la Storia sociale della fotografia del 1976 e Wanted! del 1978.
Uno degli elementi di grande attualità del pensiero di Gilardi risiede proprio nella funzione sociale che egli attribuisce al lavoro fotografico e alla fotografia in generale. In Italia questo tema ha subìto un decorso particolare, caratterizzato da una distinzione molto netta, persino un'opposizione ideologica, tra impegno civile e ricerca formale. Nella migliore produzione dei paesi anglosassoni, indagine sociale, ricerca formale e sperimentazione linguistica sono stati tradizionalmente aspetti diversi del medesimo postulato: vedere significa pensare; far vedere, significa far pensare. Negli anni trenta questo atteggiamento è stato alla base della fotografia «documentaria» e del dibattito teorico che indagava il rapporto fra immagine e racconto. Negli anni sessanta, già prima del '68, fotografi estremamente formali come Lee Friedlander e Garry Winogrand erano considerati i maggiori indagatori del social landscape americano.
Nell'Italia del dopoguerra il rapporto tra estetica e politica della fotografia è stato marcato dall'annosa polemica tra neorealismo e formalismo; una antinomia che negli anni settanta si è riproposta in forme diverse tra «fotoreporter» e fotografi «di ricerca». Da una parte la testimonianza dei «fatti», il viaggio d'inchiesta, la fotografia in bianco e nero in stile diretto che accompagna la notizia sulla pagina del quotidiano; dall'altra la ricerca tematica, i tempi lunghi della meditazione colta, la scoperta del colore fotografico, il libro e la mostra come testi visivi silenziosi e metafisici.
Dentro la società opaca
Oggi l'industria culturale sta riassorbendo questa distinzione in una nuova versione dell'arte pubblica. L'opera di fotografi come Armin Linke e Francesco Jodice ambisce a una sintesi di entrambe le tradizioni del passato. Ed è significativo, se le parole hanno un senso, che l'agenzia fotografica Contrasto abbia aperto a Milano uno spazio espositivo molto importante chiamandolo «Forma». Ma in realtà è soprattutto l'oggetto stesso della fotografia socialmente impegnata a richiedere una riformulazione dei vecchi problemi. Oggi non esiste più (o risulta meno efficace fotografarla) una struttura sociale chiaramente definita, come quella che Jacob Riis e Lewis Hine affrontavano per la prima volta tra Otto e Novecento, nella metropoli che opponeva tycoons del capitalismo e masse di proletari immigrati. In una società come l'attuale, considerata sempre più opaca, la visibilità dei fenomeni viene minata alla base - non di rado intenzionalmente.
Fotografare significa sempre più spesso misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sull'indizio e sulla traccia, in un'epoca in cui i processi fondamentali sono considerati immateriali e la società «liquida» o «molecolare». Il fotografo del passato si presentava alle porte del mondo e premendo il pulsante suonava un campanello d'allarme; per le nuove generazioni Flickr, Google e Youtube sono come rubinetti dell'acqua calda, confortevole e sempre a portata di mano.
A un altro livello, Gilardi ci ricorda che il vasto territorio chiamato «storia sociale della fotografia» è un po' come la luna: dopo un paio di eroiche missioni, nessuno si è curato di tornarvi di persona. I suoi lavori degli anni settanta sulla fotografia pornografica, giudiziaria e psichiatrica rimangono un patrimonio prezioso per la storiografia italiana. Tuttavia molto rimane ancora da fare proprio in un paese come il nostro, che ha vissuto processi di modernizzazione peculiari rispetto a quelli già noti e storicizzati di Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti.
Nel segno di Diderot
Che funzione ha avuto l'introduzione di una tecnica «meccanica» di rappresentazione in una cultura come quella italiana, dominata nei secoli dal dibattito sul rapporto tra pittura e parola? Chi ha comprato, commissionato, collezionato, visto (ma anche distrutto e disperso) la fotografie di due secoli d'Italia? Se altrove la posizione sociale del fotografo è stata chiaramente quella del professionista o dell'amateur, dell'artista o dell'attivista politico, che ruolo hanno veramente giocato da noi figure come Giacomo Caneva, Leopoldo Alinari, Giuseppe Primoli o lo stesso Ando Gilardi?
Queste sono solo alcune delle tantissime domande suggerite dalla lettura di un altro preziosissimo libro, apparso per la prima volta nel 1985 nella collana Nuovo Politecnico di Einaudi e ora meritoriamente ripubblicato dalla Scuola Normale Superiore di Pisa: Arte, industria, rivoluzioni di Enrico Castelnuovo. Si tratta di una antologia di saggi scritti tra il 1969 e il 1978, che esplorano potenzialità e limiti di una storia sociale dell'arte a partire dalle ricerche di Francis Klingender, Frederick Antal e Arnold Hauser. Non sembra una coincidenza che a Diderot - analizzato da Castelnuovo per la sua riabilitazione delle attività «meccaniche» rispetto a quelle «liberali» nella Encyclopédie del 1751 - Gilardi abbia dedicato il suo Meglio ladro che fotografo.
È nelle rivoluzioni economiche, politiche e sociali della modernità che la fotografia ha trovato il proprio fondamento, anche se per la storia delle forme si tratta di una tecnica che perpetua in forme nuove la prospettiva rinascimentale. Tuttavia è chiaro, e Castelnuovo utilmente ce lo ricorda, che nessuna forma di rappresentazione è un mero rispecchiamento di questi fenomeni generali.
Dialettiche irrisolte
Nella fotografia (in quanto industria e pratica sociale) e nelle singole fotografie (in quanto documenti storici) si inscrive la dialettica sempre irrisolta, talvolta persino tragica, tra i processi di lunga durata e le immagini, le memorie e le attese degli individui che osservano la storia dal basso, con i propri occhi.
A distanza di decenni, i saggi di Castelnuovo propongono ancora oggi stimoli di ricerca attualissimi per un inquadramento interdisciplinare della storia della fotografia e persino della fotografia contemporanea. La sua discussione della pittura inglese dell'Ottocento, ad esempio, potrebbe essere traslata con le opportune verifiche alla situazione italiana degli anni ottanta. «Le più importanti mutazioni avvennero in provincia e non nella capitale», scrive Castelnuovo. Si potrebbe sostenere ad esempio che per Luigi Ghirri, come Joseph Wright of Derby, la periferia fu un punto di osservazione privilegiato, che rese possibile istituire rapporti più innovativi e meno stereotipati tra artisti, istituzioni e pubblico.

ilmanifesto.it

16.9.07

La nouvelle vague della decrescita

Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci
Luigi Cavallaro

Da quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.
È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».
La catastrofe annunciata
La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen. E, complice l'ignoranza delle ragioni che, nel secondo dopoguerra, avevano portato gli economisti a identificare nel Prodotto interno lordo la misura della ricchezza delle nazioni, i neocrollisti hanno individuato nella crescita del Pil la spia di codesta contraddizione fra il capitalismo e la natura, giungendo coerentemente a indicare nella «decrescita» il rimedio capace di salvare la Terra e l'umanità dall'incipiente catastrofe.
Parallelamente, essi hanno cominciato a diffondere visioni ireniche della preistoria dei rapporti di produzione moderni.
Le forme di vita delle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori e, in genere, delle società precapitalistiche sono state descritte come altrettanti Eden, in cui gli individui vivevano in armonia con l'ambiente circostante, appropriandosene giusto quel tanto che serviva a sfamarsi e a riprodursi. Il fatto che l'arrivo dell'Homo sapiens sapiens in un qualche nuovo territorio fosse immancabilmente seguito da un'ondata di estinzioni di animali di grossa taglia, che molte comunità contadine praticassero un'agricoltura basata sul metodo «taglia e brucia», che eventi atmosferici banali potessero condannare intere comunità alla fame e che le condizioni di lavoro e di vita fossero terrificanti è stato semplicemente dimenticato. Così come è stata dimenticata una lettera in cui Engels commentava severamente con Marx le pretese di un tal Podolinskij di «esprimere rapporti economici in misure di fisica». La teoria marxista è stata anzi ritenuta corriva col peggior capitalismo e l'insistenza di Marx sullo sviluppo delle forze produttive è stata additata come matrice ideologica dei disastri ambientali del «socialismo reale», dall'esplosione del reattore di Chernobyl al disseccamento del lago d'Aral.
I drogati del produttivismo
Una brillante sintesi degli approdi più recenti ai quali è pervenuto il «neocrollismo» ci viene ora dall'ultimo libro di Serge Latouche, lo studioso francese che può esserne considerato il principale rappresentante. La bibliografia che correda La scommessa della decrescita (Feltrinelli, pp. 215, euro 16) si presenta infatti come una sorta di who's who della nouvelle vague e il volume stesso, in molte parti, è costruito con la tecnica del «citazionario», utilissima per sapere chi ha detto cosa e dove e quando. La quarta di copertina, poi, ci informa che questo libro è «un vero e proprio manifesto teorico della Società della decrescita». Proprio così, con la S maiuscola.
Latouche comincia col dirci cosa la «decrescita» non è. Non è lo «stato stazionario» degli economisti classici, «né una forma di regressione, di recessione o di "crescita negativa", e neppure la crescita zero». Non è nemmeno un concetto, «almeno non nel senso tradizionale del termine». E' piuttosto «uno slogan politico con implicazioni teoriche, è un "termine esplosivo" che cerca di interrompere la cantilena dei "drogati" del produttivismo». Più che di decrescita, precisa anzi lo studioso, bisognerebbe parlare di «a-crescita», perché «si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo». Ma siccome «decrescita» è un termine ormai entrato nell'uso, vale la pena di mantenerlo e semmai di qualificarlo opportunamente con l'aggettivo «conviviale», secondo l'accezione che ne propose negli anni '70 Ivan Illich: si tratta infatti di sollecitare la «capacità da parte di una collettività umana di sviluppare un interscambio armonioso tra gli individui e i gruppi che la compongono e della capacità di accogliere ciò che è estraneo a questa collettività».
Ma cos'è che dovremmo fare «decrescere»? Come molti ecologisti, Latouche afferma perentoriamente che «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Non è però chiaro se stia parlando della crescita dei valori d'uso o della crescita del loro valore di scambio espresso in moneta. E' solo per i primi, infatti, che valgono le leggi fisiche; il secondo può aumentare in maniera indefinita. Non c'è alcuna impossibilità «fisica» capace di impedire che il valore di scambio di un paio di scarpe cresca di dieci, cento o mille volte, ci può essere al massimo una difficoltà fisica di accrescere di cento o mille volte la produzione mondiale di valori d'uso che abbiano «natura» di scarpe. Solo se si ritiene che il prezzo delle merci rifletta la loro «scarsità» - una credenza tipicamente neoclassica, che s'impose ai tempi della rifondazione della teoria economica da parte di Jevons, Menger e Walras - si può rinvenire nella «crescita del Pil» una misura dello «sforzo» imposto dalla società all'ambiente. Ma che il prezzo delle merci sia una funzione delle reciproche scarsità relative è un'affermazione teoricamente infondata, come hanno dimostrato Garegnani e Sraffa ormai quasi cinquant'anni fa. Dunque, perché prendersela con la «crescita del Pil»?
Il programma delle «otto R»
Lo stesso Latouche, peraltro, ricorda che «le convenzioni sulle quali si fonda il calcolo del Pil contengono indubbiamente alcuni elementi di arbitrarietà dal momento che alcuni beni e servizi non mercantili possono essere più o meno inclusi». Volendo essere precisi, ciò significa che dal calcolo del Pil dovrebbe essere escluso l'intero ammontare della produzione pubblica costituita da beni e servizi non destinati alla vendita: scuola e sanità, infatti, non sono merci, dunque non hanno un valore di scambio che possa renderle commensurabili con un'automobile Fiat. Ma di nuovo, quand'anche togliessimo dal Pil l'intero ammontare delle spese pubbliche, facendolo così «decrescere» del 40-50 per cento rispetto ai suoi valori attuali, non avremmo eliminato il consumo di energia e materia che la produzione di quei beni e servizi ha richiesto. E anche sotto quest'altra forma riapparirebbe che i «critici del Pil» stanno in realtà prendendosela coi mulini a vento.
Ma facciamo finta che la confusione non ci sia e che, quando parla di «decrescita», Latouche intenda riferirsi solo ad una decrescita della produzione di valori d'uso. Come arrivarci? «Il cambiamento reale di prospettiva può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle "otto R": rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare», e la leva che lo studioso francese si propone di agire è la tassazione. Aumentando di «dieci volte» i costi di trasporto e incrementando la tassazione sulle macchine, «le aziende che seguono la logica capitalistica sarebbero ampiamente scoraggiate. In un primo tempo, un gran numero di attività non sarebbe più "redditizia" e il sistema resterebbe bloccato».
A quel punto, sarebbe senz'altro possibile «togliere sempre maggior quantità di terra all'agricoltura intensiva», semplicemente - aggiungiamo noi - perché le aziende agricole capitalistiche avrebbero decretato fallimento, e si potrebbe senz'altro «darla all'agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi». E questa dinamica, che farebbe sì che «ogni produzione che può essere realizzata su scala locale e al fine di soddisfare bisogni locali» venga «realizzata localmente», contribuirebbe «anche a risolvere il problema della disoccupazione»: già, perché la decuplicazione della tassazione e il consequenziale blocco delle imprese capitalistiche avrebbero anche questa spiacevole conseguenza - qualche centinaio di milioni di disoccupati.
Sarebbe comunque una questione momentanea: presto le persone tornerebbero «ad apprezzare il territorio circostante» e «a temere di allontanarsi da casa loro», e comincerebbero «a riparare, a comprare prodotti di seconda mano, senza provare il sentimento di svalorizzazione di sé». E' il «paradiso» immaginato da Latouche: una società in cui «le vettovaglie sono molto meno numerose, ma ciascuno ne ha quante bastano e regna un clima di gioia inebriante suscitata da una condivisa frugalità».
La leva delle tasse
Il lettore un po' addentro alla teoria dell'economia pubblica e appena consapevole della complessità della dinamica dei sistemi sociali non potrà che stupirsi di fronte all'attribuzione di una potenza così «distruttivamente creatrice» alla tassazione. Si potrebbe supporre che un passaggio intermedio per approdare a codesto «paradiso» sia la nazionalizzazione delle terre, tanto più che, seppur di passata, nel volume si accenna al fatto che viviamo in una società «attraversata dalla lotta di classe» e si legge perfino che «il nodo del problema è proprio la questione del potere». Ma Latouche non si propone affatto di resuscitare Vladimir Il'ic (Lenin), ma di glorificare Ivan Illich. Scopriamo così che presupposto indispensabile per la riuscita del programma delle «otto R» è un'«autotrasformazione» non violenta della «società», che non faccia uso di leggi, decreti o polizia e che sia nondimeno capace di «suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi».
Non è chiaro se Latouche immagini un processo in cui sempre più persone comprano i suoi libri, si convincono della bontà delle sue idee, si danno appuntamento in piazza o in altro luogo «conviviale» e cominciano a concertarsi su come attuare il programma delle «otto R», ma non ci sembra di intravedere altro modo per produrre il presupposto indispensabile al suo obiettivo. E se la «pedagogia delle catastrofi» rivendicata nell'ultimo capitolo del suo libro genera proposte politiche del genere, sovviene per la «decrescita» un distico caro a Marx: «là dove mancano i concetti / s'insinua al momento giusto una parola».
ilmanifesto.it

Quando i potenti dei ritornano nella città degli uomini

Le religioni nel mondo globale secolarizzato. Rinascita della fede o patogenesi dei monoteismi? La diagnosi di Juergen Habermas e il suo invito al dialogo fra laici e credenti in un convegno della Società italiana di filosofia politica. Con qualche disincantata controindicazione
Ida Dominijanni

In Italia la cronaca non dà tregua. Che si tratti di aborto, procreazione assistita, staminali, testamento biologico, eutanasia, Dico, l'intervento della Chiesa è immediato e costante, con pretese di indirizzo non solo morale ma anche politico e legiferativo. Ma per quanto appesantita dalla presenza «in casa» del Vaticano, l'Italia è solo la punta di un iceberg globale, che ha riportato a galla la pretesa delle religioni a riconquistare quel protagonismo politico che la lunga vicenda del Leviatano moderno sembrava avere archiviato per sempre almeno in Occidente. Lo scenario più drammatico di questa pretesa è il cosiddetto «scontro di civiltà» inscenato dal fondamentalismo islamico e dal fondamentalismo democratico di Bush; l'icona più espressiva, le immagini delle Twin towers in fiamme penetrate dai due aerei-bomba caricati di benzina religiosa, che anche nell'immaginario occidentale evocarono immediatamente echi biblici apocalittici.
Juergen Habermas fu tra i primi, in un discorso alla Fiera del libro di Francoforte dell'ottobre 2001, a individuare nell'11 settembre l'evento che riapriva per tutti, «occidentali» e «antioccidetali», credenti e laici, la questione del rapporto fra religione e secolarizzazione e fra fede e ragione, diagnosticando che da quel momento in poi sempre più saremmo stati costretti a fare i conti non solo con i fondamentalismi estranei alle società secolarizzate, ma con gli elementi di religiosità e di fondamentalismo permanenti e risorgenti al loro stesso interno. Poi venne il suo dialogo con l'allora cardinal Ratzinger, dove fra laici e credenti proponeva la via di un dialogo basato su un «doppio processo di apprendimento» che portasse gli uni e gli altri a riflettere sui limiti delle proprie rispettive tradizioni.
Chiamato nei giorni scorsi a tornare sul tema a Roma, all'interno del convegno su «Religione e politica nella società post-secolare» organizzato dalla società italiana di filosofia politica, Habermas riconferma nella sostanza la sua ricetta, ma cerca anche di sottrarla agli usi «neoguelfi» in cui può incorrere. La sua sottolineatura dei «potenziali semantici» racchiusi nelle religioni, che la ragione post-metafisica dovrebbe imparare a riconoscere e ad acquisire a partire dal proprio stesso indebitamento con la tradizione giudaico-cristiana, può portare acqua al mulino di chi attribuisce alla religiosità non solo una riserva di senso, ma il monopolio del senso nelle società democratiche «disincantate» di oggi. Quella sottolineatura va dunque puntellata in primo luogo rivolgendo alle religioni l'invito complementare a riconoscere e acquisire, a loro volta, «la democrazia, il pluralismo religioso e l'autorità laica della scienza», in secondo luogo ribadendo «la nettezza del confine» fra fede e scienza, in terzo luogo consentendo a una presenza delle chiese nella società civile ma non al loro interventismo politico. Ma soprattutto, cercando di collocare l'attuale fenomenologia della «rinascita della religione» all'interno di un'analisi sistematica delle dinamiche del mondo globale.
Qui Habermas chiude la porta alla tesi ratzingeriana dell'«eccezione» europea, che vede nella compiuta secolarizzazione del vecchio continente una «deviazione da correggere» rispetto a un trend globale di ripresa del ruolo pubblico della religione. Per Habermas, viceversa rispetto al trend della secolarizzazione che è vincente in occidente (Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda), l'eccezione è quella degli Stati uniti, dove la vitalità religiosa ha le sue spiegazioni demografiche (la forte immigrazione da società tradizionali) e sociali (l'insicurezza dovuta alla debolezza del welfare). E anche sul piano globale, la ripresa religiosa (fatta insieme di attività missionarie, fondamentalismi e uso della violenza) non contraddice ma coesiste con il trend inarrestabile della modernizzazione. Ma di una modernizzazione che, mentre unifica il mondo con la forma-merce, i modelli di urbanizzazione, la cultura di massa e il web, contemporaneamente lo divide lungo fratture culturali fra diverse «civiltà», che si scontrano proprio sul senso da dare alla modernità. La «rinascita delle religioni» e del loro uso pubblico va collocata in questo quadro.
Ma questo quadro per Habermas rilancia, pur imponendole alcuni compiti nuovi, la via europea alla secolarizzazione. L'Europa si configura infatti come una società «post-secolare», che deve adattarsi alla «persistenza di comunità regiose in un ambiente sempre più secolarizzato», rinunciando all'antica certezza che la modernizzazione vada di pari passo con la progressiva scomparsa della fede e avviando il dialogo fra credenti e laici nei termini che abbiamo visto. D'altra parte, sul piano globale, lo scontro cultural-religioso attuale non potrà che pervenire anch'esso alla negoziazione di un accordo laico su alcuni principi condivisi di giustizia politica, in cui ogni cultura dovrà prendere la strada di un «autodistanziamento riflessivo» dal proprio orientamento religioso. Va da sé dunque che questo processo prefigura una riconferma della ragione laica e di una democrazia costituzionale laica fondata su presupposti razionali, ma a patto che la laicità sappia anch'essa distanziarsi dagli eccessi di una riserva laicista contro le religioni e limitarsi a «un mite agosticismo».
Qui però i problemi non si chiudono ma si aprono, e prima che sugli esiti del processo sui suoi presupposti. L'analisi habermasiana di una «rinascita» della religiosità in un contesto post-secolare, presuppone una visione delle religioni che ne salvaguarda troppo il profilo di fede originario a fronte della configurazione aggressiva, identitaria e strumentale che esse vanno assumendo oggi. Giacomo Marramao infatti rovescia il paradigma, definendo non post-secolare ma post-religiosa la scena attuale, in cui le religioni non esprimono un'esigenza di fede ma un bisogno di appartenenza e di comunità, fungendo da vero e proprio surrogato dell'ideologia in un mondo in cui la politica, ridotta a volontà di potenza e ad amministrazione, ha ormai abdicato alla funzione che le sarebbe propria di costruire un orizzonte di senso «per la progettazione della vita umana su questa terra». Non tanto di una rinascita religiosa si tratta dunque quanto di una patogenesi dei tre monoteismi, che assumono un ruolo insieme idiosincratico e rassicurante rispetto ai traumi e alle insicurezze indotti dal processo di secolarizzazione tutt'ora in pieno dispiegamento, e costruiscono quelle «comunità immaginate» transnazionali, cementate da pretesi legami di fede e tradizione, che si sostituiscono alle comunità nazionali finite con lo stato-nazione. Le religioni di oggi sono dunque di una fattispecie tutta diversa dal passato, e lungi dall'aprirsi e dal prestarsi al dialogo con la ragione laica irrigidiscono e armano i confini identitari, coprendo con il gergo dell'autenticità i processi reali di ibridazione e contaminazione. Alla ragione laica spetta così, paradossalmente, il compito di salvare la religiosità dalla patogenesi dei monoteismi: se un tempo l'invocazione ultima era «solo un Dio ci può salvare», oggi «solo un uomo può salvare Dio».
D'altra parte, anche guardando agli esiti del processo prospettato da Habermas qualche dubbio disincantato è d'obbligo. Gustavo Zagrebelsky ricorda giustamente le strumentali alleanze in corso fra «una certa tradizione laica, che nulla ha a che vedere con il riconoscimento di valori religiosi rispetto ai quali è indifferente se non beffarda», e la potente capacità delle religioni nel rilegittimare valori tradizionali e reazionari. In Italia ne sappiamo quanto negli Stati uniti, e più che negli Stati uniti vediamo che di compromesso in compromesso la natura del patto costituzionale fra Chiesa e Stato si modifica. Quando sono troppi i campi dell'etica pubblica in cui la Chiesa pretende di avere l'ultima parola, «la lealtà costituzionale della Chiesa diventa un problema», e quando scattano troppi non possumus, il confronto fra fede e laicità diventa inevitabilmente uno scontro. Possiamo cercare di allontanarlo, ma «non possiamo illuderci che la pacificazione definitiva sia a portata di mano. La città degli uomini e la città di Dio, chiunque sia il nostro Dio, non coincideranno mai».
ilmanifesto.it

15.9.07

Il terrore che annuncia la fortuna del mercato

«Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri», la controstoria del neoliberismo di Naomi Klein. L'uso della crisi per imporre la privatizzazione dello stato
Benedetto Vecchi

Una cosa è certa. Naomi Klein, dopo il successo di NoLogo, non è rimasta con le mani in mano. Si è nuovamente messa in viaggio, visitando o vivendo per brevi periodi in Argentina, Brasile, Sudafrica, Cile, Bolivia, Iraq, Sri Lanka, Thailandia, Libano, la Russia e ovviamente Stati Uniti. Da questi paesi ha inviato reportage, intervistato economisti e attivisti per giornali come «The Guardian», «The Nation», «New York Times». Nello stesso tempo ha accumulato informazioni su come stava cambiando il neoliberismo dopo l'attacco al World Trade Center di New York l'11 settembre di sei anni fa. Con il passare del tempo, tuttavia, ha maturato la convinzione che il capitalismo novecentesco presentava forti elementi di continuità ma anche di una grande discontinuità rispetto a quelli che la saggistica contemporanea chiama i gloriosi trent'anni, cioè il periodo di sviluppo economico e sociale seguito alla Seconda Guerra Mondiale che vedeva in molti paesi la forte presenza regolatrice dello stato nell'economia e nella vita sociale.
La continuità era data appunto dal welfare state, seppur nelle diverse traduzioni nazionali che esso ha avuto, e da un rapporto di dominio di alcuni paesi forti nei confronti di altri paesi «deboli», spesso usati come laboratori per spregiudicate politiche economiche che nel potente Nord avrebbero incontrato non poche resistenze da parte delle forze sindacali e politiche del movimento operaio e dagli altri movimenti sociali. Difficile, invece, era delineare le discontinuità. Ed proprio attorno alla discontinuità che Naomi Klein ha focalizzato la sua attenzione.
La costellazione neoliberista
Il risultato è un libro che può essere letto come controstoria del capitalismo contemporaneo e che ha come titolo Shock economy (Rizzoli, pp. 540, euro 20,50). Un titolo, quello scelto per l'edizione italiana, tuttavia meno efficace dell'originale The shock doctrine che introduce subito la tesi del volume: le crisi - economiche o sociali o politiche - e le catastrofi ambientali sono state usate per introdurre le riforme neoliberiste che hanno portato alla demolizione del welfare state.
Il volume conduce inizialmente nel pieno della guerra fredda. In quegli anni il futuro premio Nobel per l'economia Milton Friedman comincia a tessere la sua tela per costruire una rete intellettuale di studiosi a favore del libero mercato. E' un economista brillante, ma le sue proposte a favore della demolizione dell'intervento statale nella società e nell'economia sono ritenute troppo «estremiste» rispetto a quanto fanno le imprese e il governo di Washington. E tuttavia il suo centro di ricerche riceve finanziamenti da fondazioni private e dal governo. Milton Friedman sostiene già allora che le crisi possono essere usate per una «shockterapia» a favore del libero mercato.
Milton Friedman diventa l'agit-prop del neoliberismo, mentre i suoi discepoli sono inviati nel mondo a fare proseliti. Le sue ricette diventeranno poi i programmi di politica economica in Cile, Paraguay, Argentina, Brasile, Guatemala, Venezuela. C'è un piccolo problema. Sono programmi applicati con i carri armati nelle strade e la tortura sistematica nelle prigioni, mentre il numero dei desaparecidos diventa così alto che anche i media statunitensi non lo possono ignorare.
La parte del libro che parla degli anni Sessanta e Settanta racconta di golpe e uso sistematico della violenza contro gli oppositori politici e può apparire un deja vu di storie note da tempo. Ma è proprio sulla prima crisi del neoliberismo che Naomi Klein si sofferma. Il Cile, l'Argentina e il Paraguay sono laboratori che certo fanno arricchire molte multinazionali statunitensi, consentendo loro di appropiarsi di molte materie prima e di aprire nuovi mercati per le loro merci. Una specie di rinnovata accumulazione primitiva dislocata fuori dai confini nazionali. Per questi motivi vale la pena di finanziare, assieme a Washington, il terrorismo di stato cileno, argentino, brasiliano e paraguaiano. Ed è sempre in questo periodo che la rete intellettuale tessuta da Friedman si consolida e allarga allo stesso tempo.
E' impressionante il lavoro fatto da Naomi Klein per ricostruire le carriere politiche, i legami d'amicizia, i rapporti di affari di uomini - da Dick Cheney a Donald Rumsfeld, da John Aschcroft a Domingo Cavallo, da Michel Camdessus a Paul Bremer a Paul Wolfowitz alla famiglia Bush - che passano da un consiglio di amministrazione di qualche multinazionale alla direzione di un think thank neoliberista, da posti di responsabilità in qualche governo agli uffici della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale.
Quella finora raccontata è storia nota fuori dagli Stati Uniti. Naomi Klein lo sa, ma è consapevole anche che negli Stati Uniti è la storia appresa o svelata solo da una minoranza di attivisti o intellettuali radical. Da qui un'opera di sistematizzazione delle informazioni per raccontare la seconda ondata neoliberista, che ha, come la prima, un apostolo. E' un altro economista, si chiama Jeffrey Sachs, e vuol dimostrare come il libero mercato non sia incompatibile con la democrazia, come invece è accaduto in America Latina. È un vero e proprio «evangelista del capitalismo democratico» e vede nel crollo dell'Unione sovietica e del socialismo reale la migliore opportunità per conciliare la democrazia con le «leggi naturali» del business. Consiglia, ascoltato, la Polonia di Lech Walesa e la Russia di Boris Eltsin di una deregulation radicale delle loro economie. La sua ricetta sarà un fallimento, ma è a questo punto che la «shockterapia» trova un valido alleato nel Fondo monetario internazionale, oramai epurato da qualsiasi presenza di economisti legati ancora alle teoria di Lord Maynard Keynes. Il debito sarà l'arma vincente dei neoliberisti, che concederanno prestiti solo a condizione di una completa deregulation dell'economia. È il cosiddetto Washington consensus con il suo corollario di «programmi di aggiustamento strutturale». Come in passato le multinazionali faranno affari d'oro, ma Sachs come altri «evangelisti del libero mercato» sostiene che ora tocca a tutte le attività produttive o i servizi sociali gestiti dallo stato a dovere essere messi in vendita, anche a costo di sacrificare centinaia di migliaia di posti di lavoro sull'altare della competitività internazionale. La povertà, continuano a ripetere, è un effetto collaterale che sarà però tolto di mezzo dalla mano invisibile del mercato.
La «shockterapia» si nutre ormai di strategie di marketing, propaganda e falsificazione dei dati, miranti a dimostrare che il libero mercato è l'unica strada per sfuggire al declino economico e alla povertà di massa. E il consenso deve essere però conquistato con le elezioni, anche se questo può rallentare le «riforme».
La politica woodoo
Per rimuovere questo intoppo c'è una strategia ben affinata durante la «guerra del debito» in America Latina: creare il panico e poi fare pressioni affinché vengano adottate «terapie» economiche neoliberiste. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sono quindi le istituzioni sovranazionali adatte all'obiettivo di limitare la sovranità popolare e esautorare i governi nazionali da qualsiasi autonomia decisionale. I programmi economici sono dunque stilati a Washington, ma la loro applicazione in loco è garantita da personale politico «fedele alla linea». Naomi Klein documenta come anche le crisi asiatiche degli anni Novanta hanno visto protagonisti il Fmi e la Banca mondiale, che hanno sapientemente orchestrato la crisi finanziaria per demolire qualsiasi presenza statale in economia. E quando la Thailandia, Filippine, Malaysia, Indocina e Corea del Sud capitoleranno di fronte al Fmi, un chicago boys scriverà un commento sul Financial Times in cui paragona la rivoluzione del libero mercato in Asia a una «seconda caduta del Muro».
In America Latina la situazione è diversa. Le dittature crollano una dopo l'altra e salgono al potere molte coalizioni di centrosinistra. E' il tempo, afferma Naomi Klein, della politica woodoo, caratterizzata da programmi elettorali keynesiani e successive politiche economiche rigidamente neoliberiste.
La matassa ingarbugliata che Naomi Klein pazientemente srotola illumina non tanto un comitato d'affari della borghesia, ma un trust di imprese che ha come business lo svuotamento dello stato di ogni funzione, compresa quella della guerra. E' la nascita dello «stato corporativista», come lo definisce l'autrice, dove una ristretta élite passa da un'impresa a cariche pubbliche senza nessun rispetto delle norme liberali contro il conflitto di interessi. Il «capitalismo dei disastri» deve tuttavia continuamente rinnovare l'insicurezza sociale. L'11 settembre è da questo punto di vista una manna per i neoliberisti. La «guerra al terrore» diviene così la retorica dietro cui offuscare la svendita della difesa nazionale alle imprese private e il pieno controllo del petrolio.
Con l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq il warfare, cioè l'uso della guerra per rilanciare l'economia, è elevato a sistema, perché la guerra al terrore è una guerra totale che coinvolge non solo il settore militare ma tutta la società. Illuminante è, a questo proposito, il capitolo che la giornalista canadese dedica a Israele, individuando nello sviluppo dell'industria hig-tech della sicurezza e nell'arrivo dei ebrei dell'Europa dell'est dopo la caduta del Muro di Berlino due delle chiavi interpretative, centro non le uniche, del passaggio da un'ipotesi di pace con i palestinesi alla funerea passeggiata di Ariel Sharon nella spianata delle moschee che dà il via alla seconda Intifada. I profughi dell'est europeo possono sostituire la forza-lavoro palestinese a basso prezzo, mentre le imprese high-tech possono offrire le loro merci al mondo intero, visto che la guerra al terrore è la guerra della civiltà occidentale contro i suoi nemici.
L'economia della catastrofe
Quando Naomi Klein comincia ad analizzare gli effetti devastanti dell'uragano Kathrina e dello Tsunami, scopre che anche qui le catastrofi sono utilizzate dal Fmi come mission creep, cioè espansione indebita di una missione, in questo caso della macchina pubblica. Gli ultimi baluardi dello stato come garante della convivenza sociale sono messi sotto attacco. New Orleans è diventato il laboratorio di questo ulteriore privatizzazione dello stato. Così come lo Tsunami viene utilizzato per trasformare alcune ragioni o nazioni (Sri Lanka, Thailandia e Maldive) nel club vacanze delle élite globali.
Il capitalismo dei disastri è così narrato. Naomi Klein, così come aveva fatto con NoLogo, non vuol costruire una teoria sullo sviluppo capitalistico. È un'ottima mediattivista e giornalista investigativa che si pone sempre la domanda giusta: come organizzare la resistenza al neoliberismo. Certo la sua difesa del welfare state può apparire ingenua, ma quando comincia ad elencare cosa fanno e cosa propongono i movimenti sociali il suo è un keynesismo che apre le porte all'autogoverno da parte dei movimenti sociali e a una democrazia radicale.
Shock economy è dunque un libro ambizioso, perché vuol fornire una mappa del «capitalismo dei disastri». È certamente un affresco sulla riorganizzazione del capitalismo dopo l'11 settembre e comincia a individuare i suoi punti di forza, le imprese leader che stanno emergendo, la sua vocazione globale. Ma individua anche i suoi punti deboli. È cioè una mappa utile da leggere anche per prepararsi e resistere alla prossima ondata di shockterapia, alimentata dalla prossima catastrofe ambientale o dalla prossima tappa della guerra preventiva. O dall'annunciato e italianissimo taglio alle spese sociali per contrastare il declino economico
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